Pentagon Papers – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Cronaca di una sconfitta (nascosta sotto un cumulo di menzogne) https://www.carmillaonline.com/2021/11/24/cronaca-di-una-sconfitta-nascosta-sotto-un-cumulo-di-menzogne/ Wed, 24 Nov 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69228 di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento [...]]]> di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento milioni di anni e ne ha compiuti finora già nove. Vi sono stati mondi e culture, a non finire, ognuno forse sedotto dall’illusione orgogliosa di essere unico, insostituibile, irriproducibile. Ci sono stati uomini, a non finire, malati della stessa forma di megalomania da cui anche intere nazioni e mondi interi sono affetti. Ce ne saranno altri e altri ancora.” (Alfred Bester, L’uomo disintegrato, 1952)

Non vi può essere dubbio che la sconfitta, prima americana e subito dopo occidentale, in Afghanistan sia stata ancor più politica che militare. La precipitosa ritirata, che alcuni oggi vorrebbero descriverci come poco importante dal punto di vista degli interessi statunitensi, è avvenuta infatti principalmente a seguito di calcoli politici sbagliati e fiducia mal riposta nelle forze armate. Oltre che in una montagna di dollari spesi più per corrompere che per costruire una nazione.

La storia della guerra afghana, durata vent’anni, non è, però, soltanto la storia di una catastrofe militare, politica, sociale e culturale. E’ anche quella di un’enorme voragine, di un buco nero che non solo ha assorbito vite, soldati, mezzi e denaro, ma anche coscienze, illusioni, ideologie, concezioni e visioni del mondo e che ha contribuito a trasformare l’immaginario occidentale. Anche quello che si riteneva di “sinistra”, democratico o antagonista, se non marxista.

Una guerra sviluppatasi nel corso di un cambiamento tecnologico che si è fatto anche antropologico. Una svolta nella gestione dei dati e delle informazioni che, più che dar vita ad una quarta rivoluzione industriale, ha garantito al nostro avversario di sempre, l’imperialismo finanziario o il capitalismo dello sfruttamento integrale delle risorse del pianeta e della vita, una capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo ed individuale prima inconcepibile. Arricchendo il già fin troppo condiviso ideale di progresso con le enormi bugie e falsità contenute nei vacui discorsi sui diritti umani e, da qualche tempo, sul green capitalism (come hanno ancora dimostrato il recente G20 tenutosi a Roma oppure la conferenza COP 26 di Glasgow).

Questo autentico lavaggio della coscienza collettiva, quasi si trattasse di riciclare denaro sporco, ha utilizzato strumenti nemmeno troppo complicati e neppure programmati in precedenza. Soltanto è avvenuto in un contesto in cui la soggettività è diventato un elemento assoluto e dirimente in qualsiasi contesto di discussione e dibattito. Mentre l’interesse collettivo si è pian piano trasferito a far da tappezzeria sbiadita nel salotto mediatico universale, che va dagli studi televisivi ai social presenti nei telefonini di ultima generazione, in cui siamo ormai immersi. Troppo spesso per semplice pigrizia e/o conformismo.

Così il lento movimento delle galassie sociali e delle differenti forme di produzione, destinate a scontrarsi inevitabilmente nel corso dei loro giganteschi movimenti, è stato sempre più nascosto da una miriade di individui “pensanti” che si comportano, nell’interpretare le proprie scelte e quelle altrui oppure le proprie irrinunciabili specificità, come coloro che rivendicarono fino a Galileo, e oltre, l’unicità dell’uomo e la centralità sua e del pianeta che gli è stato assegnato all’interno di un universo ridotto a pure funzione di contorno e sfondo.

D’altra parte, quando vent’anni or sono l’azione americana diede inizio al conflitto afghano, dopo aver preventivamente scacciato i sovietici da quegli stessi territori, con un’altra lunga e mai dichiarata guerra da cui sarebbero derivati sia la determinazione che la costituzione dei gruppi della galassia dell’islamismo radicale, da poco l’ultimo movimento occidentale antimperialista e internazionalista globale di un qualche peso era stato schiacciato e smembrato nelle strade di Genova, grazie non soltanto all’enorme apparato repressivo messo in atto in quei giorni, ma anche alle sue indubbie contraddizioni e agli errori di calcolo dei suoi leader.

