Piazza Statuto – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 5 https://www.carmillaonline.com/2023/08/27/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-5/ Sun, 27 Aug 2023 20:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77123 di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella [...]]]> di Emilio Quadrelli

It’s Only Rock ‘n’ Roll

Se osserviamo ciò che accade tra la fine degli anni cinquanta e primi sessanta diventa abbastanza facile notare come la società italiana sia di fronte a una trasformazione socio–economica quanto mai radicale che inizia a lasciarsi alle spalle tutto ciò che, in qualche modo, può considerarsi come eredità della guerra e di ciò che l’ha preceduta. Una rottura non tanto politica, nel senso che le retoriche che avevano fatto da sfondo all’insieme di quella vicenda continuano a essere saldamente in sella, ma nella materialità della formazione economica e sociale. Sono gli anni in cui il modello fordista inizia a farsi egemone anche in Italia, con tutto ciò che questo comporta, in primis il radicale mutamento della composizione di classe. Sono anni in cui la vecchia classe operaia professionale e autoctona viene scalzata da una nuova figura: l’operaio dequalificato della catena, un operaio che non ha alle spalle alcuna tradizione industriale e sovente neppure cittadina poiché viene reclutato o dalle campagne e in maggioranza dal sud Italia. In seconda battuta un’altra figura operaia nuova entra massicciamente nella produzione: la donna proletaria. In maniera abbastanza repentina l’intera, o gran parte, della composizione di classe conosce una configurazione ex novo.

Si tratta di una classe operaia senza o quasi memoria che in non pochi casi si troverà in conflitto, ancora prima che con i padroni, con la vecchia composizione di classe e che, per altro verso, è del tutto estranea a quella “ideologia della sconfitta” propria della vecchia classe operaia che la restaurazione capitalista ha annichilito. Il nord industriale inizia a popolarsi di terroni e/o campagnoli del tutto estranei ai tempi, ai ritmi e agli stili di vita della città–fabbrica che la maggior parte di loro tende a percepire né più e né meno come una prigione1. Una classe operaia depoliticizzata e non sindacalizzata nei confronti della quale il padrone sembra in grado di esercitare un dominio non dissimile da quello che il fattore è in grado di nutrire nei confronti del proprio bestiame. E come bestie i nuovi operai sono trattati e considerati. Sono anni in cui il padrone libera facilmente la fabbrica della vecchia guardia comunista e riesce a confinare l’organizzazione sindacale entro numeri testimoniali2. Perché il boom economico possa continuare a crescere occorre una classe operaia totalmente succube e pronta a reggere, senza fiatare, i necessari ritmi produttivi.

Il mutamento della base produttiva si porta appresso, per altro verso, anche una trasformazione complessiva della società. Sono gli anni in cui si impone il mito americano che avrà però due volti: da una parte sicuramente il tratto reazionario e perbenista del sogno americano, del quale le immagini della famiglia americana, bianca, razzista, patriottica, patriarcale e sessista, rappresenta la sintesi per antonomasia, dall’altra, però, si porta appresso anche tutta l’inquietudine, l’insofferenza, la rabbia e il nichilismo di cui l’altra America è gravida3.

Questo mito si impossessa velocemente della gioventù operaia e impone una drastica trasformazione degli stili di vita, delle culture subalterne e della socialità operaia; si traduce in una ricerca di libertà e di rottura verso tutti i modelli normativi: Bluson noir e Teddy boys diventano immaginari che catturano velocemente la gioventù operaia, gioventù che inizia a essere sempre più fuori controllo in quanto equamente distante e avversa sia alle retoriche della società ufficiale perbenista e clericale, sia al mito soviettista tutto incentrato su un sol dell’avvenire del quale non si intravedono mai i contorni. Ciò che esploderà nel ’68, lasciando attoniti pressoché tutti i mondi politici, ha i suoi prodromi proprio nel mutamento materiale che attraversa l’intera formazione economica e sociale. La borghesia non lo capirà, ma non lo comprenderà neppure il movimento operaio ufficiale il quale, già da tempo, aveva perso contatto con quanto andava ribollendo nella classe. Il cosiddetto boom economico e il consumismo di massa accelerano, se possibile, le contraddizioni della società capitalista. L’alienazione della merce è anche il gemito degli oppressi. Di fronte alla ricchezza e all’opulenza che la società mostra, la giovane classe operaia non vuole rimanerne esclusa. Più soldi, meno lavoro significa aumento del tempo libero, significa impossessarsi, qui e ora, di una quota di ricchezza.

La battaglia salariale, allora, diventa battaglia di potere, diventa battaglia contro la fabbrica–prigione, diventa una battaglia di libertà, diventa forma non più eludibile degli embrioni del potere operaio. Mentre il movimento operaio ufficiale e le varie anime della ortodossia comunista vedono in queste lotte solamente un economicismo privo di coscienza politica, l’autonomia operaia coglie il tratto immediatamente politico che, invece, si staglia in queste lotte. Più soldi e meno lavoro, rifiuto del lavoro, sabotaggio della produzione hanno ben poco di economicista, ma si mostrano immediatamente come scontro di potere, come terreno tutto politico, ciò che per il movimento operaio ufficiale e i suoi critici ortodossi è sintomo di arretratezza e mancanza di coscienza politica per l’autonomia operaia il giudizio è esattamente l’opposto: quei comportamenti, quella disaffezione al lavoro e alla disciplina di fabbrica, quel percepire la gabbia produttiva al pari della prigione, quel ribellarsi in modo non convenzionale ai tempi della fabbrica e ai ritmi della città–fabbrica, insomma quella soggettività, non incarnano l’arretratezza di una classe operaia priva di storia politica ma, al contrario, sintetizzano al meglio il più alto punto di vista politico operaio. Se la base strutturale di una società si è radicalmente trasformata, anche la cornice politica non può che esserne sovvertita, non si possono cercare nel presente le retoriche politiche del passato ma occorre cogliere, attraverso una puntigliosa inchiesta, la dimensione politica messa in campo da una nuova soggettività.

