Piero Gobetti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una vita molteplice, quindi compiuta. Parola di Matteotti https://www.carmillaonline.com/2024/07/13/una-vita-molteplice-quindi-compiuta-parola-di-matteotti/ Fri, 12 Jul 2024 22:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83304 di Luca Baiada

Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Bompiani, Firenze-Milano 2024, pp. 336, euro 17,10

 

Tra i punti di forza, l’apparato di fonti. Sul contesto, buona conoscenza del Polesine e ampi riferimenti ad autori e personaggi. Attenzione allo sviluppo delle leghe e delle casse rurali, agli effetti della malaria, della pellagra, delle alluvioni e delle bonifiche. Sul protagonista, padronanza dei fatti. Eppure, tutto lo studio risente di qualcosa; probabilmente di un orientamento cattolico troppo rigido che condiziona la lettura dei dati.

La difficoltà di capire il passato è ricondotta bene al presente: «Matteotti divenne un’icona da rispolverare nelle [...]]]> di Luca Baiada

Gianpaolo Romanato, Giacomo Matteotti. Un italiano diverso, Bompiani, Firenze-Milano 2024, pp. 336, euro 17,10

 

Tra i punti di forza, l’apparato di fonti. Sul contesto, buona conoscenza del Polesine e ampi riferimenti ad autori e personaggi. Attenzione allo sviluppo delle leghe e delle casse rurali, agli effetti della malaria, della pellagra, delle alluvioni e delle bonifiche. Sul protagonista, padronanza dei fatti. Eppure, tutto lo studio risente di qualcosa; probabilmente di un orientamento cattolico troppo rigido che condiziona la lettura dei dati.

La difficoltà di capire il passato è ricondotta bene al presente: «Matteotti divenne un’icona da rispolverare nelle occasioni ufficiali». Ma per altri aspetti non ci siamo:

Con la dissoluzione della prima repubblica e dei partiti che l’avevano costruita, Giacomo Matteotti è uscito definitivamente dagli appiattimenti di parte, dalle contrapposizioni ideologiche, da gelosie e rivalità che erano sopravvissute alle divisioni del passato, ed è entrato definitivamente nella dimensione che gli è propria, quella della storia.

Le gelosie hanno solo perso il tratto da segreteria e da grisaglia, per diventare tic nervosi nei discorsi d’occasione. Le ideologie si sono spente ma Matteotti non ha ancora il posto che merita. Cosa significa?

Qualcosa di imbarazzante: non c’erano i fronteggiamenti ideologici, all’origine della messa tra parentesi. Il male è più profondo e si può capirlo solo sorbendo – ma fino all’ultima goccia amara – in politica Salvemini e Gobetti, in letteratura Sciascia. Il paese del papato e dell’inquisizione romana, delle corti e delle accademie respinse come un insetto molesto l’uomo dell’antiretorica, della prassi determinata, della certezza senza fanatismo. Gobetti, appunto, poco dopo il delitto, con la sincerità del morituro lo chiamò protestante. Romanato è realistico qui:

È uomo del postrisorgimento, estraneo alle mitologie dell’unificazione, ma estraneo anche alle rigidezze delle ideologie allora prevalenti: il positivismo, il marxismo, l’idealismo. Scontento, ribelle, inquieto, guardava al futuro, senza lasciarsi condizionare dal passato.

Sui rapporti fra Matteotti e marxismo, però, ci vorrebbero spiegazioni, anche tenendo conto del periodo: nasce poco dopo la morte di Garibaldi e poco prima della fondazione del Partito socialista. Di certo, fatta l’unità emergono problemi, insieme alla questione romana irrisolta – i fascisti la peggioreranno restituendo al papa uno Stato – e a molto altro.

Il commenti di un secolo fa riaprono ferite. Il giudizio dei comunisti fu e rimase duro, sino alla mancanza di umanità, vedendo nell’assassinio il suggello dell’errore. Riflesso automatico di fiducia nell’ineluttabilità della storia: chi cade, non può che aver torto. Gli alfieri della memoria del grande socialista si risparmiarono l’acredine, ma neanche loro furono mai all’altezza del caduto. Atroce, nel 1924, la partecipazione di una minoranza dei deputati del Psu al funerale del loro segretario; e assurde, nel dopoguerra, le commemorazioni alternate fra Psi e Psdi, per non mischiarsi mai.

Anche la confusione al monumento romano, oggi, con lapidi diverse che si contendono lo spazio, dice più disordine che insegnamento. Quell’aiuola assediata dal flusso di auto, sul lungotevere – un tempo ariosa passeggiata, adesso convulsa arteria di scorrimento – , parla da sé. Forse è un caso, ma è in un sottopassaggio, simile a uno di quelli scavati nei lungotevere per le Olimpiadi del 1960, che Fellini gira l’inizio di Otto e ½, col sogno del protagonista: nell’ingorgo, chiuso in una macchina, batte sui vetri e si divincola come Matteotti nella Lancia dei sicari, sino a che riesce a volare via.

La percezione dell’importanza del diritto nella sua posizione politica – «singolare impasto di legalitarismo e di spirito rivoluzionario» – è lucida:

[Per Matteotti] era il diritto, non il determinismo sociale, a creare la strada che conduce alla giustizia e all’uguaglianza. È qui che si deve vedere la modernità di Matteotti nella galassia dei socialisti italiani, modernità che giustificherà tanto la sua proposta di insurrezione per fermare l’entrata in guerra (lo Stato aveva violato le regole e quindi andava fermato con la forza) quanto, in seguito, la sua lotta solitaria contro il fascismo, fondata sulla difesa della legalità e della rappresentanza parlamentare. Chi infrangeva le regole del gioco legittimava chi le violava, a sua volta, per legittima difesa.

I giuristi, però, non valorizzarono le sue ricerche e proposte. Più in generale, anche molti intellettuali furono inadeguati; il testo li ricorda ma vanno ridimensionati meglio. Per esempio:

Ivo Andrić, futuro premio Nobel per la letteratura, che allora era in servizio a Roma presso la legazione diplomatica del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, la futura Jugoslavia: «La crisi del fascismo è iniziata. A causa del delitto Matteotti. Un caso che è allo stesso tempo incredibile e terribile, semplice e banale. Incredibile e terribile è che in Europa, nel Paese che rivendica la paternità del diritto, nel centro di Roma a mezzogiorno sei mercenari possano rapire un deputato popolare inerme, segretario di un partito, portarlo fuori città e ucciderlo».

Andrić non ha capito. Proprio perché siamo nella culla del diritto, lo stragismo portato dalla guerra, con una massa di reduci storditi e incarogniti, e col padronato che non vuole mantenere le promesse – pace perpetua, giustizia, lavoro – , apre al fascismo. Esso è anche il passaggio dal massacro indiscriminato, in guerra, al massacro selettivo, in pace. L’assassinio di Matteotti, giurista e per questo più scomodo, è il segno di un’epoca. La civile Europa, nel paese della paternità del diritto, ha covato un patrigno in camicia nera: presto avrà molti figliastri. La Roma mussoliniana – in questo terribilmente moderna – con le borgate di deportati dal centro per gli sventramenti, con le scenografie di cartapesta per le parate, con le burocrazie labirintiche, diventa insieme culla e bara. Già nel 1934 il groviglio umano dell’Urbe è colto in un romanzo di Marguerite Yourcenar, con un cenno al delitto di dieci anni prima[1].

Un italiano diverso presenta il socialista senza encomi prevedibili:

Un personaggio duro, intransigente, mai disponibile al compromesso, talora anche sgradevole. […] Un uomo di parte, spesso settario, che non dava confidenza e non faceva sconti a nessuno. […] Ante mortem Matteotti fu un uomo profondamente divisivo. Il ritratto che ne scrisse Piero Gobetti a ridosso dell’assassinio, centrato sul tema della solitudine, a mio parere, rimane pur con qualche forzatura, l’interpretazione più penetrante che ne sia stata proposta.

Il punto di vista gobettiano è stato criticato da chi vuole interpretazioni concilianti; ma se forzatura c’è, in Gobetti, è perché quel testo era costretto a una densità alchemica[2].

Un elemento critico. Si insiste sul fatto che il padre di Matteotti avesse prestato denaro a usura:

Le fonti che ne parlano sono numerose e circostanziate. […] Non è fuori luogo ipotizzare che i rancori accumulati per questo motivo contro di lui possano essere arrivati a lambire anche le motivazioni del delitto, considerando il ruolo che in esso ebbero […] due fascisti polesani che conoscevano Matteotti fin dagli anni di scuola: Giovanni Marinelli e (ma in questo caso il coinvolgimento è molto meno sicuro) Aldo Finzi.