I fatti del G8 di Genova, oltre tutto, avvennero poco prima che a Durban, in Sudafrica, dal 31 agosto all’8 settembre 2001, si svolgesse la Conferenza mondiale “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”. Iniziativa dell’ONU che, forse per la prima volta, vide i delegati degli Stati Uniti e di Israele ritirarsi dalla medesima in segno di rifiuto e opposizione alle risoluzioni prese dalla stessa.

Risoluzioni “morbide” che comunque individuavano nello stato di Israele il promotore dell’apartheid nei confronti dei palestinesi e, in secondo luogo e senza la richiesta di risarcimenti come invece era stato inizialmente previsto, nella schiavitù e nel razzismo un crimine perpetuato fin dal passato negli Stati Uniti (oltre che in altri contesti), ma che bastarono a suscitare lo scandalo tra i principali rappresentanti dell’imperialismo e del sionismo.

Nemmeno due settimane dopo le torri gemelle sarebbero crollate sotto l’effetto di un attacco terroristico che più che in Afghanistan avrebbe trovato supporto, come dimostrano i documenti appena, e solo parzialmente, desecretati dal Federal Bureau of Investigation (qui), nei servizi segreti e nei funzionari sauditi presenti sul territorio americano. Ancora ventisei giorni e, il 7 ottobre, sarebbe iniziato l’attacco americano contro l’Afghanistan e il governo degli studenti coranici (talebani).

A distanza di vent’anni si possono dunque fare considerazioni di varia natura e peso sull’ipocrisia che, allora come oggi, ha governato e governa ancora l’informazione politico-mediatica sull’argomento. La prima considerazione da fare, però, riguarda la scarsa mobilitazione contro la guerra che si ebbe fin da subito, di qua e di là dell’Atlantico; a differenza di quanto era avvenuto all’inizio degli anni Novanta in occasione della guerra del Golfo, che vide svilupparsi una forte opposizione alla stessa sia negli Stati Uniti, che in Europa e anche qui in Italia.

L’uso reiterato delle immagini del crollo delle Twin Towers aveva invece contribuito a creare un clima di sgomento e di paura che, soprattutto negli Stati Uniti e subito dopo nel resto dell’Occidente ricco, sicuro e perbenista, tagliò le gambe anche a chi in precedenza aveva manifestato contro la guerra.

La “guerra in casa” faceva paura, non c’è dubbio, e costringeva, tramite una politica della paura e della sbandierata minaccia ai “nostri” diritti, a far sì che una parte consistente della popolazione, senza alcuna differenziazione politica e/o sociale, finisse per parteggiare per gli interessi statunitensi e occidentali, ritenuti come propri.

Non era più l’anticomunismo degli anni Sessanta e Settanta a mobilitare una parte consistente dell’opinione pubblica a favore dell’intervento militare, ma la lesa maestà del diritto occidentale di dominare il mondo, anche attraverso la favola dei diritti e della libertà individuale. Narrazione trascinatasi fino ai nostri giorni, caratterizzati da una confusione ideologica e da un’ipocrisia che non ha quasi eguali nella Storia.

Un libro di Craig Whitlock, appena dato alle stampe da Newton Compton1, si occupa di far piazza pulita delle menzogne che giustificarono quell’entrata in guerra e che hanno continuato a giustificarne la continuazione nei successivi vent’anni. Con almeno tre presidenti direttamente coinvolti nella sua narrazione: George Bush Jr., Barack Obama e Donald Trump.

Craig Whitlock è un giornalista investigativo del «Washington Post», e se questo non dovesse ricordare nulla al lettore distratto sarà utile ricordargli che il «Washington Post» è proprio quel giornale che nel 1972 rivelò, nonostante le minacce presidenziali e degli uomini degli apparati a lui più vicini, lo scandalo Watergate, che portò alla richiesta di impeachment per lo stesso presidente Richard “Tricky” Nixon e alle sue dimissioni a seguito della scoperta, a partire dall’hotel Watergate di Washington, di intercettazioni condotte in segreto contro i rappresentanti del Partito Democratico ad opera di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Nixon.

