Piazza Fontana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 04 Jan 2025 21:07:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le trame e l’ordito della repubblica https://www.carmillaonline.com/2021/11/17/la-trama-e-lordito-della-repubblica/ Wed, 17 Nov 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69084 di Sandro Moiso

Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro

Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e [...]]]> di Sandro Moiso

Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro

Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e ricostruzione storica, è anche vero che il ruolo politico ed economico giocato dalla prima all’interno della storia italiana del ‘900 è indiscutibilmente assai più rilevante. Soprattutto, a detta dello stesso Giannulli, per la forte influenza costantemente esercitata «sulle scelte politiche di governo e non solo in materia di politica economica e sindacale, ma anche in politica estera e più in generale sull’indirizzo politico complessivo del governo – soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta».

La ricerca di Catania, pur ripercorrendo a grandi linee la storia dell’associazione degli industriali dalle sue origini fino al Fascismo e alla Repubblica, si sofferma, in particolare, proprio sul ruolo svolto dalla stessa nella fase in cui era al massimo del suo potere. Potere di cui si servì innanzitutto per ostacolare in ogni modo l’ascesa economica, politica e sociale della grande massa dei lavoratori.
E per fare ciò, sia come singoli gruppi imprenditoriali sia come associazione, minacciò più volte, oppure rasentò, lo sbocco del colpo di Stato, finanziando o incoraggiando, indirettamente o direttamente, la destra eversiva di stampo dichiaratamente fascista.

E’ questo un tema importante, non tanto per tornare ancora una volta sulle trame mai chiarite e sulle vittime fin troppo chiare della stagione della “strategia della tensione”, ma piuttosto per far luce, sulla menzogna che sembra costituire l’unica formula identitaria su cui basare la richiesta di una collaborazione tra le classi, rivolta in particolare al coinvolgimento dei lavoratori e dei ceti sociali meno abbienti nell’interesse nazionale, nei momenti di crisi sociale, politica, economica o pandemica che sia: quella della grande unità democratica e antifascista.

Menzogna talmente evidente e di maglia ormai talmente larga che oggi, in occasione di fatti come quello dell’assalto alla sede romana della CGIL, può essere sbandierata tanto dai partiti della sinistra istituzionale e dai sindacati confederali quanto dalla destra parlamentare, anche la più estrema, cui è richiesto ipocritamente di prendere le distanze dalla sua unica fonte di ispirazione, il fascismo1.

Se è vero che, a livello ideologico oppure mitopoietico, l’antifascismo è stato uno dei maggiori collanti istituzionali della Prima Repubblica, è anche vero che mentre i discorsi istituzionali devono per forza esplicitarsi pubblicamente attraverso formule discorsive e retoriche, cariche di significati simbolici, buone per tutti gli usi, l’ordito reale del tessuto dello Stato repubblicano è più sottile e nascosto. Non per complottismo innato, ma per le intrinseche funzioni che lo Stato deve svolgere in quanto rappresentante degli interessi del capitale e dei suoi funzionari.

Non è dunque un caso che, a fronte del ruolo giocato da Confindustria nel definire gli assetti politico-economici della Repubblica succeduta al regime fascista, si abbiano solo indizi, riflessi, echi della reale attività svolta dalla maggiore associazione imprenditoriale italiana, «quasi si trattasse di un attore secondario dello scontro»2.

I documenti che riguardano questo ruolo risultano infatti rari o carenti e la stessa associazione «non è stata molto generosa nel concedere agli storici l’accesso alla propria documentazione d’archivio e, peraltro, anche i grandi gruppi industriali non hanno largheggiato in questo senso. Il mondo imprenditoriale ha preferito agire verso le istituzioni in modo assai discreto, nell’ombra di incontri riservati, di finanziamenti occulti, di diplomazie felpate e tutto questo ha prodotto una certa ritrosia ad aprire il libro dei ricordi»3.

D’altra parte, questa scarsità di documentazione sull’operato “reale” di Confindustria costituisce soltanto uno dei tanti aspetti dell’occultamento e della rimozione di gran parte della storia repubblicana, verrebbe da dire, “profonda”. Al cui centro appunto rimane il tema della continuità con il fascismo o, perlomeno, con l’autoritarismo di cui fu portatore nel segno della modernità capitalistica.

Anche se numerosi sono ormai i saggi sulla continuità di funzionari di ruolo significativo tra il regime e la repubblica4, altrettanto non si può dire a proposito della più generale continuità insita in tutte, o quasi, le istituzioni dello Stato e le sue funzioni5, nonostante lo sviluppo, nell’ambito della ricerca, della cosiddetta storiografia della continuità, cui si richiama lo stesso Catania, ispirata dalle ricerche di Claudio Pavone e S,J. Woolf6.

Il lavoro di Elio Catania, pur inserendosi in tale contesto di ricerca, è il frutto, a detta dello stesso autore: «di oltre dieci anni di ricerche e studio sul tema della strategia della tensione e di quel fenomeno particolare che abbiamo definito pacto del olvido7 nella storia dell’Italia repubblicana».

Il punto di vista intorno a cui si è articolata la ricerca segue due piani:

quello dell’azione pubblica di Confindustria, le pressioni, i legami politici, il lobbysmo e la difesa dei propri interessi, di cui molti autori hanno già ricostruito con cure le vicende particolari; quello della “guerra coperta”, non dichiarata e inconfessabile, che vide l’intero schieramento industriale impegnato per almeno il primo trentennio di vita repubblicana contro il “nemico interno” e i progetti politici che dal loro punto di vista minacciavano gli interessi della produzione […]; in secondo luogo, si è deciso di seguire come un “filo rosso” la formazione del blocco civico-militare che , dopo aver vissuto il momento embrionale negli anni Cinquanta e il preambolo nei Sessanta a cavallo tra dimensione nazionale e internazionale della Guerra fredda, manifesta appieno i suoi propositi nel “quinquennio nero” 1969-74. La strategia della tensione, assunto il suo carattere pienamente di Stato, rimane per noi uno dei principali nodi irrisolti della storia recente nazionale e Confindustria – che usufruì delle modalità della transizione senza rottura del dopoguerra – fu parte integrante di quel blocco civico-militare che, pure nelle sue diverse correnti e ramificazioni, accettò l’alleanza con l’estrema destra e legittimò tutto quanto fosse necessario fare per realizzare il principio destabilizzare per stabilizzare8.

Certo, secondo l’autore, l’azione di Confindustria non può essere considerata omogenea e uniforme, lineare e priva di contrasti al suo interno, poiché:

il punto di vista interno fu sempre diversificato e ciò comportò scontri anche aspri tra le sue correnti – che però si seppero ricompattare al momento opportuno, di fronte alla percepita “minaccia marxista” o in occasione di cicli particolarmente duri e intensi di conflitto sociale. In tal senso, Confindustria, assieme alla coalizione sociale politica di riferimento, riuscì a determinare alcuni caratteri peculiari della modernizzazione in Italia, tra cui il mantenimento per lungo tempo nella condizione di subalternità dei ceti non proprietari, lavoratori, a medio e basso reddito, esclusi dai circuiti di riproduzione sociale e nell’accesso alle risorse9.

L’ordalia capitalistica nei confronti del lavoro vivo ebbe così modo di manifestare la sua potenza non solo attraverso il normale uso degli apparati dello Stato, già preposti al mantenimento all’ordine di classe precostituito, ma anche per il tramite di strumenti eccezionali maneggiati dal terrorismo di stampo fascista e dai servizi… tutt’altro che “deviati”, come invece vorrebbe la vulgata democratica.
A dimostrazione che qualsiasi discorso sulla violenza dovrebbe sempre e immancabilmente distinguere l’uso di classe che di questa può essere fatto dai differenti contendenti. Rifiutando di accogliere in unico abbraccio “nazionalista” tutte le vittime della stessa, come se si trattasse di semplici nomi e date da porre su una linea infinita di “pietre d’inciampo”.

Tale discorso è talmente vero che l’autore apre il suo lavoro iniziando proprio dagli effetti della pandemia da Covid-19 e dalle misure di salvaguardia della produzione e dell’economia, più che della salute, prese. all’inizio del 2020, in quell’area lombarda che proprio negli anni Settanta aveva visto la strategia fascista, appoggiata dal grande capitale, effettuare i due attentati che di fatto delimitarono con chiarezza d’intenti il quinquennio 1969-74: Piazza Fontana e Piazza della Loggia.

Nel citare alcuni drammatici dati riportati da Francesca Nava nel suo bel libro sull’inizio della pandemia a partire dalla Val Seriana10, Catania sottolinea come si sia ormai diffuso a livello di discorso pubblico l’uso sulla storia dell’industria e della finanza italiana «che vuole il capitale privato al centro del progresso e dell’avanzamento storico della società». Mentre, in realtà:

Ci sembra di poter dire che il maggiore attivismo politico della Confindustria e degli operatori privati, che un costo così elevato ha causato in questi nostri tempi recenti di pandemia, non sia fenomeno del solo presente ma abbia radici profonde; soprattutto, che la valutazione positiva di cui è oggetto derivi anche da una rimozione: quella del ruolo svolto, nel determinare indirizzi e forme del modello di sviluppo nazionale, in particolare dalla Confederazione generali dell’industria italiana – CGII, dalla sua fondazione fino alla seconda metà degli anni Settanta, quando i mutati equilibri politici nazionali e internazionali conclusero con un compromesso de facto i lunghi cicli di conflitto sociale al centro dei processi di modernizzazione del Paese. Sebbene infatti il profilo dell’attuale Confederazione industriale sia profondamente diverso da quello della Confindustria storica – basti considerare la fuoriuscita della FIAT nel 2012 e la scomparsa dei principali gruppi che la costituivano -, è possibile rintracciarne la continuità grazie all’indagine storiografica11.

Perciò, nonostante la celebrazione ufficiale del 25 aprile veda sempre tra i protagonisti e i commentatori principali i rappresentanti della stessa e il suo organo di informazione più autorevole, “Il Sole 24 Ore”, i fatti storici dimostrano che il vero nerbo della reazione italiana a qualsiasi tipo di cambiamento sociale, politico ed economico si sia sempre celata proprio nell’anima “dura” dell’associazione degli imprenditori industriali.

Come dimostrano anche i tanti documenti raccolti nell’archivio digitalizzato della Procura di Brescia in occasione del processo per la strage di Piazza della Loggia, che, in particolare, include gran parte del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana. Al cui interno sono custodite anche le perizie realizzate in oltre vent’anni di lavoro dallo storico Aldo Giannulli, di cui l’autore è stato ausiliario, nominato perito dal PM Francesco Piantoni, in occasione della prima fase dell’ultima istruttoria bresciana.

Mentre è spesso fin troppo facile sentir parlare di mandanti anonimi, servizi deviati e fascisti latitanti o morti da anni, è sempre difficile veder venire a galla le responsabilità di un’associazione che è ritenuta, a destra come a sinistra, un’istituzione intoccabile e che, al massimo, viene nominata meno positivamente soltanto in occasione del rinnovo dei contratti di categoria. Elio Catania invece, con coraggio e autorevolezza, sbatte in faccia a tutti una realtà e una storia spesso negate e rimosse, prendendo di punta la grande menzogna su cui si basa anche l’altra: quella della repubblica nata anti-fascista e democratica.

Forse, una ricerca storica come la sua andrebbe accompagnata da un’altra, ancora tutta da svolgere nell’ambito della storiografia della continuità: quella riguardante la mancata approvazione dell’articolo della Carta Costituzionale, che alcuni padri fondatori della Repubblica avrebbero voluto come 3°, destinato a giustificare la reazione del popolo al mancato rispetto del patto costituzionale e di governo. Allora impedito dalla tacita intesa tra DC degasperiana e PCI togliattiano12.

Da quella rimozione del diritto alla resistenza contro un governo autoritario derivano ancora infatti sia la rimozione storica, mediatica e politica di ogni nefandezza attribuibile al grande capitale e, dall’altra, la sin troppo facile criminalizzazione di chiunque, e in qualunque modo, si opponga all’attuale regime. Sia che si tratti dei definire “terroristi” i militanti No Tav valsusini, come ha fatto recentemente l’attuale direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari, che di stabilire lockdown a pioggia senza mai chiudere davvero i luoghi di lavoro, come è avvenuto nella recente pandemia, oppure ancora di scaricare sui singoli individui le responsabilità del diffondersi di una sindemia che affonda le sue radici nello stesso modo di produzione che si vuole difendere ad ogni costo.

Così da dimostrare che, in un paese in cui lo stragismo di Stato ha costituito per anni la cifra politica dell’azione antiproletaria, la continuità con l’autoritarismo fascista non è mai stata spezzata, mentre è stata al contrario rafforzata da tutti i provvedimenti che continuano a negare la legittimità della lotta di classe e della difesa dal basso degli interessi collettivi.

(Il testo di Elio Catania sarà presentato a Milano, in occasione di BookCity, venerdì 19 novembre alle ore 17,30. Interverranno l’autore, Aldo Giannulli e Elia Rosati)


  1. Soltanto per fare un esempio, tra i tanti possibili, si veda qui  

  2. A. Giannulli, Prefazione a E. Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, p.12  

  3. Ivi 

  4. Si veda, a solo titolo d’esempio: Davide Conti, Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla repubblica italiana, Einaudi editore, Torino 2017 e 2018  

  5. Si consideri, ad esempio, la mai del tutto avvenuta scomparsa del codice penale Rocco (1930) che resta invece ancora una delle fonti del diritto penale vigente  

  6. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995 e J. S. Woolf, Risorgimento e fascismo: il senso della continuità nella storiografia italiana, in “Belfagor”, vol. 20, n. 1 (31 gennaio 1965), pp. 71-91  

  7. Il Pacto del Olvido (patto dell’oblio in spagnolo) è la decisione politica dei partiti di sinistra e di destra della Spagna di evitare di affrontare direttamente l’eredità del franchismo dopo la morte di Francisco Franco nel 1975  

  8. E. Catania, Introduzione in E.Catania, op.cit., pp. 18-19  

  9. Ibidem, p. 20  

  10. Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Editori Laterza, Bari – Roma 2020, recensito qui su Carmilla  

  11. E. Catania, op. cit., p.16  

  12. In particolare, fu il partigiano Giuseppe Dossetti, non ancora sacerdote, padre Costituente e componente della Commissione dei 75, a lottare perché fosse uno degli
    articoli della nostra Costituzione. Doveva essere l’art. 3 e così: La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino.
    Si ispirava all’articolo 21 della Costituzione francese del 19 aprile 1946: Qualora il Governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri.
    In Sottocommissione fu approvato con 10 voti a favore, 2 astenuti e 1 contrario, tuttavia non riuscì a superare l’esame dell’Assemblea Costituente  

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Molti anniversari e troppo sangue https://www.carmillaonline.com/2019/04/25/molti-anniversari-e-troppo-sangue/ Wed, 24 Apr 2019 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52144 di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della [...]]]> di Luca Baiada

Cent’anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento: Milano, piazza San Sepolcro, 23 marzo 1919. Il fascismo, un tipico prodotto di successo del Made in Italy; forse la parola italiana più nota all’estero, insieme a mafia e pizza. Ipocrisia e sangue. Va al potere con le stragi di democratici e sindacalisti, con gli incendi, coi saccheggi; ma le condanne a morte che pronuncia col Tribunale speciale, quelle eseguite, sono poche decine. Lupara bianca e lupara nera. Al fascismo bastano sette anni dal suo primo governo per sforbiciare un pezzo della capitale e consegnarlo al papato, e pochi anni in più per legare le sorti del paese alla Germania con risultati disastrosi. Paradosso tutto nostro, quel suicidio differito del Risorgimento passa per patriottico.

Tre quarti di secolo dall’attacco partigiano in via Rasella (non per caso, la Resistenza scelse il 23 marzo) e dalle Fosse Ardeatine, il giorno dopo. L’attacco lo fecero i Gap, Gruppi di azione patriottica; patria non sapeva di populismo e non metteva in imbarazzo. Pochi giorni prima, il 10 marzo e sempre a Roma, per l’anniversario della morte di Mazzini i gappisti avevano disperso a revolverate i fascisti, che in via Tomacelli sfilavano contro il re e per la repubblica, ma quella finta di Mussolini. Brutto colpo, per i repubblichini, che sul «Messaggero» commentarono: «Purtroppo i soliti elementi perturbatori attentano alla serena compostezza del corteo». I comunisti sparano sui fascisti per impedire che si fingano mazziniani. Da approfondire, il senso di quell’accademia a mano armata.

La memoria è rimasta prigioniera del paradigma vittimario delle Ardeatine, crimine sepolto nel monumentalismo; l’azione ben riuscita di via Rasella non ha avuto la considerazione che merita, anzi è stata accusata di tutto: i partigiani che volevano l’eccidio, che dovevano consegnarsi ai tedeschi, che ignorarono moniti e comunicati. Qualche anno fa è stato pubblicato e demistificato il volantino fascista che fabbricò menzogne poco dopo il massacro (una manovra disinformativa persino più zelante di quelle tedesche); ma le smentite razionali non bastano, l’accusa contro la Resistenza risponde a un bisogno emozionale. Ha combattuto, ha spezzato l’inerzia, e nella città santa: è colpevole.

Mezzo secolo dalla strage di piazza Fontana, a Milano. Nel 1969 corre lo sviluppo economico, sono in piena maturazione l’industrializzazione e l’urbanizzazione, si è affacciata la rivoluzione sessuale, si progettano il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, lo Statuto dei lavoratori. Si reclamano riforme dei codici, della scuola, dell’università. Una parte del paese vuole entrare nella modernità, un’altra frena: vi entrerà zoppicando.

