performance – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 20 Apr 2025 22:01:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza


  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Linee di fuga. Le ferite del sé e il cambiar pelle necessario https://www.carmillaonline.com/2018/01/21/linee-fuga-le-ferite-del-cambiar-pelle-necessario/ Sat, 20 Jan 2018 23:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42513 di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel suo recente libro Sociologia del rischio (2017), come abbiamo visto [su Carmilla], David Le Breton, docente di Sociologia e Antropologia presso l’Università di Strasburgo, si è concentrato sul ruolo del rischio e della paura nella vita degli individui in una contemporaneità caratterizzata dall’insicurezza sociale. Secondo lo studioso sarebbe la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio, soprattutto giovanili, che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. Sarebbe proprio la sensazione d’impotenza provata di fronte a un ambiente circostante vissuto come immodificabile a determinare il ricorso a pratiche pericolose per l’incolumità personale.

Se ad essere indagato dal recente volume è il rischio deliberatamente scelto come via di fuga da un contesto vissuto dall’individuo come ostile, è però da tempo che lo studioso analizza le modalità con cui gli esseri umani tentano di rispondere al malessere che li affligge. Incisioni, scorticature, scarificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni…, le lesioni corporali autoinflitte da uomini e, soprattutto, donne sono al centro di La Peau et la Trace. Sur les blessures de soi, saggio uscito in Francia nel 2003, poi tradotto e pubblicato in italiano nel 2005 da Meltemi, dunque riproposto dal medesimo editore nel 2016. La pelle e la traccia. Le ferite del sé rappresenta un importante studio condotto da David Le Breton sulle lesioni corporali autoinflitte deliberatamente dagli individui, principalmente in età adolescenziale, nel contesto della società contemporanea occidentale.

Secondo lo studioso l’epidermide è diventata la superficie d’iscrizione del malessere di tanti individui che modificano il proprio corpo spesso perché non riescono ad incidere sull’ambiente circostante. Tali ferite corporali non sarebbero un indice di follia, ma una forma di lotta, per quanto particolare, contro il male di vivere contemporaneo. L’alterazione del corpo sembrerebbe rispondere a un bisogno di ridefinizione di sé in una situazione dolorosa: un tentativo di andare oltre il socialmente consentito per provare qualcosa di forte nel corso di una vita normale percepita come inadeguata e insufficiente.

Aggredendosi e/o facendosi sanguinare, l’individuo infrange la sacralità sociale del corpo dando vita a un gioco simbolico con la morte e, come accade per i comportamenti a rischio, pur su un altro piano, le ferite inflitte al corpo si rivelano un mezzo estremo di lotta contro la sofferenza, oltre che di ri-costruzione identitaria. Ne La pelle e la traccia Le Breton non intende analizzare pratiche derivanti da una volontà dissimulata di morire, ma al contrario da una volontà di vivere.

È ovvio che si tratta di un percorso ambivalente – la ricerca di sé conduce lungo strade tortuose. Per partorire il sé, a volte, è necessario rischiare di perdersi – non per scelta, ma per necessità interiore: la sofferenza o la mancanza di essere erodono il rapporto con l’esistenza, separandola da noi. Nei comportamenti analizzati in questo libro si gioca d’astuzia con la morte o il dolore, per riuscire a produrre un senso di cui fare uso personalmente – e ri-mettersi al mondo […] Quando l’esistenza non si presenta più sotto gli auspici del senso e del valore, l’individuo dispone ancora di un’ultima risorsa: sottrarre spazi poco frequentati al rischio di perire. Gettandosi contro il mondo, lacerandosi o bruciandosi la pelle, egli cerca in realtà una garanzia per se stesso – mette alla prova la sua esistenza, il suo valore personale. Se non ha più dinanzi a sé il percorso del senso, tracciato in modo chiaro, è necessario che si confronti col mondo mediante l’invenzione di riti intimi – quasi di contrabbando. Sacrificando una piccola parte di sé nel dolore, nel sangue, l’individuo si sforza di salvare l’essenziale; infliggendosi un dolore controllato, lotta contro una sofferenza infinitamente più intensa (pp. 9-10).