Scandalo che, in qualche modo, oscurò a livello mediatico e d’opinione quello aperto poco tempo prima dalla pubblicazione sul «New York Times» dei cosiddetti Pentagon Papers, uno studio sugli errori compiuti dal Pentagono e dal governo statunitense in Vietnam, che era stato commissionato dall’8° Segretario della Difesa statunitense Robert McNamara (in carica dal 21 gennaio 1961, sotto la presidenza di John Kennedy, al 29 febbraio 1968, sotto quella di Lyndon Johnson). Però, più che uno studio sugli errori, i Pentagon Papers, rivelati all’epoca oltre che dal «New York Times» anche dal «Washington Post», si erano trasformati in una denuncia delle menzogne messe in campo dal governo per giustificare una guerra destinata inevitabilmente alla sconfitta (oltre che a danneggiare gravemente la popolazione, l’ambiente e l’economia del Vietnam).

Non per nulla il testo di Whitlock si intitola, nell’edizione originale americana pubblicata quest’anno, Afghan Papers, proprio per richiamare alla memoria un’esperienza cui si ispira il lavoro del giornalista statunitense. Lavoro iniziato nel 2016, quando il presidente Obama, allo scadere del suo secondo mandato, non aveva ancora mantenuto le promesse di vittoria e di ritiro delle truppe precedentemente fatte. Cosa che ha permesso a Whitlock di affermare:

A quel punto io potevo vantare un’esperienza di quasi sette anni come reporter di punte del «Washington Post» nella copertura di notizie del Pentagono e dell’esercito degli Stati Uniti.
[…] Prima di ciò, ero stato per sei anni il corrispondente estero oltreoceano del «Washington Post»; avevo scritto di al-Qaeda e dei suoi affiliati terroristi in Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, Nord Africa e Europa.
Come molti giornalisti, sapevo che l’Afghanistan era un totale disastro. Disprezzavo le vuote dichiarazioni dell’esercito americano, in base alle quali sembrava che i progressi fossero costanti e che si fosse sulla strada giusta2.

Operazione, quella afghana, che nonostante il vasto consenso pubblico, dovuto alle motivazioni riassunte all’inizio di questo articolo, fin dall’inizio presentò qualche ombra per chi intendeva comprenderne a fondo ragioni, motivazioni, finalità e strategie reali, se è vero che, come afferma ancora Whitlock:

Due settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre, mentre gli Stati Uniti si preparavano alla guerra in Afghannistan, un giornalista pose una domanda ben precisa al segretario della Difesa Donald Rumsfeld: i funzionari americani mentono ai media sulle operazioni militari per fuorviare il nemico?
[…] Il segretario della Difesa parafrasò una citazione del primo ministro britannico Winston Churchill: «In tempo di guerra, la verità è così preziosa che dovrebbe sempre essere assistita da una guardia del corpo di bugie». […] Sembrò che Rumsfeld stesse giustificando la pratica di diffondere bugie in tempo di guerra, ma poi cambiò rotta e insistette che lui non sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere. «La risposta alla sua domanda è no, non credo che sia possibile», dichiarò «Non ricordo di aver mai mentito alla stampa. Non ho intenzione di farlo e direi di non aver alcun motivo di farlo. Esistono decine di modi di sottrarsi a una situazione in cui si sarebbe obbligati a mentire, e io non lo faccio»3.

Attraverso l’analisi di migliaia di documenti, interviste, memoir e anni di lavoro, Whitlock ha invece portato in piena luce e dimostrato col suo lavoro (in parte già pubblicato in una serie di articoli del «Washington Post») l’enorme cumulo di menzogne con cui il governo e l’esercito degli Stati Uniti hanno coperto una disfatta politico-militare con pochi altri precedenti nella loro storia (e in quella dell’Occidente).

Dodici giorni dopo le dichiarazioni di Donal Rumsfeld, il 7 ottobre 2001: «quando l’esercito americano iniziò a bombardare l’Afghanistan, nessuno poteva immaginare che quella missione si sarebbe trasformata nella guerra più lunga della storia americana, più lunga della Prima e della Seconda guerra mondiale e di quella del Vietnam messe insieme»4.