La questione è contraddittoria: gli immobili della famiglia erano sparpagliati perché erano frutto di acquisti occasionati dalla fretta dei venditori, all’epoca dell’emigrazione postunitaria; ma questo – felix culpa – permise a due figli, Matteo e Giacomo, di candidarsi in più comuni (all’epoca ogni proprietà dava diritto al voto nel suo comune). Che i rancori locali abbiano contribuito al delitto non è dimostrato, ma di certo l’assassinio fu anche una vendetta castale: come altri – i fratelli Rosselli, per esempio, poi Giangiacomo Feltrinelli e Pier Paolo Pasolini – Matteotti è un traditore della sua classe. Mentre Romanato offre pagine e pagine sullo strozzinaggio del padre, proviamo a chiederci: e se proprio quella provenienza della ricchezza fosse stata determinante nella scelta di far del bene, di schierarsi con gli sfruttati e contro gli sfruttatori?

Dell’epistolario fra Giacomo e Velia si dimostra frequentazione ma non altrettanta comprensione:

C’è più ragionamento che attrazione, sia prima sia dopo il matrimonio, anche quando la lontananza fisica […] rende forte ed esplicito il desiderio reciproco, il bisogno di rivedersi, di toccarsi, di baciarsi. […] Chi leggesse queste lettere pensando di trovarvi riferimenti erotici rimarrebbe deluso. E non soltanto perché il linguaggio del tempo era molto più riservato del nostro, ma perché nel rapporto fra questi due giovani la fisicità è sopraffatta dal ragionamento.

Nella commemorazione alla Camera, il 30 maggio – brutta nel suo lato spettacolare e ingannevole in quello politico – , anche Bruno Vespa ha escluso l’erotismo di quello che invece è un palpitante documento amoroso; questo libro ha un’altra statura, eppure si sente una mentalità che non si accorge dell’eros se non sobbalzano carni. Così sono fraintese in senso negativo le schermaglie, le sofferenze e le ammissioni reciproche di scoramento, che fanno parte di quell’unione. Il fatto che i due si scrivessero anche mentre erano nella stessa città è una «bizzarria»; e pensare che Victor Hugo e Juliette Drouet si scrivevano anche mentre vivevano insieme.

Altri malintesi. Si legge che in Matteotti c’era «l’ansia di fare, e anche di strafare», perché scrisse: «Il desiderio di una vita molteplice, e quindi allora soltanto compiuta, sta diventando una mia ossessione». Questa è l’eco di una profonda inquietudine, di stampo ottocentesco, come quella che fremeva in Arthur Rimbaud. In Une saison en enfer il poeta aveva scritto: «A chaque être, plusieurs autres vies me semblaient dues»; e infatti Matteotti: «Vorrei avere dieci vite». La competenza giuridica, amministrativa e contabile del polesano ha oscurato la creatività; ma a modo suo, anch’egli fu ladro di fuoco e veggente.

Quando si ricorda che per Matteotti l’amore per la propria patria non deve portare a sopraffare le altre – lo scrive a proposito di suo figlio e di un bambino abbandonato di cui si prende cura – non si deve tacere che quel principio e quel senso di umanità vengono da Giuseppe Mazzini. Il Polesine è terra di lotta di classe, sì, ma prima di Risorgimento. E poi. Romanato vede nell’attenzione di Matteotti per l’educazione un’anticipazione di Lorenzo Milani, ma è più immediato pensare a un seguito di Alberto Mario, polesano di Lendinara, piccolo centro che gli ha dedicato un monumento gagliardo. L’autore, che conosce il patriota perché accenna agli studi sull’Italia postunitaria della moglie, Jessie White, non ricorda l’impegno di Mario per i ragazzi da garibaldino.

Nel libro si sentono le insistenze sugli errori dei socialisti e la benevolenza verso il Partito popolare. Quanto agli effetti tremendi della violenza squadrista, vanno posti nel giusto rilievo; per esempio, bisogna sempre precisare che, negli enti locali, le dimissioni dei socialisti erano imposte dai fascisti e le autorità non proteggevano i rappresentanti eletti. L’autore cita come attendibile questa analisi, presa dal giornale dei popolari:

Tacerà il vento di follia quando gli onesti di ogni partito si adopereranno seriamente e fermamente a richiamare i propri aderenti alla legge. È giunto il momento di proclamare che tutti ebbero torto, che esiste per tutti, socialisti e fascisti, il dovere di rientrare per sempre nella legalità. La provincia domanda a tutti i partiti e a tutte le fedi di liberarsi dalle forme degenerative della loro attività.

Sembra l’«Osservatore romano» del marzo 1944, dopo le Fosse Ardeatine, quando chiede a tutti, nella Roma occupata dai nazisti, «serenità» e «calma», «al di fuori, al di sopra delle contese»[3].

Da queste premesse viene l’accusa che il socialismo abbia determinato l’avvento del fascismo; così Matteotti diventa un colpevole. Nel discorso ha un ruolo anche l’avversione alla guerra, ed ecco che il pacifismo diventa colpevole di guerra civile. Sono tesi superate, eppure l’autore, malgrado un bagaglio culturale raffinato, ne sente la fascinazione:

Anni decisivi, quelli del trionfo massimalista, dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 e l’affermazione di Mussolini. Questi poi prenderà tutt’altre strade, tuttavia dal virus dell’estremismo il socialismo italiano non guarirà più. La sconfitta storica di Turati, e della linea riformista, maturarono allora. Quando Mussolini, nel suo primo discorso parlamentare, disse cinicamente che la sinistra la conosceva bene – «io per primo ho infettato codesta gente» – diceva una incontestabile verità.

Invece no. Altro che incontestabile. L’estremismo non fu una prerogativa del socialismo, e comunque il fanatismo determinante fu quello della borghesia nel difendere privilegi di classe.

Affiorano cedimenti al complottismo. Quasi si avalla l’ipotesi che il socialista fosse austriacante, e quindi neutralista, per legami familiari. Si sottolinea che il vero motivo dell’assassinio non è ancora sicuro e si cita la pista petrolifera senza una riflessione di accompagnamento. Si fanno congetture sul movente con punti interrogativi, supposizioni, cenni: il petrolio, le case da gioco dei fascisti, la massoneria, i documenti nella borsa, un cenno nel diario di Ciano. Su Aldo Finzi, squadrista e fascista che morirà alle Ardeatine, scivola un dubbio:

Si volle chiudere in questo modo la bocca del maggior testimone del delitto Matteotti? È un’ipotesi che non ha mai avuto conferme, anche se è quasi certo che Mussolini, pure sollecitato, non intervenne per salvargli la vita.

Per Romanato, di Finzi non è ben sicuro il coinvolgimento ma Finzi è il maggior testimone? Di certo, Finzi l’occasione per aprire bocca la ebbe e non la usò. Quanto a Mussolini, c’è da stupirsi? Non intervenne neanche per salvare il genero dalla fucilazione.

Altre accuse. Si dà spazio a critiche di doppiezza: Matteotti estremista nel Polesine e moderato a Roma. Anche il banditismo veneto, con la repressione austriaca, e poi la rivolta nota come «La boje» contribuiscono alla colpevolizzazione del socialismo. Citando di tutto, anche Sturzo e Galli della Loggia, si addebita ai socialisti di non aver risolto le incertezze interne, con gravi conseguenze.

Come può salvarsi, Matteotti, da tante colpe? E infatti, per l’autore sono involontariamente profetiche le parole rivoltegli da un periodico cattolico:

Buffone e istrione! Tu continui a solleticare nelle folle lo spirito della rivolta. Parola di galantuomo: sarai il primo a pagare il fio di questa improntitudine da istrione. I Danton e i Robespierre furono le prime vittime della loro nefasta propaganda.

Profezia falsa: Matteotti fu assassinato per le doti di denuncia, critica e organizzazione, concretizzate su basi amministrative, legali e contabili. Cadde proprio perché non era un tagliatore di teste ma un tessitore di contatti e sindacalismo, cooperative e relazioni internazionali, persino nessi profondi fra teorie giuridiche e interessi sociali.

Si affaccia una tematica che sa di tempi meno lontani. Riguarda il progetto di un fronte antifascista e qui si può solo segnalarla:

[Matteotti] pensava nel suo intimo anche ai cattolici di Sturzo, che non appartenevano alla sinistra ma rappresentavano […] una forza popolare, benché estranea ai partiti di classe, che non poteva essere confusa con la borghesia italiana ormai fascistizzata. La speranza nella possibilità di quest’incontro divenne concreta soltanto dopo la sua morte, […] ma venne fermata da un intervento esterno alla politica italiana: il veto pontificio.

In queste vicinanze intime c’è da capire. Per un verso, può confermare quest’attenzione all’incontro la citazione di un articolo di Ernesto Buonaiuti, sacerdote perseguitato dalle autorità ecclesiastiche: uscito su un quotidiano di orientamento laico, commenta il discorso di Turati per Matteotti e paragona la morte del socialista al sacrificio di Cristo. Per un altro, viene naturale il paragone con un altro incontro, molti anni dopo; quello fra comunisti e democristiani, con un perno: Aldo Moro. Allora, subito un altro raffronto viene spontaneo: quello con la posizione del Vaticano mentre Moro era nelle mani delle Brigate rosse. Questo paragone costringerebbe a rileggere la lettera di Paolo VI che non provò per davvero a salvare il democristiano, anzi. Un altro veto pontificio.

