Peter Paul and Mary – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tra angeli e demoni: musica e vita del reverendo Gary Davis https://www.carmillaonline.com/2023/08/10/tra-angeli-e-demoni-la-musica-e-la-vita-del-reverendo-gary-davis/ Thu, 10 Aug 2023 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78514 di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco Sono qui nel buio e procedo a tentoni E nessuno bada a me (Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, pp. 325, 22 euro

E’ talmente dura dover essere cieco
Sono qui nel buio e procedo a tentoni
E nessuno bada a me
(Rev. Gary Davis)

E’ stato sicuramene uno dei maestri della chitarra blues, prova ne sia che musicisti del calibro di Bob Weir (Grateful Dead), Jorma Kaukonen (Jefferson Airplane, Hot Tuna), Stefan Grossman (maestro incontrastato del fingerpicking), Dave Van Ronk, Bob Dylan, Happy Traum, e incalcolabili altri ancora, si sono dichiarati suoi allievi oppure gli hanno pagato più di un tributo interpretando molte canzoni e numerosi brani del suo repertorio. Eppure il reverendo Gary Davis non è certo in cima alla lista dei bluesmen più conosciuti anche nell’ambito degli appassionati oltre che del grande pubblico.

Ian Zack, giornalista newyorkese che ha scritto per il «Washington Post«», il «New York Times», «Forbes» e «Acoustic Guitar» e che ha lavorato come organizzatore di concerti per uno dei più vecchi locali folk della Grande Mela, il Good Coffeehouse, gli ha dedicato un lavoro che ha richiesto anni di ricerche, interviste e ascolti di registrazioni musicali edite e inedite che ha vinto il premio per l’Historicaal Research in Recorded Blues, Gospel, Soul or R&B.

Say No to the Devil, questo il titolo originale dell’opera ora pubblicata in Italia dalle edizioni ShaKe, ricostruisce il percorso di vita, conclusasi il 5 maggio 1972, e musicale del bluesman originario della contea di Laurens nel South Carolina, dove nacque il 30 aprile del 1896. Un percorso difficile, aspro, segnato dalla cecità fin dall’infanzia nella regione del Piedmont che fu, allo stesso tempo, patria di un ben definito stile di blues e arpeggio della chitarra, il Piedmont Style, e un ambiente dai durissimi caratteri razziali e razzisti. Come ricorda l’autore della biografia:

I neri più anziani della contea di Laurens nel South Carolina ancora ricordano molto bene un vecchio traliccio ferroviario, dal quale penzolava da decenni un tratto di corda marcita. A sentir loro, era stata utilizzata l’ultima volta nel 1913 da una masnada di bianchi che avevano linciato un negro accusato di stupro. Il traliccio e la corda sono ormai solo vaghi frammenti di memoria, ma permangono altri spiacevoli ricordi del durissimo ambiente in cui è cresciuto Gary Davis, in particolare il Museo del Ku Klux Klan con annesso Redneck Shop, ospitati in quello che una volta era un cinema segregato. Tra gli oggettini che si possono acquistare allo “shop” ci sono mantelli con cappuccio, adesivi del Klan e fotocopie dei cartelli segregazionisti “Riservato ai bianchi”1.

Ambiente, però, difficile non solo dal punto di vista razziale, ma anche della sopravvivenza quotidiana, sicuramente determinata dal primo, se è vero che Gary fu uno dei due superstiti degli otto figli partoriti da Evelina Davis, di cui sei morirono prima dell’età adulta. Lei e il marito John erano mezzadri e cercavano di vivere del lavoro su terre possedute da altri mentre Gary, il primogenito, nacque quando la madre aveva diciassette anni.

