Piero Cavallero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

]]>
L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – 1 https://www.carmillaonline.com/2016/01/16/lestate-del-64-o-giu-di-li-e-oltre/ Fri, 15 Jan 2016 23:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27865 di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima [...]]]> di Sandro Moiso

Kriminal 4 [Il testo che segue è stato precedentemente pubblicato, in forma lievemente diversa e con altro titolo, sul numero 37 della rivista quadrimestrale «Zapruder. Storie in movimento. Rivista di storia della conflittualità sociale» (maggio-agosto 2015)*]

La precisione non è la verità” (Henri Matisse)

Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente.
La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace.

Lezioni delle controrivoluzioni aveva scritto anni prima della nostra presa di coscienza l’unico comunista italiano moderno, prima di cadere nel delirio della senescenza.
Lezioni dal disastro avremmo potuto scrivere noi, se ne fossimo stati capaci.
O ne avessimo avuto voglia. Ma fummo sempre e irrimediabilmente pigri.
O forse soltanto un po’snob. Poco attratti dall’intellighentsia e dai suoi rituali.
Preferivamo l’azione.

Ignoranti? Forse, oppure soltanto portatori di altre culture. All’epoca sovversive, oggi maleodoranti.
La riforma della scuola media unica, quella della legge n. 1859, entrata in vigore il 31 dicembre 1962, ci aveva aperto le porte della cultura superiore.
Uno dei miei più cari amici dice sempre che come figli di un operaio e di un benzinaio abbiamo fatto fin troppo. E forse ha ragione.

In casa non avevamo una ricca biblioteca. Anzi non ne avevamo proprio.
La mia fu la prima, ma mio padre portò a casa, con la prima fonovaligia, un 45 giri di Ray Charles e mia madre ci avrebbe ascoltato di tutto. Dal beat ad Orietta Berti.
Cosa avevamo da condividere con le classi alte? La licenza elementare di mio padre?
La terza elementare di mia madre? L’emigrazione in America dei miei nonni materni?

Cosa cazzo c’entravano quelli come noi con il liceo?
Erano gli anni del boom e delle belle speranze e i nostri genitori ci tenevano a farci fare il salto. Ma ci mancava l’allenamento e qualcuno, soltanto più tardi, riuscì solo a svendersi senza nemmeno troppa discrezione.
Quello sarebbe stato il nostro destino, già scritto nell’anagrafe sociale: rimanere invisibili oppure esagerare.

Comunque, com’è solito ripetere lo stesso amico, non ne azzeccammo mai una.
Almeno da un punto di vista borghese. Anche soltanto piccolo.
Non era nel nostro Dna. Le nostre catene elicoidali si avvolgevano intorno a secoli di timori reverenziali, di sopravvivenza e di rabbia contenuta.
Specie quando si discendeva da una famiglia di ebrei convertiti, come la mia.
Tutto ciò non avrebbe potuto far altro che condurre ad una vita di macerazione interiore.

kriminal 5 Oppure esplodere. E così fu.
Gli antenati polacchi in fuga dai pogrom, la fatica dei campi, il fratello del nonno e primo marito di mia nonna disperso sull’altipiano di Asiago, la delusione resistenziale dei padri sarebbero esplosi con noi. Con me. Dentro di me. Chissenefrega…fuoco!

Ognuno di noi ha sicuramente in mente un anno particolare della propria vita, legato a episodi, drammi o gioie che l’hanno in qualche modo cambiata.
Alcuni anni hanno poi assunto un valore simbolico particolarmente forte: il ’68, il ’77, il 1967 e l’estate dell’amore, il’63 e l’uccisione di Kennedy oppure il 1978 e il rapimento Moro e così via. Per me quell’anno è il ’64, ma non a causa del generale De Lorenzo e del suo “Piano Solo”.1

Nella primavera morì il mio nonno paterno e non avrei mai potuto immaginare quale libertà ciò mi avrebbe regalato. Non per la sua presenza o meno, non ci eravamo frequentati moltissimo, ma per la fine della sorveglianza stretta cui mia madre mi aveva sottoposto fin dalla mia prima infanzia.
Così, a undici anni compiuti, ZAC! recisi definitivamente il cordone ombelicale con cui lei avrebbe voluto tenermi legato, forse, per sempre.