Romanato scrive: «Ogni ricostruzione del passato non è mai tutto il passato. C’è sempre una zona che sfugge, o per mancanza di fonti, o per insufficienza dello storico, o per il velo di silenzio con il quale, spesso, l’animo umano cela i propri riposti intendimenti, che determinano i fatti più di quanto immaginiamo». Qui il libro si fa perdonare i difetti con l’onestà dell’autore. E a questo punto, se lui non dice i suoi intendimenti, sia il recensore a diradare il suo velo.

Sono un giurista, lavoro con le regole anche quando non le condivido. Con Matteotti ho incontrato un modo coraggioso e concreto di vivere la condizione del giureconsulto: una tensione verso il bene che non cede né al formalismo né al fanatismo né al compromesso. Una cosa che il lavoro legale e giudiziario non insegna, anzi, fa di tutto per mortificare. Neanche di me, quindi, si fidi del tutto chi legge. La zona che sfugge riguarda anche il mio modo di vedere le cose. Matteotti, per tutti noi, in fondo è un monito severo.

 

[1] Marguerite Yourcenar, Denier du rêve, Grasset 1934; poi, in nuova versione, Plon 1959. La prima edizione italiana è Moneta del sogno, Bompiani 1984, traduzione di Oreste Del Buono.

[2] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924.

[3] «L’Osservatore romano», 26 marzo 1944, p. 1.

 

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Barricate Matteotti: sono di mattoni e resistono al petrolio https://www.carmillaonline.com/2024/06/01/barricate-matteotti-sono-di-mattoni-e-resistono-al-petrolio/ Fri, 31 May 2024 22:05:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82830 di Luca Baiada

Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 288, euro 18.

 

«Queste pagine non sono nate per comporre un ritratto idealizzato di Matteotti, magari da archiviare nella polvere di una biblioteca come si accantona una pratica fastidiosa per certi rimorsi che suscita». Ottimo proposito. Il volume, malgrado temi scabrosi, dettagli per fissare l’attenzione e insistenze su questioni superabili, prende la direzione giusta. Se c’è qualche inciampo si fa perdonare con la messe di dati, col quadro vivace degli spunti e soprattutto con l’attenzione partecipe e col [...]]]> di Luca Baiada

Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 288, euro 18.

 

«Queste pagine non sono nate per comporre un ritratto idealizzato di Matteotti, magari da archiviare nella polvere di una biblioteca come si accantona una pratica fastidiosa per certi rimorsi che suscita». Ottimo proposito. Il volume, malgrado temi scabrosi, dettagli per fissare l’attenzione e insistenze su questioni superabili, prende la direzione giusta. Se c’è qualche inciampo si fa perdonare con la messe di dati, col quadro vivace degli spunti e soprattutto con l’attenzione partecipe e col tratto incalzante.

C’è una cosa di cui si è costretti a dar conto, anche se si vorrebbe farne a meno. Secondo una narrazione diffusa – l’ho sentita di persona più volte e anche a Rovigo – Matteotti durante una delle tante aggressioni fasciste, quella a Castelguglielmo nel 1921, fu sodomizzato. Il libro dà conto di questa versione senza prendere un orientamento netto sulla veridicità. Qui non cerchiamo l’esattezza; farlo sarebbe un’ispezione corporale e offenderebbe chi non può replicare. Sul punto, la dichiarazione di Matteotti alla Camera – anche lì, in aula, i fascisti lo canzonavano con quel pretesto – è più importante:

Devo per conto mio apertamente dichiarare che accennano a cose perfettamente, assolutamente false. Se fossero vere, io stesso le avrei denunziate perché rappresenterebbero non la vergogna della vittima, ma la vergogna di una fazione arrivata a tali estremi.

Che si ripetano queste cose – aggiunge – esprime le «più basse e vergognose attitudini, abitudini, capacità morali». In questo, sì, sta la risposta migliore alla questione dello stupro, una cosa su cui i fascisti vollero sempre insistere; una cosa che Piero Gobetti ritenne falsa già nel 1924[1]. Con quelle parole Matteotti smaschera – è un punto di grande modernità – la colpevolizzazione della vittima e il carattere perverso del fascismo. Ribadisce quel carattere la circostanza che, dopo l’assassinio, sia stata fatta circolare la voce di un’evirazione.

La colpevolizzazione può riguardare indifferentemente una vittima vera o falsa, perché la realtà è una cosa di cui i persecutori non hanno bisogno. E ancora: la prova più evidente della perversione fascista è proprio nell’equivalenza, per il persecutore, della sessualità scelta e di quella subita: il socialista era accusato sia di essere stato stuprato sia di essere omosessuale; e ciò con motteggi, allusioni, doppi sensi. Lazzi e giochi di parole sono da sempre cari al linguaggio fascista, anche se ebbero il loro periodo più florido sotto occupazione tedesca, nella Rsi, fucina di scioglilingua odiosi, torve malizie e battutame. In Salò o le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini, uno dei torturatori racconta una barzelletta davanti a un cadavere: Perotto e un amico si perdono nel buio, l’amico intravede qualcosa e chiede: «Sei Perotto?» – risposta: «Quarantotto!».  I fascisti ridono.

L’omosessualità attribuita a Matteotti – detto incidentalmente – contrasta col fatto che Mussolini in un incontro con funzionari esteri, dopo la sparizione del deputato e prima del ritrovamento della salma, abbia gettato lì l’ipotesi che fosse «andato a puttane». Ma è inutile chiedere coerenza ai fascisti. Nel loro quadro mentale, ancor oggi, l’adesione forzata di milioni di persone (il giuramento, la tessera, le adunate, le divise eccetera), benché fatta per evitare violenza e licenziamento, è la prova che gli italiani volessero la dittatura. In questo sì, c’è un’oscura coerenza: se milioni di italiani costretti al fascismo sono di conseguenza fascisti, l’uomo vittima di sesso anale forzato è di conseguenza un omosessuale. Sullo sfondo c’è il modo contorto in cui il fascismo vive la sessualità e la fisicità, in un groviglio di attenzioni stercorarie per i riottosi (l’olio di ricino) e di eccitazione avida per il corpo del capo. Gli estranei vengono svuotati, il capo sazia gli eletti. Ecco un articolo del 1936:

Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. […] Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alla bardature. Ansiosi e insofferenti, noi stessi gliele strappiamo di dosso. […] Ma dobbiamo amarlo pur senza desiderare di essere le favorite di un harem.

L’autore di questo corteggiamento era un giornalista con un futuro: Indro Montanelli[2]. Allora: la sostanza della storia di Castelguglielmo ci ribadisce quanto il fascismo sia male. Perché quella storia chiarisce le cose senza insozzare il bersaglio, partendo da dettagli imbarazzanti? Forse perché ci sono persone così belle, che anche l’odio delle carogne le fa più belle.

Fra le canzonacce e sfide dei fascisti riportate dagli autori, risalta questa: «Matteotti, Matteotti! / Quanta malinconia nel tuo sorriso / avevi un posticino in Parlamento / te l’ha levato il fascio in un momento». Effettivamente nelle fotografie che circolarono dopo il delitto c’è un’espressione enigmatica, anche triste e tragica; ma l’angustia mentale ci vede motivazioni personali – il posticino, cioè l’attaccamento, si direbbe oggi, alla casta, alla poltrona – e non lo sconcerto per il disastro in cui il fascismo ha cacciato l’Italia. L’egoismo per mestiere e la cecità morale non immaginano che qualcuno si doni agli altri. Tutti sono sporchi, la democrazia è sporca, ovunque c’è un complotto, tutti rubano alla stessa maniera, la guerra è l’igiene del mondo. Quanto ai posticini, adesso, dopo anni di demagogia, leggi elettorali orrende e un bruttissimo referendum, in maniera incruenta sono stati soppressi molti seggi parlamentari, al punto che, se si considerano le Camere in rapporto al popolo, rispetto all’epoca della Costituente il Parlamento è dimezzato.

Su un aspetto, invece, il volume ha un orientamento preciso: la versione che, con varie sfumature, riconduce il delitto Matteotti a uno scandalo su concessioni petrolifere. Gli autori la escludono, in più punti, con considerazioni non del tutto sovrapponibili[3]. I loro rilievi, quando accomunano questa tesi alle bugie che attribuiscono il delitto alla sinistra o che negano il coinvolgimento di Mussolini, sono eccessivi. È da condividere, però, il brano in cui si riconduce il crimine all’insieme delle posizioni del socialista e si riconosce un ruolo anche a Un anno di dominazione fascista, il testo uscito fra grandi difficoltà poco prima della morte, dove si illustrano in modo documentatissimo le mascalzonate del regime.

Il punto è se a queste cause se ne siano accompagnate altre. Gli autori hanno la correttezza di ammettere che per alcuni osservatori la pista del petrolio non esclude quella politica. Qui non approfondisco tutta la questione, che richiederebbe l’analisi di molti elementi; fra i più importanti, la data effettiva della decisione di passare alla violenza estrema contro il deputato[4]. In genere, poi, le spiegazioni monocausali non si adattano a fatti così gravi. Invece di cercare un movente inconfutabile del delitto, o un dosaggio preciso di moventi diversi, è meglio segnalare un tema di metodo.