Ciò che spontaneamente interi comparti di classe pongono, attraverso la prassi, all’ordine del giorno è il negarsi come forza lavoro salariata ovvero l’abolizione della condizione proletaria la quale sintetizza al meglio lo stato di alienazione proprio del rapporto sociale capitalista. Ma in ciò non vi è forse per intero tutto Marx? Questa pratica non è forse molto più avanti e radicale di quanto andato in scena nel mitico biennio rosso con l’occupazione delle fabbriche e l’infelice obiettivo del controllo operaio? La nuova composizione di classe non sta forse facendo interamente sua la marxiana Critica al programma di Gotha4, che aveva velocemente posto tra parentesi tutta la retorica produttivista del movimento operaio ufficiale? La lotta operaia è immediatamente lotta per il potere, lotta contro il rapporto sociale capitalistico e quindi il padrone dovrà velocemente rendersi conto che con questa classe operaia non si può trattare ma sconfiggerla o esserne annientati.

Non c’è più tempo per l’attesa dell’avvenire e il sole deve iniziare a splendere sin da subito. Esattamente qui inizia a prendere forma quel “Vogliamo tutto”5, non poi così distante da quel Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora urlato dai Doors6, che scandalizzerà padroni, partiti e sindacati. Tutto ciò, però, andava compreso e concettualizzato. Doveva esistere un ordine discorsivo che imponesse politicamente le lotte operaie e la loro centralità al centro del dibattito. Doveva esistere una teoria politica in grado di non imprigionare le lotte dentro la rivolta ma indirizzarle verso la rivoluzione.

È una rivolta o una rivoluzione? Questa la domanda che le classi dominanti si pongono ogni qual volta un’insorgenza di massa bussa alle loro porte. Ci dobbiamo attendere una serie di jacquerie o qualcosa di più? La storia delle classi subalterne è una serie infinita di jacquerie che per farsi spettro rivoluzionario, insieme ai fucili, devono avere, come ben aveva compreso Schmitt a proposito di Lenin, una solida arma teorica7.

La teoria rivoluzionaria non è un insieme di salmi, come pensano gli ortodossi, ma la permanente rielaborazione eretica di un’ipotesi politica in grado di leggere i comportamenti e le tendenze delle masse. La teoria non si inventa nulla ma raccoglie e sintetizza quanto posto all’ordine del giorno, anche solo come tendenza, dalla lotta di massa. Senza di ciò la teoria rivoluzionaria è solo il balocco di intellettuali più o meno spensierati.

Agli inizi degli anni sessanta la tendenza di quote sempre più ampie di classe operaia si fa quanto mai evidente ed è lì che, nel bene e nel male, prende forma una teoria politica che si farà egemone per circa un ventennio. Tutto parte sicuramente dalle masse e dalle loro lotte, sono le masse che producono la frattura di piazza Statuto, solo per ricordare il fatto di maggior spessore dell’epoca, ma se queste pratiche non avessero trovato un cuore politico–intellettuale ben difficilmente sarebbero state in grado di far sì che l’idra della rivoluzione diventasse la costante degli anni sessanta e settanta di questo paese. In tale ottica, allora, non bisogna compiere, seppur di segno opposto, l’errore che in molti fanno oggi quando circoscrivono a questa o quella rivista, a questo o quel testo, a tal intellettuale piuttosto che a un altro, le vicende dell’autonomia operaia. Se è vero che non sono state le riviste a fare l’autonomia operaia, dobbiamo anche chiederci cosa sarebbe stata questa senza il loro contributo teorico e analitico e come si sarebbe sviluppata senza il contributo di tutta una quota di militanti che assunsero le lotte operaie come centro della propria esistenza.

Tutti concordano sul fatto che la centralità operaia sia stata l’elemento politico egemone nel corso degli anni sessanta e settanta. Questa egemonia non è nata dal cielo e non è neppure il frutto spontaneo delle lotte. Perché un ordine discorsivo diventi egemone e dominante occorre che una produzione teorica lo ponga al centro dell’attenzione, che un ceto politico lavori costantemente alla sua messa in forma e che imponga la centralità operaia come il discorso intorno al quale si focalizza tutto il dibattito politico. Occorre, cioè, che quanto la prassi della classe sta ponendo all’ordine del giorno trovi una sistematizzazione teorica, politica e non solo, bisogna che la forza di questo discorso sia tale da divenire il discorso intorno al quale tutto il resto finisce in secondo piano.