Piazza Fontana è una strage indiscriminata, la prima di tipo bellico dopo la guerra; le altre, da Portella della Ginestra a Reggio Emilia, hanno un margine di selezione delle vittime. Nel 1969 si colpisce a caso: il bersaglio grosso non è in quei morti, è il popolo. Insieme c’è la violenza poliziesca, la macchinazione che mira all’anello debole della contestazione: gli anarchici, estranei al circuito politico del blocco al governo e di quello all’opposizione, riottosi alla retorica del costituzionalismo ingessato, dissonanti dal reducismo ciellenista. Però la morte di Giuseppe Pinelli, un po’ simmetrica e un po’ decentrata rispetto alla bomba, colpisce mirando ed è un monito per tutti, fitta di segni che parlano di allineamento, di ubbidienza non solo governativa. L’uomo che quel giorno va tranquillo coi poliziotti in questura, fiducioso in un chiarimento, ne uscirà cadavere dopo un interrogatorio che viola ogni norma procedurale.

In carcere, additato come il mostro, finirà un altro anarchico innocente, Pietro Valpreda; ci vorranno anni e una modifica legislativa per tirarlo fuori. Ci si renderà conto, finalmente, che le leggi sono ancora quelle fasciste e che un detenuto può sparire senza garanzie. E insieme c’è la giustizia, così inadeguata che alla verità processuale su quel 1969 mancano ancora pagine importanti. La spiegazione corrente su Pinelli sarà un ossimoro osceno, il malore attivo, in cui – come nei Promessi sposi, con le febbri pestilenziali – l’indicibile si sposta sull’aggettivo. Qualcosa si muove, qualcuno fa, insomma c’è un che di attivo, in quella morte. Ma il sostantivo è incolpevole e sa di vecchio, di malfermo: il malore, meno grave della malattia, più svenevole di un dolorino. Pinelli era quarantenne. Da rivedere, sulla giustizia, il film Processo politico di Francesco Leonetti.

Un quarto di secolo dalla rifrequentazione di un tremendo archivio segreto. Fra il 1943 e il 1945 gli occupanti tedeschi e i collaborazionisti fascisti uccidono italiani in una quantità mai davvero calcolata: probabilmente almeno trentamila. Nel 1945 si decide di concentrare indagini e prove a Roma, negli uffici della giustizia militare, per far meglio chiarezza. Negli anni immediatamente successivi i fascicoli sono usati per celebrare pochissimi processi, poi sono lasciati alla polvere, nel silenzio di tutte le strutture partitiche, politiche, sindacali, combattentistiche. Molti sanno, tutti tacciono, qualcuno manovra. È uno scandalo senza paragoni nell’Italia postunitaria, forse nella storia europea: un paese occulta le prove di due anni di massacro dei suoi cittadini, di ogni età e condizione, compresi i bambini, i militari fedeli al governo legittimo, i partigiani, il clero, gli ebrei.

Un giornalista battagliero, Franco Giustolisi, chiamerà questa cosa orribile Armadio della vergogna, un’espressione fulminante. Dopo che l’Armadio è stato riaperto si muovono commissioni d’inchiesta, si scrivono relazioni, eppure restano oscure sia le implicazioni di un’inerzia così lunga, sia le modalità dell’improvvisa rifrequentazione dell’archivio. Avviene, appunto, nel 1994: cioè dopo il Trattato di Maastricht e dopo la trattativa Stato-mafia con la notte in odor di golpe denunciata da Ciampi, e dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. Soprattutto, a breve distanza dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca, e subito dopo l’arrivo di Berlusconi al governo. In quell’anno i Modena City Ramblers cantano Quarant’anni: «Ho visto bombe di Stato scoppiare nelle piazze e anarchici distratti cadere giù dalle finestre. Ho venduto il mio didietro ad un amico americano. Ho massacrato Borsellino e tutti gli altri. Ho protetto trafficanti e figli di puttana. Ma ho un armadio pieno d’oro, di tangenti e di mazzette, di armi e munizioni, di scheletri e di schifezze».

La rifrequentazione non ha neppure una data sicura. Di altri misteri italiani si conosce almeno il giorno; nel 1994 l’Armadio ricompare senza un verbale, senza una fotografia. Negli anni che seguono si celebrano una ventina di dibattimenti, l’ultimo termina nel 2015; va in prigione solo un sottufficiale. La Germania non paga nessun risarcimento; anzi, alla Corte internazionale dell’Aia fa condannare l’Italia per lesa maestà, perché uno studio legale ha ipotecato una villa tedesca a Como. Attenzione. La posta in gioco non è solo di crediti italiani e di una villa: con quella sentenza la Corte, cioè la voce giudiziaria dell’Onu, dice che gli Stati non possono mai essere condannati a pagare, neppure per crimini di guerra o contro l’umanità. Vale per il passato e per il futuro, per Sant’Anna di Stazzema e per la Siria. È il 2012: la crisi economica dilaga, terrorismo e destabilizzazioni fanno il doppio gioco sul sangue di interi paesi, e Wikileaks, col Cablegate e coi documenti sull’Afghanistan e l’Iraq, ha svelato intrighi e massacri. Ecco che sul tavolo anatomico dei giuristi, all’Aia, le stragi di italiani dal 1943 al 1945 sono dissezionate e manipolate per fabbricare un salvacondotto legale a quelle future, ovunque. Gli apprendisti stregoni cuciono i lutti della Seconda guerra mondiale col fil di ferro del formalismo; ne esce un mostro alla Frankenstein, servizievole alla ragion di Stato. Sangue assolve sangue.

Settant’anni dalla fondazione della Nato. Voluta contro un blocco politico-economico che non esiste più da un trentennio, è sopravvissuta al suo nemico e continua a condizionare il presente. I responsabili di crimini nazifascisti commessi in guerra sono stati protetti e adoperati; la strategia della tensione è stata l’area in cui la Nato ha incontrato il nazifascismo bellico e la protezione postbellica della sua impunità, cioè l’ombra silenziosa dell’Armadio della vergogna.

Lo stragismo nazista e fascista, sempre antipopolare, sempre collaborazionista, ha disseminato di ingiustizia e reticenza un secolo segnandone le tappe. Durante la guerra è stato usato per fabbricare il complesso di colpa per la Resistenza, la squalifica profonda degli italiani, e per gettare le basi di un senso di inferiorità contrario al Risorgimento, al socialismo e alla democrazia; da rileggere, le pagine di Giuseppe Dossetti su Marzabotto come delitto castale. Dopo la guerra ha stravolto l’ingresso del paese nella modernità, costruendo col metodo terroristico la minaccia del colpo di Stato, lo scacco alle conquiste sindacali e democratiche, la difesa a oltranza dei privilegi di classe. Dopo la dissoluzione del blocco socialista e la riunificazione della Germania, i contraccolpi di quel sangue e quei silenzi hanno continuato a pesare. I segreti della strategia della tensione e l’impunità delle stragi nazifasciste in tempo di guerra hanno ricevuto una protezione solida, dentro l’abitudine del potere all’utilizzo indiscriminato della criminalità organizzata e del fascismo; abiti intercambiabili, in Italia, e sempre con l’ornato di una cultura prostituita alla distrazione. Da rivedere l’intervista al regista (Orson Welles), in La ricotta di Pasolini: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». La ricotta comincia col Vangelo di Marco: «Non esiste niente di nascosto che non si debba manifestare; e niente accade occultamente, ma perché si manifesti».

Ancora da sondare, i rapporti fra le coperture dell’Armadio della vergogna e il reimpiego del fascismo negli anni della conflittualità armata, come le relazioni fra crimine, fascismo e affarismo – riciclaggio, privatizzazione di beni pubblici, traffico di droga e armi – nella prima metà degli anni Novanta, in concomitanza coi delitti più vistosi (Falcone, Borsellino). Tutti da affrontare, i legami con altri delitti che hanno segnato la situazione europea poco prima della liquidazione del socialismo o nell’immediatezza (omicidi Olof Palme, Alfred Herrhausen, Detlev Rohwedder).

Le stragi fasciste dal 1919 preparano la dittatura, che prepara i massacri sociali, coloniali, bellici. Le stragi belliche, massacri dentro l’immane massacro, sorreggono l’occupazione militare, la schiavizzazione, la deportazione, il saccheggio, la repressione materiale e morale. Le stragi della strategia postbellica orientano il cambiamento dell’Italia in conformità alla spartizione del mondo in blocchi. Le stragi del 1992-1993 chiudono quella stagione, mettendo a tacere chi sa troppo e aprendo la strada a un nuovo quadro di potere, che serve alla penetrazione economica nei paesi ex socialisti e alla distruzione dell’originale socialdemocrazia italiana, coi suoi specifici miti e pilastri (democristianesimo, eurocomunismo, partecipazioni statali, banche pubbliche). Questo lunghissimo sacrificio umano ha per costante l’eliminazione mirata di notabili (uomini d’ordine antifascisti, politici onesti, sindacalisti impegnati, intellettuali coraggiosi, magistrati scomodi) e il massacro casuale, indiscriminato, contro il popolo, che la strategia del sangue riduce a massa informe di carne.

Davvero, tanti anniversari. Eppure, a leggerli insieme si capisce meglio. Un uomo diritto che visse per amore, patria e poesia, e morì d’esilio in povertà: «Non accuso la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, “Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende”». Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, 17 marzo.

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Chi è STATO ? https://www.carmillaonline.com/2018/12/12/chi-e-stato/ Tue, 11 Dec 2018 23:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49762 di Fiorenzo Angoscini

Saverio Ferrari, 12 Dicembre 1969. La strage di piazza Fontana. La ‘madre’ di tutte le stragi, a cura de L’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, Milano, dicembre 2018, pag. 39 (s.i.p.)

La ‘madre’ di tutte le stragi, ma anche strage di Stato, come ricorda il dossier nelle sue pagine. Così come La Strage di Stato è anche stata intitolata la prima pubblicazione di controinformazione sull’eccidio alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Strage di Stato perché, eseguita da fascisti (vedi sentenze), ha visto la connivenza attiva degli apparati dello stato. Gianadelio Maletti, ex capo del reparto D (controspionaggio) del [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Saverio Ferrari, 12 Dicembre 1969. La strage di piazza Fontana. La ‘madre’ di tutte le stragi, a cura de L’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, Milano, dicembre 2018, pag. 39 (s.i.p.)

La ‘madre’ di tutte le stragi, ma anche strage di Stato, come ricorda il dossier nelle sue pagine.
Così come La Strage di Stato è anche stata intitolata la prima pubblicazione di controinformazione sull’eccidio alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano.
Strage di Stato perché, eseguita da fascisti (vedi sentenze), ha visto la connivenza attiva degli apparati dello stato. Gianadelio Maletti, ex capo del reparto D (controspionaggio) del Sid, è stato condannato, in via definitiva, a un anno di carcere per falso ideologico in atto pubblico; il coordinatore del Nucleo Operativo Diretto (NOD) alle dirette dipendenze del Reparto D, Antonio Labruna, a dieci mesi di reclusione.

Senza dimenticare il balletto di bugie, reticenze e “non ricordo” organizzato dai capi responsabili del Sid, dal presidente della repubblica dell’epoca, dal presidente del consiglio, ministri vari, a proposito dell’identità, ed appartenenza ai diversi ‘servizi’, di agenti segreti camuffati da giornalisti: Guido Giannettini (Il Secolo d’Italia, Il Roma, Il Giornale d’Italia), Mino Pecorelli (Osservatorio Politico), Mario Tedeschi (Il Borghese), Giorgio Zicari (Corriere della Sera), Giorgio Torchia (Il Tempo) Guido Paglia1 (Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giornale d’Italia, Il Giornale). E tutti i depistaggi connessi alle loro attività e “conoscenze”. Nonché a quelle di fascisti e bombaroli. Ai loro ruoli e…’gradi’. Così come certo giornalismo spazzatura ha sempre auspicato le soluzioni di forza. Il settimanale Epoca (gruppo Mondadori) l’11 dicembre 1969, manda il fascicolo in edicola con copertina tricolore ed un perentorio titolo: Senza peli sulla lingua, senza conformismi, CHE COSA PUO’ ACCADERE IN ITALIA. La stessa rivista, nel mese di luglio 1964, erano i giorni del cosiddetto Piano Solo,2 golpe orchestrato dal Sifar (servizio segreto militare del periodo) di De Lorenzo con il beneplacito del presidente della Repubblica Antonio Segni, con sospetta tempestività era ‘uscita’ con un edizione speciale e, già allora, copertina tricolore con all’interno ‘testina’ fotografica del Presidente. Il titolo, ancora più esplicito: L’ITALIA CHE LAVORA chiede al capo dello stato un GOVERNO ENERGICO E COMPETENTE che affronti subito con responsabilità la crisi economica e il malessere morale che avvelena la nazione. Un incredibile ‘fiuto’ per i tentativi di colpo di stato e gli avvenimenti che li precedono, stragi comprese.

La sera stessa di quel venerdì nero,

il commissario Luigi Calabresi dell’ufficio politico (l’attuale Digos, nda) della Questura di Milano, conversando con Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa, esternò subito la propria convinzione che le responsabilità dovessero essere addebitate ai gruppuscoli di estrema sinistra. ‘Estremismo, ma estremismo di sinistra-disse-è in questo settore che noi dobbiamo puntare. Estremismo di sinistra…Anarchici, ‘cinesi’ operaisti. (p. 9)
Eppure, già il 13 dicembre, il Sid era in possesso di informazioni assai precise sugli autori della strage, al punto da indicare, in una nota, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino quali responsabili degli attentati di Roma, eseguiti su ordine di Yves Guérin Serac (al secolo Yves Guillou, nda) e Robert Leroy. (p.10)

I due, ex appartenenti all’ Organisation Armée Secretè (OAS), organizzazione paramilitare clandestina francese che operò, soprattutto, durante la guerra d’Algeria, erano gli “animatori dell’Aginter Presse, una finta agenzia di stampa, con sede a Lisbona, in realtà una delle centrali dell’estrema destra adibita a ‘operazioni coperte’, legata ai servizi segreti portoghesi e statunitensi”. (p. 10)

Ma, nel documento ‘segreto’ 3 n.36369/AC di prot. OGGETTO: Attentati terroristici a Milano e a Roma, redatto definitivamente, dopo aggiunte e rimaneggiamenti, il 17 dicembre 1969, Serac e Guillou, da nazisti già appartenenti alle Waffen-SS, vengono camuffati e definiti pericolosi anarchici.
Solo l’11 aprile 1970, con un altro documento interno del Sid, riacquistano le loro reali sembianze: “Sia Guérin Serac, sia Leroy non sono anarchici, ma appartengono ad un’organizzazione anticomunista. Si suggerisce di tacere questa notizia alla pubblica sicurezza e ai carabinieri” (neretto nostro).

La pubblicazione è un agile e comodo ‘bigino’ (depurato dalla sua accezione negativa) che permette, a chi conosce la vicenda, di ricordare particolari dimenticati o sottovalutati, mentre per i neofiti è un utile strumento di conoscenza ed approfondimento.
Si ricordano gli attentati del 15 aprile a Padova (ufficio del rettore università), del 25 aprile (Fiera di Milano ed Ufficio Cambi della stazione Centrale), quelli del 8-9 agosto sui treni: Caserta, Pescara, Chiari (Bs) e quello, per fortuna fallito, alla scuola slovena di Trieste (4 ottobre).
Il sodalizo tra fascisti, militari italiani e golpisti colonnelli greci che si consolida e si organizza, tanto che il settimanale inglese “The Observer” scrive: “Un gruppo di elementi di estrema destra e di ufficiali sta tramando in Italia un colpo di stato militare, con l’incoraggiamento e l’appoggio del governo greco e del suo primo ministro, l’ex-colonnello Giorgio Papadopulos”.