Nella sezione intitolata “L’incisione nella carne: tracce e dolori per esistere”, l’autore ragiona anche sui motivi che determinano un ricorso maggiore alle lesioni corporali autoinflitte da parte femminile e tende a ricondurre ciò a una maggiore interiorizzazione della sofferenza da parte delle donne rispetto agli uomini che invece tendono a tradurla in aggressività rivolta contro l’esterno. Se la donna assume su di sé lo sconforto, l’uomo, invece, sembrerebbe più incline a proiettarsi contro il mondo in ossequio all’obbligo di condotte “virili” a cui è stato educato. Interiorizzando la propria disperazione, la donna sarebbe indotta

a mettere in luce più spesso una fragilità che va di pari passo coi criteri di seduzione che le vengono imposti. Che si pieghi dinanzi al dolore, è nell’ordine naturale delle cose. Ma rivolgendo la sua sofferenza – cioè la sofferenza che è nella vita – contro la propria pelle, la donna rifiuta anche il modello della seduzione – un modello che la soffoca e fa del suo aspetto il principale criterio di valutazione di ciò che è, laddove l’uomo viene di preferenza giudicato in base alle azioni che compie. Per queste ragioni, la donna afferma di essere sempre “a fior di pelle”; e a volte, quando ne ha abbastanza, cancella la pelle con gesti carichi di rabbia (pp. 32-33).

Non è pertanto un caso che artiste come Gina Pane e Orlan nell’attentare al proprio corpo suscitino maggiore fastidio e resistenza sociale rispetto ad artisti uomini. «Queste artiste, del resto, si fanno interpreti di un’analisi politica del proprio corpo e dei pesanti vincoli sociali che le tengono rinchiuse nella loro condizione: possibile che una donna, di cui si dice che deve essere fragile, dolce, latrice di vita ecc., sia in grado di far scorrere il proprio stesso sangue o di “rovinare” il proprio corpo?» (p. 33).

In generale l’attentato nei confronti del proprio corpo avviene in solitudine e risponde frequentemente all’insufficienza del vivere. «Esistere non basta più: bisogna sentirsi esistere. Per porre fine allo sgretolamento di sé e all’inconsistenza dell’immagine del corpo, ci vuole un sovraccarico di sensazioni […] Quando si perde ogni contatto con l’ambiente circostante, quando ci si sente insignificanti, non c’è davvero più altra via di scelta: esisto perché mi sento, e il dolore lo attesta» (p. 57). Certo, il significato della lesione corporale è molteplice; il gesto può derivare anche da un’intenzione espiatoria o di purificazione.

Nel libro, oltre che al contesto adolescenziale, viene prestata particolare attenzione anche alle ferite corporali intenzionali praticate dagli individui durante lo stato di reclusione – “Lesioni corporali deliberatamente inflitte in situazione carceraria” – e nell’ambito artistico – “Intaccare se stessi: dalla body art alle performance”.

La sezione finale del volume – “La parte del fuoco: un’antropologia dei limiti” – è invece dedicata all’incisione come forma di lotta contro la sofferenza e, in generale, alle ferite autoinflitte all’interno di un’epoca segnata dalla negazione sociale della morte, epoca in cui il morire e la morte hanno smesso di far parte dell’ordine simbolico. «Oggi la morte è vista come un non-luogo, l’antitesi di un’esistenza divenuta positività pura, in grado di fissare, di eternare il tempo – mentre la morte è un processo insostenibile di dissipazione e decadimento» p. 154). Riconquistando il controllo sul proprio corpo attraverso azioni su di esso, l’individuo sollecita