Questo, a conti fatti, il grande merito che va riconosciuto a quella pattuglia di intellettuali che hanno fatto sì che le lotte operaie e la soggettività della classe divenisse l’elemento centrale dell’agenda politica del paese. In questo senso, allora, senza estremizzare il discorso dobbiamo ricondurre la relazione ceto politico–intellettuale/classe operaia all’interno della obbligata e necessaria dialettica prassi–teoria. Se, obiettivamente, oggi ci troviamo di fronte a una narrazione tossica della storia dell’autonomia operaia, più che abiurare il ruolo svolto da un ceto politico–intellettuale dobbiamo prendere le distanze da quelle pletore di epigoni che sono i veri e propri artefici di una mistificazione storica. Con tale asserzione si spera di aver chiarito ulteriormente il senso di questo lavoro il quale, sin da subito, ha cercato di non farsi imbrigliare in logiche da stadio. Ciò che segue prova a rafforzare quanto appena asserito mostrando come solo dentro la dialettica prassi–teoria la potenza spontanea del potere operaio possa farsi programma comunista. Torniamo quindi alla classe, alla sua soggettività e a ciò che intorno a questo si struttura come discorso teorico–politico.

Di quanto irto di ostacoli fosse il piano del capitale e quanto non così malleabile si presentasse il nuovo soggetto operaio, la piazza Statuto del ’62 ne forniva una più che eloquente esemplificazione anche se avvisaglie non secondarie di che cosa ribollisse entro la classe si erano viste, e in maniera non proprio irrilevante, nel giugno genovese del ’60 e nei moti nazionali che da qui avevano preso il la. Genova ’60 e Torino ’62 rappresentano sicuramente due pietre miliari della storia di ciò che è stato l’altro movimento operaio, due momenti che, però, non vanno confusi e che, non per caso, daranno vita a narrazioni e recezioni diverse. Il giugno/luglio genovese sono entrati di diritto nella storia italiana anche se, con un qualche grano di verità, erano ancora dentro a quell’insieme di retoriche che avevano fatto da sfondo alla Resistenza. Quegli eventi, pur con ovvie sfumature diverse, sono diventati un patrimonio di tutto il fronte antifascista. Genova rappresenta, al contempo, il tramonto della vecchia composizione di classe e l’alba di quella nuova dove, però, sarà il vecchio ad assumerne la narrazione centrale. Genova è l’antifascismo militante e radicale sullo sfondo del quale si staglia il mitologema della Resistenza tradita, per farla breve Secchia contro Togliatti8. Una narrazione che si protrarrà fino ai primi anni settanta, che risulterà ben poco interessata alle trasformazioni della composizione di classe e che, nei confronti di questa, avrà un rapporto del tutto ideologico. La nuova composizione di classe, all’interno degli eventi genovesi, non solo fu presente ed ebbe un ruolo centrale, ma non riuscì, purtroppo a trovare un linguaggio politico proprio. A Genova ci fu sicuramente una voce autonoma ma non un linguaggio.

L’eredità di Genova rimase confinata dentro la retorica dell’antifascismo militante e radicale senza alcun accento, se non in maniera molto annacquata, all’anticapitalismo. Ancora oggi gli eredi del movimento operaio ufficiale si sentono in dovere di santificare quelle giornate cosa che, per altro verso, li accomuna alle aree più radicali le quali rimproverano ai primi non tanto di non essere anticapitalisti, ma degli antifascisti troppo morbidi. Dichiaratamente diverso lo scenario relativo a piazza Statuto, qui la posta in gioco è diametralmente opposta: a entrare in ballo è direttamente la lotta contro l’organizzazione capitalistica del lavoro, il ruolo dei sindacati e il comando di fabbrica, una critica che inevitabilmente non può che portare a uno scontro immediato con lo stato e il riformismo. Da lì prende forma qualcosa di più di una semplice suggestione. Difficile, infatti, non riscontrare che è proprio dentro la materialità dei fatti che piazza Statuto porta in grembo, prende le mosse quello: “Stato e padrone fate attenzione, nasce il partito dell’insurrezione!” che sino alla fine degli anni settanta ha dato vita, forma e sostanza alla anomalia italiana.

L’irrompere di queste lotte è un fatto non discutibile e l’autonomia degli operai qualcosa che non può essere posta minimamente in discussione. Ciò che viene da chiedersi è: queste lotte avrebbero avuto la medesima incidenza se non avessero trovato qualcosa di più di una semplice sponda all’interno di quel ceto politico fatto prevalentemente di intellettuali militanti che iniziò a rapportarsi e a assumere quelle lotte come cuore del politico? Senza un ordine discorsivo pregresso, incentrato sulla centralità operaia, la potenza di quelle lotte avrebbe potuto darsi con la stessa forza? Qui non si tratta di prostrarsi alla gerarchia intellettuali/operai ma di rilevare come in quel contesto un ceto politico e intellettuale sia stato in grado di rileggere il Che fare?, dentro ciò che la materialità dello scontro imponeva, di più. Per molti versi si può anche sostenere che agli inizi degli anni sessanta assistiamo a un insieme di operazioni le quali, con tutte le tare del caso, hanno non poco in comune con Lo sviluppo del capitalismo in Russia9, lavoro attraverso il quale Lenin saluta il mondo di ieri e traghetta l’avanguardia operaia e comunista dentro la contemporaneità. Una esagerazione? Non proprio.