A proposito dell’attivismo di certi ambienti militari e accoliti vari, è da ricordare quanto pubblicato, nel settembre 1970 (nove mesi dopo Piazza Fontana, ma sicuramente pensato e redatto prima) dalla rivista di informazione militare “Interconair Aviazione Marina”, che all’interno del suo numero 70, allega un dossier dal titolo perentorio: Le ultime 100 ore di libertà in Italia. Simulando tutta una serie di situazioni, per gli estensori, drammatiche e catastrofiche: manifestazioni e scontri di piazza, tra cui si evidenzia, giovedì 24 giugno 1971 a Bologna durante un comizio sindacale, lo scoppio di una bomba:

ore 10,30 – Grande manifestazione unitaria nelle principali vie cittadine del capoluogo, che, con tutta la regione Emilia-Romagna ha proclamato lo sciopero generale.
In particolare, a Bologna, ai dimostranti si sono aggiunti operai metalmeccanici lombardi, anch’essi in sciopero e attivisti laziali, fatti appositamente giungere con numerosi pullman e con i treni dalle centrali sindacali. Si teme che elementi “filo-cinesi” si siano infiltrati tra la folla che si sta radunando in Piazza Maggiore. Il Prefetto di Bologna ha ricevuto ordine dal Ministero dell’Interno di cercare di non far degenerare la manifestazione in scontro aperto ma di “tallonare” comunque da vicino i manifestanti senza dare troppo nell’occhio con uno spiegamento di forze troppo appariscente. In Emilia sono stati fatti affluire comunque alcuni reparti celeri di Pubblica Sicurezza e alcuni reparti mobili di Carabinieri per ogni evenienza si tratta di reparti del I V Btg. Mo ile da Padova in rinforzo al V Btg. Mobile di stanza nella città). Verso le ore 11, la folla radunatasi in Piazza Maggiore, dove è previsto che alcuni oratori prenda no la parola, é enorme. E’ a questo punto che avviene il fattaccio. Improvvisamente in mezzo alla folla, mentre il primo oratore sta per iniziare il suo discorso, si sente un terribile boato e si alza una colonna di fumo: é esplosa una bomba! La folla per un attimo rimane immobile poi é il panico, é la strage: calcoli successivamente accertati valutano in 36 i morti in seguito all’esplosione e in 71 i morti calpestati dalla folla che, impazzita, é in fuga verso qualsiasi direzione. La confusione é enorme: gli stessi sindacalisti sono rimasti come impietriti sulla tribunetta e passano preziosi minuti prima che si pensi a qualche azione di soccorso. Ai loro piedi decine di persone rantolano e si disperano, cercando gli amici e i colleghi. La piazza comunque tende a vuotarsi perché si temono ulteriori esplosioni. Dopo circa mezz’ora, i feriti, moltissimi, incominciano ad essere portati agli ospedali. Alcuni, meno gravi, alle poche farmacie che non hanno abbassato le saracinesche. Molti feriti presentano gravi contusioni causate dalla folla che li ha calpestati.4

La lunga citazione si è resa necessaria per evidenziare le analogie con quanto avviene, il 28 maggio 1974 a Brescia, durante un comizio al termine di uno sciopero generale indetto contro il fascismo dai sindacati confederali. Alle 10,12 di quel martedì maledetto, in Piazza della Loggia esplode un ordigno che, complessivamente, causerà la morte di 8 persone e il ferimento di un centinaio di manifestanti.

L’Unità del 25 ottobre 1970, a pagina 7, titola: Invasione Sovietica con l’aiuto Vaticano!, con questo occhiello: “Provocatorio libello apparso su una rivista di ‘esperti’ militari”, ed un ancora più duro sommario: “La ricostruzione delle ‘ultime 100 ore di libertà in Italia’ in una pubblicazione diffusa tra le nostre forze armate-Il lunghissimo e ridicolo (?) testo è presentato come ‘molto meno fantascientifico di quanto si possa ritenere’-Preoccupanti analogie con un discorso del ministro della difesa Tanassi5 e con un discorso dell’ammiraglio Birindelli6 – L’esaltazione del Psu7 ”.
La pubblicazione evidenzia l’arruolamento dei fascisti “soldati politici” che si richiamavano al motto nazista delle SS italiane: “Il nostro onore si chiama fedeltà”. In realtà si dimostrarono fedeli soprattutto alle ‘rimesse’ economiche che ricevevano dai vari servizi, interni ed internazionali e che, come cagnolini fedeli, scodinzolavano a comando per i loro padroni.

Il pamphlet evidenzia la predisposizione informatoria in particolare di Ordine Nuovo, ma anche Avanguardia Nazionale8 .
“Risultò che non un solo esponente di questa organizzazione fosse estraneo a rapporti di dipendenza dai servizi segreti italiani e statunitensi, a partire da Pino Rauti strettissimo collaboratore dell’ammiraglio Henke, capo del Sifar prima e del Sid poi, dal 1966 al 1970”. (p.34)
E snocciola i nomi degli “spioni patrioti”: oltre agli inflazionati Giovanni Ventura e Franco Freda, troviamo Massimiliano Fachini, Delfo Zorzi, Nico Azzi9 (per sua stessa ammissione), Gianni Casalini e Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone”, condannato definitivamente all’ergastolo per la strage di Brescia. Tutti informatori tricolorati.

“Almeno quattro infine le pedine all’interno di Ordine Nuovo ‘dirette’ dai servizi Usa: Carlo Digilio, Marcello Soffiati, il professor Lino Franco e Sergio Minetto”. (p. 34)
Un occhio d’attenzione lo riserva anche agli infiltrati. Mario Merlino e Salvatore Ippolito (“un agente di pubblica sicurezza appositamente infiltrato dalla Questura di Roma”), Stefano Serpieri (in Grecia con Merlino, partecipi, con altri squadristi, alla gita premio alla “scuola quadri” dei colonnelli) ed Enrico Rovelli10 la ‘gola profonda’ della delazione. Denominazione in codice, forse anche per disprezzo, Anna Bolena, l’adultera ed incestuosa seconda moglie di Enrico VIII, proprio per questo condannata alla decapitazione.

Ci sono anche altre curiosità, se non si trattasse di avvenimenti collegati alla tragedia che ha sconvolto le nostre vite11 , in particolare quelle dei parenti degli assassinati, compresa la diciottesima vittima della strage del 12 dicembre 1979: Giuseppe Pino Pinelli. Come il mistero delle quattro bombe milanesi di quella drammatica giornata; i depistaggi padovani relativi all’acquisto dei timer e delle borse usati per confezionare e depositare gli ordigni, nonché il boicottaggio e trasferimento di un commissario di polizia in organico alla questura di Padova e di un giudice in servizio al tribunale di Treviso.
Il sigillo politico e l’individuazione degli autori del massacro: “La corresponsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura in ordine ai fatti del 12.12.1969 appare sufficientemente dimostrata”. Tra le motivazioni Corte di assise di appello di Milano del 13 aprile 2004. Ribadita dalle motivazioni della Cassazione depositate il 10 giugno 2005: “Freda e Ventura erano certamente colpevoli anche se ormai questo ‘approdo’ non poteva ‘provocare effetti giuridici di sorta nei confronti di costoro’ in quanto ‘irrevocabilmente’ assolti dalla Corte di assise di appello di Bari”. (p. 35)
Mentre i parenti delle vittime, sempre da questi pronunciamenti, erano condannati a pagare le spese legali. Oltre al danno, anche le beffe…

Il quaderno di “memoria attiva” si conclude, al contrario del libro La Strage di Stato,12 che si apriva così, con la “misteriosa” scomparsa (e successivo ritrovamento del cadavere) di Armando Calzolari, tesoriere del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese.

Soprattutto quest’ultimo avvenimento, come le molte altre vicende e segnalazioni ricordate, invito a leggere nell’utile pro-memoria antifascista, che fa il paio con un’altra recente produzione dell’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre (costola di Varese) incentrato sull’attività del gruppo neonazista dei Dodici Raggi13 .
Entrambe queste due produzioni di informazione e lotta antifascista si possono reperire in edizione cartacea, alle iniziative organizzate, o a cui partecipano, i ricercatori dell’Osservatorio.
In formato Pdf sulla pagina Facebook dello stesso.
“Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia”.


  1. http://www.osservatorionuovedestre.net/?s=Guido+Paglia  

  2. Prevedeva l’arresto e il trasferimento, con ponte aereo in campi di prigionia appositamente allestiti in Sardegna, di 157.000 cittadini schedati e 800 esponenti di sinistra  

  3. L’originale è riprodotto a p. 242 di, G. Fuga-E. Maltini, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), seconda edizione, novembre 2017  

  4. Questo manuale delle sovversione andrebbe riprodotto e letto per intero. In pratica è una previsione, meglio una predizione di quanto avverrà. Lo riprenderemo in occasione di una riflessione sulla strage di Brescia  

  5. Più volte segretario nazionale del Psu-Psdi. Condannato per lo scandalo Lookheed, vedi https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/  

  6. Presidente e deputato del Movimento Sociale Italiano  

  7. Fondato nel luglio 1969 da una scissione del Psi, nel 1971 divenne Psdi  

  8. http://www.osservatorionuovedestre.net/?s=avanguardia+nazionale  

  9. Condannato a 13 anni di reclusione per l’ attentato al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973. Si ferì alle gambe mentre stava preparando l’innesco di due saponette di tritolo militare da mezzo chilo l’una nella toilette, dopo aver lasciato in giro, lui e i suoi camerati, un po’ di copie di Lotta Continua, tanto per far capire dove si dovessero cercare i colpevoli. Altri due anni di carcere li ha guadagnati per l’assassinio del poliziotto Antonio Marino, Milano 12 aprile 1973  

  10. Vedi: La Spia, p. 128 in Fuga-Maltini, cit. n. 4  

  11. Vedi: https://www.carmillaonline.com/2017/12/12/le-false-verita/  

  12. AAVV, La strage di Stato. Controinchiesta, la Nuova Sinistra-Samonà e Savelli, Roma, giugno 1970. Il lavoro, coordinato dal giornalista Marco Ligini e dall’ avvocato Eduardo Di Giovanni, era stato condotto da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. A settembre 1970 era giunto alla quarta edizione, una al mese, e 60.000 copie vendute in quattro mesi. Sempre Samonà e Savelli ne ha realizzato una ristampa anastatica nel 1977, mentre l’ultima ristampa che ho rintracciato, a cura del settimanale Avvenimenti, è del dicembre 1993  

  13. A cura dell’ Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre di Varese, I bravi ragazzi della provincia prealpina di Varese. I neonazisti: i Do.Ra. di Varese, Varese, novembre 2018  

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Orgogliosamente rivoluzionari: per una storia dei GAAP https://www.carmillaonline.com/2018/03/08/orgogliosamente-rivoluzionari-storia-dei-gaap/ Wed, 07 Mar 2018 23:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44080 di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Franco Bertolucci (a cura di), GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1 Dal Fronte Popolare alla “Legge Truffa”. La crisi politica e organizzativa dell’anarchismo, Quaderni della Rivista Storica dell’Anarchismo n° 7/2017, BFS Edizioni – PANTAREI, pp. 776, € 40,00

Uno degli aspetti positivi del recente tracollo elettorale dei Sinistrati, istituzionali e non, potrebbe essere costituito da un ritorno allo studio della Storia del movimento operaio oltre che da una riapertura della ricerca e da una maggiore attenzione nei confronti di tutte quelle espressioni dell’antagonismo di classe, anarchiche e comuniste, che per decenni la storiografia italiana e il dibattito politico-ideologico, che ha nutrito e di cui si è nutrita, avevano drasticamente rimosso. Una ricerca di tal fatta, motivata e libera da impicci ideologici, potrebbe poi servire a rimuovere quell’idea, falsamente moderna, che gli appelli rivoluzionari alla lotta di classe e all’anticapitalismo radicale possano appartenere soltanto a un folklore e a una tradizione ormai superati.

Soprattutto in questo cinquantenario del ’68 diventa perciò utile e necessario far riscoprire ai giovani, ma anche a coloro che non lo sono più, l’immensa mole di esperienze e riflessioni che accompagnarono le numerose aggregazioni politiche che, tra la caduta del fascismo e la ripresa delle iniziative di classe degli anni sessanta, si svilupparono a sinistra del PCI e in netta polemica con lo stalinismo e la conduzione togliattiana del “più grande partito comunista dell’Occidente”.1

Ancora una volta è stato Franco Bertolucci, intrepido ricercatore, direttore della Biblioteca Franco Serantini di Pisa e responsabile editoriale della stessa casa editrice BFS, a curare un’opera che scava negli anni compresi il 1945 e la fine degli anni Cinquanta e costituisce la conseguenza del fatto che, nell’aprile del 1998, Pier Carlo Masini avesse fatto dono alla Biblioteca Serantini dell’archivio politico dei GAAP (Gruppi anarchici di azione proletaria) e delle sue carte personali. L’impegno era che alla sua scomparsa, dopo un periodo di dieci anni, quei materiali fossero riordinati e resi disponibili per le attività di studio e di ricostruzione storica.

Così questo volume, il primo di tre, testimonia il rispetto di quell’impegno e di vent’anni di lavoro, per riportare letteralmente alla luce, come un reperto sconosciuto ai più, la ricerca portata avanti da un ristretto ma deciso e significativo nucleo di compagni, prevalentemente di estrazione anarchica, di un comunismo consigliarista e libertario che superasse le disgraziate scelte messe in atto dai partiti e dalla Terza Internazionale stalinizzati e allo stesso tempo l’impasse in cui sembravano essere precipitati l’anarchismo e le opposizioni di Sinistra dopo le esperienze devastanti della guerra di Spagna, dei totalitarismi e del secondo conflitto mondiale. Come afferma G. Berti, citato da Bertolucci:

“La tragedia della rivoluzione spagnola fu veramente la tragedia e la fine del movimento anarchico nato a Saint-Imier. Questo infatti si trasformerà lentamente ma inesorabilmente in un corpo ideologico immobile e in questa scia obbligata, ma sterile, affronterà i devastanti effetti della seconda guerra mondiale. Gli anni che seguirono non portarono sostanziali mutamenti alla irrimediabile situazione emersa con la sconfitta della rivoluzione spagnola. L’anarchismo non ebbe un vero ricambio generazionale perché la condizione creatasi dopo il 1945 lo mise, in modo ancora maggiore, in una posizione di assoluto isolamento che lo poneva di fatto fuori dalla realtà”.2

Nel settembre del 1939 avrebbe poi avuto inizio

“il più grande conflitto armato della storia dell’umanità, nel quale vennero usate nuove armi di distruzione di massa mai utilizzate fino a quel momento. […] Il movimento operaio internazionale rimase, ancor più che nella Prima guerra mondiale, lacerato e immobilizzato. La guerra imperialista fra gli Stati ebbe il sopravvento e quasi tutti i partiti di sinistra si dichiararono favorevoli al conflitto con le potenze dell’Asse”.3

Gli stessi esponenti anarchici, in alcuni casi, finirono con l’appoggiare l’intervento bellico degli alleati interpretandolo in chiave esclusivamente antifascista, mentre le opposizioni di Sinistra, schiacciate tra nazi-fascismo e stalinismo, si ritrovarono a tacere oppure ad avere un’influenza quasi nulla sulle masse ormai diversamente nazionalizzate. Mentre gli agenti dell’Ovra, della Ghepeù e dei nazisti davano loro la caccia per eliminarli fisicamente o per internarli nelle carceri o nei lager o nei gulag, oppure ancora mentre gli stati “liberali” concorrevano ad internare nei campi di prigionia militanti anarchici e comunisti di sinistra insieme a filo-fascisti e filo-nazisti.
Qualche anno dopo le prime prese di posizione degli anarchici a favore della guerra, che lasciarono uno strascico di polemiche e di lacerazioni interne al movimento,

“un convegno organizzato a New York dai gruppi anarchici riuniti del Nord America (24 dicembre 1943) elaborò un lungo documento, pubblicato l’anno seguente, dal titolo Rivoluzione e controrivoluzione. Nel documento, uno dei pochi prodotti in questo periodo di guerra dal movimento libertario di lingua italiana, si fa una lunga disamina delle radici del conflitto, partendo da quello precedente e analizzando la nascita delle dittature, lo sviluppo del capitalismo, il ruolo della Russia sovietica e la politica contraddittoria delle democrazie occidentali di fronte al nazifascismo e alla sua politica aggressiva. La conclusione del documento ribadisce, con le parole usate a suo tempo da Luigi Galleani, l’atteggiamento degli anarchici: «contro la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale»”.4

Questa posizione può costituire, per certi versi, il canto del cigno dell’opposizione anarchica al conflitto imperialista in atto e, allo stesso tempo, la base di quell’elaborazione politica e teorica che nel secondo dopoguerra, in un clima di controrivoluzione imperante, avrebbe portato al tentativo di riorganizzare tra di loro i militanti anarchici e della Sinistra Comunista che avevano tenuta ferma la barra nella direzione della lotta al capitalismo e all’imperialismo, qualsiasi fossero le forme sotto cui si presentavano le due idre.
Occorre qui ricordare

“che il numero dei militanti (anarchici – N.d.R.) sopravvissuti a vent’anni di regime, che non si erano piegati e non avevano accettato compromessi, si aggirava nell’estate del 1943 intorno ai 2/3.000 individui, nella stragrande maggioranza nati tra il 1880 e i primi del Novecento e formatisi politicamente prima dell’avvento al potere del fascismo. Praticamente sono pochi i ventenni, cioè la generazione di giovani nati sotto il fascismo e che possono rappresentare il futuro del movimento. Questa cesura, o vuoto, generazionale peserà fortemente nello sviluppo del movimento e soprattutto nella sua incapacità di riallacciare le file della propria presenza tra le classi subalterne. […] Altro dato importante è il fatto che il nucleo più consistente di militanti, circa 200/300, che si trovava assegnato nelle diverse carceri o in località di confino, in particolare a Ventotene, non viene immediatamente liberato come gli altri prigionieri politici al momento della caduta del fascismo. Ad esempio, su iniziativa del capo della colonia di Ventotene, Marcello Guida – nome che ritornerà prepotentemente nella storia del movimento libertario nell’autunno del 1969 quando, come questore di Milano, si troverà a gestire la «Strage di Piazza Fontana» e il caso di suicidio/omicidio del ferroviere anarchico ed ex partigiano Giuseppe Pinelli –, gli anarchici confinati vengono destinati al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari in provincia di Arezzo insieme con alcune migliaia di slavi. Solo dopo l’8 settembre riusciranno a fuggire dal campo di prigionia prima dell’arrivo dei tedeschi”.5

L’euforia post-resistenziale e la fine della guerra oltre che del fascismo non avrebbero sviato l’attenzione di questi compagni da quello che era il reale fuoco e il reale motore dei drammi appena trascorsi. L’abbuffata democraticistica, in cui apparentemente Truman e Stalin, borghesi e proletari, nazioni e classi, capitalismo e sfruttati potevano darsi felicemente la mano, non li aveva minimamente toccati. Anche se nel frattempo la situazione politica internazionale e nazionale, la composizione di classe e la cultura che le accompagnava si era, per forza di cose, significativamente modificata.