Mio padre ereditò la casa di campagna in cui il nonno viveva e, nonostante qualche rogna con la madre e la sorellastra, figlia di un precedente matrimonio della nonna con il fratello disperso del nonno, da quel momento la vecchia casa colonica divenne la meta fissa delle vacanze estive e dei nostri week-end. Così oggi posso celebrare il cinquantenario della Liberazione. La mia.

Ora a ben pensarci, dopo che anche quella casa è stata venduta durante la lunga malattia che poi portò mio padre a ricongiungersi con il genitore, quel paese dell’astigiano e quelle verdi colline non potrebbero più costituire il luogo più eccitante del mondo per un adolescente di oggi.
E nemmeno per un adulto.

Ma…cazzo! Lì mi fu possibile sfuggire alla sorveglianza di mia madre fin dalla prima estate. Grazie anche al fatto che lei doveva sorvegliare i lavori dei muratori, chiamati per ristrutturare la grande cascina. Per esempio fare un bagno in casa, visto che fino alla morte del nonno l’unico gabinetto era stato un bugigattolo sospeso sopra il letamaio.
Tutto molto ecologico, tutto molto vintage.

Già, il ’64. Anno delle mie prime scorrerie e della scoperta del potenziale sovversivismo che tanti anni di cure materne avevano così inconsciamente coltivato. O meglio, esasperato.
Più tardi, dopo il’68, un amico di quelle prime scorrerie che non avrebbe poi potuto continuare gli studi per andare a lavorare in una boita, una piccola officina del quartiere più tradizionalmente operaio di Torino, avrebbe acquistato “La proprietà è un furto” di Proudhon.

Non so se lo avesse poi letto per intero, ma certo quel titolo era affascinante.
Per noi ladruncoli di campagna. Abili a rubare la frutta nel momento esatto della maturazione sugli alberi oppure nell’infilarci in antiche dimore o cascine semi-abbandonate in cui avremmo trovato di tutto. Dalle antiche sale ricoperte di polvere vampiresca alla polvere da sparo e i pallini con cui ci divertivamo a costruire rudimentali bombe da far esplodere su fuochi vicino a cui ci coricavamo per sentire fischiare sulle nostre teste, e in prossimità delle nostre orecchie, pezzi di latta e palle di piombo.

Primi atti di una ritualità maschile di passaggio verso un’età adulta di cui i servizi d’ordine dei gruppi extra-parlamentari sarebbero stati il necessario e, all’epoca, inevitabile corollario.
Testosterone a mille, sesso ancora vietato e solo immaginato e, allora, via in cerca di emozioni a buon mercato. Con due nemici: la proprietà e i carabinieri.
Sì, proprio loro che già ci cercavano.

Non che non avessimo fatto nulla per farci notare.
Ad esempio dirottare di sera il traffico dei camion sulla provinciale verso le stradine strette del paese, utilizzando la segnaletica rubata in un cantiere stradale.
Oppure improvvisare blocchi stradali notturni, ma allora non li chiamavamo così, spargendo la solita provinciale di centinaia di pagine di giornale accartocciate che, da lontano e alla luce dei fari, sembravano centinai di sassi accumulati o dispersi sull’asfalto.

Poi uno dice: Dove le avranno apprese le tecniche della guerriglia?
Nei diari del Che o nel manuale di Carlos Marighella?
Macchè, tutta roba cucinata in casa. Tra le verdi colline del Monferrato.
Insieme alle risse con le bande di ragazzini dei paesi vicini e, poco dopo, alle corse notturne a fari spenti su motorini smarmittati per sfuggire alla stradale e ai soliti, onnipresenti carabinieri.