Le spiegazioni accentrate appiattiscono i fatti sulla cronaca, quelle diffuse sono per la storia; i laboratori della polizia scientifica e le aule giudiziarie si prestano meglio alla prima; le accademie di solito preferiscono la seconda. C’è di mezzo l’idea che le due cose fatichino a trovare una sintesi, insomma l’idea che si rischi di farsi rimpicciolire, o al contrario disperdere, valorizzando l’una o l’altra tendenza. C’è chi teme di diventare una talpa e chi una nuvola. Eppure, come sarebbe bello se le talpe imparassero a volare e le nuvole a scavare! Se poi si guarda agli intellettuali militanti del Ventesimo Secolo, Matteotti è fra i più vicini a questo ircocervo: mentre lavorava in grande per un mondo nuovo, passava giorni a studiare le carte contabili di quello vecchio, per denunciarne le falsificazioni, le poste truccate, i debiti nascosti. Non gli fu perdonato.

Sempre per escludere la pista del petrolio, gli autori fanno una considerazione d’ordine generale:

La pista che il sangue di Matteotti indica, invece, è la più nobile e la meno materiale che si possa immaginare, perché da quel sangue – e da quello di tutte le altre vittime della Ceka [la banda di sicari fascisti con sede al Viminale] – è derivata la semente della nostra Repubblica.

L’argomento non convince. Il proposito di rafforzare il fascismo eliminando un dirigente politico preparato e coraggioso non è meno materiale di quello di nascondere uno specifico crimine economico; solo che il primo intento è più vasto, il secondo più perimetrato. La presenza di più moventi non toglie nulla alla nobiltà di Matteotti. Il grande socialista anzi si dimostra – tutta la sua storia è così – un uomo che si informa e si batte sia sulle ampie questioni del paese sia su vicende specifiche.

Se poi si guarda al seme del futuro, i nemici della Repubblica sono da sempre fascisti o criminali o corrotti (i peggiori, le tre cose insieme), e questo fa pensare che la coincidenza di politica e corruzione nel delitto Matteotti sia in linea con la storia italiana. Per esempio: sarebbe difficile distinguere cosa è politica, cosa è crimine e cosa è accaparramento economico nella morte di Enrico Mattei. Questo non prova nulla, eppure: nel caso Mattei, che si presta abbastanza bene al paragone, c’è il petrolio.

Sul posizionamento dei segmenti della classe dirigente e intellettuale, vecchi e nuovi, considerati tenendo presente il delitto Matteotti, questo studio si ripiega, più che altro per tendenza metodologica, quasi in una lettura assolutoria indiretta, che per bizzarro esito finisce per giovare alla destra che precedette la Prima guerra mondiale come alla sinistra successiva alla Seconda.

In particolare, il testo è benevolo coi giuristi, mentre avrebbe fatto meglio a essere severo; di alcuni baroni accademici è additata la complicità col regime, ma su altri c’è timidezza. Gli elogi illustri a Matteotti, in vita e in morte, sono una documentazione preziosa ma per lo più dimostrano l’abitudine all’ipocrisia. Del resto si capisce quanto il socialista potesse essere malvisto, e non solo a destra, seguendo ancora Gobetti:

Eretico e oppositore nel partito socialista, poi tra gli unitari una specie di guardiano della rettitudine politica e della resistenza dei caratteri: sempre alle funzioni più ingrate e alle battaglie più compromesse. Combatté tutta la vita il confusionismo dei blocchi, la massoneria, l’affarismo dei partiti popolari. Era implacabile critico dei dirigenti e si ricorda che giovanissimo, in una riunione socialista, un nume del socialismo locale aveva dovuto interromperlo: «Tasi ti che te ga le braghe curte!»[5].

Di un giurista furbo, Alfredo Rocco, si ricorda che andò alla stazione di Monterotondo ad accogliere la bara e che mandò alla vedova un «nobile telegramma». Altro che nobiltà: il suo comportamento da presidente dell’ultima seduta con Matteotti, alla Camera, fu miserabile, e in seguito la sua sudditanza al regime fu assidua e profonda. Di un altro, Luigi Lucchini, si ricordano i solleciti bonari a tornare agli studi, e la risposta in cui Matteotti ringrazia e spiega che deve restare al suo posto; ma Lucchini, prima favorevole ai lavoratori, era diventato così conservatore da definire il socialismo «delitto comune»[6].

Esaminando la posizione dei giovani, specialmente la loro aggressività acuita dal vaniloquio rivoluzionario fascista, e scegliendo un esempio significativo, gli autori chiosano:

Questi giovani, così come il giovanissimo Vittorini, avevano anche sentito parlare di socialismo ed erano quindi indotti a mescolare fascismo e socialismo con un’equivoca ma resistente ambivalenza, che si troverà più tardi al fondo del cosiddetto «fascismo di sinistra» e che porterà, dopo un «lungo viaggio» e il trauma della guerra perduta, molti di quei giovani, tra cui lo stesso scrittore, fuori dell’ideologia fascista verso il comunismo. A dimostrazione che la figura e il sacrificio di Matteotti agirono in qualche modo, se pur per iniziale contrasto, come efficace reagente anche nello spirito e nella mente degli avversari primieramente più riottosi.

La premessa è giusta: c’era l’ambivalenza, frutto del camuffamento fascista; c’era la voglia di menar le mani, stuzzicata da un’educazione alla sopraffazione, al bullismo di massa, al razzismo; e c’è stato il trauma. Ma troppo rassicurante è il giudizio che si dà dell’esito.

Il punto – senza sopravvalutare il caso di Vittorini – è che l’efficace reagente è in realtà un tossico edulcorato, ben lontano dall’intransigenza di Matteotti. Per capire la vera portata di quel fuori e verso, bisognerebbe misurare quanta faziosità, quanta ginnastica parolaia e quanta voglia di padrone quei giovani si portarono dietro, allora, iniettando nella sinistra del dopoguerra virus che pesarono a lungo. Per esempio sui rapporti fra Psi e Pci, sulle smanie rivoluzionarie che nascondevano compromessi perdenti, sulla distanza che correva tra la lingua dei comizi e quella delle segreterie, dei corridoi parlamentari, degli uffici negli enti locali. Tutte cose che contribuirono alla difficoltà di realizzare una sinistra di massa capace, un giorno, di sopravvivere al crollo del blocco sovietico. Forse stiamo ancora pagando – penso in parte ai Cinque stelle, senz’altro al Pd e a quel che c’è alla sua sinistra – certe mescole appiccicose, certi «lunghi viaggi» senza biglietto. Così due guerre diventano comodi lavacri: la prima offre l’alibi del salto nel buio e i conservatori si adattano al fascismo; la seconda offre quello del buio alle spalle e i fascisti frondisti, inquieti, ravveduti passano all’antifascismo.

Quanto a Matteotti, il suo impegno contro la partecipazione al conflitto mondiale veniva naturale. Il libro ne coglie il senso profondo:

Assolutamente alieno da ogni infatuazione nazionalistica e suggestione letteraria, antidannunziano per costituzione organica, è soprattutto refrattario a quelle motivazioni agitate dall’interventismo della sinistra, che in qualche misura determinano incertezze e defezioni nelle correnti più estreme e radicaleggianti del suo partito. […] L’avversione alla guerra dei riformisti come Matteotti, Altobelli, Badaloni, Prampolini si spiega anche con la vicinanza a quel mondo contadino della Valle Padana che aveva aderito al socialismo in virtù di una propaganda di natura quasi religiosa che parlava di fratellanza tra i popoli e di pace (di Prampolini, per esempio, è l’opuscolo diffusissimo La predica di Natale).

Eccoci dunque ai riformisti. La questione del riformismo è il punto su cui il timbro espressivo, dovuto ai differenti percorsi professionali degli autori, si rivela un’ottima risorsa e offre le pagine più interessanti, perché valorizza le competenze dello storico e cavalca spigliato la prosa giornalistica. Matteotti è visto di fronte:

Lo predispone […] a questa militanza, per molti aspetti precipuamente tecnica, la sua solida preparazione giuridica ed economica applicata lucidamente ai problemi amministrativi e a quelli dell’organizzazione del lavoro. […] Insomma un riformismo che non era un generico ideale umanitario né tanto meno un impaziente rivoluzionarismo velleitario, ma un metodo volto ad alimentare e indirizzare a buon esito l’incessante processo di trasformazione delle condizioni del proletariato e di profonda riforma delle leggi.

Matteotti riformista, rivoluzionario o, come si dirà, portatore di un riformismo rivoluzionario? Ci aiuta sempre Gobetti: «Accettava da Marx l’imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente; e pur con riserve poco ortodosse non repudiava neppure il collettivismo»[7]. Questo volume indica il gradualismo ma lo ridimensiona citando da uno scritto di Matteotti del 1919:

Le lotte economiche sono prima per l’aumento del salario, come condizione di vita; quindi sono per il controllo dell’azienda; più tardi ancora per l’assunzione diretta delle aziende, sostituendosi al capitalismo. [Si tratta di] imporre alla stessa borghesia istituzioni sempre più conformi all’interesse del proletariato, costituendo coi comuni socialisti, colle scuole, con le cooperative, ecc. tanti nuclei pronti per il regime socialista di domani.