Fu in questa situazione e in questo iato culturale venutosi a creare tra le avanguardie militanti più radicali e la società circostante che ebbe inizio l’avventura dei Gruppi anarchici di azione proletaria (GAAP). Il cui principale animatore si può individuare nella figura di Pier Carlo Masini (1923 -1998), straordinaria figura di intellettuale, ricercatore, storico del movimento anarchico ed operaio, che proprio nel 1949, su Volontà, aveva scritto: «A mio giudizio non è esatto affermare che nella storia tutti i moti di libertà o di giustizia o di umana affermazione, ieri o domani, possano avere una relazione di consanguineità con l’anarchismo». Affermazione in cui era evidente l’intenzione di Masini

“di contestare tutte quelle correnti e/o tendenze del movimento anarchico che interpretano l’anarchismo come un’idea generica di ribellismo o, viceversa, ogni forma di ribellismo sociale che si senta in qualche modo autorizzata a essere inclusa nell’alveo della grande famiglia libertaria. Questa posizione nasce, appunto, dalla considerazione di come il movimento anarchico nell’immediato Secondo dopoguerra, sull’onda della riconquistata libertà, abbia accolto nelle sue file militanti di ogni genere, che spesso hanno creato confusioni e contraddizioni. […] «La storia di ogni società esistita fino ad oggi è storia di lotte di classe», la lapidaria sentenza si trova, come è risaputo, nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels e secondo Masini non è necessario esser convinti adepti del materialismo storico per accettare l’essenza di verità racchiusa nella frase testé citata. Sebbene la storia umana non possa esser tutta spiegata con l’azione della lotta di classe, non si può negare che i conflitti sociali più o meno violenti ne siano stati uno dei motori principali.[…] Dell’elaborazione marxiana sulle classi, Masini condivideva l’individuazione nel proletariato e nella borghesia delle due classi emergenti, ma antagoniste, di quella fase storica – il secolo decimonono – e da ciò ne conseguiva la considerazione che nel momento in cui il proletariato avesse portato avanti i propri interessi all’interno del sistema capitalistico, essendone in quanto forza-lavoro prodotto e componente prima, ne avrebbe determinato la totale distruzione; e poiché alla proprietà dei mezzi di produzione avrebbe sostituito la proprietà comune, avrebbe conseguentemente eliminato anche le classi che sono a quella connesse. Era quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, riprendendo la riflessione del filosofo ed economista di Treviri, erano principalmente di ordine economico; esse potevano però soltanto delimitare quella che veniva definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo aveva creato una situazione comune”.6

Inoltre Masini scriveva ancora sulla classe e il proletariato

“che, illuso o tradito, non può mai venir meno a se stesso perché è sempre e ferreamente presupposto dalla classe nemica, dallo stato nemico: resta un conflitto di classe, sia pure deviato dai liquidatori o sfruttato dai demagoghi, una lotta implacabile di «quelli che stanno sotto» contro «quelli che stanno sopra»; resta soprattutto l’esigenza di dare a questo movimento di classe una ideologia che esso non esprime mitologicamente dal suo seno come un tempo sognarono i pontefici massimi dell’operaiolatria, ma che un secolo di lotte ci propone oggi come il prodotto delle sue dirette esperienze”.7

A fronte di un movimento anarchico che rivendicava, attraverso la redazione della stessa rivista Volontà, un ruolo più di testimonianza che di direzione politica, Masini opponeva l’idea che

“gli anarchici devono organizzarsi e attrezzarsi con un’ideologia che rivendichi la piena autonomia dei lavoratori nel definire e realizzare il proprio percorso di emancipazione, e questa è una condizione sine qua non per l’acquisizione di una coscienza politica che può condurre verso la conquista e l’avvento di una società liberata”.8

“Per Masini, come per il gruppo formatosi nel frattempo intorno a lui, non può esistere una rivoluzione senza un movimento rivoluzionario, di conseguenza è fondamentale per gli anarchici uscire dal loro isolamento e darsi una funzione di «avanguardia», proprio per insinuare nelle lotte sociali il germe dell’insurrezione: «È per questo che noi vogliamo agganciare al movimento della classe lavoratrice una rivendicazione di libertà che completa e trascende le limitate richieste a fondo politico ed economico». E la funzione dei gruppi anarchici specifici per Masini nel divenire sociale è ben precisa: «Allora non bisogna dimenticare che i gruppi anarchici nei luoghi di lavoro operano oggi in una situazione controrivoluzionaria e non possono avere che uno scopo: quello di illustrare, documentare, descrivere la crisi, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria»”. 9

Su queste basi, che sottendono una situazione controrivoluzionaria che solo successivamente potrà essere superata e un confronto serrato con molte delle federazioni anarchiche diffuse sul territorio nazionale, Masini contribuirà a dare vita al periodico L’Impulso, che vedrà raccogliersi intorno alla sua redazione (composta nel primo anno e mezzo di vita quasi esclusivamente dal solo Masini) Augusto Boccone, fornaio e militante di vecchia e provata fede; due giovani della classe 1920 entrambi amici personali di Masini: Luciano Arrighetti operaio della Galilei e Sirio Del Nista impiegato ai Cantieri Orlando di Livorno. I liguri Arrigo Cervetto, Lorenzo Parodi, Agostino Sessarego e Aldo Vinazza – classi 1925-1927 – tutti di estrazione proletaria con esperienze nella Resistenza. I piemontesi, che rappresentano forse il gruppo più omogeneo dal punto di vista sociale essendo tutti di estrazione proletaria e inseriti nei principali stabilimenti industriali del capoluogo regionale con una grande esperienza sindacale alle spalle e anche internazionalista visto che tra loro ci sono volontari che hanno combattuto in Spagna come Aldo Demi – classe 1918 –, o che hanno un lungo excursus nel movimento, come Paolo Lico – classe 1903 –, tutti o quasi facenti parte di un gruppo storico dell’anarchismo torinese, quello del quartiere popolare di Barriera di Milano, insieme a numerosi altri provenienti da diverse regioni. I militanti che ruotano intorno al periodico hanno una prevalente estrazione proletaria, ma con una significativa presenza di giovani intellettuali, studenti e insegnanti, che poi svolgeranno una discreta influenza sullo sviluppo dell’organizzazione.

“Il primo obiettivo di questo nuovo impegno del gruppo è quello di iniziare alla base un paziente lavoro di restaurazione teorica allo scopo di rianimare i compagni disorientati o ideologicamente deboli; di qui la necessità di riassestare consolidare potenziare, sul piano locale, il tessuto associativo minacciato da un avanzato processo di lacerazione. Va altresì ricordato che questo gruppo, soprattutto i più giovani, è attraversato da un sentimento di inquietudine, di voglia di essere in qualche modo protagonista del proprio avvenire, ma nel contempo è incerto nelle scelte soprattutto teoriche. Masini li sprona allo studio, invia loro continuamente lettere nelle quali suggerisce letture di classici, sia politici che economici. Tra di loro c’è chi non ha una formazione prettamente anarchica, ma spesso è mutuata da elementi spuri derivati dalla cultura social-comunista, o repubblicana; Masini ne è ben cosciente e cerca con tutte le sue forze di costruire un cammino comune, ma l’impresa come vedremo non sarà priva di ostacoli e anche di delusioni. Tra i nomi dei giovani che sono tra i più irrequieti e in qualche maniera “problematici” c’è Cervetto”10

Che nell’immediato Secondo dopoguerra vive un’evoluzione politica e teorica che lo porterà ad essere da antifascista ribelle e comunista irregolare ad anarchico, come reazione alla svolta del «partito nuovo» di Togliatti.
E proprio in una lettera a Cervetto del 16 novembre 1949 che Masini delineerà in parte il programma dell’attività di quelli che diverranno i GAAP:

“Mi sembra che sul piano ideologico si possa andare d’accordo dichiarando il fallimento di socialdemocrazia-bolscevismo-sindacalismo-anarchismo tradizionale. […] Ora ecco la prospettiva che si disegna
a) dichiarare il fallimento di tutto il passato (anche nostro);
b) procedere alla formazione di un movimento (anarchico) nuovo.
Fin qui la prospettiva politica, di anni. Poi la prospettiva storica, di decenni.
c) Formare il movimento di classe.
Natura non facit saltus.
Sul terreno ideologico le nostre posizioni coincidono.
Sull’astensionismo siamo d’accordo.
Sul «partito» nessuno vuole il partito tradizionale della classe operaia, né l’azienda elettorale dei socialdemocratici né la superassociazione di amicizia italo-sovietica degli stalinisti, ma qualcosa di superiore di metapartitico.[…] se un presupposto della dissoluzione dello stato nella fase rivoluzionaria è la formazione particolare dei quadri rivoluzionari, risulta anti-pedagogico, controproducente parlare a questi quadri il linguaggio della «dittatura», della «egemonia», della «conquista del potere». Significa capitolare innanzi tempo di fronte all’ipotesi dello stato, ripiegare passivamente su posizioni di rinuncia, di pigrizia, di controrivoluzione preventiva.
Bisogna decisamente puntare sul non-stato, concentrare tutte le forze nel periodo rivoluzionario senza deroghe, senza proroghe dei problemi. Ci siamo?”11

Sarà sostanzialmente su queste basi, oltre che su una più vasta riflessione di carattere geo-politco sull’imperialismo e sull’opposizione alla guerra, che sarà formulato il documento politico della Conferenza nazionale convocata dal Gruppo d’iniziativa per un movimento «orientato e federato» svoltosi a Pontedecimo, in provincia di Genova, dal 24 al 25 febbraio 1951da cui avranno ufficialmente origine i GAAP. Le cui tesi principali saranno elaborate da Masini e da Cervetto.
Con il secondo ormai più orientato verso ipotesi di stampo leninista.

“Tra gli osservatori che partecipano alla Conferenza di Genova-Pontedecimo vanno segnalati Bruno Maffi, rappresentante del Partito comunista internazionalista; Livio Maitan e Sergio Guerrieri dei Gruppi comunisti rivoluzionari IV Internazionale. La presenza di queste organizzazioni a una riunione di anarchici rappresenta una novità. […] I bordighisti all’epoca rappresentano una delle «dissidenze» storiche del comunismo italiano, nel loro costituirsi in formazione politica distinta durante gli anni del Secondo conflitto mondiale, avevano sempre cercato di rivendicare la continuità con l’esperienza del Partito comunista d’Italia fondato a Livorno nel 1921. Questo richiamo alle radici non era casuale, e non riguardava solo anagraficamente la storia di alcuni dei principali militanti e teorici – tra cui lo stesso Amadeo Bordiga, primo segretario e fondatore del PCd’I –, ma soprattutto era di natura politico ideologica. La scelta nella propria denominazione dell’aggettivo «internazionalista», testimoniava la rivendicazione della vera essenza del comunismo rivoluzionario in contrapposizione al modello staliniano e togliattiano del partito, che faceva del nazionalismo la propria bandiera. La loro presenza alla Conferenza nazionale del gruppo de «L’Impulso» era dettata soprattutto dai buoni rapporti personali che negli anni Masini aveva mantenuto con quest’area politica e dalla quale traeva alcune riflessioni teoriche, specialmente quelle riguardanti l’analisi di Bordiga sullo Stato e la scelta internazionalista che l’intellettuale toscano stesso aveva condiviso durante l’ultima guerra”.12

La preoccupazione maggiore di Masini non fu però soltanto quella di costruire un’organizzazione che in una situazione controrivoluzionaria non avesse altro scopo che quello di illustrare, documentare e descrivere la crisi, non solo economica ma soprattutto politica del movimento proletario, dare la rappresentazione geometrica e puntuale di questa crisi fondando in tal modo le premesse della riscossa proletaria. Ma anche quella di chiarire che nel momento in cui il lavoro politico fosse venuto

“a combaciare con la realtà rivoluzionaria, in questa si dissolve e scompare come movimento. Guai se l’organizzazione politica sopravvivesse di un attimo! Guai se anche i gruppi anarchici di fabbrica non si bruciassero ipso facto nel nuovo spazio umano delle assemblee. Avremmo allora una mostruosa dittatura, chiusa e tirannica quanto altre mai. L’alba della rivoluzione deve coincidere col tramonto dei suoi annunziatori”13

Quell’avventura politica sarebbe durata fino al 1957, in uno dei periodi più burrascosi e difficili per il movimento operaio non soltanto italiano; segnato dalla fine apparente dello stalinismo, dalla rivolta operaia “rimossa” di Berlino Est del 1953 e dalla repressione sovietica dell’insurrezione dei consigli ungheresi del 1956. Nel mentre quei compagni sarebbero stati sempre attenti ai nuovi sviluppi della lotta di classe e all’evolversi della situazione internazionale e dei conflitti interimperialistici.

L’organizzazione sarebbe stata attraversata anche dolorosamente dalle contraddizioni esplosive che si manifesteranno nella seconda metà del decennio post-bellico, ma sempre quei compagni avrebbero cercato di non perdere la rotta e di mantenere un punto di vista adeguato sia alla situazione ancora ritenuta controrivoluzionaria che alle possibili evoluzioni future della lotta di classe e della rivoluzione.
Come esempio di tale attenzione e lucidità basti qui ricordare una risoluzione del Comitato nazionale dei GAAP sui moti di Berlino del giugno 1953:

“Il giorno 17 giugno le strade di Berlino, quelle stesse strade che nel primo dopoguerra rosso furono teatro della estrema resistenza spartachiana contro le truppe del traditore Noske, sono state invase da prorompenti turbe di lavoratori e di lavoratrici che dopo anni di silenzio, di reazione croce-uncinata, di guerra imperialista, di occupazione militare hanno levato la voce fremente ed angosciosa di una classe di schiavi in rivolta. Come anarchici e come rivoluzionari noi consideriamo questo avvenimento, insieme alle eroiche sollevazioni dei popoli coloniali, insieme alle dure lotte dei lavoratori europei contro l’imperialismo americano, come uno dei fatti più importanti e più significativi degli ultimi anni.
Il 17 giugno l’imperialismo sovietico ha rivelato le debolezze e le contraddizioni del suo sistema non più attraverso oscuri conflitti tra alti gerarchi di partito e di governo, facilmente risolvibili con l’impiccagione dei vinti, non più attraverso processi, sensazionali e clamorosi quanto privi di ogni significato sociale, di fronte ai quali le masse assistevano passive e attonite. No, questa volta le masse sono entrate nel processo come accusatrici ed hanno impostato la causa su chiari motivi di classe: di là lo Stato burocratico e poliziesco, l’esercito straniero, il partito di governo; di qua noi, popolo lavoratore, armato dei nostri diritti al pane ed alla libertà. Ancora una volta è stato dimostrato che né il peso opprimente di una dittatura, né l’illusione di un «socialismo» statalista e burocratico. Né il violento annientamento fisico di ogni qualificata opposizione rivoluzionaria sono sufficienti a garantire la classe egemone dall’incontenibile insurrezione delle forze di classe che sgorgano alla base della sua stessa egemonia e le si avventano contro”.14

L’enorme mole di documentazione e di testi riportati in questo primo volume andrebbe esaminata ancora più approfonditamente, cosa che lo spazio di una recensione non può permettere, ma sicuramente le pagine della coraggiosa e ampia opera di ricostruzione curata da Bertolucci, insieme a quelle dei due volumi che seguiranno15 e che ancora qui su Carmilla saranno recensiti, richiamano tutti allo studio della Storia e ci ricordano che il processo di formazione dei partiti e dei movimenti reali non è semplice né casuale né, tanto meno, volontaristico. Sorge invece da lunghe riflessioni sulle sconfitte passate e dalla dura esperienza delle lotte reali, condivise (non soltanto sulla base ideologica) e diffuse sui territori, non da un’urna elettorale e nemmeno dall’aggregazione di rappresentanti di formazioni politiche ormai defunte che come fantasmi si rifiutano semplicemente di accettare l’idea di esser già scadute da tempo.


  1. Come spesso si ricordava orgogliosamente, senza allo stesso tempo ricordare quale incredibile baluardo della restaurazione borghese questo avesse finito col rappresentare fin dalla svolta di Salerno e quale ostacolo avesse sempre costituito per la riorganizzazione di classe dal basso e per l’autonomia politica della stessa  

  2. G. Berti, Il pensiero anarchico: dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998, pp. 47-48 cit. in F.Berolucci, Per una storia dei Gaap, in GRUPPI ANARCHICI D’AZIONE PROLETARIA. LE IDEE, I MILITANTI, L’ORGANIZZAZIONE. Vol.1, pag. 56  

  3. F. Bertolucci, op.cit. pag. 56  

  4. Bertolucci, op.cit. pp.57-58  

  5. Bertolucci, pag. 61  

  6. op.cit. pp. 94-95  

  7. pag.96  

  8. pag.96  

  9. pag. 97  

  10. pag. 110  

  11. pag. 114  

  12. pp. 153-154  

  13. Cit. in Bertolucci, pag. 97  

  14. Le rosse giornate di Berlino est, Genova 15 luglio 1953, op.cit. pag. 475  

  15. Il secondo intitolato: Dalla rivolta di Berlino all’insurrezione di Budapest. Dall’organizzazione libertaria al partito di classe; mentre il terzo sarà dedicato alle biografie dei vari militanti  

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Un altro 12 dicembre https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/un-altro-12-dicembre/ Tue, 13 Dec 2016 23:10:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35298 di Sandro Moiso

12_dicembre_2016 Quarantasette anni fa, il 12 dicembre 1969, al culmine di una stagione di formidabili lotte, lo Stato, la classe dirigente italiana e i loro servi non seppero rispondere in altro modo che con una provocazione di stampo terroristico che, con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, causò 17 morti e 87 feriti. La Strage di Piazza Fontana, come sarebbe stata in seguito ricordata, aprì però non solo una stagione di attentati, ma anche quella in cui la strategia della tensione contribuì a provocare una levata di scudi antifascista in difesa [...]]]> di Sandro Moiso

12_dicembre_2016 Quarantasette anni fa, il 12 dicembre 1969, al culmine di una stagione di formidabili lotte, lo Stato, la classe dirigente italiana e i loro servi non seppero rispondere in altro modo che con una provocazione di stampo terroristico che, con l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, causò 17 morti e 87 feriti.
La Strage di Piazza Fontana, come sarebbe stata in seguito ricordata, aprì però non solo una stagione di attentati, ma anche quella in cui la strategia della tensione contribuì a provocare una levata di scudi antifascista in difesa dei diritti dei lavoratori, delle donne, dei giovani e della Costituzione che avrebbe rafforzato notevolmente le ragioni dello scontro di classe e liberato istanze e forze prima apparentemente sopite.