Guerra in cui, secondo la ricostruzione di Whitlock e le interviste rilasciate da militari e funzionari di ogni livello e grado: «A sorpresa, i generali al comando hanno ammesso di essere scesi sul campo senza una vera e propria strategia o un piano», come ha dichiarato il generale dell’esercito Dan McNeill, due volte comandante delle forze armate statunitensi durante l’amministrazione Bush. «Semplicemente non esisteva»5.

Come ha ancora aggiunto il generale britannico David Richards, a capo delle forze USA e NATO dal 2006 al 2007: «Non c’era una strategia coerente a lungo termine. Abbiamo provato a tracciare un approccio coerente a lungo termine, una vera e propria strategia, ma ci siamo ritrovati con una serie di tattiche slegate.» Oppure, come ha ammesso Richard Boucher, il principale diplomatico per l’Asia meridionale e centrale dell’amministrazione Bush: «Non sapevamo cosa stessimo facendo.» Mentre il tenente generale dell’esercito Douglas Lute, lo zar della guerra della Casa Bianca sotto le amministrazioni Bush e Obama, gli faceva eco affermando: «Non avevamo la più pallida idea di quello che stavamo facendo»6.

La costruzione di una nazione “moderna”, i diritti delle donne, la formazione di un esercito regolare e di una polizia, oltre che di un’amministrazione non corrotta non sono state altro che vuote promesse e menzogne per giustificare una guerra che, oltre alle centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione civile, ha causato 2300 morti e 21.000 feriti, senza contare il numero infinito di traumi psicologici, tra i 775.000 soldati statunitensi che hanno prestato servizio in Afghanistan. Un prezzo altissimo per ciò che, alla fin fine si è rivelato come il più costoso perseguimento di un chimerico nulla della Storia.

I leader politici contrari al ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan si richiamano spesso alla necessità di difendere i progressi fatti in questi anni. Vediamoli rapidamente.
A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane maggiori), attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, non alla NATO), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra dell’Alleanza del Nord espressione della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontanissimo dallo standard minimo di una Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma7.

Basterebbe poi soltanto citare la tanto sbandierata guerra alla produzione di oppio, nei suoi dati reali, per verificare come il cumulo di menzogne sia stato enorme sia durante che ancora oggi, a guerra finita:

A questo si aggiunge il sistematico coinvolgimento di tutte le autorità governative, da quelle periferiche e a quelle centrali, nel business della droga (oppio ed eroina) rifiorito dal 2001 con effetti devastati non solo nello stesso Afganistan (in dieci anni la tossicodipendenza è aumentata del 650% e oggi riguarda un afgano adulto su 12, con conseguente esplosione dell’Aids) ma anche in Occidente, compresa l’Italia, dove l’eroina proveniente dall’Afganistan si sta diffondendo tra i giovanissimi provocando un numero di vittime che non si vedeva dagli anni ’808.

Come ha confermato anche, in un articolo recente, il quotidiano francese «Le Figaro»:

c’è un’area in cui i talebani avevano sorpreso positivamente: il mullah Omar, leader supremo dei talebani, aveva imposto un divieto totale alla coltivazione del papavero da oppio nei territori sotto il loro controllo, cioè oltre il 90% del paese e il 95% della superficie coltivata dalla coltivazione del papavero. Nel maggio 2001, i talebani avevano praticamente eliminato la produzione di oppio, facendola scendere a 185 tonnellate dalle 4600 tonnellate del 1998. Questo residuo era concentrato nei territori del nord-est del paese sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, nemici dei talebani. Tuttavia, per una sinistra ironia, durante i 20 anni della presenza americana, la produzione e il traffico di oppio sono stati ricostituiti9.

Infine, visto che se ne è fatto un gran parlare ad agosto e settembre di quest’anno, non occorre dimenticare che: «La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale in Afghanistan è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: in Europa negli ultimi anni, tra i richiedenti asilo gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani»10. E questo non soltanto negli ultimi mesi, come i media embedded vorrebbero far credere, ma per tutto il corso della guerra. Senza contare che molti profughi fuggiti in Pakistan hanno iniziato, dopo la ritirata occidentale, a rientrare in Afghanistan.