Non certo il programma di un moderato, semmai quello di un rivoluzionario sui tempi lunghi; uno che alza barricate, invece che accumulando alla svelta rottami, cementando un po’ alla volta mattoni di qualità. C’è in lui una consapevolezza da giurista e da socialista: corruzione e falsificazione contabile sono armi della lotta di classe borghese contro i lavoratori. Di fronte a questo, distribuire esattamente le parti di responsabilità, nel delitto Matteotti, fra criminalità economica e oppressione di classe, sbiadisce di senso: con la scoperta di uno scandalo sul petrolio quelle barricate sono ancora più robuste.

Il modo di essere del nemico impone il modo di impegnarsi. Bisogna cercare alleanze e difendere tutti gli spazi politici:

Anche nel 1922 Matteotti si adopera per convincere i dirigenti del partito a promuovere un’intesa con altre formazioni antifasciste, in difesa delle libertà democratiche, allo scopo di evitare il rischio dell’isolamento e per non finire con il rinchiudersi in uno sterile atteggiamento puramente negativo.

La lungimiranza non riguarda solo la difesa delle garanzie liberali nelle aule elettive e giudiziarie; in una bozza di articolo per «Critica sociale», non pubblicato, Matteotti scrisse:

È necessario prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui; la nostra resistenza al regime dell’arbitrio deve essere più attiva; non cedere su nessun punto; non abbandonare nessuna posizione senza le più recise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e di libertà[8].

La questione della forza, dunque, gli era ben presente. Infatti nel discorso pronunciato in Belgio, poche settimane prima di morire, esortò: «Continuate a difendervi, non dicendo cose che non si fanno, ma facendo cose che non si dicono. Difendete la vostra libertà con tutta la vostra energia»[9]. È sempre lui a scrivere:

Non ho pregiudiziali per nessun metodo, né transigente né intransigente. Escludo soltanto la violenza come metodo; escludo soltanto il rinnegamento della lotta di classe in un collaborazionismo che volesse essere metodico e costante. E ritengo che ognuno abbia il dovere di esprimere il suo pensiero al fine di cercare d’accordo la tattica migliore. Ma […] mi vergogno che i nostri congressi dedichino tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni.

Una bella strigliata. La merita, adesso, chi fa i distinguo su campo largo e campo giusto mentre le condizioni del lavoro precipitano, le morti sui cantieri, nelle fabbriche e nei campi sono diventate stragi e il governo vuole manomettere la Costituzione.

Matteotti sarà sempre, come si dice, divisivo: una parola furba, una strizzatina d’occhio per insinuare che, se proprio si deve parlare di lui, sia in modo conciliante. Se divisivo è, tale Matteotti deve restare, e Il nemico di Mussolini, in questo, sul grande socialista suggerisce molti approfondimenti.

 

 

[1] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 31.

[2] Indro Montanelli, in «Meridiani», 1936, 11, riprodotto in Nazario Sauro Onofri, I giornali bolognesi nel ventennio fascista, Moderna, Bologna 1972, pp. 171-172, citato in Piero Meldini, Mussolini contro Freud. La psicoanalisi nella pubblicistica del fascismo, Guaraldi Editore, Firenze-Rimini 1976, pp. 108-109.

[3] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino, Milano 2024, pp. 181-183; una confutazione minuziosa è alle pp. 199-207, che riassumono Giampiero Buonomo, Quel che non torna nel movente affaristico del delitto Matteotti, in «Tempo Presente», ottobre 2022.

[4] Per Breda, Caretti, Il nemico di Mussolini, cit., p. 199, il delitto è deciso fra il 31 maggio e il 2 giugno 1924. Per Mauro Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 2004, capitolo I dubbi sul movente, pp. 207-240, è deciso a maggio 1924, prima del famoso discorso alla Camera: p. 221, «le prime prove certe dell’esistenza d’un disegno criminoso risalgono al 20 maggio»; p. 224, «Il gruppo della Ceka era riunito al completo a Roma agli ordini di Dumini già dal 22 maggio. Il particolare conferma che non fu il discorso alla Camera di Matteotti del 30 maggio a dare l’avvio all’organizzazione del crimine, […] ma essa era già attiva da prima».

[5] Gobetti, Matteotti, cit., p. 17.

[6] Carlo Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984, pp. 82-83, che cita Luigi Lucchini, Il nuovo assetto dei popoli, in «Rivista penale», XLV, 1919, pp. 73-75, e Luigi Lucchini, Il socialismo militante in Italia è un delitto comune, in «Rivista penale», XLVIII, 1922, pp. 26-30.

[7] Gobetti, Matteotti, cit., p. 26.

[8] Carini, Giacomo Matteotti, cit., p. 187; sulla controversa datazione del documento, ivi, p. 186, nota 48.

[9] Ivi, p. 224, che cita Alessandro Schiavi, La vita e l’opera di Giacomo Matteotti, Opere nuove, Roma 1957, pp. 123-125.

 

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La pentola bolle, poi Amazon, prima i carbonari e in mezzo Matteotti https://www.carmillaonline.com/2024/05/21/la-pentola-bolle-poi-amazon-prima-i-carbonari-e-in-mezzo-matteotti/ Mon, 20 May 2024 22:05:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82629 di Luca Baiada

Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, pp. 202, euro 18.

 

Attenzione precisa alla collocazione di Giacomo Matteotti nel tempo e nello spazio, convinzione e pluralità di registri: storico, culturale, economico e politico. Si sente – è una consapevolezza collaudata[1] – la conoscenza del territorio:

La campagna polesana offre ancora oggi al viaggiatore, al visitatore occasionale, al turista colto, curioso o meno distratto un’esperienza che, per certi versi, può perfino sembrare fuori dallo spazio e dal tempo [...]]]> di Luca Baiada

Diego Crivellari, Francesco Jori, Giacomo Matteotti, figlio del Polesine. Un grande italiano del Novecento, prefazione di Francesco Verducci, postfazione di Marco Almagisti, Apogeo Editore, Adria 2023, pp. 202, euro 18.

 

Attenzione precisa alla collocazione di Giacomo Matteotti nel tempo e nello spazio, convinzione e pluralità di registri: storico, culturale, economico e politico. Si sente – è una consapevolezza collaudata[1] – la conoscenza del territorio:

La campagna polesana offre ancora oggi al viaggiatore, al visitatore occasionale, al turista colto, curioso o meno distratto un’esperienza che, per certi versi, può perfino sembrare fuori dallo spazio e dal tempo ordinari, l’ambiente di un nord padano nella sua essenza eppure meno frenetico e battuto, l’assaggio di un territorio lento che, pensato e costruito e rammendato sulla base di successive opere di modernizzazione (le bonifiche, l’agricoltura, le infrastrutture) e di una lotta plurisecolare tra l’uomo e le acque, è forse riuscito a sfuggire, almeno in parte, agli effetti della modernizzazione più selvaggia.

Anche qui nel periodo postunitario economia e tecnologia fanno aumentare le sperequazioni sociali:

Elemento caratteristico della dura vita nelle campagne del Basso Polesine era ancora il diritto di vagantivo, che consentiva soprattutto ai più poveri di muoversi liberamente tra valli e paludi per praticare la pesca, la caccia, la raccolta di canne palustri. Le opere di bonifica contribuiscono a distruggere il vagantivo e a proletaritarizzare le masse contadine.

Ma il Polesine offre una novità: diventa un’enclave rossa nel Veneto, una terra di ibridazione, una Romagna di là dal Po dove ci si ribella:

Questo stesso territorio monotono e pianeggiante, apparentemente immutabile nel suo microcosmo politico e sociale, sarà entro pochi anni epicentro della prima grande ribellione contadina della storia italiana: «La boje!». Le plebi contadine che, per secoli, erano state ai margini della grande storia, irrompono sulla scena e preannunciano l’inizio, tra proteste, violenze e contraddizioni, di una nuova fase. […] Il movimento è spontaneo, i capi sono improvvisati, la parola d’ordine dell’esasperazione e della lotta è «la boje», cioè la «pentola bolle e di colpo va di sopra».

I limiti del tentativo ci sono e li noterà Piero Gobetti tracciando la storia di Matteotti prima di cadere come lui: «Una provincia tormentata con un’economia complessa ed incerta, terra storica di esperimenti di sovversivismo, spesso più servile che violento, sono toni sufficienti per determinare l’opera di un uomo»[2]. Eppure il seme è gettato: si è provato, si può.