Sarà un caso, ma il 12 dicembre di quest’anno un mondo politico asfittico, una classe dirigente in fuga dalle proprie responsabilità e una concezione dittatoriale del potere e dei rapporti tra cittadini e Governo hanno prodotto qualcosa di molto simile. In faccia a milioni di italiani (che hanno compattamente votato affinché il regime della corruttela bancaria e mafiosa, dello sfruttamento scellerato di una manodopera sottopagata e maltrattata e dell’esaurimento di qualsiasi risorsa ambientale ed economica ai fini della pura e semplice appropriazione privata se ne andasse per essere sostituito da un governo, almeno apparentemente, eletto democraticamente) il PD e il suo ciarliero segretario, un incartapecorito rappresentante delle istituzioni, una sua pallida ed insignificante controfigura, i rappresentanti nemmeno più tanto oscuri delle consorterie bancarie e massoniche oltre che i rimasugli di un europeismo che vive ormai soltanto nella rappresentazione mitologica e punitiva che ne viene fatta, hanno fatto scoppiare un’altra bomba. Forse di portata ancora peggiore e anche più dannosa.

Il Governo clone, più che fotocopia, del governo Renzi, nasce con già sulle spalle l’aumento dei morti sul lavoro, l’aumento delle vittime del disastro ambientale (dall’inquinamento di Taranto, Brescia e della Terra dei fuochi al dissesto idrogeologico fino al mancato rispetto delle norme anti-sismiche), l’aumento dei suicidi per fallimenti, perdita del posto di lavoro oppure dei risparmi di una vita; tutti causate dai suoi consimili negli ultimi cinque anni:
Oltre ad avere alle spalle un aumento della povertà che è stato del 141% negli ultimi dieci anni, più del doppio rispetto al 2005.1

Disagio, rabbia, stanchezza sono stati sicuramente il motore principale della fragorosa vittoria del No nel recentissimo referendum costituzionale. Hanno costituito la molla del poderoso calcio in culo con cui i lavoratori, i giovani, i disoccupati, le donne italiane hanno risposto all’arroganza del governo e dei suoi ducetti. Risultato che potrebbe raddoppiare con il referendum contro il job act che dovrebbe svolgersi questa primavera. Eppure una classe dirigente priva di capacità politiche, o fosse anche solo di “impresa”, ha voluto, cercato, imposto un’altra prova di forza. Più brutale e coatta di quel referendum che ha già virtualmente fatto saltare i denti dalla bocca di parecchi suoi imbonitori. Probabilmente per fare vedere davvero chi ha le palle, sia a livello nazionale che in Europa.

ministri-2016 Questa è infatti la narrazione che il segretario del PD Matteo Renzi vorrebbe dare ancora per vincente sia presso le congreghe europee che presso i suoi dissennati elettori. Poletti ancora al Ministero del Lavoro, la Boschi premiata con un innalzamento della sua funzione e del suo ruolo, Lotti ministro con varie deleghe alle nomine più delicate, Alfano passato dagli Interni agli Esteri per evitare la prossima valanga delle conseguenze delle menzogne e delle omissioni sul caso Shalabayeva e così via tutte le altre conferme indicano proprio questa strategia o, meglio, mancanza di strategia. Così come ogni atto dissennato del potere spesso rivela. Tanto da far rilevare che l’unica rimossa d’ufficio, la Giannini, con il pretesto che sarebbe stata la “buona scuola” (ma non era renziana la proposta?) a causare la vittoria del No, era l’unica ministra i cui dipendenti (gli insegnanti), secondo alcuni istituti di ricerca, avrebbero votato, anche se con una maggioranza risicata, principalmente per il Sì.

L’Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, in un recente report ha rilevato che gli stipendi in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale e che peggio fanno solo Spagna e Portogallo, che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto.2 Ma il clone di Renzi in un discorso durato appena 17 minuti, in un’aula parlamentare semi-deserta, non ha nemmeno sfiorato l’argomento mentre invece ha confermato sostanzialmente tutti gli obiettivi del precedente governo e la volontà di rimanere in sella fino a quando il potrà contare su una risicata maggioranza di voti.

Bluffatori patentati che fingono di essere determinati, ma che in realtà, come tutti i rappresentanti di regimi autoritari, non possono far altro che ribadire la propria arroganza e la propria incoerenza travestendola di effimera progettualità (“Oggi dico una cosa e poi domani un’altra, tanto che differenza fa? Ho salde in mano le redini del potere!”). Uomini e donne di governo su cui sarebbe forse ora di indagare più approfonditamente per verificare da dove arriva , per esempio, l’autorevolezza di un ministro che rappresenta un partito da 2% dei voti oppure quella di un Ministro dedito “obbligatoriamente” alle infrastrutture (con altro vocabolario: alle grandi opere).

A tutto ciò gli italiani che hanno votato No il 4 dicembre sapranno ancora adeguatamente rispondere, non c’è dubbio. E magari anche con gli interessi. Mentre c’è da dubitare, piuttosto, che siano quelli che hanno cavalcato il fronte dello scontento a sapere o volere rispondere in maniera adeguata a questa provocazione. Giornalisti che rinunciano a girare il coltello nella piaga per non fare soffrire il governo appena insediato oppure leader politici che promettono generiche manifestazioni di piazza. Ma dove, quando, come: no, non lo dicono. Magari aspettando, con un po’ di sceneggiate da Aventino (Che, ricordiamolo, già non servì a un cazzo con Mussolini…figuriamoci adesso!), che gli animi sbolliscano per conservare il loro apparente stato di perenne opposizione. E di moderatori, si intende!

Certo le scuse possono essere molte: le scadenze europee (sempre quelle al primo posto); il salvataggio delle banche anzi della Banca più antica del mondo; la definizione della nuova legge elettorale….certo! Ma tutto ciò potrebbe essere fatto sotto l’occhio attento di piazze occupate, magari proprio nella capitale, da cittadini, lavoratori e giovani furiosi, incazzati e vigili.

Dietro al clone non c’è solo l’originale fiorentino con il suo cerchio magico. C’è l’Europa dei sacrifici e del taglio della spesa pubblica, dell’impoverimento generalizzato,3 del salvataggio degli interessi dei grandi speculatori e delle banche. Un’Europa imbottigliata nelle sue contraddizioni il cui tappo sta per saltare. Come i timori sollevati in Germania e Francia dalla sconfitta referendaria del Sì hanno ben dimostrato fin dal 5 dicembre.

grande-dittatore Oggi quelle forze si stanno giocando il tutto per tutto e non c’è molto da scegliere: occorre rovesciare il tavolo delle trattative e degli accordi, del bon ton e dei sorrisi sprezzanti, delle minacce sovra-nazionali e degli accordi internazionali. In gioco ci sono la sopravvivenza e il miglioramento o il peggioramento ulteriore delle condizioni di vita di decine di milioni di persone e questo governo è un baluardo davvero troppo debole per contenere l’ondata in arrivo.

Certo non ci sarà da andare troppo per il sottile: “se ci sarà, lui non ci sarò io” non è più un modo per ragionare del presente stato di cose. Oggi occorre costruire la più larga opposizione possibile a partire dal basso: dai movimenti di lotta come quello NoTAv ai centri sociali, dai sindacati di base a tutti i residui di opposizione che rimangono nei partiti e nei sindacati di ogni risma e a tutta la rabbia e l’insoddisfazione che si sono depositate nella società. E non importa se in alcuni casi il tutto potrebbe assomigliare ad una sorta di movimento dei forconi: saranno la determinazione di chi partecipa e le parole d’ordine e i programmi a scegliere chi dovrà porre un severo stop al ceto politico ed imprenditoriale parassitario che ci sta soffocando. E a determinarne la vittoria, elettorale e/o sociale, assediando i palazzi del potere in cui si sono arrogantemente, ma anche paurosamente e vilmente arroccati i nostri avversari.


  1. Secondo una recente inchiesta oggi 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessuna area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. E’ il profilo degli effetti causati dalla crisi (economica e occupazionale) iniziata nel 2008. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. Tuttavia gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). La crisi, distruggendo posti di lavoro e riducendo le opportunità di impiego, ha capovolto questa situazione. In un decennio il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni.
    Il numero di donne che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015, un andamento coerente con quello del resto della popolazione. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, percentuale molto simile a quella di tutti i residenti in Italia (3,3%). Una quota che nel 2009 era salita al 4%, sia per le donne che per l’intera popolazione. Nel triennio successivo per le donne si arriva fino al 5,8%, per poi superare il 7% nel 2013, livello su cui si attesta anche nel 2015. Questo dato complessivo nasconde ulteriori situazioni di disagio sociale che riguardano in particolare il genere femminile. Cfr. qui 

  2. Cfr. qui 

  3. Sul piano dell’impoverimento fanno peggio di noi soltanto Germania, Estonia e Bulgaria, mentre ancora più ampio è il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave privazione materiale oppure in famiglie a “bassa intensità di lavoro”. Secondo l’Eurostat, tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l’Unione europea, l’Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Il rischio è cresciuto anche in Svezia e Germania. La quota di famiglie in povertà assoluta è quasi raddoppiata. Erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6 al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto secondo altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005). Sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana. I nuclei familiari più in difficoltà sono quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Come si diceva, tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005, passando dal 3,9% all’11,7% del 2015. È più che raddoppiata la probabilità di trovarsi in povertà assoluta se il capofamiglia è un lavoratore autonomo, mentre la stessa probabilità rimane contenuta per le famiglie dei colletti bianchi, anche se in proporzione, rispetto al 2005, anche per esse è aumentata di quasi dieci volte. Cfr. ancora qui 

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La strategia della tensione e i mezzi di informazione. “Guerra psicologica” e controinformazione https://www.carmillaonline.com/2016/08/24/la-strategia-della-tensione-mezzi-informazione-guerra-psicologica-controinformazione/ Wed, 24 Aug 2016 21:30:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32570 di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è [...]]]> di Alberto Molinari

eco_del_boato_coverMirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 445, € 28,00.

Sei stragi che provocarono 50 morti e 346 feriti (dalle bombe di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, a quelle sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974), diverse minacce o tentativi di colpo di Stato, uno stillicidio di attentati e atti di violenza segnarono quella trama eversiva definita per la prima volta dal quotidiano inglese “The Observer”, all’indomani di Piazza Fontana, come “strategia della tensione”: è questo l’oggetto della ricerca di Mirco Dondi, docente di Storia contemporanea e direttore del Master di comunicazione storica all’Università di Bologna. L’”eco del boato”, richiamato nel titolo, è «tutto ciò che lascia l’esplosione dopo il suo scoppio». «Un rilevante atto terroristico – scrive Dondi – proietta il suo peso sui principali eventi dell’agenda politica, caricandoli dei significati generati dall’atto criminale. L’attentato produce un effetto domino sulla scena pubblica che ne esce completamente reinterpretata» (p. 3). L’”eco del boato” è quindi il cuore della strategia della tensione che l’autore ricostruisce nei suoi risvolti teorici, nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi lungo il decennio 1965-1974. Attraverso il ricorso ad un’ampia bibliografia e l’intreccio di numerose fonti – atti delle commissioni di inchiesta, documenti giudiziari, rapporti di polizia, stampa nazionale e internazionale, memorialistica e saggistica coeva – la ricerca analizza il comportamento dei diversi attori coinvolti nell’elaborazione e nella realizzazione delle strategia della tensione, dai soggetti politici e istituzionali, agli apparati militari e alle organizzazioni neofasciste. Attori che si mossero con disegni a volte diversi, ma con una comune volontà di condizionare o modificare radicalmente lo scenario politico, minando in senso antidemocratico l’assetto politico repubblicano.

La prima parte del volume è dedicata alle origini e ai presupposti teorici della strategia della tensione, maturati nel clima della guerra fredda quando l’Italia divenne di fatto un paese a sovranità limitata, condizionato dalla strategia anticomunista promossa dagli Stati Uniti tramite la Cia e strutture occulte come la rete militare Stay behind. Nella parte più corposa del testo (cinque capitoli) Dondi analizza la strategia della tensione in atto, tra il 1969 e il 1974, ricondotta in un quadro di insieme grazie ad un solido filo narrativo che riordina una materia estremamente complessa, individuandone le linee di fondo, l’evoluzione, le diverse articolazioni, contraddizioni e sfumature, poste in relazione ai mutamenti delle dinamiche politiche e del contesto sociale. Nella densa trattazione di Dondi, tra i numerosi temi e spunti interpretativi che meriterebbero di essere segnalati, ci soffermiamo sull’analisi del ruolo dell’informazione, un aspetto centrale e innovativo della ricerca, rivolto soprattutto all’ambito della carta stampata (sono oltre cento le testate, nazionali e internazionali, citate dall’autore).

I mezzi di informazione svolsero un ruolo rilevante nella guerra psicologica, fondamentale strumento, insieme alla guerra non ortodossa, della strategia della tensione. Messe a punto negli anni Cinquanta dal Pentagono, le caratteristiche della guerra non ortodossa (definita anche guerra rivoluzionaria) e della guerra psicologica furono al centro del convegno organizzato a Roma nel maggio 1965 dall’istituto Pollio – considerato l’«atto fondativo della strategia della tensione» (p. 49) – al quale parteciparono numerosi protagonisti della stagione eversiva: estremisti neri come Pino Rauti e Stefano Delle Chiaie, militari come il generale Giuseppe Aloia e il colonnello Amos Spiazzi, uomini dei servizi come Guido Giannettini.
La guerra non ortodossa prevedeva la pianificazione di strutture paramilitari e la realizzazione di azioni “coperte” «decise da una selezionata cerchia di èlites militari e politiche, al di fuori delle procedure istituzionali e all’oscuro del parlamento» (p. 7). Pensata inizialmente in funzione difensiva rispetto a un ipotetico attacco dell’Urss, negli anni Sessanta la guerra non ortodossa venne concepita come uno strumento rivolto anzitutto contro il “nemico interno” (le sinistre, in primo luogo il Pci). Il suo scopo era destabilizzare il quadro politico attraverso azioni terroristiche attribuite, secondo il meccanismo della provocazione, al “nemico”, per poi stabilizzare, modificando gli equilibri politici in senso conservatore o autoritario, se necessario anche attraverso azioni golpiste.

Nella strategia della tensione, la guerra non ortodossa rappresentava il momento dell’azione, quella psicologica il resoconto dell’azione inteso come una forma di condizionamento e di persuasione attuata attraverso la strumentalizzazione della paura e del senso di insicurezza generati dall’atto terroristico. Un compito decisivo spettava ai mezzi di informazione che dovevano diffondere l’allarme per il disordine, imporre una versione “ufficiale” degli eventi funzionale alle demonizzazione del “nemico” additato come responsabile del caos, spingere l’opinione pubblica verso una richiesta di ordine.
All’interno della guerra psicologica, nota Dondi, la narrazione pubblica dell’evento assume un ruolo fondamentale: «la notizia sovrasta l’attentato perché l’andamento del “conflitto” dipende dal significato che si attribuisce all’atto violento: l’informazione è responsabile dell’esito finale. […] La guerra psicologica giunge al suo esito quando la prefabbricata costruzione degli eventi permea il senso comune. Se le versioni di un evento entrano in forte conflitto tra loro, sia per le dinamiche della ricostruzione sia per il peso bilanciato delle testate che le sostengono, l’obiettivo rischia di non essere raggiunto» (p. 63). Risultava perciò indispensabile pianificare il flusso delle informazioni, a partire dalle agenzie di stampa – spesso legate agli ambienti di estrema destra e ai servizi segreti nazionali e statunitensi – in grado di realizzare la prima «trasformazione del fatto accaduto in notizia» (p. 76) attraverso la selezione e la manipolazione delle informazioni da veicolare alle testate giornalistiche.