Sceneggiata oltre più vergognosa se si considera che, dopo gli alti lai e guaiti espressi dai media politically correct a favore dei profughi nelle prime settimane post-ritirata, l’Europa e l’Occidente intero sono ritornati ad essere quelli dei muri anti-profughi e migranti. Le lacrime di coccodrillo durano poco, come già dimostrarono le disavventure dei profughi vietnamiti negli Stati Uniti dopo il 197511. Ben accolti in quanto “collaborazionisti” agli inizi, ma poi rifiutati come immigrati e stranieri subito dopo.

L’elenco delle menzogne politiche e mediatiche potrebbe continuare all’infinito. Basti qui soltanto sottolineare che anche Donald Trump, il presidente che in maniera del tutto opportunistica ha finito col patteggiare il ritiro, poi portato a termine dall’amministrazione Biden, di fronte alla resistenza pashtun e all’avanzata talebana che in un solo anno (dal 2015 al 2016) aveva finito col passare dal 28% al 43% del territorio controllato, nell’ambito della missione di combattimento Freedom’s Sentinel, aveva deciso l’invio di ulteriori 3.500 soldati in modo da far sì che il numero complessivo delle truppe americane in Afghanistan raggiungesse i 14.500 uomini.

Va inoltre considerata la presenza di circa 23.500 contractors alle dipendenze del Pentagono (di cui 9.400 americani) impiegati a supporto delle operazioni e delle strutture militari statunitensi nel Paese, tra i quai 1.700 paramilitari (di cui 450 americani).
Tra le ipotesi allo studio dell’amministrazione Trump per il nuovo ‘surge’ c’è quella di ricorrere all’invio, invece che di truppe regolari, di un vero e proprio esercito di contractors dipendenti di compagnie militari private (PMC) da impiegare, per conto del Pentagono, in operazioni di combattimento, così da poter disporre di ‘boots on the ground’ in numero illimitato e di non dover sostenere il costo politico di ulteriori perdite di fronte a un’opinione pubblica americana stanca di questa guerra infinita12.

Menzogne sulla guerra, menzogne sul ritiro, menzogne sul e del dopoguerra.
Tornando così al testo di Withlock occorre sottolineare come, proprio all’inizio, l’autore ricordi come:

Soltanto una stampa libera e senza freni può rivalare in modo efficace i raggiri di un governo. E tra le responsabilità di una stampa libera c’è il dovere d’impedire a qualsiasi istituzione del governo di ingannare il popolo e mandarlo in terre lontane a morire di febbre, pallottole e granate straniere.
Il 30 giugno 1971, il giudice della Corte Suprema Hugo L. Black ha espresso un’opinione in tal senso nel caso New York Times Co. Contro gli Stati Uniti, noto anche come il caso Pentagon Papers. Con una votazione di sei a tre, la Corte ha stabilito che il governo degli Stati Uniti non poteva proibire al «New York Times» o al «Washington Post» i segreti del dipartimento della Difesa sulla guerra del Vietnam13.

Ancora una volta il richiamo è ai Pentagon Papers che, all’epoca della loro pubblicazione suscitarono anche l’attenzione di una delle menti più lucide del ‘900, Hannah Arendt, che sugli stessi scrisse, nel 1971, Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, una conferenza trasformata poi in un articolo pubblicato nel 1972 nella «New York Review of Books»14. Il cui tema centrale, più che la disastrosa campagna militare asiatica condotta dagli Stati Uniti, era costituito dall’uso della menzogna in politica. Era la stessa Arendt ad affermarlo:

I Pentagon Papers – ovvero il nome con cui la Storia del processo decisionale statunitense sulla politica in Vietnam in quarantasette volumi (commissionata dal segretario alla difesa Robert McNamara nel giugno del 1967 e completata un anno e mezzo dopo) è divenuta familiare fin dal giugno 1971, quando il «New York Times» pubblicò questo resoconto top secret e accuratamente dettagliato, sul ruolo che svolsero gli Stati Uniti in Indocina tra la seconda guerra mondiale e il maggio del 1968 – raccontano storie diverse e offrono differenti lezioni a lettori differenti. Alcuni sostengono di aver compreso solo ora come il Vietnam fosse il “logico” prodotto della Guerra fredda e dell’ideologia anticomunista, altri, invece, affermano che questa è un’opportunità unica per comprendere i processi decisionali del governo, ma la maggior parte dei lettori, tuttavia, concordano che la questione centrale sollevata dai Papers è l’inganno. Ad ogni modo, è abbastanza ovvio che questa fosse la questione di gran lunga più importante nella mente dei giornalisti che hanno collazionato i Pentagon Papers per il «New York Times» […] Il celebre vuoto di credibilità che ci ha accompagnato per sei lunghi anni si è improvvisamente trasformato in un abisso15.