Il conflitto sociale, insieme alla liberazione nazionale e alla riscossa politica, si ritroverà nella Resistenza:

Rappresenterà un ulteriore momento di riscatto, risveglio e partecipazione popolare, un fenomeno per certi versi sorprendente, perché sviluppato non tra le montagne, ma in un territorio pianeggiante, privo di ombra, in cui – se si escludono i campi di mais – non esistono luoghi in cui ripararsi, un territorio piatto che non si presterebbe tecnicamente alla tattica della guerriglia e che invece conosce la lotta partigiana, conosce i rastrellamenti, le torture, le stragi (come quella di Villamarzana del 15 ottobre 1944, la più grave, compiuta dai repubblichini), una lotta essenzialmente contadina che si rivolge […] contro i fascisti prima ancora che contro i tedeschi invasori e, per molti versi, assume la connotazione di una resa dei conti e di una guerra di classe.

Ancora prima dell’unità d’Italia, con caratteristiche diverse, queste terre covano contatti, progetti, scatti d’orgoglio. Proprio a Fratta Polesine, luogo di nascita di Matteotti, dove un tempo Lucrezia Gonzaga e intellettuali di vaglia si raccolsero in accademia, si tessono cospirazioni della Carboneria che non sfuggono all’occhio di Vienna e che portano i patrioti allo Spielberg. Se ne trarrà insegnamento: il fratello di Giacomo, Matteo Matteotti, studierà i carbonari.

Naturalmente la storia non può fermarsi ai progetti di un gruppo. La condizione dei lavoratori permette alla nobiltà, quando non è solo crapulona, l’opportunità di ozii culturali; però:

La maggior parte della popolazione abita nei tipici e poverissimi casoni, con tetto in paglia, pareti in vimini intrecciati, intonacati con terra argillosa a volte mescolata con sterco bovino, sostenuti da quattro pali agli angoli; all’interno una sola camera, dove gli uomini convivono con gli animali.

Bene, comunque, che si ricordi l’importanza del sapere per il socialista polesano. Il suo impegno in Parlamento e negli enti locali per le scuole, le biblioteche e le iniziative di formazione è forte e personale. Se mi fosse concesso un viaggio nel tempo per incontrare Matteotti, non sceglierei una seduta parlamentare ma la gita a Ferrara in cui fece la guida turistica per i lavoratori, si irritò perché erano pochi e poi capì: «Indolenza, ignoranza; delle quali in fondo la classe lavoratrice non ha colpa, perché da troppi secoli straniata a ogni cultura e ad ogni spettacolo di bellezza»[3]. Confondersi coi braccianti e seguirlo, passo passo.

Nell’attenzione alla cultura c’è una convinzione che Giacomo Matteotti, figlio del Polesine riconduce alle sue posizioni al congresso dei comuni socialisti, a Milano, nell’ottobre del 1919, quando disse di volere un insegnamento «libero, poetico, astratto» e aggiunse:

Vogliamo noi veramente che la scuola sia una preparazione per l’officina, pel lavoro? No, assolutamente; la scuola deve essere qualche cosa per cui, almeno per quattro o cinque anni, la gente del popolo non pensi alla preparazione del lavoro manuale, impari qualche cosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni. Non dobbiamo essere di quelli che vogliono la preparazione del ragazzo all’abilità.

Cultura e lotta dei lavoratori uniscono la storia locale e quella italiana a un uomo che prima è tappa di un antico cammino, poi diventa mito fondativo:

Matteotti, nome in grado di suscitare accenti quasi religiosi, come ammantata di religiosità e di riferimenti nemmeno troppo velati al cristianesimo primitivo era stata la predicazione socialista nelle campagne padane tra i due secoli. Perfino negli anni più bui della dittatura, nella lunga traversata del deserto, il ricordo di Matteotti sarà all’origine di una ripresa attiva della coscienza antifascista, sarà memoria viva, non meramente sentimentale, radicata nella cultura popolare.

Le difficoltà delle terre basse, i controversi sviluppi, con caratteristiche particolari rispetto al Nord-Est, la collocazione geografica che favorisce i collegamenti e la disponibilità di mano d’opera sono elementi che si ripresentano. Non a caso proprio nel Polesine viene aperto un importante snodo logistico. Arriva Amazon:

Il lavoro sembra essere il filo rosso che lega il Polesine delle prime grandi lotte politiche e sociali e il Polesine di Matteotti al Polesine di oggi. L’approdo della potentissima multinazionale americana fondata da Jeff Bezos in una realtà in cui, negli anni Ottanta del XIX Secolo, si sviluppò la prima vasta ribellione contadina del nostro paese […] appare in ogni caso come un passaggio dal sapore altamente simbolico.

Di un Matteotti c’è bisogno ma un Matteotti non lo abbiamo; perciò questa osservazione degli autori va presa come un buon proposito:

Se […] è veramente possibile cercare di individuare, all’interno di una densa parabola storica, un punto di sintesi capace di collegare la vicenda dei braccianti polesani di Otto e Novecento ai nuovi, anonimi, precari operatori della logistica, questo può senz’altro coincidere con l’esperienza straordinaria – esemplare, interrotta, incompiuta – rappresentata da Giacomo Matteotti.

Fitto di dati, nomi e collegamenti – lo sconcertante Nicola Bombacci, prima rivoluzionario, poi fucilato a Dongo coi peggiori fascisti, Umberto Merlin del Partito popolare e molti altri – il volume ricostruisce l’affermazione di Matteotti in una terra che ama e in cui si muove bene grazie alla parola convincente e alla conoscenza di persone e problemi. La riprova dell’efficacia di quell’impegno sarà la determinazione con cui il fascismo si accanirà su un corpo sociale che ha i piedi nel torpore dei canali e la testa nella modernità della sindacalizzazione e della solidarietà di classe strutturata:

Lo squadrismo, nel terribile 1921, si abbatterà sul Polesine, smantellando con minacce e violenze sistematiche le leghe, le amministrazioni locali, i circoli, le tipografie, distruggendo le tracce di una presenza socialista che era stata pazientemente disseminata e organizzata nell’arco di una trentina d’anni, e su cui piomba ora la ferocia di una vera e propria guerra civile, […] una guerra civile a senso unico, una reazione agraria che troverà il movimento proletario scioccato, traumatizzato, largamente impreparato di fronte alla determinazione, all’efferatezza, ma anche alla «tecnica» di una violenza pianificata.

Il socialista non si scoraggia e porta la battaglia sino in Parlamento. Il suo stile è schietto, distante dal chiasso dell’arruffapopoli e dagli schematismi del quadro di partito:

Pareva incarnare una figura diversa di militante politico, perfino inedita, anche se riferita all’immagine del rappresentante socialista più tradizionale nelle istituzioni; nessuno sfoggio di oratoria preziosa, nessun artefatto intellettualismo, nessuna concessione alla demagogia o, per rimanere più vicini all’attualità, al populismo.

Non c’è da stupirsi, allora, che Matteotti si sia battuto contro qualsiasi compromesso col fascismo e abbia difeso tutti gli spazi di manovra concessi dalla società liberale, anche se quella società aveva col fascismo legami colpevoli e vistosi; quegli spazi legali, quegli istituti, quelle parole d’ordine borghesi, anche se erano espressione di un’egemonia di classe contigua a quella del nascente regime, andavano protetti: «Egli comincia a utilizzare il termine “dittatura” senza incertezze, perché gli è chiaro che l’avvitamento della crisi sta conducendo verso la liquidazione degli istituti liberali».

Uno studio così attento si fa perdonare anche i malintesi sull’età repubblicana, nel capitolo L’eredità di Giacomo Matteotti:

A frenare l’evoluzione del paese ha concorso in misura analoga un handicap di natura politica che rappresenta l’esatta antitesi dello stile e delle battaglie di Matteotti: la mancata evoluzione verso un moderno schema occidentale basato sulla competizione-alternanza tra un blocco riformista e uno moderato. […] Tangentopoli non è stata la causa del crollo del sistema, ma solo l’elemento della spinta finale, per giunta senza l’auspicato rinnovamento: la cosiddetta seconda Repubblica si è impaludata in una sfibrante transizione perenne che ha prodotto una sostanziale paralisi. […] Tra le conseguenze più pesanti, la profonda e radicale sfiducia dell’opinione pubblica, che si è tradotta e continua a tradursi in un allarmante astensionismo elettorale e nella compulsiva ricerca di un decisore credibile cui affidare le sorti del paese: compito in cui sono via via falliti i Berlusconi, i Prodi, i Bossi, i Renzi, ma anche tecnici di vaglia da Monti a Draghi, e che ora è stato raccolto da Meloni, peraltro senza che intorno si modifichi il clima di rissa continua.

Non ci siamo. L’alternanza fra due blocchi politici non era nelle ambizioni di Matteotti e dei socialisti, e se c’è una cosa da invidiare a quei tempi duri è che in politica non si contava solo fino a due. Il rilievo sul ruolo di Tangentopoli è giusto, ma altro che paralisi: da allora, e sono passati trent’anni, economia, politica e diritto corrono energici verso la più spietata ingiustizia sociale. Apatia e confusione, con l’astensionismo alle elezioni, sono cose connesse alla gagliarda lotta di classe del padronato e alla debolezza di quella dei lavoratori, non alla mancanza di uno schema occidentale. La ricerca di un decisore si chiama voglia di padrone, e il volume fa bene a denunciarla; i personaggi elencati, però, hanno ben poco in comune e due di loro, Monti e Draghi, sono stati imposti un po’ dagli effetti della condotta di chi li precedeva, un po’ da manovre dell’imprenditoria e del palazzo.