un’istanza metafisica che possa fargli ritrovare la legittimità di esistere, ma affrontando necessariamente il rischio di perdersi: si tratta di fabbricare l’identità con il dolore o la morte, riprendendosi l’iniziativa sotto forma di una sfida o di un passaggio all’atto […] Poiché la società ha fallito nel suo compito di orientamento simbolico, il soggetto interroga un’istanza al di là di essa: il suo è un ignoto rito oracolare, un rito intimo che offre risposte radicali alle domande sul valore dell’esistenza. Ma consultare l’oracolo ha il suo prezzo. Fabbricando il sacro a uso personale, suscitando una forma di trascendenza attraverso il dolore o il rischio di morte l’individuo cerca in realtà di ridefinire se stesso. Il sacrificio di una parte di sé lo strappa al quotidiano, e in particolare alla routine della sua sofferenza; all’improvviso il soggetto è proiettato altrove, su un altro scenario esistenziale che tuttavia lui stesso ha reso possibile giocando la parte del fuoco. In questo caso il sacrificio non è uno scambio interessato con gli dei, perché ignora ciò che vuole ottenere; si impone all’individuo e al suo corpo che tenta di difendersene, ma è anche una forza che agisce – perché restaura un senso di identità ormai a pezzi. La sua espressione è un dolore liberamente accolto: è la traccia sulla pelle ma voluta, traccia che riassume in sé una sofferenza più vasta consentendo all’individuo di circoscriverla e superarla. L’incisione è insomma una risposta inconscia ma potente al senso di caos che minaccia di trascinar via ogni cosa. Attraverso la ferita, l’individuo paga in anticipo il prezzo del suo sollievo. Questa temibile formula del sacrificio ha in sé un paradosso: si origina e termina nell’individuo, destinatario ultimo della ricerca il cui fine è dare nuovo slancio all’esistenza. Ma si tratta di un processo che non è cosciente di sé […] Attentando al proprio corpo, l’individuo offre la parte per il tutto senza davvero sapere a chi si sta rivolgendo, e anzi addirittura ignorando il fine ultimo del suo gesto. Privandosi di una parte di sé, ponendo anche solo per un attimo l’accento sul dolore ma poi riprendendo in mano il controllo – e dunque cessando di essere in balia della corrente senza fine del male di vivere – chi sacrifica è in grado di ricevere in cambio il sollievo o quantomeno un momento di tregua – se non addirittura, chissà, un’epoca di totale remissione della sua disperazione (pp. 151-152).


Linee di fuga: serie completa

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Vita, arte e desiderio. La rivoluzione del “non-fare arte” https://www.carmillaonline.com/2015/07/29/vita-arte-e-desiderio-la-rivoluzione-del-non-fare-arte/ Wed, 29 Jul 2015 21:30:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23768 di Gioacchino Toni

piero_manzoni_002_fiato_d_artista_1960Roberto Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società. Mursia, Milano, 2015, 384 pagine, € 22,50

De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”

Analizzando i concetti di fare e non fare, evidenziandone le molteplici sfumature che li contraddistinguono sia in senso generale, che come modalità espressive all’interno dell’ambito creativo, l’autore focalizza l’attenzione su alcune individualità che, ricorrendo a poetiche che privilegiano il non-fare arte, nel corso del Novecento, hanno [...]]]> di Gioacchino Toni

piero_manzoni_002_fiato_d_artista_1960Roberto Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società. Mursia, Milano, 2015, 384 pagine, € 22,50

De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”

Analizzando i concetti di fare e non fare, evidenziandone le molteplici sfumature che li contraddistinguono sia in senso generale, che come modalità espressive all’interno dell’ambito creativo, l’autore focalizza l’attenzione su alcune individualità che, ricorrendo a poetiche che privilegiano il non-fare arte, nel corso del Novecento, hanno mutato radicalmente il mondo dell’arte, tanto a livello di prassi operativa, quanto di definizione stessa. A lungo l’arte è sottostata all’idea che vuole l’autore come creatore dell’opera, tale meccanismo è restato indiscusso fino a quando qualcuno ha sentito l’esigenza di rifiutare la logica dell’opera come qualcosa che viene prima pensato, poi realizzato e mostrato allo spettatore.