Che ci tendevano agguati, persino nel centro del paese dove si appostavano a fari spenti sotto la chiesa, che si trovava in alto e da cui potevano vederci di sera senza essere visti.
Per poi piombare a tutta velocità giù per la ripida discesa appena qualcuno di noi accennava a u movimento sospetto. Finirono con l’aspettarmi direttamente sul portone di casa per potermi multare. Per la solita rumorosissima marmitta a tromboncino. Ma lì eravamo già a cavallo tra ’67 e ’68.

Kriminal 4bis Torniamo al ’64. Proprio nell’estate di quell’anno sarebbe uscito il primo numero di Kriminal.
Ideato da Luciano Secchi (in arte Max Bunker) e da Magnus (Roberto Raviola), il re del crimine fece fuori quella noia mortale rappresentata da Diabolik, le sue facce di gomma e la sua casta ed algida compagna Eva Kant. Gli altri fumetti erano già quasi del tutto scomparsi dalle nostre letture, ma Kriminal e Magnus ci avrebbero aperto altri orizzonti.

lolaOggi di sesso e sangue nella narrativa ne abbiamo fin troppo, ma allora la violenza dell’uomo dal teschio e la sensualità delle donne che lo circondavano, ora in funzione di vittime ora nel ruolo di amanti e collaboratrici, risultarono esplosive.

L’Italia era un paese bigotto dove, appeso all’interno delle porte delle chiese dei paesi di campagna, si poteva ancora trovare l’indice delle letture proibite. Praticamente tutte, tranne quei giornaletti che portavano stampigliata la sigla GM (Garanzia Morale) e i periodici ecclesiastici e vaticani.
Alla faccia del Concilio Vaticano secondo e del presunto ammodernamento promosso dal “papa buono”, Giovanni XXIII o vigesimo terzo come si diceva allora.

kriminal 2 Un anno prima anche Tex Willer aveva dovuto indossare, per adattarsi ai tempi e al mutamento dei gusti, i paramenti mortuari da scheletro che lo accompagnarono per alcune avventure. Ossa bianche su sfondo nero, classiche come le storie di Gianluigi Bonelli e Aurelio Galeppini.
Kriminal invece no: scheletro nero su una aderentissima tuta gialla. Gialla come i vietcong che da lì a poco sarebbero stati rappresentati in una delle sue storie mentre sparavano sui marines all’urlo di “Morte agli yankee e all’imperialismo americano!”.

Negli stessi anni alcuni giovani proletari della Barriera di Milano, quella in cui vivevo a Torino, sarebbero balzati nei titoli di testa di tutti i quotidiani. Più che con i western dovevano aver nutrito i loro sogni giovanili con i film di Cagney e Bogart. Poi la disillusione politica e la memoria recente della lotta armata partigiana fecero il resto. Sui muri di corso Giulio Cesare, la grande arteria della Barriera in direzione di Milano, c’erano ancora i segni dei colpi sparati dalle colonne tedesche in ritirata.

Anche Piero e Sante dovevano aver visto quei fori.
Avevo dieci anni quando iniziò l’avventura della loro congrega di fuorilegge proletari.
Era il 1963 e quello stesso anno, a Dallas, fu ucciso John Fitzgerald Kennedy.
Piansi per l’uno e mi appassionai agli audaci assalti di quella banda che non aveva ancora un nome ufficiale.Il circo mediatico televisivo iniziava allora a porre le sue basi e a trasmettere la morte in diretta.

Kriminal 3Più che le audaci rapine, iniziate con un assalto ad una sede del San Paolo a Torino e finite con quello ad una filiale del banco di Napoli a Milano, fu la cronaca in diretta della fuga e della sparatoria finale a destare l’attenzione del neo-pubblico radio-televisivo.
Ero seduto nel tinello di mia zia quando, otto giorni dopo gli spari e il sangue, fu dato l’annuncio della cattura di Piero e Sante presso il casello ferroviari abbandonato di Villabella.