Oggi tutti concordano nell’indicare gli anni sessanta come un momento di cambiamento radicale della struttura economica, sociale e culturale del sistema–Italia. In poche parole ciò che si profila è una vera e propria frattura storica tanto che, senza alcuna forzatura, è sensato asserire che nulla sarà più come prima. Questa rottura, per il movimento operaio, le classi subalterne e il movimento comunista implica una cesura con l’insieme dei modelli teorici, politici e organizzativi che l’hanno preceduto. Esattamente lì, anche in Italia, muore di morte naturale tutto ciò che in qualche modo è riconducibile al terzo internazionalismo. Non vi sarà, nonostante i numerosi tentativi, alcuna restaurazione del marxismo ortodosso, alcun ritorno alle origini della Terza internazionale, ma una continua innovazione teorica, politica e organizzativa figlia di quanto le trasformazioni materiali stavano imponendo. Nulla, però, si dà come prodotto spontaneo, dove spontaneo significa semplice trasformazione evoluzionista. Certo le rotture sono frutto di processi materiali, sono sicuramente oggettive ma devono essere comprese, concettualizzate e appropriarsi di un linguaggio. In questo senso, allora, il raffronto con Lo sviluppo del capitalismo in Russia diventa meno illogico e forzato di quanto in prima battuta potesse apparire.

Lenin, di fronte alle trasformazioni che hanno investito alla radice la Russia concentra l’attenzione su come queste abbiano modificato le classi, come tutto un mondo se ne stia andando e coglie la tendenza che non potrà che farsi egemone. La Russia ha intrapreso la via dello sviluppo capitalistico questo sta sovvertendo tutti gli ambiti sociali, la formazione della classe operaia industriale insieme alla proletarizzazione delle masse contadine sono il qui e ora della Russia. Dalle lotte, dalle tensioni, dalla soggettività di queste nuove figure dipende il destino della rivoluzione in Russia.

Vi è molto di sociologico nell’operazione compiuta da Lenin, un sociologico che può vantare, all’interno della teoria marxiana, alcuni non secondari pregressi: sicuramente il noto La situazione della classe operaia in Inghilterra10, ma anche le parti relative alla formazione della classe operaia presenti soprattutto nel libro primo de Il capitale. Di fronte alle trasformazioni che stanno segnando un’epoca, Lenin non si limita a cogliere il punto di vista oggettivo del capitale ma, una volta stabilite le coordinate materiali, focalizza lo sguardo e l’interesse sulla soggettività di classe. Sarà proprio questo a distinguerlo e a renderlo incompatibile con il marxismo legale. Mentre questo si limita a osservare e a scrivere la storia come movimento del capitale ignorando del tutto la soggettività delle masse, Lenin rovescia esattamente l’ordine del discorso. Ciò che va colto dentro la trasformazione, e oltre la trasformazione, sono i comportamenti delle masse, ciò che va compreso e posto all’ordine del giorno non è il solo tumultuoso sviluppo delle forze produttive, ma l’insieme delle contraddizioni che detto sviluppo comporta. Mentre il marxismo legale considera lo sviluppo delle forze produttive la sola cosa essenziale, Lenin sposta l’attenzione sulle forme che le lotte assumeranno dentro lo sviluppo delle forze produttive e su come queste non potranno che mandare in archivio la pur gloriosa storia del vecchio movimento rivoluzionario incarnato dalle varie anime del populismo. Le lotte, quindi, non lo sviluppo delle forze produttive, la storia della soggettività operaie e subalterna e non la storia oggettiva dello sviluppo capitalistico questo il cuore della teoria politica leniniana. Di tutto ciò, nella ricezione che si avrà di Lenin in occidente con la sola eccezione di qualche eretico, resterà ben poca traccia tanto che, tutto l’oggettivismo proprio della Seconda internazionale, cacciato dalla porta rientrerà dalle accoglienti finestre che il movimento operaio ufficiale non si farà remore a spalancargli. Con ciò il movimento operaio ufficiale prenderà sempre più sembianze simili al marxismo legale che al bolscevismo.

Paradigmatico, a tal proposito, sarà il modo in cui questo marxismo, sotto tutte le sue vesti, liquiderà in maniera tranchant, come osservato in precedenza, il populismo e il rapporto di Lenin e dei bolscevichi con questo mentre enfatizzerà sino all’inverosimile le vicende relative alla fase del marxismo legale. Ma ritorniamo a quanto stavamo dicendo. Abbiamo tirato a mezzo Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia e il Che fare?, perché agli inizi degli anni sessanta non pochi indicatori ci conducono lì. In prima battuta si tratta di rileggere o ancor meglio ritradurre il Che fare? all’interno del nuovo scenario. Si tratta di comprendere cosa sia il partito dell’insurrezione o, per altro verso e con più precisione, quale deve essere la forma e la relazione tra partito storico e partito formale. Il partito storico è la soggettività di classe, il partito formale è la forma politica all’interno della quale la soggettività si incarna. Questa relazione non può essere che il frutto di uno scenario storicamente determinato e non il frutto di singole volontà. Questo, e solo questo, è il determinismo leniniano e questo determinismo obbliga il partito formale a una costante mutazione. Non è certo un caso, quindi, che la questione dell’organizzazione animi costantemente le pagine del giornale “La classe” e lo fa non certo per un’ansia organizzativista, ma perché ciò che va sciolto, di fronte all’incalzare delle lotte, è la strutturazione del partito formale. Qui si tratta di ritradurre Lenin per intero, di comprendere complessivamente il punto di vista operaio e di fornirgli solide gambe sulle quali marciare. Detto ciò entriamo nel vivo della questione.