Se si vuole è un quadro classico quello dipinto da Zack per delineare la prima parte della vita del musicista, che sembra uscito dalle pagine di Caldwell e Faulkner o di altri scrittori, bianche e neri, del Sud degli Stati Uniti. Un quadro in cui la madre, che probabilmente ebbe i figli con uomini diversi, non poteva aver tempo da dedicare alle cure di tutti o anche solo a quello che viene tradizionalmente definito come “amore materno”, in realtà spesso riservato a chi già gode di ben altri “diritti” razziali, economici e sociali. Come se tutto ciò già non bastasse, il padre di Gary, come lo stesso musicista ricordava, era stato ucciso, a colpi di arma da fuoco, quando lui aveva dieci anni, dallo sceriffo di Birmingham in Alabama.

Davis non avrebbe potuto ricevere carte peggiori nella partita della vita e, in seguito, avrebbe attribuito la propria sopravvivenza «alla mano del Signore»: gli era stata tolta la vista, ma aveva ricevuto in cambio qualcosa di molto speciale.

Infatti, già da molto giovane, Davis aveva iniziatoa cantare nella chiesa battista di Gray Court sempre in South Carolina, accompagnato dalla chitarra suonata nello stile fingerpicking che egli contribuì a definire, pizzicando le corde con l’indice e il pollice, canzoni e temi tratti dal blues, gospel, ragtime insieme ad altri provenienti dal repertorio tradizionale oppure di sua invenzione su un tempo in quattro parti.

A metà degli anni 1920, si trasferì a Durham, nella Carolina del Nord, un importante centro della cultura nera dell’epoca. Lì insegnò a Blind Boy Fuller e collaborò con un certo numero di altri artisti della scena blues del Piedmont. In seguito, J. B. Long presentò Davis insieme a Fuller all’American Record Company. Quelle sessioni di registrazione del 1935 segnarono l’inizio della carriera di Davis. Divenuto cristiano e ordinato ministro battista Davis iniziò a preferire la musica gospel al blues, notoriamente ritenuto “la musica del diavolo”.
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Trasferitosi a New York nel 1940, dove si esibiva in qualità di musicista itinerante e di predicatore agli angoli delle strade, avrebbe vissuto anni nella più nera miseria a fianco della moglie Annie, che avrebbe fatto di tutto per tenerlo lontano dal blues, dalle donne e dall’alcol.

Così mentre, nei primi anni Sessanta la scena rinnovata del folk revival avrebbe riportato in auge bluesmen come Missisippi John Hurt, Skip James, Furry Lewis e Son House, che avevano inciso dischi a 78 giri in gommalacca negli anni ’20 e ’30 per poi ripiombare nell’oscurità di lavori quotidiani umili, spesso legati alla terra, colui «che era stato con ogni probabilità il più grande di ttti i chitarristi blues immortalati su disco prima della Seconda guerra mondiale era già fortunato se poteva crogiolarsi alla tenue luce della sua cerchia di ammiratori.»2

Peter, Paul e Mary registrarono la versione di Davis di Samson and Delilah, conosciuta anche come If I Had My Way, una canzone di Blind Willie Johnson, che Davis aveva reso popolare. I diritti d’autore risultanti da quel successo permisero a Davis di comprare una casa, cui Davis si riferiva sempre come alla “casa che Peter, Paul e Mary costruirono”, nella quale visse insieme alla moglie per il resto della sua vita, fino all’infarto che lo stroncò nel maggio del 1972.

Ma nonostante ciò e il fatto che, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, molte altre sue canzoni fossero rese celebri da musicisti e cantanti di largo successo tra i giovani e nei festival folk e blues, la relativa oscurità che circonda la sua figura e il suo ruolo seminale nell’uso della chitarra blues

dipende in larga misura dalle sue scelte di vita. Per quanto sia rimasto fino agli ultimi giorni della sua esistenza uno dei più grandi, se non il più grande, di tutti i chitarristi tradizionali blues e ragtime, in quanto uomo di chiesa si rifiutò cocciutamente per gran parte della carriera di eseguire il blues, ossia suonarlo e cantarlo alla propria maniera su un palco o in sala di registrazione […] In un certo senso Davis rovescia la leggenda di Robert Johnson: non ha venduto l’anima al diavolo, come si vocifera abbia fatto Johnson, per acquisire una sovrumana abilità alle prese con la chitarra blues. Invece Davis ha rinunciato alla musica blues nel fiore degli anni per dedicare la vita a Dio in veste di predicatore. Proprio quando le incisioni blues stavano per spalancargli nuove porte professionali o il portafoglio dei discografici, il suo biglietto di sola andata dalla miseria, Davis rifiutò, e anche più di una volta3.