Menzogna in politica che sempre dovrebbe suscitare scandalo e riprovazione, ma che, soprattutto nell’italietta bigotta e opportunista di ogni colore, sempre più sembra essere accettata come necessaria e inevitabile, soprattutto da quella che vorrebbe ancora definirsi come “sinistra democratica”. Al contrario, invece, nello scritto della Harendt, che dovrebbe ben essere tenuto a mente da chi questo sistema vorrebbe davvero e radicalmente cambiare, si sottolinea come la “politica della menzogna” sia stata destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale.

Ancor più interessante è il fatto che la stragrande maggioranza delle decisioni di questa disastrosa impresa sono stata prese con la piena consapevolezza che, verosimilmente, esse non avrebbero potuto venir attuate: perciò gli obiettivi dovevano mutare continuamente. Dapprima ci sono gli obiettivi annunciati pubblicamente – «vedere il popolo del Vietnam del Sud in grado di determinare il proprio futuro» o «assistere il paese nel suo tentativo di aver ragione della cospirazione comunista» oppure ancora il contenimento della Cina e il tentativo di evitare l’effetto domino, o lo sforzo di proteggere la reputazione dell’America in quanto «garante delle posizioni anti-sovversione».
[…] A partire dal 1965 la nozione di vittoria netta passò in secondo piano e l’obbiettivo divenne «convincere il nemico che non è in grado di vincere», Dal momento che il nemico non se ne convinceva, fece la comparsa il nuovo obbiettivo: «evitare una sconfitta umiliante» – come se la caratteristica principale della sconfitta in guerra fosse la semplice umiliazione. I Pentagon Papers riportano la paura ossessiva dell’impatto che avrebbe avuto una sconfitta, non sul benessere della nazione, ma «sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro Presidente». Perciò, poco tempo dopo, nel corso di molti dibattiti riguardo l’impiego di truppe di terra contro il Vietnam del Nord, l’argomento principale non fu la paura della sconfitta e la preoccupazione circa la sorte dei soldati in caso di ritirata ma, «una volta che le truppe statunitensi sono sul territorio, sarà difficile farle ritirare senza dover ammettere la sconfitta»16.

Letti in tralice i commenti della Harendt ci rivelano tutta la debolezza e l’insicurezza dell’operare americano non solo in Vietnam, ma anche in Afghanistan. Più in profondità rivelano, però, anche tutta la prosopopea di un modo di produzione, e dei suoi governi, nel mantenere posizioni che non siano umilianti per il proprio operato (dalle guerre ai piani per il contrasto delle pandemie oppure per fermare il cambiamento climatico). Paura di un’umiliazione che in un sol colpo potrebbe rivelare non soltanto la fanfaronaggine capitalistica e occidentale, delle sue presunte capacità gestionali, militari, politiche, tecniche e scientifiche, ma anche dei poveri di spirito cospirazionisti che nel vedere in ogni azione governativa un “complotto” non contribuiscono ad altro che a ridare credibilità e forza ad un sistema intimamente anarchico e fallimentare.

Una galassia giunta ormai al termine del suo ciclo che, per ora, soltanto l’inerzia continua a far ruotare in prossimità dell’autentico buco nero che ha contribuito a creare con il suo sovrapporre menzogne, violenza, falsità e irresponsabile volontà di dominio su una materia di per sé ribelle, indocile e irriducibile alla sua volontà.

In questo sistema, cui il maquillage esperto di rappresentanti dei media ed intellettuali da strapazzo tende a dare ogni volta un aspetto diverso e “più consapevole”, in realtà a dominare, oltre alla brama di profitto e appropriazione privata, sono infatti il caso e l’ignoranza, anche ai livelli più elevati di governo, sia al centro che alla periferia dell’impero.