Ma a colpire ancora di più l’immaginario collettivo di chi già non si rassegnava all’esistente furono le dichiarazioni fatte al processo che li condannò a pesantissime pene.
Il pugno alzato nel momento della condanna all’ergastolo e il canto anarchico all’uscita dall’aula giudiziaria, tra lo scandalo di magistrati e pubblico benpensante. Era il 1968, ma di luglio.

Diciassette rapine e un bottino che procurò ai componenti della banda uno stipendio medio di duecentomila lire al mese.
Poco, maledettamente poco per le conseguenze poi pagate.
Ma all’epoca lo stipendio di un operaio si aggirava sulle cinquantamila lire mensili.
Poche lire sudate nella paura dei capi, della disoccupazione, di non farcela ad arrivare a fine mese.

Loro no, rifiutarono quel tipo di paura.
Nei quattro anni e mezzo vissuti da fuorilegge la paura la lesse negli occhi degli altri. Anche dopo il loro arresto, tra quei piccoli borghesi imbestialiti che avrebbero voluto linciarli davanti alla questura di Milano.
Li chiamarono belve e massacratori, come sempre si fa con gli sconfitti.

kriminal_1 Ma ben poca cosa erano state le vittime dell’ultima, sospetta sparatoria rispetto a ciò che stava già avvenendo in Vietnam.
Il napalm non scuoteva le coscienze comuni, ma le rapine e il rifiuto dell’ordine basato sullo sfruttamento sì. Ieri ed ancora oggi. Così all’inizio degli anni settanta, a Torino, i comontisti diffusero un volantino intitolato Lotta criminale. Un altro cerchio era chiuso.

* Come precisa la Redazione della stessa rivista: “In questo numero di «Zapruder» proponiamo una riflessione storica sui processi di formazione della classe lavoratrice. Un tema indubbiamente “classico”, che proviamo tuttavia ad affrontare attraverso chiavi di lettura nuove. Per cominciare, suggeriamo una triplice espansione del campo della nostra ricerca: pensiamo ai lavoratori e alle lavoratrici non necessariamente come a dei salariati; sottolineiamo che il lavoro è anche altro rispetto all’attività manuale della produzione di merci; ribadiamo che i luoghi della produzione capitalista, come la fabbrica, non sono gli unici luoghi in cui cercare e indagare la classe. Parleremo di lavoratori e lavoratrici, e dunque di conflittualità sociale, migrazioni, territori, genere, etnia.
Allo stesso tempo, cercheremo di indagare il modo in cui le definizioni e le auto)percezioni della classe diventano parte integrante del processo di formazione – o non formazione – della classe
“.
– Indice:
http://storieinmovimento.org/2015/08/02/trentasettesimo-numero/ ))

(Fine della prima parte – continua)


  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Solo  

]]>
Per farla finita con il carcere https://www.carmillaonline.com/2015/10/23/per-farla-finita-con-il-carcere/ Thu, 22 Oct 2015 22:01:06 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26181 di Sandro Moiso

Liberare-tutti-dannati-della-terra-001 Liberare tutti i dannati della terra, prima edizione Lotta Continua 1972, ristampa 2015 reperibile presso le librerie di movimento, pp. 256, € 5,00

C’è stata una stagione fortunata in cui, parafrasando un romanzo americano di qualche anno fa, “ogni cosa era illuminata”.1 La coscienza di classe formatasi direttamente nell’esperienza delle lotte rendeva tutto più chiaro e non vi potevano essere fraintendimenti. Oggi, a quarant’anni di distanza, ricordarlo non è un’operazione di carattere nostalgico, ma un dovere. Un dovere militante, per ricordare alle generazioni più [...]]]> di Sandro Moiso

Liberare-tutti-dannati-della-terra-001 Liberare tutti i dannati della terra, prima edizione Lotta Continua 1972, ristampa 2015 reperibile presso le librerie di movimento, pp. 256, € 5,00

C’è stata una stagione fortunata in cui, parafrasando un romanzo americano di qualche anno fa, “ogni cosa era illuminata”.1 La coscienza di classe formatasi direttamente nell’esperienza delle lotte rendeva tutto più chiaro e non vi potevano essere fraintendimenti. Oggi, a quarant’anni di distanza, ricordarlo non è un’operazione di carattere nostalgico, ma un dovere. Un dovere militante, per ricordare alle generazioni più giovani che il diritto al sogno è strettamente intrecciato con le lotte che intendono abolire l’orrendo stato presente delle cose.