In realtà questa sua scelta fu ampiamente e spesso contraddetta dallo stile di vita e dalle passioni che lo accompagnarono fino alla fine dei suoi giorni: quella per le giovani ammiratrici e l’alcol. Una battaglia che il Reverendo fu costretto a combattere non solo contro il principe dell’oscurità, ma anche contro i suoi personalissimi demoni.

Passioni che l’ambiente giovanile, alternativo e hippie che spesso lo circondò di attenzioni negli ultimi anni, non fece altro che alimentare. Talvolta con esiti deleteri vista la frequenza con cui Gary Davis finì col salire sul palco ubriaco, incapace o quasi di suonare oppure dedito soltanto ad improvvisare lunghissimi e strampalati sermoni sul peccato e il significato della salvezza davanti ad un pubblico che spesso si annoiava e finiva con l’abbandonare le sue esibizioni.

Una sorta di destino triste, solitario e final che è ben narrato nelle pagine del libro di Zack e che accomuna la vita e l’esperienza del Reverendo a quella di molti altri interpreti afro-americani di blues e soul ciechi. Per i quali, quando non è stato l’alcol, spesso è stata l’eroina a svolgere un ruolo devastante nel corso della carriera.

Per l’obbiettività, l’attenzione e il costante amore per il soggetto trattato, nonostante tutto, che lo contraddistinguono, il testo dedicato da Zack al Reverendo Gary Davis può rivelarsi prezioso, a tratti commovente e sicuramente utile, se non imperdibile, per chiunque ami il blues e la cultura afroamericana del ‘900.

Un unico appunto va fatto al traduttore, forse non troppo esperto dell’argomento, visto che confonde gli Staple Singers, uno dei più influenti gruppi vocali soul e gospel, impegnati sulla scena dei diritti civili degli anni ’60, con un gruppo vocale femminile scambiando il suo fondatore e patriarca Roebuck “Pops” Staples, grande cantante e chitarrista nello stile swamp blues, per una donna. Forse confondendolo con l’unica superstite del gruppo a base famigliare ancora viva e presente sulla scena musicale e discografica odierna: Mavis Staples, figlia di Pops e sorella degli altri membri del gruppo.

Errore veniale per un testo comunque indispensabile in ogni biblioteca musicale attenta al blues e alla sua influenza sulla scena del rock alternativo americano


  1. I. Zack, Il reverendo Gary Davis. Genio della chitarra blues che lottò contro il diavolo, ShaKe Edizioni, Milano 2023, p. 25  

  2. I. Zack, op. cit., p. 16  

  3. Ivi, pp. 17-18  

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Il giorno in cui Bob Dylan impugnò la chitarra elettrica https://www.carmillaonline.com/2023/03/04/il-giorno-in-cui-bob-dylan-impugno-la-chitarra-elettrica/ Sat, 04 Mar 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76153 di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, [...]]]> di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, Milano 2022, pp. 370, 18,90 euro, eBook 11,99 euro.

Dylan a Newport con un nuovo look e una chitarra elettrica: incoronato re del folk, Dylan mette in chiaro che il suo sogno è diventare re del rock’n’roll. Nasce un tumulto.
È un evento originario, tramandato attraverso i decenni dai «boomers» che furono adolescenti negli anni sessanta, l’età dei diritti civili e del flower power. E come tutti gli eventi originari è falso, o parecchio esagerato, come illustra e racconta Elijah Wald nel suo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, una splendida e appassionante visita guidata all’ouverture dei sixties.