I cenni di attualizzazione lasciati a chi legge sono porte aperte – è il titolo del romanzo di Leonardo Sciascia – che siamo liberi di attraversare a nostro rischio. È una di queste il collegamento fra i due mesi di incertezza sulla sorte del socialista, con le congetture (anche sull’occultamento del corpo in un lago), e un periodo simile nel caso Moro. È un’altra porta il «mondo di mezzo», cioè la presenza di un ambiente criminale al servizio della politica e dell’affarismo, capace di tessere col potere legami fatti di connivenza e ricatto servizievole. Vengono in mente cose sempre più gravi, di tempi in tempi, come i contatti tra Francis Turatello e Craxi, poi il mafioso assunto a casa di Berlusconi, e ancora le frequentazioni altolocate dei personaggi intramontabili della malavita romana, in un sottobosco di affarismo e illegalità che non fa differenze tra uno schieramento politico e un altro, né tra Guerra fredda, berlusconismo e modello successivo.

In questo il delitto Matteotti, col coinvolgimento di sicari per mestiere, di intellettuali prostituiti, di politicanti e del capo del fascismo è un esempio di delitto del potere in cui convergono ruoli muscolari e torsioni linguistiche. Alcune forze trasmettono dall’alto verso il basso l’opzione della riduzione al silenzio, altre porgono dal basso all’alto l’esecuzione dello spargimento di sangue. In certi delitti successivi, anche molto diversi, si ritrovano le stesse caratteristiche di ubbidienza in cui un ordine preciso di vertice non c’è o non è verificabile: da alcuni fatti di mafia all’omicidio di Mino Pecorelli al caso Mauro De Mauro. Il rapporto fra il potere e i suoi bravi corre sul filo di cenni, perché appunto quello è il linguaggio del potere. È di segno opposto la lingua della giustizia, e per questo Giacomo Matteotti, figlio del Polesine riconosce nella Costituzione e nel suo nitore espressivo un paradigma indispensabile, lo stesso che Matteotti frequentava.

Si può intuire, allora, perché Sciascia ambienti il suo romanzo nel 1937 e lo pubblichi nel 1987. Gli «anni di fango» hanno qualcosa in comune con gli «anni del consenso»: nell’imminenza del crollo del blocco socialista, in quell’età di ricatti democristiani e craxiani, con un’opposizione inadeguata, si sviluppò qualcosa – un consenso al fango, si direbbe – che preparò il berlusconismo attraverso la scossa della stagione delle stragi. Parola e silenzio, chiasso e segreti favorirono l’arretramento del lavoro e l’attacco alla giustizia travestito da garantismo, da legalitarismo, da modernizzazione delle leggi.

Già, proprio il diritto; una cosa che vive di parole. Una cosa che con la parola pulita fiorisce, e in quella lurida imputridisce.

Quale rapporto […] esiste tra l’uomo politico e lo specialista del diritto? In linea generale possiamo affermare che è difficile comprendere l’itinerario intellettuale e politico di Matteotti, senza ritornare alla sua passione per il diritto. […] Questa passione non è venuta meno neppure negli anni più travagliati dell’impegno politico e parlamentare, contribuendo a fare del socialista polesano un tipo particolare di dirigente, di organizzatore, di rappresentante delle istituzioni, in cui alla veemenza delle posizioni, al febbrile attivismo, al coraggio personale si univano, nelle occasioni giuste, il rigore dell’uomo di scienza, lo sguardo oggettivo del tecnico, il piglio dell’esperto, l’approccio di chi padroneggia una materia cruciale e ne è ben consapevole.

Il tema coinvolge il nesso tra riformismo e rivoluzione, la questione del gradualismo e quella della lotta di classe. Gli autori, citando Carlo Carini e Paolo Passaniti[4], ribadiscono i punti di contatto di Matteotti con Antonio Labriola e Gaetano Salvemini e osservano:

[Matteotti], peraltro pagando con la vita, sarebbe stato il solo – o quasi – a intuire che la difesa del Parlamento come «organo depositario della sovranità nazionale e centro esclusivo di produzione democratica del diritto» non era una battaglia politica contingente, bensì una trincea decisiva per tutto il movimento operaio e per la libertà in Italia. La radice di questa consapevolezza, che lo porterà a sfidare il fascismo al potere e a percepirne la carica totalitaria, è da ricercarsi, molto probabilmente, proprio nella sua formazione giuridica e nella peculiare sensibilità sviluppata all’interno di questo percorso giovanile.

Se ci facciamo carico di questo, attrezziamoci per strade difficili. Il diritto è diventato o il pastone in cui beccano gli animali da cortile del palazzo, oppure il quadrato da cui chi vuole cambiamenti si tiene alla larga, temendo che sia ormai una gabbia irrimediabilmente cervellotica e chiusa.

Eppure, se Matteotti denuncia in modo inoppugnabile le mascalzonate del governo Mussolini, anche con il libro che pubblica nel 1924, Un anno di dominazione fascista, è perché frequenta il diritto con uno stile pratico, intriso di economia, contabilità e conoscenza della burocrazia. Gli autori afferrano una parte importante – che però non è affatto la sola – di quel volume battagliero:

Matteotti contesta che il governo abbia davvero migliorato la situazione economica: se aumentano i profitti, infatti, diminuiscono i salari, si aggrava il debito pubblico, cresce la disoccupazione e peggiora nel complesso la condizione dei lavoratori (un’ondata di licenziamenti colpisce in particolare i lavoratori delle ferrovie). L’interventismo economico dell’esecutivo smentisce le promesse liberiste del suo programma, avviando una stagione all’insegna di sussidi e favori nei confronti della grande industria e di quelli che oggi chiameremmo «poteri forti».

Sul punto è citata l’economista Clara Mattei[5], a proposito della «convergenza tra la politica economica inaugurata dal governo fascista, in cui si incrociano austerità, autoritarismo e tecnocrazia, e le idee degli economisti liberali».

Viene il sospetto – il libro si affaccia sulla questione senza percorrerla – che in fondo proprio l’originalità della posizione di Matteotti abbia segnato non solo la sua fine, che ha per colpevoli i massimi livelli del fascismo, ma anche la fase successiva.

Il sospetto, insomma, è che l’eliminazione di Matteotti, negli angoli della coscienza borghese, sia stata presa, oltre che da alcuni come un sollievo, da altri come un lutto, sì, ma chiarificatore, e che anche per questo il regime si sia ricompattato. Intransigente senza retorica, colto e vicino al popolo, avverso al correntismo ma attento a ogni novità, poliglotta europeo radicato in una terra afflitta dall’analfabetismo, Matteotti aveva ben poco del politico tradizionale e molto di nuovo da insegnare. La sua lezione ancora adesso ha pochi discepoli.

Ma adesso sbrighiamoci. Abbiamo un appuntamento con una guida turistica d’eccezione, a Ferrara. Altrimenti scriverà: «Perché tanti assenti? Non per il tempo ch’era buono; non per la spesa, che in Ferrara si ridusse a lire dieci per persona (quanti se ne consumano nelle bettole?)»[6]. E lungo la strada godiamoci la campagna: nutriva di grazia il divisionista Gaetano Previati, che Matteotti commemorò alla Camera chiamandolo «meraviglioso pittore delle immagini, delle luci e dei colori»[7]. Forza, in cammino. Stavolta andiamo numerosi.

 

 

[1] Diego Crivellari è autore anche di Scrittori e mito nel delta del Po. Un dizionario letterario e sentimentale, Apogeo Editore, Adria 2019.

[2] Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino 1924, p. 11.

[3] Giacomo Matteotti, Sulla scuola, a cura di Stefano Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1990, p. 162.

[4] Carlo Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze 1984. Paolo Passaniti, Giacomo Matteotti e la recidiva. Una nuova idea di giustizia criminale, Franco Angeli, Milano 2022.

[5] Clara Mattei, Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo, Einaudi, Torino 2022.

[6] Matteotti, Sulla scuola, cit., p. 162.

[7] Ivi, p. 145.

 

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Resistenza: una lotta dimenticata e una vittoria tradita https://www.carmillaonline.com/2018/08/04/resistenza-una-lotta-dimenticata-e-una-vittoria-tradita/ Sat, 04 Aug 2018 21:12:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47740 di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea [...]]]> di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.

Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.

Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto. E perché sia successo questo lo si può spiegare con le stesse parole di Mussolini, che – riporta l’autore – aveva detto «per una volta non a torto: “Io non ho creato il fascismo, l’ho solo tratto dall’inconscio degli italiani”» (p.9).

In sostanza, per indiretta ed inconsapevole ammissione del suo duce, il fascismo sarebbe “l’autobiografia della nazione”, per dirla alla maniera di Piero Gobetti, la sintesi delle sue storiche malattie, che purtroppo non sono state sanate dal passaggio del Paese attraverso la lotta partigiana, ma si sono conservate per poi manifestarsi sotto diverso aspetto sintomatico nella storia repubblicana. Il fascismo – riflette Bellosi – «in sonno, ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente fino a quando gli apprendisti stregoni lo risvegliano», come può accadere ancora oggi in Italia, in «un Paese senza dignità e senza memoria» (p. 9).