Attorno alla metà del Novecento prende piede l’idea di fare della propria esperienza/esistenza un atto creativo: “L’opera c’è, ma non è un prodotto mentale, bensì il risultato di un’azione fisica, seppure innervata anche troppo di problematiche mentali (…) Questa idea dell’evento come fatto artistico è la principale eredità dell’Informale”. Dopo l’esaltante stagione Informale, le poetiche del gesto, una volta abbandonata l’enfasi romantica e lo sforzo fisico, sintetizzano il pensiero creativo in gesti autosignificanti incentrati sull’uso del corpo. “Prende vita una nuova concezione creativa in base alla quale si fa ciò che si è (…) il fare e l’essere tendono a coincidere (…) diminuisce l’incidenza del fare sino al grado zero dell’essere”. Ad essere rifiutato, sottolinea Pasini, è il “principio di prestazione”, il valore aggiunto della produttività.

pasini_fare_non_fare_mursia“Fare-arte nei secoli passati era per lo più attualizzare una tecnica, trasformandola in una poetica”. A partire dalla metà del Novecento, la modalità operativa tradizionale, che impone all’artista di scegliere una tecnica al fine di produrre un oggetto, salta. Nel corso del secolo scorso le cose sono cambiate a livello tale che sarebbe limitativo continuare ad insistere sulle tecniche; “il fare-arte dovrebbe essere identificato nella doppia valenza del pensare e del realizzare”. In molti casi, nell’ambito dell’arte contemporanea, il fare-arte si avvicina più al pensare che non al realizzare. Non è infrequente che l’artista assuma il ruolo di inventore e coordinatore lasciando l’operatività a maestranze che si occupano di concretizzare i suoi progetti. L’abbandono di una forma operativa codificata ha portato ad una creatività diffusa, tanto che, tra gli anni ’60 e ’70, si è diffusa l’idea della “morte dell’arte”; il passaggio dall’arte all’estetica prevede la morte della prima e la performance ha un ruolo fondamentale in tale passaggio. “L’esercizio del corpo come elemento creativo determinò la suggestione che la forma percettiva del mondo (…) subentrasse a quella tradizionalmente creativa, basata sulla separazione fra artista e spettatore. A sua volta veniva a essere superata anche quella fra opera e non-opera: non esisteva più il bello come dimensione prodotta da qualcuno, ma solo come aisthesis di qualcosa già esistente, nella vasta morfologia del mondo”. Il sistema dell’arte ha tutto l’interesse ad imporre all’arte di tradursi in un fare, dunque, la difficoltà di monetizzare la fruizione estetica del mondo ha imposto il riaffiorare dell’oggetto artistico vendibile. Non a caso gli anni ’80 si aprono con la ricomparsa dei quadri: di nuovo una merce monetizzabile. Dalla morte dell’arte degli anni ’60 e ’70 si passa al fervore pittorico degli anni ’80 caratterizzato della poetica dei ritorni, una poetica che, però, argomenta Pasini, non si accontenta di scegliere un periodo del passato per ridefinirlo in chiave contemporanea, come altre volte è avvenuto, in questo caso tutto il passato può essere “saccheggiato”. Dietro all’ubriacatura di forme e colori rivisitati, dietro a questa “apparente festa galante” non è difficile ravvisare l’angoscia del futuro: dalla “morte dell’arte” siamo passati alla “morte della storia”. Soltanto l’avvento degli anni ’90 raffredda la baldanza pittorica del decennio precedente.