È il 25 luglio del 1965. Newport, Rhode Island. È qui che dal 1959, ogni estate, si tiene il Newport Folk Festival, dedicato a canti etnici, antiche ballate importate dall’Europa in tempi remoti, blues tradizionale, gospel, canzoni socialiste e proletarie, qualche timido excursus nel «folk pop», come lo chiamano, cioè nel folk commerciale, che ha cominciato a scalare l’hit parade: Tom Dooley del Kingston Trio, If I Had a Hammer e Where Have All the Flowers Gone di Peter, Paul and Mary.

Sono canzoni impegnate, legate al movimento antisegregazionista e alla sinistra americana. Pete Seeger, il creatore del festival, ha scritto gli hit di Peter, Paul and Mary e nei primi cinquanta ha importato dall’Africa The Lion Sleeps Tonight, o Wimoweh, una canzone che lo ha reso ricco (mentre Solomon Linda, l’autore della canzone, un musicista zulu, muore nel 1962 in miseria, e ci vuole una sentenza di tribunale per risarcire gli eredi). Seeger è stato anche membro del partito comunista ed è finito in lista nera. Veste dimesso, e se la tira da santa canaglia, ma ha «studiato a Harvard» e, come gli ricorda sua moglie: «Non sei un operaio, fai solo finta, e lo vedono tutti». Lui non se ne dà per inteso: pugno chiuso, camicia a scacchi e canzonette engagé. Due anni prima, nel 1963, a nome del Newport Folk Festival ha incoronato fenomeno del folk il giovanissimo Bob Dylan. Questi è salito sul palco in look (anche lui) da classe operaia imbracciando una chitarra acustica, l’armonica fissata al collo da un supporto subito entrato nella leggenda, e ha intonato canzoni che non saranno più dimenticate: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Don’t Think Twice, It’s All Right, Masters of War.

Ma ecco che due anni dopo Dylan si presenta a Newport in costume rockettaro stretto: «giacca di pelle lucida sotto i fari del palco, una camicia color salmone abbottonata fino al collo, jeans neri e stretti che gli fasciano le gambe sopra gli stivali a punta da cowboy, neri anch’essi». Imbraccia una chitarra «Stratocaster sunburst a due colori». Una chitarra elettrica. Sul palco, con lui, una band improvvisata di bluesmen di Chicago: chitarristi sparsi, qualche amico, Paul Butterfield e alcuni musicisti della sua Blues Band (che ha esordito, qualche mese prima, con Born in Chicago, una canzone che comincia così: «Sono nato a Chicago nel 1941 / Mio padre mi ha detto: “Figliolo, ti conviene prendere una pistola”»). Intorno, amplificatori, cavi elettrici, riflettori. Diranno poi che, venuto per ascoltare Bob Dylan cantare che «una dura, dura pioggia cadrà», e quel giorno è effettivamente piovuto per ore, il pubblico del Newport Folk Festival, bagnato fradicio, i piedi nel fango, s’è ritrovato davanti uno sconosciuto. Sguardo cattivo, modi strafottenti, chiaramente «stoned» di chissà che, una mise da damerino di Carnaby Street.

E via con l’evento originario: «Le luci sono puntate su di lui, solo al centro del palco, mentre i musicisti alle sue spalle iniziano a suonare avvolti dal buio. Ascolta per un momento, sente la forza della band, quindi s’avvicina al microfono e canta un singolo verso: “Alla fattoria di Maggie non ci lavoro più!” Fa un passo indietro, lascia che il grande chitarrista Mike Bloomfield risponda con un fraseggio di chitarra, si lascia trasportare dal ritmo ancora per un momento, poi torna al microfono e ripete la frase. Bloomfield risponde di nuovo, e ancora una volta lui ascolta per un istante prima d’irrompere con la prima strofa: «Mi sveglio la mattina, giungo le mani e prego perché piova / Le idee che mi frullano per la testa mi fanno impazzire». Yarrow sta accovacciato dietro ai musicisti, sistema i cavi apportando piccole regolazioni agli amplificatori. Bloomfield è alla destra di Dylan, avvolto dal buio e illuminato solo momentaneamente dal flash dei fotografi. La voce di Dylan si alterna ai fill secchi e ruvidi del chitarrista. Tra una strofa e l’altra, Bloomfield suona liberamente, senza attenersi a parti scritte in precedenza. Dalla sua chitarra escono urla stridenti, bassi tonanti e grappoli di note dissonanti, che si chetano ogni volta nel riff ripetitivo che annuncia il successivo ingresso di Dylan. Il suo non è un semplice accompagnamento: duella con Dylan, sfidandolo e incoraggiandolo a proseguire. Il cantante ulula l’ultimo verso: “Faccio del mio meglio per essere me stesso / ma tutti vogliono che sia come loro”».