(5continua)


  1. Una delle migliori descrizioni di ciò rimane il lavoro di F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del miracolo, Donzelli, Roma 2010.  

  2. Su questo il bel lavoro di A. Accornero, Fiat confino, Edizioni Avanti, Milano 1959.  

  3. Cfr. A. Portelli, Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Manifesto libri, Roma 1992.  

  4. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 2021.  

  5. N. Balestrini, Vogliamo tutto!, Feltrinelli, Milano 1971.  

  6. Doors, When the music’s over (ottobre 1967- involontaria celebrazione di una rivoluzione di cinquant’anni prima).  

  7. C. Schmitt, Teoria del partigiano, cit.  

  8. Cfr. P. Secchia, La resistenza accusa 1945–1973, Mazzotta, Milano 1973.  

  9. V. I. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Editori Riuniti, Roma 1972.  

  10. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Feltrinelli, Milano 2021.  

]]>
LUDD ovvero dell’insurrezione permanente https://www.carmillaonline.com/2018/07/26/ludd-ovvero-dellinsurrezione-permanente/ Wed, 25 Jul 2018 22:01:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47303 di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta [...]]]> di Sandro Moiso

La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00

In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.

Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.

I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2

Se, però, l’esperienza dell’Internazionale Situazionista è stata in qualche modo parzialmente digerita dal sistema mediatico e politico attuale, ben diversamente potrà avvenire per una produzione testuale e, lo ripeto ancora una volta, per una pratica militante che fin dagli esordi furono tacciate sia dal PCI che dai gruppuscoli nati alla sua sinistra (in primis l’orrido Movimento Studentesco di Mario Capanna) come provocatorie, irresponsabili e, in alcuni casi, “fasciste”.

Anche se l’opera non intende affatto costituire una celebrazione di pratiche e militanti come Giorgio Cesarano, Riccardo D’Este, Eddie Ginosa, Gianfranco Faina, Mario Perniola e molti altri ancora, senza dimenticare la vicinanza con Danilo Montaldi, poiché come afferma Paolo Ranieri nella sua introduzione:

“E’ ora, infatti, di dire basta alla moltiplicazione incessante e interessata di manifestazioni “in memoria”. Come il Primo Maggio […] ideato per essere l’appuntamento annuale con quel vagheggiato sciopero generale che spostava la presenza potenziale dell’insurrezione possibile insieme con l’assenza di rivoluzione attuale: da quando, con l’iterazione e la corrosione del tempo passato e il sequestro della produzione di memoria da parte delle istituzioni, ci si è scordati di questo, si è definitivamente degradato in una sorta di Pentecoste, rito lagnoso di una neo-religione per schiavi, aspiranti schiavi e liberti, meritevole di essere fuggito come la peste […] E lo stesso si può affermare senza esitazioni per il 25 aprile, il 12 dicembre, il 14 luglio […] ciascuno con le precise specificità che gli valgono un posto in questo martirologio della laica religione della disfatta, celebrata senza posa e senza vergogna dai voltagabbana incartapecoriti dalla nostalgia e dai militanti del conformismo”.3

Come si può ben comprendere fin da queste poche righe, che danno la cifra esatta del discorso anti-retorico e di rottura che la critica radicale italiana ha portato avanti fin dai suoi albori, non vi è possibilità di mediazione, di reciproco seppur parziale coinvolgimento e neppure di pace armata tra una miserabile concezione della politica di “sinistra” che ha fatto della sconfitta e della collaborazione di classe la sua terra d’adozione ed una visione che dell’iniziativa rivoluzionaria ed insurrezionale dal basso, proletaria e giovanile, ha fatto la sua ragione di esistere.

Continua, anzi anticipa, poi ancora Ranieri:

“Non possiamo nascondere a noi stessi che operazioni-memoria come la presente – intese a isolare una vicenda del passato raccogliendone i documenti in un’edizione che, elaborata dai superstiti stessi, aspira a mostrarsi critica, completa, definitiva, TOMBALE – rappresentano uno dei mille espedienti che l’universo delle merci adotta per frenare la propria inarrestabile entropia”.4

Sì, perché è proprio l’universo mercantile, con la rapida diffusione della sua capacità di affascinare e addomesticare l’immaginario proletario e sociale, l’altro obiettivo della critica radicale che, però, non intende semplicemente destrutturarne le basi e i principi ma, molto più semplicemente, distruggerlo insieme ai rapporti sociali e di produzione che lo alimentano. La necessità potrebbe rivelarsi essere proprio quella, già enunciata da De Sade, che l’insurrezione debba costituire la condizione permanente di ogni repubblica.

La sintetica ricostruzione storica della formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari fatta da Leonardo Lippolis permette al lettore-militante di riscoprire le origini di tali formulazioni ed ipotesi non solo a partire dalle occupazioni studentesche delle Facoltà universitarie fin dal 1967, che impressero una spinta decisiva in quella direzione, ma fin dalle insurrezioni operaie e proletarie di Berlino Est nel 1953, dell’Ungheria nel 1956 e nelle rivolte italiane del luglio del 1960 e di Piazza Statuto nel 1962 a Torino.

Insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava però sempre il fatto di come l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.