E quello della memoria è uno dei grandi temi del romanzo di Cecco Bellosi, che ricostruisce e narra le vicende delle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi nell’area dell’Alto Lago di Como ed in particolare le cruciali giornate dei fatti di Dongo, dell’arresto e della fucilazione di Mussolini, dei gerarchi di Salò e della Petacci. E come spesso succede per i grandi eventi della storia, le molteplici versioni dell’accaduto non coincidono, talvolta addirittura divergono, talaltra si intrecciano e si confondono, soprattutto quando la memoria storica è in stretta correlazione con la narrazione politica che si vuole dare della realtà. Il libro che Cecco Bellosi scrive in forma di romanzo intende pertanto fornire un contributo alla ricostruzione dei fatti e delle vicende della Resistenza nella regione dell’Alto Lago di Como e lo fa partendo dalla ferma convinzione che siano soprattutto le memorie dirette, i racconti e le parole dei protagonisti a costituire il materiale più autentico con il quale ricostruire la cornice e il quadro del passato storico, per ovviare tanto alle storture di letture ideologicamente prevenute e tendenziose o semplicemente conformiste, quanto all’ufficialità cattedratica della storiografia accademica, rispetto alla quale Bellosi in più punti del libro tende a voler segnare le distanze. E forse eccessivamente, perché se è pur vero che il ricordo del vissuto di chi la storia l’ha fatta ha un valore prezioso, quasi inestimabile, è altresì evidente che il lavoro dello storico, per punto di osservazione, metodo di analisi e finalità di ricerca, sia e debba opportunamente essere altro dalla memoria diretta di chi fu attore di un evento storico, anche grande e di cruciale importanza come la lotta partigiana in Italia.

Sotto l’ombra di un bel fiore è un libro che si colloca in una posizione intermedia tra la narrazione e la ricerca storica: è un romanzo che per ricchezza di dati, per meticolosità di osservazione e ricostruzione dei fatti e per profondità di analisi assomiglia a un saggio di storia; ma un saggio reso coinvolgente ed avvincente dalla forma del romanzo in cui è scritto e dall’epica eroica delle vicende narrate.

La parte principale del libro è dedicata al ricordo e alla ricomposizione di momenti fondamentali della lotta partigiana attraverso le memorie e le conversazioni, ad anni di distanza dai fatti e quando ormai disillusione e frustrazione politiche si sono sostituite agli entusiasmi e alle speranze di un tempo, di due attori di quelle vicende: Pedro e Paolo. Pedro, ovvero Pier Francesco Luigi Bellini delle Stelle, nobile toscano, ma combattente con i comunisti della 52^ Brigata Garibaldi sulle montagne attorno al lago di Como e Paolo, nato a Como nel 1911, lavoratore emigrato in Svizzera come tipografo, antifascista, attivo negli ambienti del socialismo libertario italiano in Svizzera, rientrato in Italia dopo la Liberazione. I due in comune, oltre all’amicizia che li unisce, hanno soprattutto un obiettivo, quello di onorare la memoria, attraverso l’attenta ricostruzione dei fatti, di Luigi Canali, ovvero il partigiano comunista Neri – amico d’infanzia di Paolo  e capitano della stessa 52^ Brigata Garibaldi in cui militava Pedro – uno dei leader della Resistenza nella regione di Como e protagonista sia delle convulse giornate che hanno portato alla cattura e alla fucilazione di Mussolini sia di un’oscura vicenda di cui tragicamente ed ingiustamente è rimasto vittima assieme a Gianna, ovvero Giuseppina Tuissi, staffetta della 52^ Brigata e compagna del capitano Neri.

Neri e Gianna, catturati dall’Ovra e torturati, dopo l’evasione del primo e la scarcerazione della seconda, sono sospettati, ingiustamente, dai loro stessi compagni e dal partito comunista di tradimento; reintegrati nella Resistenza, partecipano ai fatti di Dongo, ma nel frattempo il Tribunale popolare del Comando delle Brigate Garibaldi ha emanato per Neri una sentenza di morte. Essa verrà eseguita agli inizi di maggio e alla fine dello stesso mese anche Gianna finirà uccisa – come Neri – per mano dei suoi stessi compagni di militanza politica e di lotta partigiana. Bellosi ricostruisce nei minimi particolari l’insieme delle vicende, sia quelle relative alla fucilazione di Mussolini sia in particolare quelle riguardanti il caso di Neri e Gianna, avanza le proprie interpretazioni dei fatti e ricompone il quadro, molto intricato e ancora oggi per nulla chiaro, dei differenti punti di vista e delle letture di entrambi gli episodi.

Ciò che complessivamente emerge dalle riflessioni di Bellosi è che della Resistenza, delle sue pagine gloriose come di quelle meno limpide, fin da subito siano state elaborate narrazioni distorte e si sia fatto un uso politico sfavorevole alla Resistenza stessa, teso a gettare fango o comunque a screditare e a dimenticare velocemente l’impegno ed il sacrificio, le battaglie, le speranze e i progetti dei partigiani italiani. Scrive Bellosi: «Nella guerra di Liberazione, chi ha vinto ha perso, chi ha perso è tornato, chi è stato a guardare ha conservato il potere di sempre» (p. 48). E a dare il via a questa tragica e venefica eterogenesi dei fini è stata la cosiddetta “amnistia Togliatti”, che Bellosi considera attraverso lo stupore e l’indignazione di Pedro e Paolo, che assistono alla mortificante sconfitta dei loro ideali in un’Italia in cui i fascisti di un tempo, svestita la camicia nera, riprendono le loro posizioni di potere e comando come se nulla fosse accaduto. L’ennesima pagina – la più grave – di trasformismo politico italiano, di tradimento degli ideali resistenziali di rinnovamento politico e morale del Paese, di suicidio della memoria storica italiana.

Nel viaggio di Bellosi attraverso i venticinque anni successivi alla guerra che hanno visto seccarsi e disperdersi inesorabilmente i fertili semi gettati dalla lotta partigiana, segue il momento del processo di Padova del 1957, quello per il presunto furto dell’“oro di Dongo”: un procedimento giudiziario i cui fini politici – screditare complessivamente la lotta partigiana, insinuare la tesi della differenza tra una Resistenza buona e una cattiva (quella comunista), individuare facili capri espiatori – sono evidenti non solo per lo storico che studia le carte a distanza di tempo, ma lo erano anche per i contemporanei, soprattutto per i partigiani che dovevano subire l’ennesima onta del disconoscimento del loro operato.

Il libro si conclude con l’analisi di due momenti della storia italiana, milanese, apparentemente diversi e cronologicamente distanti quarant’anni, che Cecco Bellosi però collega alla luce dell’intuizione visionaria di Jorge Louis Borges, per cui «sono i posteri a creare gli antenati» (p. 212): la strage di Milano del 12 aprile 1928, in piazza Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera Campionaria e in occasione del passaggio del convoglio reale, in cui morirono nell’immediato e nei giorni successivi venti persone e la strage di piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969, con i suoi diciassette morti ed ottantotto feriti. Dei due tragici episodi il più noto è senz’altro il secondo, mentre di quello di novant’anni fa – forse il primo esempio di quello stragismo come arma politica di Stato che l’Italia repubblicana ha ampiamente conosciuto – si sa pochissimo. Quasi certamente furono ambienti dissidenti e frondisti del fascismo repubblicano milanese e apparati dello Stato e della Polizia, attraverso l’uso di infiltrati negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto giellista, ad organizzare la strage. Un atto provocatorio poi ampiamente sfruttato, anche attraverso indagini depistanti, per accusare e screditare gli antifascisti, in Italia e all’estero, per perseguitare, arrestare, incarcerare e torturare centinaia di oppositori, in particolare comunisti, socialisti, anarchici, giellisti, repubblicani che finirono nelle grinfie del Tribunale speciale, dell’Ovra e della MVSN.

E proprio per questo, conclude Bellosi, si può dire che «Tra la strage di Piazza Giulio Cesare del 1928 e quella di Piazza Fontana corre il legame tra il passato remoto e il futuro anteriore, in cui il futuro anteriore è il modello del passato remoto» (p. 212). Insomma per comprendere più a fondo la strage di Piazza Giulio Cesare è utile partire da quella di Piazza Fontana di quarant’anni dopo. A conferma di quell’idea che attraversa tutto il romanzo di Cecco Bellosi, per cui il fascismo – nato nel 1919, salito al potere e divenuto regime per oltre un ventennio, caduto per ben due volte nel 1943 e nel 1945 e sconfitto dalla Resistenza – in realtà ha continuato in modo carsico ad attraversare la storia e la vita della nostra società e del nostro Paese, costituendo un paradigma politico di cui forse non abbiamo ancora concluso di conoscere tutte le possibili nefaste declinazioni.

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