È una metamorfosi, pensano i dylaniani della prima ora: il profeta beatnik di The Times They Are A-Changin’ ha saltato il fosso. Si è venduto, è passato al pop. Esultano invece i nuovi dylaniani: basta con le lagne sdolcinate del folk, basta con le canzoni sociali, finalmente l’introspezione, evviva Rimbaud, sex revolution, marijuana!

Non è vero, come racconta Elijah Wald nel suo libro, ma si racconta (e si racconterà ancora a lungo) che Pete Seeger, urlando «basta con questo rumore», si sia avventato sui cavi degli amplificatori mulinando un’ascia, come uno di quei boscaioli del Vermont che invita al festival insieme ai suonatori di banjo, di ukulele, di kazoo e a tutti quegli artisti che suonano «la vera musica del proletariato». Anche lui, nelle sue memorie, lascerà credere d’aver trasceso: nessuno rinuncia al suo cammeo, per quanto sgradevole, nella storia del mondo. Ma anche se non ci sono state scene madri, e Seeger si è limitato a soffrire in silenzio, qualcosa è successo davvero. Aveva ragione il vecchio Dylan: i tempi stanno davvero cambiando.

Dai diritti civili si sta passando ai diritti umani; dalle cause sociali a quelle del singolo, dell’individuo. È il grande ritorno del rock’n’roll, la cui stella era tramontata con l’eclisse di Elvis Presley, trasformato in star hollywoodiana e crooner di Las Vegas (ma anche nel saltafosso da Be-Bop-A- Lula e Mistery Train a Love Me Tender e Viva Las Vegas Presley rimane Presley, un principe). John Lennon e Paul McCartney stanno cambiando la vita della gioventù europea e americana con le loro melodie perfette e l’eleganza dada del loro look. Altrettanto innovativi, ma decisamente meno iconici, sono i CCR, per esteso Creedence Clearwater Revival, una band californiana che fonde il country con il blues e il rock’n’roll. Comincia l’età del rock duro e adrenalinico, poi psichedelico, presto anche del punk, dei Velvet Underground, del rock en travesti di David Bowie. Dylan è uno di loro, e il più bravo di tutti. Come canta in un altro dei suoi nuovi hit, Subterranean Homesick Blues, lui non «ha bisogno d’un meteorologo per sapere da che parte tira il vento».

Perché è di questo, ribadiamolo, che si tratta: dei tempi che cambiano. Non sono i Beatles o gli Stones né Dylan a cambiare il mondo, come qualcuno dirà in seguito, ma le loro canzoni sono l’inconfondibile colonna sonora del cambiamento, un’apocalisse dei costumi che coglie tutti di sorpresa, Dylan compreso. Ma il ragazzo è sveglio e si lascia portare dall’onda. A Newport, nel 1965, si volta pagina, nel bene e nel male. Non solo Dylan, ma almeno metà dei musicisti presenti sono passati, da un pezzo, alle chitarre elettriche.

«Non fu piacevole», racconta Wald, «ma fu di gran lunga meglio delle scontate declamazioni dei progressisti da manuale». A Newport, tutti erano abituati a essere accolti e coccolati, a sentirsi circondati da menti affini. «L’unico a mettere in dubbio la nostra posizione è stato Dylan. Forse non l’ha fatto nel migliore dei modi. Forse è stato maleducato. Ma ci ha dato una scossa. Questo è il ruolo dei poeti e degli artisti».