Anche se proprio la scelta del nome del gruppo di cui sono raccolti principalmente i materiali in questo primo volume, LUDD, rinvia ad esperienze precedenti ed egualmente radicali. E’ proprio sulla tracci dell’interpretazione data dallo storico inglese Edward P. Thompson, nella sua opera più importante,5 del luddismo che si forma la convinzione che la rivolta spontanea del lavoratori delle campagne inglesi contro l’introduzione delle macchine fosse tutt’altro che una forma primitiva, arretrata e tutto sommato conservatrice di lotta di classe. Negando così un’interpretazione “progressista” del capitalismo che nelle sue conseguenze ha finito col trasformare i partiti “socialisti” o “comunisti” che la sostenevano in strumenti di conservazione politica, economica e sociale. Insomma i proletari inglesi dell’epoca delle guerre napoleoniche erano già più avanti di coloro, ad esempio i cartisti, che si sarebbero poi fatti loro portavoce e rappresentanti come tutta la deriva tradunionista, socialdemocratica e infine stalinista che ne sarebbe poi conseguita.

E’ proprio per questo motivo che i fondatori del movimento andarono progressivamente allontanandosi da quella componente operaistica di cui avevano inizialmente condiviso una parte del cammino. E che contribuì ad allontanare alcuni di loro anche da Raniero Panzieri che, proprio a proposito della rivolta di Piazza Statuto, in un primo momento aveva commentato la giovanile rivolta operaia come “quattro meridionali che tirano le pietre”. Questa memoria, contenuta nella ricostruzione di Lippolis, mi fa ha fatto tornare in mente che fu proprio in occasione di quella rivolta, e degli atteggiamenti assunti nei suoi confronti da Pajetta e dal PCI, che due proletari come Sante Notarnicola e Giuseppe Cavallero decisero di stracciare la tessera del Partito. Mentre esponenti dell’operaismo come Antonio Negri e Mario Tronti decidevano in quegli stessi anni di praticare una forma di entrismo nello stesso. Come dire che l’istinto proletario batte la riflessione filosofica 1 a 0.

“La Lega operai-studenti, che rivendicava l’eredità dei Consigli operai, insisteva invece sulla necessità di trovare nuovi canali di insubordinazione, non necessariamente legati alla fabbrica, rigettando l’impostazione gerarchica e centralizzatrice leninista. La Lega operai-studenti negava ogni valore alla lotta rivendicativa di natura economica a scapito di una critica radicale del lavoro salariato, bollato come inumano e assurdo […] «La critica rivoluzionaria – recita il significativo passaggio di un manifesto del gruppo – deve interessarsi di tutti gli aspetti della vita. Denunciare la disintegrazione delle comunità, la disumanizzazione dei rapporti umani, il contenuto e i metodi dell’educazione capitalistica, la mostruosità delle città moderne» (I 14 punti della Lega degli operai e degli studenti)”.6

I documenti riportati in più di trecento pagine sono innumerevoli ed interessanti: dai testi prodotti dalla Lega degli operai e degli studenti che si andò formando nella cerchia di militanti del Circolo Rosa Luxemburg a quelli prodotti dal Comitato d’azione di Lettere fino ai tre bollettini prodotti da LUDD e all’Appello al proletariato infantile contro l’infantilismo borghese passando per il testo di critica ai gruppuscoli scritto da Jean Barrot: Sull’ideologia ultrasinsitra.

Non costituiscono però tutto il materiale raccolto nel sito Nel Vento, nato a partire da un progetto contenuto nel preambolo a Psicopatologia del non vissuto quotidiano di Piero Coppo nel settembre del 2006. In cui si affermava:

“Dalla metà degli anni ’60 si è sviluppato in Italia un movimento che, sotto diversi nomi e sfumature differenti, ha condotto una battaglia teorico-pratica per l’affermazione di una rivoluzione che, nella propria concezione, non poteva che avere come base la critica della vita quotidiana. Precursori dei tempi, questi gruppi inquadrarono la questione della rivoluzione in termini anti-ideologici fuori e contro il militantismo caratteristico di quegli anni e del decennio successivo.
Le donne e gli uomini che si unirono in questi gruppi sono stati i primi e gli unici a porre come criterio, per cogliere il senso di un vissuto rivoluzionario diversi concetti che oggi sembrano evidenti […] Il Progetto Critica Radicale è di raccogliere e pubblicare i materiali prodotti dai gruppi e dagli individui che si sono riconosciuti in quelle idee”.

Idee, non dimentichiamolo mai, che non si espressero in spazi angusti o in eburnee ed intellettualistiche torri, ma sempre direttamente sul fronte del cambiamento esistenziale e politico, giorno per giorno nelle lotte e in una pratica che vedeva nel PRESENTE e non in un lontano passato oppure in un altro ancor più lontano futuro la possibilità di realizzare il cambiamento sociale necessario alla piena realizzazione dell’essere umano. Sia come singolo individuo, sia come specie.

Indispensabili, a parere di chi scrive, ancora oggi, nonostante alcune iperboli linguistiche ed alcune ammaccature dovute al trascorrere del tempo, per una discussione ed una pratica sociale e politica che non voglia rimanere chiusa all’interno della rappresentazione spettacolare dei valori borghesi travestiti da antagonismo e delle merci ideologiche che ne derivano.