Secondo le indicazioni scaturite dal convegno romano, i mezzi di informazione avrebbero dovuto «additare il nemico all’opinione pubblica, denunciandone la permanente minaccia» e costruendone «una visione ossessiva e unidimensionale»; in linea con l’impostazione teorica della guerra psicologica, dalla trasformazione dell’avversario politico in nemico assoluto discendeva «la sua criminalizzazione e l’invenzione di un suo progetto cospirativo» (p.70).
Analizzando la composizione dei convegnisti presenti al Pollio appare con evidenza la connessione tra ispiratori delle trame eversive e sistema informativo. Oltre a giornalisti di esplicita tendenza neofascista (come Mario Tedeschi, direttore de “Il Borghese”), al convegno parteciparono i direttori di sei quotidiani (“Il Messaggero”, “Il Tempo”, “La Nazione”, “Roma”, “Il Giornale d’Italia”, “Il Corriere lombardo”) rilevanti per la loro complessiva diffusione, per la dipendenza da poteri economici “forti”, per i rapporti che legavano alcuni organi di stampa ai servizi segreti. Nel 1969, l’anno di Piazza Fontana, saranno queste ed altre testate, che Dondi definisce edotte, al corrente delle strategie, oltre a quelle consenzienti (come il “Corriere della Sera”) – portate ad accettare acriticamente la versione ufficiale degli eventi, per conformismo o convenienza – a convogliare la guerra psicologica diffondendo le notizie pianificate dalle autorità politiche e militari.

2. Il-Corriere-della-Sera_13-dicembe1969La stagione stragista matura in contrapposizione ai movimenti sorti nel biennio 1968/’69, culminato nelle lotte dell’”autunno caldo”. Subito dopo la strage di Piazza Fontana la stampa amplifica il messaggio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat che suggerisce un nesso tra manifestazioni di piazza, disordine e terrorismo per indirizzare l’opinione pubblica su una linea di ritorno all’ordine. Il Quirinale individua i precedenti della strage negli attentati di aprile a Milano, nelle bombe sui treni di agosto, nella morte dell’agente Annarumma, una «tragica catena», secondo le parole di Saragat, che funge da «elemento di raccordo dotato di funzione persuasiva» (p. 162). Diversi quotidiani riprendono l’intervento presidenziale descrivendo un paese in preda al caos, invocando provvedimenti di emergenza e rafforzando la linea narrativa del Quirinale attraverso allusioni alla pista anarchica che si tenta di avvalorare con un posticcio riferimento storico, l’attentato al teatro Diana di Milano del 23 marzo 1921, che aveva provocato 21 morti (si trattava di un gruppo di anarchici individualisti – estranei all’Unione anarchica italiana – che miravano a colpire il questore). La “tragica catena” «si arricchisce così di un nuovo contundente anello che si pone come presupposto di colpevolezza e serve a conferire credibilità alla pista anarchica prima ancora che siano gli inquirenti a rivelarla» (p. 163).
Oltre alle categorie interpretative, all’indomani della strage la stampa fa leva sull’emozione suscitata dall’evento. Titoli cubitali, immagini raccapriccianti, aggettivi ricorrenti (bestiale, orrendo, mostruoso, già presenti nel messaggio di Saragat) «rinfocolano una fenomenologia delle passioni utile a scuotere il panorama politico» (p. 172). Come nota Dondi, la strage è indiscutibilmente orrenda, ma il comune ricorso a quegli aggettivi, in luogo di altre possibili varianti, rimanda all’interpretazione dell’evento veicolata dal discorso presidenziale.

3. FOTO VALPREDANei giorni successivi l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli offrono altri due anelli alla “tragica catena”: alla matrice politica a cui si allude dal 13 dicembre, si aggiungono un “colpevole” e un “suicida”, secondo la versione della questura che presenta la morte dell’anarchico come un’”autoaccusa”.
La morte di Pinelli viene comunicata il 16 dicembre dalla Tv di Stato, senza avanzare alcun dubbio sulla tesi della questura. In serata arriva in diretta, nel momento di massimo ascolto, l’annuncio dell’arresto di Valpreda, attraverso il servizio dell’inviato Bruno Vespa che apre la strada alla «lapidazione» dell’anarchico sulla stampa (p. 189). Dondi analizza in modo puntuale la costruzione del “mostro” anarchico, a partire dal ricorso alle immagini. L’istantanea più utilizzata dai giornali ritrae Valpreda mentre protesta davanti al palazzo di Giustizia di Roma. Valpreda appare «seduto con un giubbotto sportivo, un po’ spettinato, indossa pantaloni bianchi, ha un medaglione in petto in stile beat con la “a” di anarchia mentre saluta con il pugno chiuso: un uomo agli antipodi del comune borghese». Poiché è additato come certamente “colpevole”, «in quell’immagine così efficace e sovrabbondante di simboli c’è la firma inequivocabile. Il ritratto di militanza cambia significato diventando contesto di crimine. Da qui si va per estensione: […] l’estremismo o l’essere fuori dagli schemi diviene marchio di delinquenza. Valpreda con il pugno chiuso è la più potente schedatura mediatica mai realizzata» (p. 192). La strumentalizzazione di Valpreda avviene anche attraverso altre immagini, come quella pubblicata su “Il Tempo”: alla fotografia scattata in ospedale del bambino Enrico Pizzamiglio, che a causa della strage ha perso una gamba, è affiancata, in taglio fototessera, l’immagine di Valpreda: «L’effetto è notevole. L’anarchico è raffigurato con un viso torvo, i capelli sempre scompigliati, la poca luce tra il collo e il mento – oltre al fondo scuro – ne accentuano la ruvidezza, mettendo in risalto la barba appena incolta. A fianco il volto candido, innocente e sofferente del piccolo Enrico» (p. 194).

4. valpredapress2Per distruggere la dignità di Valpreda la stampa scava nella sua vita privata, enfatizza, come marchio di derisione, la sua breve esperienza come “ballerino” (“il ballerino dinamitardo”, titola “Il Giornale d’Italia”) e insiste sulla precarietà dei suoi impieghi per farlo apparire come un velleitario, un fallito. Viene evidenziato anche il suo soprannome (“Cobra”) per delineare «un ritratto da fumetto di avventura», come nella prosa del “Tempo”: «cobra per la sua capacità mimetica, per l’abilità con cui camuffava il suo credo estremista» (p. 199).

A ridosso della strage di Milano poche testate (come “Il Giorno”, “La Stampa”, “Il Mondo”) mantengono un margine di autonomia, cercando di offrire una propria interpretazione dei fatti, e solo la stampa di opposizione (“l’Unità”, “Lotta Continua”, “il Manifesto”, “L’Espresso” e altri giornali legati alla sinistra) contrasta, per ragioni diverse, le versioni ufficiali. In breve tempo però l’attentato del 12 dicembre, l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli producono mutamenti anche nel mondo dell’informazione.
Dondi dedica diverse pagine all’analisi della controinformazione, primo ed efficace tentativo di contrastare la guerra psicologica (per una storia dettagliata della controinformazione negli anni Settanta, si veda A. Giannuli, Bombe ad inchiostro, Milano, Rizzoli, 2008). A Milano e a Roma nascono i comitati dei giornalisti democratici, che si propongono di ripensare e rinnovare la professione, restituendole autonomia e valore civile. Gli eventi milanesi sono l’occasione per una «ridefinizione del concetto di informazione» (p. 220) che cambia radicalmente il modo di concepire il giornalismo. I comitati, che contano su numerose adesioni tra i giornalisti professionisti, in gran parte collocati a sinistra, e su un proprio organo di riferimento (“Bcd”, Bollettino di controinformazione democratica), avviano un importante lavoro di inchiesta, di ricerca della verità sullo stragismo e di denuncia dei meccanismi di manipolazione della notizia, con l’intento di rovesciare il senso comune presente nell’opinione pubblica.

5C strage di stato cInsieme alla controinformazione democratica, nasce la controinformazione militante promossa da giornalisti professionisti e esponenti delle formazioni di estrema sinistra che, richiamandosi ai principi del ’68, svolgono un lavoro di raccolta di informazioni dal basso, utilizzano fonti alternative e contano sulla raccolta di notizie che proviene da un ampio bacino di militanti. In questo contesto prende forma il collettivo che produrrà il volume La strage di Stato, il libro simbolo della controinformazione, uscito il 13 giugno 1970. Il gruppo che realizza il lavoro, incrociandosi con l’inchiesta sulla morta di Pinelli condotta da “Lotta continua”, svolge un capillare lavoro di raccolta e di elaborazione di notizie che provengono da semplici militanti, sindacalisti, docenti universitari, avvocati e magistrati democratici, si avvalgono di informazioni raccolte nelle carceri, di indiscrezioni provenienti da diversi ambienti ai quali i militanti riescono ad avere accesso. Informazioni sulle relazioni tra l’Ufficio affari riservati (Uaarr), il servizio segreto civile, e il gruppo neofascista Avanguardia nazionale giungono dal Sid, il servizio segreto militare. Si tratta però di un’operazione di depistaggio – nell’ambito della rivalità tra servizi, resa più acuta dalla strage di Milano – realizzata per coprire Ordine nuovo, la formazione neofascista legata al Sid da cui provengono gli autori della strage di Milano, e scaricare le responsabilità sull’Uaarr, che intrattiene rapporti privilegiati con Avanguardia nazionale.
Anche se la pista Uaar-An seguita dalla redazione di La strage di Stato impedisce al gruppo di individuare i reali esecutori della strage, il lavoro di inchiesta raggiunge importanti risultati nella decostruzione della pista anarchica e della versione ufficiale sulla morte di Pinelli. Come sottolinea Dondi, grazie al successo politico ed editoriale del libro la controinformazione militante, insieme a quella democratica, inizia a produrre nell’opinione pubblica un mutamento rispetto all’interpretazione dominante. Le tesi della controinformazione vengono riprese e approfondite da altre testate della sinistra tradizionale e di opinione e stimolano la diffusione di libri-inchiesta, film, documentari, spettacoli teatrali, canzoni che contribuiscono ad incrinare ulteriormente la versione dei fatti veicolata attraverso la guerra psicologica.

Nelle successive fasi della stagione stragistica muta progressivamente il ruolo dei mezzi di informazione. Dopo la strage di Peteano, eseguita dagli ordinovisti contro i carabinieri il 31 maggio 1972, «i quotidiani conservatori cercano la strumentalizzazione politica del caso, ma in forma minore rispetto al 1969. Manca il peso del “Corriere della Sera” che dal marzo 1972, con la direzione di Piero Ottone, comincia a percorrere una linea più autonoma dal governo» (p. 293).
Lo sviluppo impressionante delle azioni violente ad opera dello squadrismo neofascista, la diffusione delle tesi della controinformazione che alimentano la mobilitazione antifascista, l’avvio dell’inchiesta della magistratura milanese che orienta le indagini su Piazza Fontana verso il neofascismo contribuiscono a far crescere anche nella stampa di opinione l’allarme nei confronti delle minacce eversive che provengono da destra. «Dalla metà del 1972 all’estate del 1974 – scrive Dondi – la minaccia nera viene progressivamente percepita, nella sua reale pericolosità, da larga parte dell’opinione pubblica. Da questo momento in poi le azioni di marca terroristica dell’estrema destra divengono aperte, chiaramente attribuibili, e processi di mascheramento e di inversione di responsabilità sempre meno credibili» (p. 303).
Nell’aprile 1973 fallisce l’attentato al treno Torino–Roma (viene arrestato il neofascista Nico Azzi, rimasto ferito nel tentativo di far esplodere la bomba che doveva essere attribuita all’estrema sinistra). Il mese successivo l’attentato alla questura di Milano non suscita l’ampio schieramento di stampa confluito sulla linea desiderata dagli strateghi della tensione dopo Piazza Fontana. Nonostante il tentativo di alcuni giornali, come “Il Resto del Carlino”, “Il Tempo e “Il Secolo d’Italia”, di sostenere la tesi dell’anarchismo di Bertoli, l’autore della strage, la fede anarchica dell’attentatore appare subito dubbia: «Gli eventi stragisti e il loro lungo strascico hanno cambiato in maniera sensibile la stampa d’opinione» (p. 320).

6A STRAGE brescia xL’attentato alla questura è l’ultima strage costruita secondo il copione di Piazza Fontana (regia istituzionale, esecutori “neri”, responsabilità da rovesciare sull’estrema sinistra). Cessate le «stragi di provocazione», finalizzate allo scambio di attribuzione dei responsabili, il 1974 si caratterizza per le «stragi di intimidazione dove l’esecuzione nera, anche se non apertamente rivendicata, appare incontrovertibile». L’obiettivo finale rimane il medesimo (modificare i tratti istituzionali del sistema), ma si è passati «da un tentativo di spostare il consenso attraverso la manipolazione degli eventi e la riproduzione del suo effetto distorto sui mezzi di informazione a un attacco frontale, con l’esibizione della propria forza d’urto. E’ saltato il passaggio intermedio nel quale i media dovevano convincere i cittadini sulla necessità di un intervento militare di fronte alla minaccia rossa. Da questo punto di vista la strage della questura ha dimostrato, soprattutto all’ambiente nero, l’inefficacia del travestimento» (p. 335).
In questo quadro si inscrivono le stragi del 1974 (piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio; treno Italicus, 4 agosto). In entrambi i casi la straordinaria risposta antifascista, unita alla denuncia della matrice fascista degli attentati da parte dei principali mezzi di informazione, indicano che il clima è profondamente mutato: «La reazione politica e mediatica di condanna a piazza della Loggia dà l’impressione di assistere a un’inversione del codice ideologico da sempre prevalente nella storia dell’Italia repubblicana. Dopo la strage di Brescia, per la prima volta, l’antifascismo appare prioritario rispetto all’anticomunismo» (p. 361). Il meccanismo della strategia della tensione, così come era stato pensato a partire da metà anni Sessanta e messo in atto tra il 1969 e il 1974, è inceppato e lo stragismo nero «in declino per l’affievolirsi del sostegno internazionale, ma soprattutto – come […] Aldo Moro nota durante la sua prigionia – per la “vigilanza delle masse popolari”, il cui riorientamento rende infruttuosi e nocivi i nuovi atti della strategia della tensione» (p. 411).

Le stragi di Brescia e dell’Italicus segnano la chiusura della strategia della tensione, ma la conclusione è solo «apparente» e non mette al riparo la democrazia da nuove minacce eversive: «Il mancato smembramento degli apparati golpisti condizionerà, seppure in altro modo rispetto al quinquennio 1969-74, anche gli anni successivi» (p. 415). I principali responsabili della stagione stragista resteranno impuniti o sconteranno pene irrisorie. «La verità storica» – sostiene a ragione Dondi – «colma solo parzialmente le falle dell’omertà politica e dell’evasione giudiziaria, lasciando dietro di sé una memoria inquieta» (p. 404).

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Cui prodest? https://www.carmillaonline.com/2014/01/16/cui-prodest/ Thu, 16 Jan 2014 00:00:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11999 di Sandro Moiso

  cittadino1Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)

Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.

L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un [...]]]> di Sandro Moiso

 
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Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)

Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.

L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un bellissimo film-antimilitarista ed anti-imperialista di Peter Weir, all’ancor recente “Il romanzo di una strage”) è che tale superficialità sia voluta. Una confusione di simboli, affermazioni e ricostruzioni raffazzonate che non dipende soltanto dalla mano degli autori, in alcuni casi, anche se non sempre, di destra. Ma che dipende, invece, da una ben precisa volontà di sovvertire l’ordine e il significato storico, politico e sociale degli avvenimenti rappresentati.

Lotta di classe è brutto” potrebbe essere il titolo sotto cui raccogliere tali capolavori che, in tutte le loro varianti, tendono a rimuovere e negare la centralità della lotta di classe non solo nella storia d’Italia, ma nella storia della specie umana. Che torna ad essere determinata soltanto dai sentimenti, dalle passioni e dai drammi, tutti rigidamente ed esclusivamente “individuali”. Una sorta di neo-romanticismo che del Romanticismo originario perde ogni passione politica per meglio adeguarsi alle esigenze del potere. Anzi, scusate, del capitale.

Il politico, come frutto delle contraddizioni dei modi di produzione e dello scontro tra le classi al fine del soddisfacimento di obiettivi sociali ed economici affatto diversi, scompare. I papi sono uomini come gli altri a cui è toccato un troppo gravoso compito; i commissari di polizia sono dei poveracci incompresi dalle loro vittime; gli agenti di polizia che manganellano o uccidono i dimostranti sono figli del popolo e lo Stato è di tutti, anche se, essendo un organismo imprescindibile per la convivenza umana, talvolta può sbagliare. Evviva!
Il prossimo manuale di storia per le superiori sarà scritto da Susanna Tamaro e Federico Moccia.
cittadino2 Purtroppo, però, la storia è vecchia, anche quella di queste evidenti contraffazioni della realtà e della verità. Un tempo si chiamava teoria degli opposti estremismi. Oggi si nasconde più velatamente dietro ad un generico ed istituzionale antifascismo che definisce come reazionario e populista, quando non terroristico tout court, qualsiasi episodio, violento o meno, che tenda a sfuggire all’ordito politico programmato dalle forze di governo.

D’altra parte, per chi è convinto che la creatività e l’intelligenza non derivino dall’alto dei cieli e nemmeno da qualche particolare secrezione ghiandolare ancora sconosciuta, la scarsa capacità di intendere e rappresentare il proprio tempo non può che essere riconducibile alla scarsa conflittualità sociale messa in atto dalle classi e dagli attori che dovrebbero rappresentare il nuovo che viene. Il sol dell’avvenire si sarebbe detto un tempo. Che, oggi, tarda a sorgere dando, invece, luogo ad un lungo, trascolorante e scarsamente illuminato crepuscolo.

Si sa, anche la luce crepuscolare, delle albe e dei tramonti, fu cara ai romantici. Ma è una luce che non permette di veder bene, talvolta è accompagnata dalle brume e il paesaggio diventa confuso.
Come per un difetto di astigmatismo si intuiscono le forme, ma non si individuano chiaramente i contorni. Ma sarebbe meglio dire, in questo caso, i fatti. Gli eventi e non soltanto le trame.
Che come si sa, possono essere costantemente riscritte, come in un eterno e poco lungimirante re-make cinematografico hollywoodiano.