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Which Side Are You On? Pete Seeger e la presenza della lotta di classe nella canzone folk americana https://www.carmillaonline.com/2014/01/29/which-side-are-you-on-pete-seeger-la-presenza-della-lotta-classe-nel-folk-americano/ Tue, 28 Jan 2014 23:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12447 di Sandro Moiso

PeteSeeger Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli [...]]]> di Sandro Moiso

PeteSeeger
Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli anni cinquanta e sessanta, ma della canzone politica americana e un autentico testimone dello sviluppo della lotta di classe e della sua organizzazione politica negli Stati Uniti d’America. Con tutte le contraddizioni culturali, politiche ed umane che ne sono conseguite.

Spesso, infatti, nell’attuale società dei consumi, musicali e non, il verbo classista è completamente rimosso a discapito di una realistica e credibile ricostruzione del passato e dei suoi aspetti più conflittuali. Così l’attuale attenzione per la musica tradizionale americana e suoi aspetti risalenti al blues e al folklore delle origini tende a sottolineare prevalentemente l’aspetto razziale e religioso della stessa, dimenticando troppo spesso la forte valenza classista che tale musica ha portato con sé dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni sessanta.

Si dimentica così di sottolineare come gran parte dell’ambiente che finì col costituire negli anni cinquanta e sessanta del ‘900 il brodo di coltura da cui sarebbero usciti Bob Dylan, Phil Ochs, Joan Baez, Tom Paxton su su fino a Springsteen e Tom Morello affondava le sue radici non solo nel conflitto di classe, ma nella stessa storia del comunismo americano e nelle sue contraddittorie manifestazioni politiche e culturali.

Woody Guthrie, di cui nel 2012 si è celebrato senza alcun clamore il centenario della nascita, è stato sicuramente il testimone canoro più importante dello sviluppo e delle conseguenze politiche e culturali di tale tradizione. E, sicuramente, anche il più conosciuto.
Così che la sua leggenda, ingrandita dall’omaggio che Dylan gli fece per tutta la prima parte della sua carriera, e le sue canzoni originali hanno finito spesso col mettere in ombra la figura di Seeger che, al contrario di ciò che in genere si potrebbe pensare, è stata altrettanto importante se non di più nel riscoprire e tramandare alle successive generazioni la tradizione “blue collar” e proletaria delle ballate e delle folk songs statunitensi.

Un po’ il destino che Engels ha avuto nei confronti dell’amico e sodale Marx, se questo non suona blasfemo ai puristi, della musica folk e della politica. Anzi, per rinforzare l’ipotesi, vale la pena di sottolineare come, a differenza delle letture più semplicistiche del folk americano, il recupero della tradizione popolare americana operato da Pete Seeger sia stato, nella miglior tradizione marxista, frutto di teoria e prassi dialetticamente, ed artisticamente, riunite.

Pete Seeger nacque e ricevette la prima educazione in un ambiente già fortemente politicizzato: il padre, Charles Seeger, fu un pioniere della musicologia ovvero dello studio della musica inserita nel suo contesto sociale e storico e fu anche uno compositore che cercò di sviluppare tra gli anni dieci e venti del XX secolo un’autonoma musica sperimentale americana, liberata dall’europeismo di Arnold Schoenberg e, allo stesso tempo, dalla scarsa carica emotiva di quella di Charles Ives.

Ma fu anche un militante degli Industrial Workers of the World e un fiero oppositore alla partecipazione americana al primo conflitto mondiale; motivo per cui fu ostacolato nella sua carriera di docente presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Berkley e osteggiato dai colleghi. Nel 1918 finì così col lasciare quell’Università e tornare all’est. Dove, appunto, nacque Pete e Charles poté introdurre gli studi di etnomusicologia presso l’Istituto di Arte Musicale di New York.