Fino alle Avanguardie storiche l’arte non si è sottratta al percorso canonico: occorre prima pensare l’arte, poi realizzarla. L’arte nasce da un progetto; il modus operandi tradizionale prevede un bozzetto, uno schizzo da concretizzare nell’opera finale anche se un conto è progettare un’opera figurativa, altro un’opera non figurativa. Nel caso delle correnti astratte si è insistito nel mettere al primo posto il pensiero. Nell’action painting di Pollock il progetto è stato sostituito dal processo: le poetiche informali stabiliscono il primato del fare sul pensare. Non si tratta di “un fare senza pensare ma di un pensiero sedimentato nel gorgo buio dell’esistenza che genera fiotti di materia indistinta”: l’operatività non passa più dal pensare al fare, ma concede la massima importanza a quest’ultimo.

Nel corso della trattazione, Pasini opera alcune importanti distinzioni terminologiche che non devono essere percepite dal lettore come compiaciuti giochi di parole a cui ricorrono, con un certa frequenza, purtroppo, quanti, parlando d’arte, credono di dover adottare il “critichese” pensando sia la lingua ufficiale deputata a trattare le questioni artistiche. L’autore del saggio opera una distinzione tra “non fare arte” e “non-fare arte”: il non fare non ha riscatto mentre “il non-fare si connota come un fare al negativo, quindi comunque un fare”. Inoltre, viene evidenziata la distinzione tra “non artista” e “non-artista”: il primo è colui che non pratica arte, mentre il secondo è invece colui che la pratica da una postazione negativa. Tali distinzioni si rivelano fondamentali per comprendere gli snodi principali del testo.

Le Avanguardie storiche hanno voluto abolire il referente, mettendo in crisi la percezione dello spettatore, ed hanno inteso superare la morfologia tradizionale dell’opera. “Sottrarre il visivo significa aumentare il mentale”. Cézanne inizia a lasciare parti di tela non coperte dal colore, in tal modo intende andare oltre il referente pur senza abolirlo. L’immagine viene frammentata, le pennellate di cielo finiscono sulla terra e viceversa: “al fine di attribuire per la prima volta in modo netto e tagliente più importanza a ciò che sta dentro il quadro che non al rapporto fra interno ed esterno”. Cézanne intende abolire la prospettiva, l’immagine referenziale, distruggere la mimesi della realtà: le sua pittura “non rappresentano più la realtà visiva nelle modalità fenomeniche, assume un ruolo chiave nella svolta novecentesca antireferenziale”. In Kandinsky la pittura arriva a non dover affidarsi più al referente: è il “passaggio storico dal fenomeno al noumeno”.

DUCHAMP_aria_di_ParigiSe il fare arte rappresenta la pratica dell’arte tradizionale, il metodo del non-fare arte viene inaugurato da Duchamp, metodo che, togliendo artisticità all’opera, convoglia tutto il potere all’autore. Nel 1913 l’artista espone Ruota di bicicletta; con quel gesto l’artista cessa di essere un produttore di manufatti per divenire un utilizzatore di oggetti già disponibili. Con il ready-made l’opera non è più il risultato di un percorso creativo-operativo tradizionale ma esiste già in partenza; ciò che designa l’opera non è il risultato di una pratica ma “la scelta iniziale di una non-azione teorica”. A questo punto la domanda d’obbligo diviene: “l’arte deve essere un prodotto oppure può (deve) essere (solo) un pensiero?” Nel 1919 Duchamp, intendendo portare un dono da Parigi ad amici americani, entra in una farmacia parigina, chiede un’ampolla, la fa sigillare ottenendo così Aria di Parigi. Materialmente l’artista non ha fatto nulla, l’opera non consiste nel contenente (l’ampolla) ma nel contenuto (l’aria di Parigi). Per ottenere l’opera d’arte Duchamp ha sostituito al fare il non-fare. Così facendo l’arte si riduce ad operazione fattuale di cui l’artista è il catalizzatore di un’operazione compiuta da altri (il farmacista): l’artista realizza arte attraverso la sola mente. Il ricorso al ready-made sancisce uno spartiacque nella storia dell’arte. L’artista francese non propone una regressione dell’arte all’oggetto né intende elevare l’oggetto ad opera, il suo gesto “ha come esito il rafforzamento dell’artista, al quale viene conferito il potere creativo più alto di tutta la storia dell’arte: il suo ruolo passa da quello di realizzatore materiale di un manufatto a quello (…) di ideatore di un concetto, di cui l’opera, ossia l’oggetto scelto a incarnarla, è il puro e distaccato fenomeno”. Il ready-made, sostiene Pasini, ha finito con l’anticipare la figura dell’artista concettuale e per certi versi, ha reso indispensabile il critico d’arte come collegamento tra artista e comune fruitore, spesso incapace di recepire l’opera. Il portato rivoluzionario delle proposte di Duchamp viene ripreso negli anni ’60 e ’70.