Questo libro, ristampato nel formato originale e con l’aggiunta di pochissime e brevi note introduttive da un gruppo di compagni che ancora si occupano di questioni carcerarie, è un frutto importante di quegli anni. Non per la sigla politica che allora lo accompagnò, ma perché costituiva il frutto di un lavoro diretto e politico sul carcere e nel carcere. Una raccolta di testimonianze dirette dall’interno dell’istituzione concentrazionaria per eccellenza. Come affermano i curatori: “non «un’inchiesta sul carcere» ma un rendiconto di un lavoro politico iniziatosi in modo sistematico nella primavera del ‘71”.

Nelle carceri italiane, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si erano andati incontrando i figli del proletariato e del sottoproletariato con i giovani studenti politicizzati che la repressione statale aveva accomunato. Molti dei secondi appartenevano alle file di Lotta Continua e, sotto un altro punto di vista, non importa se molti di loro, da lì a qualche anno, avrebbero radicalmente modificato la propria traiettoria politica. In quelle carceri erano però entrati nel frattempo lo spirito di rivolta e gli scioperi (inimmaginabili prima)che agitavano già le piazze, le fabbriche e le scuole.

Quell’esperienza contribuì a dar vita ad una Commissione carceri che, soprattutto a Napoli, avrebbe visto intersecarsi l’azione politica sul territorio e nei quartieri con quella sulle problematiche inerenti alla carcerazione e alle condizioni di vita dei detenuti. Spesso i soggetti coinvolti (proletari disoccupati, contrabbandieri di piccolo cabotaggio, sottoproletari che si mantenevano con i mille artifici che andavano dal mercato nero alla spaccata) transitavano con facilità da una condizione di libertà relativa a quella di detenuti.

In particolare, a partire dall’esperienza della mensa per i bambini proletari di Forcella, lì si sarebbe formato un nucleo di militanti che avrebbero poi dato vita, quando la leadership di Lotta Continua temendo di bruciarsi troppo le dita con gli zolfanelli della lotta di classe iniziò ad abbandonare le posizioni più intransigenti, alla prima esperienza di formazione armata destinata ad unire militanti provenienti dalla sinistra extraparlamentare con militanti di origine sottoproletaria formatisi nell’esperienza carceraria: i NAP, Nuclei Armati Proletari.2

Questa è una storia che, naturalmente, esula dalla recensione del testo in questione ma che, allo stesso tempo, sottolinea come produzione culturale, azione politica militante e riflessione teorica fossero all’epoca strettamente intrecciate e, spesso, a partire dal basso. Cosicché Marx non fu più soltanto un’icona da esporre sui tavolini da notte degli “intellettuali di sinistra” o da sbandierare per giustificare la propria estremistica inanità politica, ma un teorico attivo e vivente le cui parole, a più di un secolo di distanza animavano ancora le scelte di chi aveva provato sulla propria pelle la qualità dell’ordine e della legge borghese. Marx tornava così ad essere un’arma proprio nelle mani degli ultimi tra i reietti: i proletari detenuti.

Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un prete prediche, un professore manuali. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme di questa società, ci si ravvede di tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale e con ciò produce anche il professore che tiene lezioni sul diritto criminale e inoltre l’inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto «merce» sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale […] Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc. e tutte queste differenti branche di attività che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano bisogni nuovi e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale, sia tragica, a seconda dei casi e rende così un «servizio» al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e persino tragedie […] Egli sprona così le forze produttive”. (Karl Marx, Teorie del plusvalore, cit . a pag 5)

Un Marx sarcastico, impietoso, anti-romantico e provocatorio che sembra anticipare la critica situazionista del reale. Un Marx che rileva come crimine e capitale siano indissolubilmente intrecciati. Un Marx che, poche righe più sotto (non citate nel testo) avrebbe aggiunto: ”E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale?” Tema che viene ripreso nel testo, decisamente orientato a sostenere come la delinquenza sia una componente essenziale del capitalismo. “Più un paese capitalistico è sviluppato ( e per paesi capitalistici intendiamo anche paesi come l’Unione Sovietica o la Polonia, perché lì c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo come da noi), più la criminalità aumenta e le galere si riempiono. Infatti, negli Stati Uniti, la «criminalità» almeno a giudicare da quanto sono piene le prigioni, è la più alta del mondo. Perché la «criminalità», quella per cui si finisce in galera, è il frutto della miseria, dello sfruttamento, dell’oppressione e cioè del capitalismo” (pag. 9)

La criminalità per cui si finisce in galera” sì, perché il libro, che si definisce come “un libro scritto dal proletariato”, non dimentica di sottolineare come i crimini del capitalismo, degli imprenditori, dei faccendieri, dei politici corrotti e dei servi dello Stato non siano mai puniti. Tanto meno con il carcere. Ma “i padroni si servono della delinquenza: additando al disprezzo delle masse, servendosi dei loro giornali, i poveracci, i manovali del furto, quegli sbandati che con la loro dottrina hanno instradato al crimine. Si rifanno così una verginità e abituano la gente a pensare che le uniche rapine, furti, omicidi sono quelli fatti da questi disperati «pistola in pugno» e no quelli che ogni giorno commettono con lo sfruttamento. Preparano l’opinione pubblica alla polizia che spara e uccide, condannando a morte senza processo, dietro il comodo paravento della «difesa della tranquillità dei cittadini»” (pag. 9)

L’attualità del testo è impressionante, soprattutto in un’Europa in cui le politiche securitarie e il giustizialismo populista sembrano essere le caratteristiche comuni sia dei governi che dei cosiddetti movimenti politici d’opposizione, dai 5 Stelle alla Lega. Così come sono ancora d’attualità i testi scritti nel e dal carcere da decine di militanti (tra i quali vanno segnalati Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Piero Cavallero e Martino Zichitella) che ne sottolineano la brutalità, le torture, il disprezzo dei diritti più elementari che avvengono tra le sue mura, anche là dove sono presenti direttori che si ritengono “illuminati”. Richiedendone così, più che una riforma sempre a sua volta rivedibile come ben dimostrano l’istituzione del carcere speciale e l’introduzione del 41 bis, l’abolizione definitiva insieme alla società che l’ha prodotto.3

Rendendo così possibile cogliere come il carcere possa costituire non solo un importante laboratorio per lo sviluppo di sempre più distruttivi metodi repressivi, ma anche uno straordinario e «privilegiato» osservatorio, una sorta di mondo rimesso sui piedi, da cui osservare la realtà ultima ed intima dei rapporti di classe. Proprio per questi motivi, in un paese in cui le forze del dis/ordine possono impunemente uccidere, sparare, torturare e picchiare e i suicidi tra i detenuti sono stati 32 dall’inizio dell’anno a fine agosto, la riproposizione di un testo come questo, senza bisogno di alcun aggiornamento, può avere ancora un effetto estremamente dirompente.


  1. Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda 2004  

  2. E’ possibile ripercorrere la storia dei NAP attraverso i testi di Rossella Ferrigno, Nuclei Armati Proletari. Carceri, protesta, lotta armata, La città del sole, Napoli 2008 e di Valerio Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2010  

  3. A questo proposito consiglierei la lettura di due importantissimi testi di storia dell’istituzione carceraria: Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario, Mondadori 1982 e Dario Melossi e Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI –XIX secolo), Quaderni della rivista “La questione criminale”, Società editrice il Mulino 1977. Meno filosofici e meno conosciuti del più famoso Sorvegliare e punire di Michel Foucault.  

]]>