Charles Seeger divorziò dalla prima moglie, e madre di Pete, nel 1927 e due anni dopo si unì con la compositrice americana Ruth Crawford che aveva studiato con Alban Berg, Bela Bartok e Arthur Honegger. Qualche anno dopo i due entrarono a far parte del Composers’ Collective, vicino al partito Comunista Americano. L’ideale compositivo di Charles Seeger era quello, come scrisse David Nicholls in “American Experimental Music”, che “la musica dovesse provenire sia dalla testa che dal cuore per poter essere compresa”, senza, per questo rifiutare le dissonanze e le complessità degli studi armonici contemporanei.

Gran parte dell’innovativa opera compositiva del padre andò distrutta in un incendio nel 1923, ma quell’idea di musica che doveva tener conto della testa e del cuore fu sicuramente trasmessa al figlio e fu, anche, alla base delle ricerche etnomusicologiche di John e Alan Lomax, padre e figlio, che avrebbero raccolto la più grande collezione di musica popolare americana e mondiale tra gli anni trenta e sessanta del ‘900. Per poi essere costretti a lasciare gli Stati Uniti nel periodo della caccia alle streghe del senatore Mc Carthy.

Charles si era associato a John Lomax nel 1933 e aveva finito coll’influenzarne il figlio Alan con le sue idee di sinistra e, allo stesso tempo, all’epoca dei Fronti Popolari, aveva abbandonato le sue composizioni più avanguardistiche a favore di una musica più semplice e popolare. In seguito sarebbe divenuto, sotto l’amministrazione Roosvelt, direttore del Programma Federale per la Musica, mentre Ruth Crawford , oltre che continuare a comporre, si occupò della trascrizione delle registrazioni sul campo fatte per l’Archivio Americano della Canzone Popolare per la Libreria del Congresso e in seguito avrebbe curato proprio il secondo volume della raccolta di musica folk fatta dai due Lomax. Perseguitato dal Federal Bureau of Investigation per i suoi trascorsi, Charles Seeger, che aveva anche composto delle opere musicali in onore di Sacco e Vanzetti e dei lavoratori cinesi sfruttati nelle lavanderie americane, dovette, nella prima metà degli anni cinquanta, rassegnare le sue dimissioni dagli incarichi governativi, ma avrebbe continuato a condurre i suoi studi di etnomusicografia presso l’Università di Los Angeles fino alla morte, avvenuta nel 1979.

Perché dilungarsi tanto sulla vita del padre di Seeger? Proprio perché nel suo percorso biografico ed intellettuale sono già compresi tutti gli elementi che avrebbero poi caratterizzato le concezioni musicali di Pete e del folk revival in generale. Nel bene e nel male, poiché tale recupero della tradizione popolare e proletaria della canzone e della musica americana era fortemente infarcita dalle scelte operate dai partiti comunisti dell’età del Comintern e del Cominform e, per questo motivo soggetto a cambi di contenuto e di interpretazione che avrebbero continuato a manifestarsi (anche attraverso un certo conservatorismo musicale) fino ai primi anni sessanta.

Dopo aver incontrato Woody Guthrie, Pete abbandonò gli studi di sociologia ad Harvard e si dedicò a tempo pieno all’impegno politico musicale, prima con gli Almanac Singers2 e poi con i Weavers, sempre decisamente schierato sul lato sinistro della barricata. Cosa che gli costò un severo ostruzionismo artistico e politico negli anni di Mc Carthy, ma che sarebbe poi stata premiata sul finire degli anni cinquanta con i successi ottenuti dai Weavers e, in particolare, con la trascrizione e reinterpretazione della canzone sud africana “Wimoweh”, che sarebbe diventata più nota nella sua interpretazione solista come “The Lyon Sleeps Tonight”.