Lo statuto dell’arte tradizionale prevede la sequenza artista-opera-pubblico, con il sabotaggio duchampiano la sequenza diventa non-artista non-opera non-pubblico. Piero Manzoni può essere considerato il degno continuatore di Duchamp ma, a differenza del francese, focalizza la creatività non tanto sulla sfera celebrale ma piuttosto su quella fisica. Corpo d’aria (1960) e Fiato d’artista (1960) di Manzoni possono essere accostate ad Aria di Parigi (1919) di Duchamp ma, se nel francese vige l’idea come forma creativa – l’esito fisico non interessa, produce un oggetto che rimarca la nozione di oggettività – nell’italiano, invece, la fisicità è fondamentale, il fiato, a differenza dell’aria parigina, non prescinde dal corpo che lo emette. Corpo d’aria ha maggiori analogie con Aria di Parigi, mentre Fiato d’artista enfatizza il feticismo fisico dell’artista. Da Fiato d’artista a Merda d’artista (1960) il passo è breve. L’idea di arte dell’italiano si lega al concetto di non-fare arte ma, rispetto a Duchamp, che tende ad azzerare il corpo, qua ha un ruolo fondamentale. La poetica manzoniana “corrisponde quindi a un’uscita dal recinto artistico, e per tale ragione si presenta come un non-fare, concettualmente legato al progetto di eversione globale del mondo produttivo tradizionale”; le piccole azioni che compie, come gonfiare un palloncino, risultano innocue rispetto alla poetica del non-fare, “tali azioni non corrispondono più alla figura dell’artista ma la rovesciano come un guanto”.

Di fronte alle proposte citate, appare evidente che il criterio interpretativo deve necessariamente adeguarsi alla logica del non-fare arte. Per affrontare opere come Fontana (1917) di Duchamp o Merda d’artista (1960) di Manzoni, che rappresentano, probabilmente, il culmine dell’eversione ideologica nell’arte contemporanea, suggerisce Pasini, dobbiamo cambiare prospettiva, “dobbiamo applicare anche a loro la legge che in altro contesto riguarda il rapporto fra analogia e anomalia”. I due “introducono l’anomalia e spostano il baricentro della ricerca creativa dall’opera all’autore: tutto quello che prima di loro è stato considerato arte, ovvero analogia, da loro in poi deve essere considerato superato (…) Entrati nel campo dell’anomalia non possiamo più applicare le regole dell’analogia: sono, semplicemente, da dismettere se si vuole capire quanto abbiamo davanti”. Le opere di Duchamp e Manzoni si distanziano dalla concezione tradizionale dell’arte come fenomeno visivo, con annesso corollario di fondo, il criterio del bello, “l’unica forma concettual-verbale che possiamo recuperare per definire tali operazioni, distinguendole dalle opere comunemente intese, in quanto l’atto è più importante del fatto, è non-fare arte”. Non-fare arte significa in realtà farla, ma di nuovo tipo. L’artista, concepito come demiurgo, attribuisce artisticità attraverso modalità non-operative. Le operazioni non-fattuali rivestono un carattere mentale e l’esito materiale ne è soltanto la fenomenizzazione necessaria affinché si possa ancora parlare di arte visiva (il pubblico deve pur poter “vedere qualcosa”).