  1. Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994  

  2. Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999  

  3. Paolo Ranieri, CRITICA RADICALE. GLI ANNI DI LUDD 1967-1970. Introduzione in La critica radicale in Italia, pag. 7  

  4. P. Ranieri, op.cit. pag. 5  

  5. Edward P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969  

  6. Leonardo Lippolis, L’occupazione definitiva del nostro tempo, in La critica radicale in Italia, pag. 35  

]]>
Senza chiedere permesso https://www.carmillaonline.com/2015/02/19/senza-chiedere-permesso/ Thu, 19 Feb 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20768 di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, [...]]]> di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, si occupa di produzione e post-produzione cinematografica (in pellicola e video) su un terreno di impegno militante in quel di Torino. Mentre Piero Perotti, oggi ufficialmente pensionato, è una delle memorie storiche della classe operaia piemontese e delle azioni sindacali e sociali, messe in atto per migliorarne le condizioni di lavoro e di esistenza e per contrastare le “bronzee leggi” del capitale, fin dagli anni sessanta.

Insieme e nel corso di diversi anni hanno raccolto una serie di materiali straordinari sulla lotta di classe a Mirafiori, fuori e dentro la fabbrica, tra il luglio del ’69 e l’autunno del 1980.
Molte immagini, collezionate all’interno del film, provengono dalla cinematografia militante di quegli anni, ma ciò che costituisce il cuore di questo documento audiovisivo è dato dalle immagini “rubate” dallo stesso Perotti alle manifestazioni operaie e ai cancelli dello stabilimento Fiat con la piccola cinepresa portatile che aveva deciso di procurarsi proprio a tale fine.

In un’età di tablet, smart-phone, telecamere portatili o miniaturizzate in qualsiasi cellulare e di selfie, ci si dimentica troppo facilmente quanto fosse difficile, qualche decennio addietro, documentare gli eventi. Anche quelli che, a differenza di quelli fin troppo documentati di oggi, erano destinati a cambiare il rapporto tra le classi a favore dei diseredati.

Tra il 1969 e gli anni settanta, la classe operaia di uno dei più grandi stabilimenti automobilistici del mondo cambiò le regole del gioco. Le immagini del film ce ne trasmettono tutta la potenza, la creatività, anche la violenza spesso sufficientemente espressa, quest’ultima, più in potenza che in atto. Fu, in quegli anni, la classe operaia torinese l’epicentro di uno scontro globale che fece tremare le fondamenta dell’edificio costruito sulla base dello sfruttamento di classe.

Per questo, più tardi nel 1980, avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo. Avrebbe dovuto essere spogliata della sua capacità di resistenza, organizzazione ed iniziativa, politica e sindacale, per essere restituita, nuda, alle sue condizioni iniziali di sottomissione e dipendenza dall’iniziativa avversaria.

Il film documenta benissimo, in maniera spesso commovente, soprattutto per chi ha vissuto quegli anni alle porte della FIAT, tutto ciò. La formazione di una coscienza, lo sviluppo delle lotte e della solidarietà di classe, la capacità di reagire uniti su richieste egualitarie ed unificanti e quella di reagire alle provocazioni messe in atto dall’azienda, dai crumiri, dai fascisti e dalla polizia. Una forza immensa era entrata nell’arena della Storia; sì, proprio quella con la S maiuscola.

Donne e uomini, immigrati meridionali e lavoratori piemontesi lottavano uniti, creavano uniti un nuovo modo di fare politica ed attività sindacale, marciavano uniti per le strade prima del quartiere, poi della città. Una città dormitorio che si risvegliava a se stessa, riscoprendo l’orgoglio della classe operaia del primo novecento, del Biennio Rosso, degli scioperi spontanei del ’43 e della lotta antifascista. La storia di quella Torino, operaia e socialista, che aveva contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci e della nascita, insieme a Napoli, del Partito Comunista d’Italia.

Tutto questo, forse, molti di quegli operai l’avrebbero imparato dopo, eppure ripresero il cammino proprio là dove era stato interrotto dalle repressione antisindacale ed antioperaia, ancor prima che anticomunista, degli anni cinquanta. E che aveva visto un primo, selvaggio risveglio, fuori da qualsiasi direttiva partitica o sindacale, proprio nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962.

Molti di loro erano in fabbrica da anni, molti, forse i più, erano entrati alla Fiat in seguito alla recente emigrazione dal Sud o al rientro dalle fabbriche tedesche. Simili a una moderna creatura di un capitalismo novello dottor Frankenstein, avevano imparato ad odiare il proprio creatore e a combatterlo. Ovunque, dentro e fuori gli stabilimenti.

I cortei interni, le perquisizioni dei guardiani alle porte, i volantinaggi, i fuochi dei picchetti, gli studenti con i giornaletti dell’estrema sinistra, il blocco della produzione, gli scioperi spontanei: tutto è documentato con un ritmo serrato, accompagnato dalla narrazione personale e vivace di Pietro Perotti. Così che, ancora una volta, la memoria personale si mescola con la memoria di classe, rifondandola. Come quasi sempre accade.

Non nei testi accademici, non nelle tesi di Partito, non nelle logiche politiche e nelle strategie sindacali, ma nella voce narrante, ancor più che in qualsiasi forma scritta, noi ritroviamo la memoria e la Storia delle classi subalterne. Subalterne soprattutto sul piano della comunicazione. Soprattutto là dove la comunicazione è scritta, dove la sintassi è ancora un’arma del padrone e, ancor più, lo è lo strumento televisivo, o radiofonico come ai tempi del Duce.