Rimasto comunista e marxista anche dopo aver abbandonato il Partito Comunista Americano, a seguito della denuncia dei crimini di Stalin e dello stalinismo avvenuta durante il XX congresso del Partito Comunista dell’URSS, Pete Seeger non ebbe un rapporto facile e lineare con i movimenti radicali degli anni sessanta. Prova ne sia proprio il suo controverso rapporto con Bob Dylan che, dopo essere stato un suo beniamino in quanto nuova promessa della musica folk tradizionale, sarebbe poi stato fieramente osteggiato da Pete che si sentì tradito dalla svolta elettrica del menestrello di Duluth. Come ben dimostrano le immagini del Festival di Newport del 1965, in cui si può vedere un Seeger stravolto, fermato a stento da altri partecipanti al festival, mentre tenta di andare a tagliare con un’ascia i cavi della strumentazione elettrica di Dylan e della sua band.

Fiero oppositore della guerra in Vietnam, contro la quale si battè con veemenza e più che esplicite dichiarazioni, spesso sabotate dai media, vide poi le proprie composizioni raggiungere i successo proprio attraverso la rilettura che ne diedero gruppi elettrici come i Byrds (“Turn! Turn! Turn!” e “The Bells of Rhymney”), mentre la sua “Where Have All the Flowers Gone?” sarebbe diventata un vero inno, reinterpretato da infiniti cantanti e gruppi, del movimento contro la guerra in Indocina.

Spostatosi negli anni successivi sul versante della lotta ecologista, Pete Seeger ha continuato a comporre, cantare e partecipare come suonatore di banjo a numerosi album, anche di altri musicisti, come il bellissimo “My Name Is Buddy” di Ry Cooder ha ancora dimostrato nel 2007. Certo la sua opera principale rimane, però, l’interpretazione, spesso per voce sola e banjo, del grande patrimonio musicale americano, raccolta nei numerosi album dedicati alle American Favorite Ballads e alle American Industrial Ballads incisi per la Folkways sul finire degli anni cinquanta e ancora oggi facilmente reperibili su cd.

C’è infine da ricordare che anche il fratello Mike (1933 – 2009) e la sorella Margaret “Peggy” (1935) hanno avuto un importante ruolo nella storia e nello sviluppo del folk revival. Il primo, esperto suonatore di autoharp, banjo, violino, dulcimer, armonica a bocca, chitarra, mandolino, dobro, scacciapensieri, e flauto di Pan ha contribuito, con i suoi New Lost City Ramblers tra il 1958 e il 1973, ad un recupero estremamente filologico del suono tradizionale americano a cavallo tra la fine dell‘ottocento e i primi trent’anni del ‘900; mentre la sorella, dopo aver avuto il passaporto ritirato negli anni cinquanta per una visita non autorizzata nella Cina comunista, è vissuta quasi sempre in Europa dove è stata sposata per oltre trent’anni con il musicista Ewan McColl e dove ha contribuito alla formazione del Critics Group che raccoglieva giovani esecutori di musica tradizionale delle isole britanniche o di composizioni nuove ma ispirate alle strutture musicali tradizionali.

Autore di un importante manuale destinato ai suonatori del banjo a cinque corde, Pete Seeger ha influenzato e contribuito all’affermazione e al successo di gruppi come il Kingston Trio, Peter, Paul and Mary, i Mamas and Papas e di riviste politico-musicali come Broadside (uscita indefessamente tra il 1962 e il 1988) fino alle voci più recenti del movimento neo-folk. Con lui se n’è andato l’ultimo, grande testimone di una stagione, forse si potrebbe dire di un secolo, che con tutte le sue contraddizioni non ha mai dimenticato quanto fosse importante da che parte della barricata ci si schierava. Grazie Pete di essere stato con noi e di averci accompagnato, per tanti anni, nelle lotte con le tue canzoni.


  1. Bruce Springsteen, We Shall Overcome. The Seeger Sessions, Columbia – Sony 2006 

  2. Creati nel 1941 furono di fatto il gruppo musicale che, fondendo lo stile musicale delle string band degli stati del Sud con aspetti del cabaret newyorkese, contribuì a definire lo stile di quello che sarebbe poi stato il folk revival. Pete Seeger nel gruppo iniziò a suonare quello che sarebbe stato per sempre il “suo” strumento: il banjo a 5 corde  

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