klein_vuotoKlein, come Manzoni, concentra la sua poetica sul corpo, seppure in maniera meno ironica. L’idea è quella di sostituire la materia pittorica con quella umana, un non-fare arte che si colloca sul piano traspositivo (dal pennello al corpo, dalla tela al sudario) attraverso le Antropometrie, ovvero tracce lasciate dai corpi delle modelle sulla tela. Il quadro, qua, non è prodotto della pittura, essendo stato abolito l’intervento manuale. Il vero punto di svolta in Klein si ha con la mostra del Vuoto (1958) a Parigi ove non espone oggetti privi di artisticità, come Duchamp, ma espone il vuoto, il nulla, se non se stesso attraverso la sua presenza fisica nello spazio espositivo. “L’artista esce dalle quinte e prende la scena. L’opera è bandita. Al suo posto c’è l’autore. L’arte non consiste più in qualcosa che si può vedere e misurare (…) bensì nella sensibilità immateriale dell’artista ossia – ammesso che esista – una entità del tutto invisibile”. L’opera è l’artista. Non è l’essere a trasformarsi in fare, quanto il fare a venire sussunto nell’essere. Il fare si è tradotto nel non-fare evidenziando la dimensione immateriale dell’arte. Se in Duchamp l’idea primeggia sulla materia ed in Manzoni prevale il motto “non c’è più nulla da fare, c’è solo da essere, c’è solo da vivere”, Klein sancisce che la mera presenza dell’artista determina l’esistenza anche della sua arte, intesa come pura energia immateriale: dal fare arte siamo passati all’essere arte.

Il percorso del non-fare proposto da Pasini, termina con Gilbert&George che con il loro esporsi, fanno, davvero, il meno possibile. Si tratta infatti non di una presenza vitale ma di una semplice presenza, i due si propongono come soggetti privi di identità senza travestirsi indossando i “panni di altri” ma restando nei propri, trasformandosi in macchiette kitsch dal gusto antiquato. I due non intervengono sulla realtà, si mostrano senza fare nulla, si espongono come opera già data in sé. “Klein non-fa arte attraverso il proprio essere intrinsecamente arte, in quanto portatore di un’energia creativa di derivazione cosmica” mentre, secondo Pasini, “G&G non-fanno arte in quanto attori muti di uno spettacolo di burattini che non ha più il burattinaio: lo hanno introiettato”. G&G offrono la loro “disarmante inutilità”, mancando la vita, al suo posto abbiamo la semplice presenza. A proposito dei due inglesi, acutamente Pasini segnala che “Il problema di un’umanità inserita in meccanismi socio-lavorativi che penalizzano lo sviluppo interiore e le capacità creative, impedendone di fatto la felicità psicofisica nel nome di una sublimazione civile degli istinti libidici, appare quanto mai lontano dalle ‘sculture’ apprestate da G&G (…) che minimizzano ogni aspetto del vivente, eppure non si può fornire un’interpretazione completa della loro invenzione senza avere almeno accennato a questo importante aspetto”. Il disperato tentativo di essere visibili rivelato dalla poetica di G&G può essere colto come preconizzazione della nascente società dell’immagine.

Il saggio di Pasini termina ricordandoci che l’arte è desiderio, così come la vita stessa. “De-sideribus. Giù dalle stelle. Qui e ora ciò che sta lassù e sembra irraggiungibile. Non dobbiamo concepire la vita come una serie di desideri senza possibilità di realizzazione”. Il “non-fare arte” può, secondo l’autore, essere visto come realizzazione del sogno vero e profondo dell’essere umano: la “Libertà Totale”.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)

– Piero Manzoni, Fiato d’artista (1960)
– Copertina: R. Pasini, Fare e non fare. Arte, cultura, società (2015)
– Marcel Duchamp, Aria di Parigi (1919)
– Yves Klein, Il vuoto (1958)

 

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