Per questo il gesto di Pietro, comperare ed imparare ad usare una piccola cinepresa, diventa così grande ed importante. Non solo per noi che, ora, possiamo usufruire di quelle straordinarie immagini, ma anche per l’epoca. Un’altra barriera veniva abbattuta, appunto senza chiedere permesso, precedendo di poco la nascita delle radio libere. La lotta operaia, ancora una volta, inventava una nuova cultura e nuova comunicazione. Di cui Pietro si fece portatore anche negli anni successivi all’abbandono della fabbrica, attraverso i suoi manifesti e i suoi mascheroni che accompagnano ancora tante manifestazioni.

marx alle porteSuo era il grande ritratto di Marx che, appeso alle porte della palazzina di Mirafiori, avrebbe assistito, ammutolito e attonito, all’ultima battaglia degli operai della città-fabbrica. La più amara.
Quella in cui si consumarono, durante i 37 giorni dell’autunno del 1980, tutti i tradimenti sindacali e politici possibili. Quella con cui l’intera classe dirigente italiana , a partire dalla famiglia Agnelli fino al PCI di Berlinguer, aveva deciso di restaurare l’ordine e il comando sulla forza lavoro. Con un costo altissimo per tutta la classe operaia italiana.

E, sotto questo punto di vista, le immagini parlano e dicono più di ogni commento. Negli anni precedenti i lavoratori di Mirafiori avevano occupato il territorio. Erano diventati punto di riferimento per gli operai di tutto l’indotto Fiat e per quelli degli altri settori produttivi. Per gli studenti, gli operai, per i soldati inquadrati nei Proletari in divisa, per ogni settore della società. Avevano guardato fuori, al mondo e lo avevano fatto proprio.

Nei 37 giorni, tra il 10 settembre e il 16 ottobre 1980, gli operai che sono fuori dalle officine guardano verso l’interno della fabbrica. Un rovesciamento di prospettiva che prelude soltanto alla sconfitta. I grandi viali sono alle loro spalle e sono esclusi dalle officine. Guardano il balletto degli oratori, con capofila Berlinguer e i leader sindacali, che altro non fanno che illuderli e deviarli verso la resa. Che avverrà con una votazione truffa dopo la marcia dei quarantamila. Truffaldina anche quella, nei numeri e nei partecipanti.

I capi sono stati affluire da tutta Italia. In realtà non sono più di 10 – 12.000 (questa anche la prima cifra ufficiale della prefettura). Il corteo ha un carattere decisamente reazionario e antioperaio […] Nel pomeriggio,incontro Fiat -sindacati. Alle 22,30 la segreteria GGIL- CISL – UIL e la FLM vanno <<all’accertamento dell’ipotesi conclusiva>>. Tre ore di corteo di 12.000 capi sembrano valere di più per Lama, Carniti e Benvenuto, di 35 giorni di lotta di 100.000 operai e di milioni di lavoratori scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia […] All’alba (giorno successivo) l’apparato del PCI è mobilitato ai cancelli per convincere i suoi militanti che bisogna accettarla1

La marcia dei 40.000, che nel 1980 segnò i destini della lotta dei 35 giorni alla Fiat si sarebbe potuta fermare, non farla neanche partire”. E’ quello che sostiene Pietro Perotti nel film. E probabilmente ha ragione, ma sarebbe occorso che gli operai della fabbrica più grande d’Italia tornassero a fare quello che avevano fatto nel decennio precedente, ogni volta che si era presentata l’occasione: occupare le strade e la città.

Ma in quel momento, una volta allontanati dalle officine, con gli arresti o i licenziamenti, tutti coloro che avevano guidato le lotte, i reparti non reagirono più allo stesso modo. La stanchezza e la sfiducia presero il posto del coraggio, della sfida e della lotta. Con una sapiente regia del sindacato e del Partito comunista. Soprattutto della federazione torinese del Partito che annoverava tristi figuri del calibro di Piero Fassino e di Giuliano Ferrara.

Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso a Melfi, in quel che rimane degli stabilimenti torinesi, nel job act e nella spocchia di Marchionne e di Renzi. Quello fu un appuntamento storico e tutti i carnefici di adesso possono rallegrarsi ancora di quella sconfitta.
A noi rimangono la memoria di momenti gloriosi e di volti magnifici. Sconosciuti e conosciuti che, per chi ha avuto la fortuna di vivere quegli anni e quelle lotte, non possono non far spuntare lacrime di nostalgia, di tenerezza e di rabbia. Che ci accompagneranno sempre.

Il film, però, come si diceva all’inizio, per essere completato ha bisogno anche del vostro aiuto. Parzialmente finanziato dalla Fiom-CGIL, grazie alla disponibilità dimostrata all’epoca della sua ideazione da Giorgio Airaudo, ha oggi bisogno del soccorso di contributi in crowd funding.
Per questo gli autori vi chiedono di sottoscrivere la loro raccolta fondi inviando un bonifico all’Iban qua sotto, specificando nella causale:
SENZACHIEDEREPERMESSO, con il vostro nome e indirizzo mail
intestato a:
Cinefonie.
Banco Desio
IT28V0344001000000000490500

In ricordo di Rocco Papandrea, Raffaello Renzacci, dei militanti operai di Lotta Continua e di tutti gli altri 70.000 che fecero tremare il mondo per il solo fatto di esistere e lottare, coscienti e auto-organizzati.


  1. Con Marx alle porte. I 37 giorni alla FIAT, Nuove Edizioni Internazionali, Milano novembre 1980, pp. 41-42  

]]>