Se nel 1970 Elio Petri poteva dirigere uno strepitoso Gian Maria Volontè nel ruolo del commissario Calabresi, pur senza mai nominarlo esplicitamente e pur non riconducendo la trama ai fatti della Questura di Milano, nel film “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, ciò non era dovuto soltanto all’ingegno del regista, ma, anche, allo spirito dei tempi. Nessuno si indignò allora per il fatto che Petri non indicasse il personaggio con il suo effettivo nome e cognome, così come una certa sedicente sinistra ha fatto nei confronti di Daniele Vicari e del suo “Diaz”, né che il film non ricostruisse fedelmente gli avvenimenti successivi alla strage di piazza Fontana.
Chi voleva capire, capiva. E, allora, tutti capirono.

Ora, certo, non è più così. Nell’ottica controriformistica e revisionistica attuale il pubblico deve essere preso per mano ed accompagnato…il più possibile lontano dalla realtà. E, si faccia bene attenzione, questo non è da attribuire soltanto ad uno sforzo specifico degli autori, ad una loro ben precisa volontà. No, anche loro sono figli del loro, miserrimo, tempo. Marx scriveva in una lettera del luglio del 1871 all’amico Kugelmann: ”Fino ad ora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbrica più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”. Sostituite o aggiungete cinema, televisione e rete e avrete lo stesso risultato moltiplicato per milioni di volte.

Certo la carta stampata ha ancora il suo peso e l’ultimo libro di Benedetta Tobagi1 lo dimostra fin troppo bene. Uscito in netto anticipo rispetto alle celebrazioni del quarantennale della strage di Piazza della Loggia, avvenuta il 28 maggio 1974, è diventato già un must. Almeno in quel di Brescia. E, guardate bene, nel caso specifico non vi è nulla di strano nel fatto che, in una città ferita da uno degli attentati più mirati della cosiddetta strategia della tensione, la tensione emotiva e l’attenzione siano ancora alte nei confronti di tutto ciò che riguarda quel sanguinoso episodio. Né nel fatto che la Tobagi, figlia di quel Walter che fu vittima di uno dei più odiosi e beceri attentati attribuibili ad una formazione armata di sinistra, cerchi di ricostruire le vite e il dramma di alcune delle vittime e gli affetti di coloro che sono loro sopravvissuti.

Il libro annoda, collega, ricostruisce fatti, trame e personaggi dell’allora pericolosissimo e spregevole terrorismo nero, attraverso la ricostruzione dei vari processi, in particolare dell’ultimo chiusosi nel 2010, che cercarono di individuare i colpevoli dell’attentato bresciano senza mai giungere alla condanna degli effettivi esecutori e dei mandanti dello stesso.
Non mancano i particolari, non mancano i precisi riferimenti ai responsabili dei servizi segreti e alle responsabilità della DC e dei governi di allora, non mancano la tensione e i depistaggi che da sempre hanno accompagnato la ricostruzione di quelle vicende. Ma ciò che manca è proprio ciò che di un’inchiesta o di una ricostruzione storica dovrebbe costituire la forza e il metodo: l’obiettività.

Certo, potrebbe dire l’autrice, voler ricostruire anche il punto di vista e i sentimenti delle vittime e dei loro parenti obbliga la scrittura a perdere di obiettività per provare a ricostruire ambienti e sensazioni come la nuda cronaca e la Storia non potrebbero fare. Manzoni docet, appunto.
Questo sarebbe ancora accettabile e spesso le migliori interpretazioni della storia o di eventi complessi sono venute più dalla letteratura che dagli studi istituzionali. Ma, c’è sempre un ma…. e in questo caso è grosso come una casa.

L’autrice si sforza talmente di comprendere le ragioni e i sentimenti di tutti che non può fare a meno di partecipare ad un dibattito a Casa Pound (insieme ad alcuni rappresentanti della Casa della memoria di Brescia) proprio sull’argomento e, ancor peggio, sottolineare, in più di una pagina, come molti giovani di destra si sentissero spinti verso Ordine Nuovo o le azioni armate della destra estrema a causa delle continue aggressioni a cui erano sottoposti, soprattutto a scuola o all’Università.2

Ora vorrei rimanere distante dall’antifascismo più scontato, ma vorrei ricordare alla Tobagi che una simile posizione ribalta assolutamente la realtà storica. E’ vero: i fascisti nelle grandi città, da Milano a Roma e a Torino, passando per un bel numero di città minori, ne presero tante, ma proprio tante. Ma solo dopo che, in seguito a continue e proditorie aggressioni, l’estrema sinistra iniziò ad organizzarsi per rispondere a siffatte violenze. Che, in molti casi, furono rispedite ai mittenti con un sovraccarico di interessi. Perché, dalle barricate di Parma nel ’22 fino agli anni settanta la teppa fascista e reazionaria avrebbe potuto essere facilmente sconfitta e rimossa dalla scena politica se non fosse stato per l’intervento, in sua difesa, delle forze dell’ordine e dello stato, anche all’ombra di una costituzione che ha finito col vietar solo formalmente la ricostituzione del partito fascista. Che resta, nelle sue infinite sfaccettature, un imprescindibile strumento di dominio del capitale, alla faccia delle fregnacce sulla destra sociale e no global.

L’uso delle squadracce fasciste per terrorizzare e reprimere i lavoratori e gli oppositori politici, però, dovrebbe averlo studiato anche l’autrice sui più banali testi scolastici di storia, fu una pratica costante da parte degli agrari e degli imprenditori sia negli anni venti del secolo appena trascorso, sia negli anni ’50, ’60 e ’70 per impedire la ripresa della lotta di classe. Servi erano, servi sono rimasti e servi saranno sempre. Punto e a capo, anche perché non è sul ruolo delle squadracce nere che intendo tediare il lettore.

L’uso strabordante e, per forza di cose, poco asettico dei sentimenti porta, poi, l’autrice a costellare il testo di numerosi e costanti richiami “al mio papà” che, se potevano essere giustificati nel suo primo libro3 tutto teso a ricostruire la figura paterna e le vicende che avevano portato al suo assassinio, appaiono in quest’altro contesto decisamente qui fuori luogo. Ma soltanto ad una prima e superficiale lettura.

Perché, in realtà, in questa sorta di “Va dove ti porta il cuore” della storia di una fase della strategia della tensione, l’uso del linguaggio e la formulazione delle frasi e delle affermazioni in esse contenute non è mai casuale né, tanto meno, innocente come si vorrebbe fingere che fosse. Così che ad un certo punto il lettore scopre che le Brigate Rosse non uccisero il fratello di Patrizio Peci per vendicarsi del suo pentimento e della successiva delazione, ma il suo “fratellino”. Pur non cambiando di una virgola l’inutilità e il senso di quel delitto, la parola fratellino, inserita senza alcun riferimento all’età della vittima (25 anni, mentre il fratello “pentito” ne aveva all’epoca 28), tende ad aggravare la posizione dei colpevoli suggerendo, all’ignaro lettore, che si sia trattato dell’uccisione di un bambino.
zibecchi
Così, anche quando il testo sembra più obiettivamente descrivere le lotte e le vittime di sinistra in quegli anni, la Tobagi non manca mai di incorrere in qualche clamoroso scivolone che, come minimo, dimostra la superficialità, direi a tratti la trasandatezza, con cui ha affrontato le questioni riguardanti l’ estrema sinistra. Con uno svarione degno di essere qui segnalato, Giannino Zibecchi finisce di essere ucciso da un candelotto che lo colpisce al petto (pag. 206) e non schiacciato dalle ruote di un mezzo dei carabinieri che ne fece schizzare il cervello a qualche metro di distanza.4 Ma questo, no, non andava bene dirlo perché la polizia uccide per sbaglio con qualche candelotto sparato ad altezza d’uomo, mentre gli estremisti di sinistra uccidono perfino i bambini.

E poi guardi, cara Benedetta, ad essere ucciso da un candelotto al cuore fu Saverio Saltarelli, simpatizzante del Movimento Studentesco, che morì a 23 anni durante gli scontri di piazza avvenuti a Milano il 12 dicembre 1970, ucciso da una bomba lacrimogena sparata dai carabinieri ad altezza d’uomo. All’epoca, sull’episodio, fu scritta anche una canzone. Sono dati che si trovano anche, e facilmente, su Wikipedia. Se solo avesse voluto, non sarebbe stato difficile, soprattutto per una ricercatrice attenta come Lei che non dimentica mai di sottolineare ad ogni piè sospinto come il suo interesse per la strategia della tensione le sia costato anni di lavoro, ricerche e sofferenze, rintracciare maggiori elementi di precisione ed obiettività da utilizzare nella ricostruzione del clima politico italiano prima e dopo la strage di Piazza della Loggia.

Si può far risalire una tale incuria ad una ben precisa volontà di falsificazione? Ad una mente obnubilata dal dolore per una perdita violenta di cui non è mai stato adeguatamente elaborato il lutto? No, il problema di fondo è un altro. E corrisponde, esattamente, a quello che è stato detto all’inizio. E non dipende soltanto dall’autrice. O, almeno, non del tutto. Perché quella che trionfa nel testo qui affrontato, così come in tutte le rappresentazioni attuali della storia degli anni sessanta e settanta, è la vulgata storico-politica di marca PCI – PDS – PD, quella che afferma che tutto ciò che è avvenuto in quegli anni fosse dovuto ad una superiore volontà di impedire l’affermazione democratica del Partito Comunista come partito di governo del paese. Dalle bombe di Piazza Fontana alla lotta armata dei gruppi di sinistra, passando per Piazza della Loggia, la strage del treno Italicus5 , il sequestro Moro e tutto il resto. The Great Complotto! Oh, Yeah!

Ora, che la particolare posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo abbia sempre fatto sì che questa fosse una sorta di “sorvegliato speciale” per la politica dei servizi segreti americani, francesi, israeliani e sovietici non vi può essere alcun dubbio. Le ricostruzioni contenute in tante inchieste e le rivelazioni, per quanto parziali e probabilmente distorte, di quelle buone anime di Cossiga e di Andreotti non lasciano molti dubbi in proposito. Ma che tutto ciò che è avvenuto in Italia sia stato, sempre e soltanto, dovuto principalmente alla volontà di impedire l’entrata al governo del PCI…beh, è davvero poco convincente e sicuramente limitante dal punto di vista della ricostruzione storica e politica.

Considerato che, quel partito, dalla svolta di Salerno all’amnistia Togliatti, dal compromesso storico di Enrico Berlinguer ai viaggi negli USA di Giorgio Napolitano6 e dalle proposte di revisione pacificatrice della Resistenza da parte di Luciano Violante fino agli inciuci di D’Alema e Renzi con Berlusconi, ha fatto di tutto per tranquillizzare gli alleati Nato, i democristiani e anche la destra. Tutto ciò per meritare il peso che ha rivestito nella gestione della politica e dell’economia italiana degli ultimi trentacinque anni. Mentre, allo stesso tempo, tale vulgata ha contribuito a rimuovere quasi del tutto le contraddizioni di classe e le loro manifestazioni politiche non solo dalle politiche del PCI, ma anche dalla storia e, soprattutto, dalla mente di coloro che di tali contraddizioni e lotte dovrebbero essere i maggiori protagonisti: i lavoratori e i giovani. Sempre invocati e sempre gabbati. Fino a spingere frange di essi a simpatizzare per le espressioni della destra più oltranzista che si possono rilevare nell’attuale movimento dei forconi.

Sì, perché quegli attentati di destra e quella strategia della tensione erano ben diversi nelle finalità da ciò che fu confuso da alcuni, a sinistra, come preparazione dello scontro rivoluzionario decisivo e cioè la lotta armata portata avanti dalle organizzazioni guerrigliere. Entrambe le esperienze furono certamente infiltrate dalle forze del dis/ordine statale, ma la prima fu diretta a creare un fronte comune della borghesia nazionale e d internazionale contro l’ondata di lotte che percorreva l’Italia dalle scuole alle fabbriche, dalle regioni arretrate a quelle più sviluppate, ed ogni aspetto della società. Contro il cambiamento era diretta la strategia della tensione che fu, effettivamente controrivoluzionaria. E che non ha mai cessato di essere messa in atto, come dimostrano bene l’attentato messo in atto alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 o quelli che accompagnarono il periodo della cosiddetta trattativa Stato-Mafia o, ancora, l’attentato in diretta televisiva che ha accompagnato l’insediamento del Governo Letta il 28 aprile 2013. Oppure, ancora, fatti strani come le presunte recentissime minacce al senatore Sì TAV Esposito del PD, evidentemente destinate a criminalizzare ulteriormente il movimento No TAV.

Nella sparatoria davanti a Palazzo Chigi realtà e fiction televisiva sembrano addirittura essere giunte ad una insuperata sintesi, anticipando, con qualche colpo di pistola e due carabinieri feriti, il refrain che poi sarebbe diventato comune da quel giorno in poi: il pericolo dell’instabilità di governo e i rischi presenti in tutte le manifestazioni (definite come terroristiche se di classe e populistiche se espressione della destra) contrarie al suo agire e a quello della BCE. Altro che Sorrentino, ancora una volta il Golden Globe se lo sarebbe meritato il regista di quella vicenda. Prodotta sicuramente con una joint-venture tra diversi e contrastanti interessi e lo Stato come supremo mediatore.

In molti hanno, nel tempo, giocato allo stesso tavolo: servizi segreti nel pieno delle loro capacità (altro che deviati!), Democrazia Cristiana, Stati Uniti, destra estrema e moderata e, naturalmente, anche il PCI-PDS-PD. Ognuno cercò di tirare acqua al proprio mulino, ma, soprattutto, tutti concordarono sul fatto che quella stagione di lotta dovesse finire prima di diventare troppo pericolosa. Insomma, per quanto riguardava i proletari insorgenti di quegli anni, parafrasando Dante Alighieri, non li voleva l’Inferno capitalista che cercavano di rovesciare e non erano certo amati dal PCI che al di là del voto da loro non voleva altro, per non essere meno bello agli occhi della borghesia “illuminata” ( Ma chi? Gli Agnelli forse? O la sinistra DC?).

Certo la Destra minacciava, attentava e ammazzava ed anch’essa aveva un suo ben preciso piano per risolvere il problema…e un prezzo sarebbe stato pagato anche dal PCI. E allora perché non cogliere due piccioni con una fava e indirizzare una parte dell’organizzazione politica autonoma che cresceva nelle fabbriche e nelle scuole, anti-autoritaria e anti-capitalista, contro il pericolo di un colpo di stato e contro il fascismo? Inteso, quest’ultimo, solo come deviazione dal quadro democratico che il PCI e il capitalismo illuminato intendevano garantire per i secoli a venire? Far fuori gli avversari più agguerriti, sviando la furia di massa dalla lotta contro il capitale verso la difesa della legalità e dello Stato.

In fin dei conti, dalla guerra civile spagnola in poi, l’alleanza tra forze rivoluzionarie e Stato in chiave anti-fascista si è sempre trasformata in un bagno di sangue per i giovani e i proletari. La sussunzione dell’autonomia di classe all’interno delle strategie borghesi ha sempre portato ad una disfatta politica e militare di coloro che aspiravano ad un superamento radicale della società divisa in classi. In maniera drammatica nel 1939 con la cessazione degli aiuti internazionali e il patto Ribbentrop- Molotov, che portò alla fine di qualsiasi assistenza alla Repubblica spagnola, ma anche nella Resistenza con la sottomissione dell’antifascismo di classe ai compromessi con l’inossidabile classe dirigente italiana. Alla fine, le forze politiche che rappresentano variamente gli interessi del Capitale hanno sempre trovato e troveranno sempre un accordo a discapito dei lavoratori dopo aver contribuito a dissanguarne le forze.

La Tobagi cita nella bibliografia il testo di Guido Panvini “Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni sessanta e settanta (1966 – 1975)”, pubblicato da Einaudi nel 2009. Ma ancora una volta si lascia sfuggire qualcosa che avrebbe potuto minare la sua fiducia nella bontà della narrazione pidista. Infatti nel testo di Panvini, a pagina 128, troviamo un interessante estratto dai Verbali della direzione del Partito Comunista del 27 gennaio 1971, in cui a parlare è proprio quell’Umberto Terracini da lei, indirettamente, tanto stimato:”[…] nella tattica di rispondere all’indomani di ogni azione squadrista con una manifestazione […] Se non si arriva a una giornata di battaglia dando l’indicazione di mettere a posto, luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi […] non si conclude nulla. Questo tipo di reazione […] non possiamo farlo noi come PCI. Ma deve essere una proposta che formuliamo, alla quale altri aderiscano, per poi passare all’azione”.

Chiaro era il riferimento al coinvolgimento della sinistra extraparlamentare, anche se Luigi Longo e Enrico Berlinguer si opposero. Per riprenderla poi più tardi quando, a seguito di altri attentati alle sedi e ai militanti dei partiti della sinistra istituzionale da parte dei fascisti, Longo propose addirittura la costituzione di una struttura scientifico-militare, organizzata in piccole unità che potessero rapidamente muoversi ed agire.7 Ma chi ebbe l’occasione di partecipare alle ronde all’alba, organizzate dai servizi d’ordine dei movimenti extraparlamentari di sinistra insieme ai militanti del PCI, in previsione di un possibile golpe, sa bene come tale proposta fosse ancora una volta più di facciata che di sostanza. Perfettamente compatibile con la strategia del doppio binario ideata da Togliatti come supremo specchietto, più per gli allocchi che per le allodole.