Nel caso della guerra in Vietnam, ci troviamo di fronte, oltre che a falsità e confusione, ad una ignoranza dello sfondo storico di riferimento davvero stupefacente e assolutamente onesto: non solo i decision-makers sembravano ignorare tutti le ben note vicende della rivoluzione cinese e la decennale rottura tra Mosca e Pechino che l’aveva preceduta, ma «nessuno al vertice era al corrente o considerava importante che i vietnamiti avessero combattuto contro invasori stranieri per almeno duemila anni» o che parlare del Vietnam come di una «piccola nazione arretrata» priva di interesse per le nazioni «civilizzate», opinione sfortunatamente condivisa anche da coloro che criticano la guerra, è in aperta contraddizione con l’antica e altamente sviluppata cultura della regione. Ciò di cui il Vietnam è privo non è certo “la cultura”, ma l’importanza strategica […] di un terreno adatto a moderni eserciti meccanizzati e di obbiettivi significativi per l’aviazione. Ciò che ha provocato la sconfitta delle politiche statunitensi e del loro intervento armato non sono state solo le paludi […] ma il volontario e deliberato disprezzo per tutti i fattori storici, politici e geografici, per più di venticinque anni17.

Le stesse parole si potrebbero ripetere esattamente per i think tank che hanno pianificato e condotto così disastrosamente la guerra afghana, ma anche per qualsiasi altra fallimentare strategia capitalistica, presente e passata, compresa la pianificazione sovietica di età staliniana.
Ci si rende così conto, allora, che la politica della paura affonda le proprie radici nella paura del fallimento insito nel cuore del colosso capitalista, che vivo può rimanere soltanto se i suoi potenziali avversari sono convinti della sua forza e capacità di previsione e organizzazione.

Così, come affermava la Arendt in chiusura del suo saggio: «Da questa storia si può concludere che quanto più successo ottiene il bugiardo, quante più persone egli ha convinto, tanto più probabile è che egli stesso finisca per credere alle proprie bugie»18. Purtroppo la trasformazione antropotecnologica, di cui si parlava all’inizio, non ha fatto altro che rafforzare tali narrazioni, false e invasive, contribuendo a renderle ancora più pervasive sia a livello di immaginario individuale che politico (qui su Carmilla).

A chi resiste, in questo autentico deserto di macerie ideologiche, politiche, etiche, militari ed economiche rappresentato dal capitalismo attuale, non resta che continuare a denunciare non solo le intenzioni e le falsità dei suoi aperti sostenitori, ma anche quelle ancora troppo spesso riferibili al campo del socialismo irrazionale degli imbecilli, già destinati alla sconfitta poiché, anche involontariamente, continuano ad operare nello stesso campo semantico e con le stesse logiche “rovesciate” dell'”avversario”. Logiche che, invece, non potranno essere soltanto “rovesciate di segno”, ma che dovranno essere annullate una volta per tutte, per permettere a ben altre galassie sociali di formarsi e vivere per un altro ciclo di tempo all’interno dell’infinito moto dell’universo.


  1. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, pp. 350, 12,00 euro  

  2. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, p. 9  

  3. C. Whitlock, op. cit., p. 7  

  4. Ibidem, p. 8  

  5. Ibid., p. 11  

  6. Tutte le citazioni si trovano a p. 12 del testo di Whitlock  

  7. MILEX. Osservatorio sulle spese militari italiane (a cura di), AFGHANISTAN. Sedici anni dopo, 2017, p. 11  

  8. Ivi  

  9. Bernard Frahi, “Come gli occidentali hanno permesso all’Afghanistan di diventare di nuovo il paese della droga”, «Le Figaro», 24 agosto 2021  

  10. MILEX, Afghanistan. Sedici anni dopo, op. cit, p. 11  

  11. Ben rappresentate in un film del 1985: Alamo Bay di Louis Malle  

  12. MILEX, op. cit., p.7  

  13. C. Wuitlock, op. cit., p. 6  

  14. Tradotto in Italia come: Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”, Casa Editrice Marietti, Milano 2006  

  15. H. Arendt, La menzogna in politica, Casa Editrice Marietti, Milano 2006, p. 7  

  16. H. Arendt, op. cit., pp. 27-29  

  17. Ibidem, p. 59  

  18. Ibid, p. 63  

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