Poi, però, quando il golpe di Junio Valerio Borghese fu scoperto davvero, il PCI cambiò ancora una volta strategia: premere sulle istituzioni democraticamente e lasciare agli ultra-sinistri il compito di contenere i fascisti. Fino alle elezioni amministrative del 1975. Dopo la vittoria del PCI in quell’occasione, l’estremismo fu abbandonato e i membri dei servizi d’ordine, divenuti ormai troppo ingombranti per l’immagine che il PCI voleva dare di sé, furono criminalizzati. Di nome (fascisti rossi) e di fatto. Gli opposti estremismi costituirono così non più solo il cavallo di battaglia delle montanelliane maggioranze silenziose, ma anche della sinistra parlamentare. Finalmente e definitivamente libera di danzare sulla tomba della lotta di classe. Fino ad oggi.

Così che quando, ancora oggi, ci troviamo di fronte alle sviste della Tobagi o agli attacchi, immotivati e condotti al di fuori di ogni giustificato contesto, di Marco Travaglio contro quello che fu il servizio d’ordine di Lotta Continua non si sa davvero se ridere o piangere. Possibile che siate ancora così tanto ignoranti della storia recente? Certo le reticenze di quelli che furono i leader delle maggiori formazioni extraparlamentari, spesso più impegnati a rifarsi una verginità politica e culturale che a contribuire alla fedele ricostruzione degli eventi e delle scelte di quegli anni, non hanno aiutato a fare chiarezza né, tanto meno, scaricando ogni volta ogni responsabilità sugli irresponsabili dei servizi d’ordine (Sì, ma loro dove erano? Chi li avrebbe creati di nascosto all’interno delle organizzazioni?), ad inquadrare obiettivamente i fatti, ma chi ancora oggi osa fingere di scoprire “un sistema che chiamare corruzione è un pietoso eufemismo. Questi non sono corrotti. Questi sono subumani, vampiri, organismi geneticamente modificati che mutano continuamente natura verso la più bruta bestialità grazie all’omertà e all’inerzia di chi dovrebbe controllarli, fermarli, cacciarli”,8 per poi continuare a condannare qualsiasi forma manifesta di lotta di classe, qualche problema ce lo pone.
cittadino3

La confusione di ruoli, di promesse, di interpretazioni e affermazioni e dei dati (economici, sociali, politici e storici) sembra costituire ormai l’unico stile di governo attualmente possibile e sembra costituire l’unico collante per i rappresentanti di una cultura ormai moribonda. Esattamente come per la Tobagi e per gli autori dei film e sceneggiati citati all’inizio. Finendo proprio col tradire il senso, vero, di quel Io so di Pier Paolo Pasolini9 ripetuto oggi ad libitum e, troppo spesso, a sproposito. Ma, scusate, vien da chiedere: “Ci fate o ci siete?!

Divertente sì, se non fosse che ancora oggi gli opposti estremismi servono, in Italia e in Europa. Dove ogni manifestazione contro le decisioni assassine della Banca centrale e dei banchieri al governo deve essere demonizzata e, possibilmente, criminalizzata. A meno che non sia manifestamente contraria a qualsiasi forma di lotta di classe. Così, mentre in Italia tutti i partiti istituzionali mugugnano contro l’Europa, senza mai proporre di rispedire il debito al mittente senza per forza uscire dall’Europa e dall’euro, in Grecia, con la scusa degli opposti estremismi si usa Alba Dorata per proporre anche la messa al bando di Syriza, e del suo leader Alexis Tsipras, unico partito di opposizione a non cadere nel populismo della destra di stampo fascista, leghista o grillina che sia10 .

Così mentre ad ogni svolta processuale o politica istituzionale i benpensanti di sinistra possono piangere sul fatto che ancora una volta non sono stati individuati e condannati i colpevoli e i mandanti delle stragi, ci si dimentica (anche se ad onor del vero la Tobagi sfiora questo argomento nel suo testo) che, al contrario di quelli di estrema destra o dei servizi, tutti i responsabili degli attentati compiuti dalle formazioni armate di sinistra sono stati condannati a centinaia di anni di carcere. Il depistaggio continua, mentre la teoria degli opposti estremismi rivela qual è la sua reale funzione: quella di liquidare ogni espressione compiuta della lotta di classe.

E allora, signori e signore, la domanda vera cui si deve dare risposta è, ancora una volta: “Cui prodest?A chi giova?

– A cosa doveva servire quella messinscena da buffoni, Dagenham?
– Turba la tua mente legale, eh? Facevano tutti parte del cast della nostra operazione DFCC. Divertimento, Fantasia, Confusione e Catastrofe

(Alfred Bester, Tiger! Tiger!, 1956)


  1. Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, Storia di una strage impunita, Einaudi 2013  

  2. Quando il ribellismo di sinistra diventa il nuovo conformismo nelle scuole e nelle università, alcuni vedononel passare dall’altra parte della barricata l’unico modo di essere davvero «contro». «Molti di questi giovani diventano fascisti solo perché, non essendo comunisti, vengono ritenuti tali e trovano ostilità –dice Carlo Fumagalli, l’ex partigiano fondatore del M.A.R. (Movimento di azione rivoluzionaria), dei ragazzi che aveva arruolato – Molti studenti che ho conosciuto sono diventati fascisti soltanto perché, non avendo voluto aderire al Movimento studentesco, furono non soltanto osteggiati, ma anche pestati». In moltissime storie di vita di terroristi neri, ma anche semplici militanti, la scintilla che porta a schierarsi a destra è l’aver subito la violenza dei ragazzi di sinistra, o, essendo stati testimoni, il sentimento cavalleresco di stare dalla parte dei pochi, degli untorelli, degli emarginati” B.Tobagi, op.cit., pag. 236  

  3. Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre, Einaudi 2009  

  4. Giannino Zibecchi (28 anni), militante del Coordinamento dei comitati antifascisti, morì investito da un camion dei carabinieri, guidato dal milite Sergio Chiairieri, in Corso XXII marzo a Milano il 17 aprile 1975, durante una manifestazione di protesta seguita alla morte di Claudio Varalli (18 anni), studente presso un Istituto tecnico milanese e aderente al Movimento Lavoratori per il Socialismo, che fu ucciso da un militante di Avanguardia Nazionale il 16 aprile 1975  

  5. La strage dell’Italicus fu un attentato, riconducibile al terrorismo nero, compiuto nella notte del 4 agosto1974 a San benedetto di Sambro, in provincia di Bologna. Nell’attentato morirono 12 persone e altre 48 rimasero ferite.  

  6. Su quest’ultimo argomento si veda il recentissimo testo di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, I panni sporchi della sinistra. I segreti di Napolitano e gli affari del PD, Chiarelettere, Milano 2013  

  7. si veda ancora G. Panvini , op. cit, pag. 129  

  8. Marco Travaglio, Il capitale subumano Il Fatto Quotidiano, Domenica 12 gennaio 2014  

  9. Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe? Io so, Corriere della Sera del 14 novembre 1974  

  10. Si vedano: Beda Romano, Grecia, emergenza per l’ordine pubblico, Il Sole 24ore, Sabato 11 gennaio 2014 e Antonio Ferrari, L’abbraccio di Toni Negri a Tsipras che imbarazza la sinistra greca, Il Corriere della Sera, Sabato 11 gennaio 2014  

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Gabriele Fuga, Enrico Maltini: E a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte https://www.carmillaonline.com/2013/08/10/gabriele-fuga-enrico-maltini-e-a-finestra-ce-la-morti-pinelli-chi-cera-quella-notte/ Fri, 09 Aug 2013 22:01:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8261 di Gianfranco Marelli

Gabriele Fuga, Enrico Maltini, E a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte, Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 168, euro 10,00.

pinelliScriveva Louis-Ferdinand Céline che la verità si dice arrangiandola. Non pochi libri-inchiesta, romanzi storici e film documentari sulla “madre di tutte le stragi” – ovvero la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano – sembrano aver preso alla lettera il suggerimento dello scrittore francese, al punto da arrangiare a proprio uso e consumo uno dei [...]]]> di Gianfranco Marelli

Gabriele Fuga, Enrico Maltini, E a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte, Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 168, euro 10,00.

pinelliScriveva Louis-Ferdinand Céline che la verità si dice arrangiandola. Non pochi libri-inchiesta, romanzi storici e film documentari sulla “madre di tutte le stragi” – ovvero la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano – sembrano aver preso alla lettera il suggerimento dello scrittore francese, al punto da arrangiare a proprio uso e consumo uno dei fatti storici che hanno segnato la Repubblica italiana nel secondo dopoguerra. A che fine? Per confondere ancor più le acque di una vicenda così torbida sul piano giuridico (ben sette i processi conclusi con l’assoluzione di tutti gli accusati, peraltro alcuni in seguito condannati per altre stragi, mentre altri si gioveranno della prescrizione) ma così limpida sul piano storico, da esser scritta sui muri di questo Paese fin dai giorni successivi al terribile atto terrorista: “La strage è di Stato. Valpreda è innocente. Pinelli non si è suicidato”.
Fuori da questo coro di cultori della verità arrangiata ad arte, è il recente lavoro di Gabriele Fuga (avvocato penalista del foro di Milano, attivo fin dagli anni ’70 nella difesa di militanti dell’area libertaria ed extraparlamentare) e di Enrico Maltini (fra i componenti nel 1969, assieme a Giuseppe Pinelli, del circolo Ponte della Ghisolfa), da poco pubblicato per conto della casa editrice Zero in condotta di Milano con il titolo “e a finestra c’è la morti. Pinelli:chi c’era quella notte”.

Si cadrebbe in errore se si ritenesse il libro un controcanto d’ispirazione anarchica, teso semplicemente a far valere la verità da sempre propugnata di quella stanza “già piena di fumo” del quarto piano della Questura di Milano in quella calda notte del 15 dicembre in cui il “brigadiere aprì la finestra e a un tratto Pinelli cascò”. Perché gli autori – e sono loro stessi a scriverlo – non hanno alcuna verità da affermare, ma solo «ipotesi da verificare, in nome di una verità che qualcuno, prima o poi, dovrà ancora scoprire».
Come dire: questo ennesimo libro su quanto accadde prima e immediatamente dopo il deflagrare della bomba nell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura non svela il misterioso segreto di Piazza Fontana [titolo del libro di Paolo Cucchiarelli, dal quale il regista Giordana ha girato il film “Romanzo di una strage”] al fine di avvalorare tesi fantascientifiche in cui duplicanti avatar diventano i “veri” responsabili della strage terrorista, ma si attiene a quanto è emerso dall’imponente “archivio parallelo” dell’Ufficio Affari Riservati, tenuto – questo sì – segreto fino a quando Aldo Giannuli, storico e consulente del Giudice Guido Salvini, il 4 ottobre 1996 l’ha trovato in un deposito della caserma dei carabinieri sulla circonvallazione Appia di Roma: circa 150 mila fascicoli segreti, non catalogati, del ministero dell’Interno, che contengono informazioni e reperti sull’operato dei servizi segreti italiani.
Così, più che un nuovo e misterioso romanzo sulla Strage di piazza Fontana, il libro di Fuga e Maltini è un’asciutta, limpida e non più segreta ricostruzione di quanto avvenne nella Questura di Milano immediatamente dopo la fatidica data del 12 dicembre 1969, quando Giuseppe Pinelli – avendo seguito con il suo motorino il commissario Luigi Calabresi – ne entrò nel tardo pomeriggio e vi rimase fino alla mezzanotte del 15, precipitando dalla finestra della stanza del commissario al quarto piano. Un salto, un tuffo, che sebbene fosse derubricato dal Giudice istruttore Gerardo d’Ambrosio nel 1975 come “verosimilmente” determinato da un “malore attivo” – prosciogliendo in tal modo tutti gli indagati (il commissario Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Piero Mucilli ed il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano) dall’accusa di omicidio volontario – suscitò più di un sospetto per quello strano ossimoro utilizzato dal magistrato al fine di sostenere che l’anarchico Pinelli né si era suicidato gettandosi dalla finestra, né era stato gettato. Già, ma chi erano e quanti erano i presenti in quella stanza quando – come recita una strofa del Lamento per l’anarchico Pinelli del cantautore siciliano Franco Trincale – Era quasi mezzanotte / e ‘a finestra c’è la morti?
Sembrerà “strano”, ma il libro non si sofferma sull’accertata o meno presenza del “commissario finestra” nella sua stanza, tale da avvalorare la responsabilità di Luigi Calabresi per quanto accadde all’anarchico , dal momento che «fu sì correo e responsabile (formale e non solo) della morte di Pinelli, ma al contrario di Allegra, dai documenti esaminati non risulta che fosse tra coloro che manovravano nel “grande gioco”. Sia chiaro – sottolineano gli autori del libro a p. 21 – questo non diminuisce le sue responsabilità, solamente aggrava quella dei suoi superiori, diretti e indiretti. In questo quadro Calabresi appare piuttosto una pedina, se pure determinante, e forse le ragioni della sua morte potranno spiegare il suo vero ruolo».
Se allora Luigi Calabresi fu soltanto una pedina nel “grande gioco” orchestrato dall’Ufficio Affari Riservati (di cui poteva anche non essere al corrente, ma allora perché avvalorare da subito le menzogne del questore Marcello Guida nel corso della famosa conferenza stampa convocata in Questura per motivarne il “suicidio”?), in quella fatidica notte del 15 dicembre 1969, nella stanza del commissario al quarto piano della Questura di Milano, oltre ai personaggi ben noti, chi altri c’era?
E perché mai le indagini intrapresero da subito la “pista anarchica”, così solertemente indicata dalla misteriosa squadra informativa di una decina di persone presente subito dopo la strage nella Questura di Milano al punto da essere in tutto e per tutto i “padroni delle indagini”, come fu costretto ad ammettere Guglielmo Carlucci, allora funzionario dell’U.A.R., nel corso dell’istruttoria del Giudice Mastelloni del 1997 sull’abbattimento di un aereo dell’Aeronautica utilizzato dai servizi ?
Ma, soprattutto, perché nessuno ne hai mai parlato o scritto? Perché la Magistratura non hai mai condotto serie indagini su quanti agenti dell’Ufficio Affari Riservati fossero presenti e attivi nel pilotare l’azione delle questure di Milano e di Roma? Perché non si è fatto luce sull’incredibile disposizione del ministero dell’Interno, che subito dopo cinque bombe e una strage non disse “impegnate tutte le forze … fate tutto il possibile” ma diramò a tutte le questure e all’Arma dei carabinieri un comunicato in cui è scritto: «In relazione ai fatti verificatisi a Milano il Ministero del’Interno si riserva di impartire direttive, in attesa delle quali non dovranno essere prese iniziative in alcun senso» (p. 62)?
Domande alle quali il libro di Fuga e Maltini risponde facendo cantare le carte ritrovate presso l’archivio segreto dell’Ufficio Affari Riservati [“scoperte”, guarda caso, due mesi dopo la morte di Federico Umberto D’Amato, vero e proprio deus ex-machina dell’U.A.R.], dopo averle confrontate con le deposizioni , rese a giudici e pubblici ministeri fra il 1996 e il 1997, da parte di chi quella notte nella questura di Milano c’era: i vari Elvio Catenacci, Silvano Russomanno, Aldo Alduzzi – tutti, a vario titolo, membri dell’U.A.R. – e fatte brillare alla luce della deposizione fatta dal commissario della Questura di Milano, Antonio Pagnozzi, al PM Maria Grazia Pradella come “persona informata dei fatti”, il quale testimoniò di aver allora percepito « che vi era un che di pista prefabbricata originata non a Milano, allorché, da Roma pervenne la comunicazione che era stato Valpreda a portare la valigia con l’esplosivo a Milano. Tanto seppi dal Capo dell’Ufficio [Antonino Allegra]  prima del suicidio di Pinelli» (p.54).
Dichiarazione, quest’ultima, che apre uno squarcio profondo sulla spontanea testimonianza del tassista Rolandi e sul suo riconoscimento in Pietro Valpreda – nel famoso identikit attraverso la “ricognizione fotografica” assieme a quattro poliziotti, per la quale gli fu promesso un premio in denaro – della persona che per un centinaio di metri trasportò quel 12 dicembre sul suo taxi: questa infatti avvenne dopo che la pista anarchica era già stata prefabbricata;  così come Valpreda fu indiziato quale responsabile della strage soltanto dopo che Enrico Rovelli, la spia infiltrata nel Circolo Ponte della Ghisolfa e sul libro paga sia della Questura di Milano che dell’Ufficio Affari Riservati aveva fatto il nome dell’anarchico ballerino appartenente al gruppo 22 marzo di Roma quale probabile esecutore dell’attentato assieme a Giuseppe Pinelli.
Di questo e di altro ancora si trova abbondante materiale nel libro “e a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte”, tant’è che debole appare ormai l’accusa che a suo tempo Pier Paolo Pasolini fece sul Corriere della sera: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Perché tanto più forte è necessario ribadire oggi – come scrisse Benoît Malon a proposito della Comune di Parigi – quanto «la storia deve rifarsi a nome dei sacrificati, degli spogliati, degli asserviti, dei calunniati, dei martiri di tutte le epoche […] Oramai ai sopravvissuti della disfatta resterà sempre qualcuno per dire in faccia al mondo, ai carnefici, ai calunniatori: Voi avete mentito».

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