Pedro Almodovar – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

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Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex De la Iglesia https://www.carmillaonline.com/2016/01/19/streghe-pagliacci-mutanti-il-cinema-di-alex-de-la-iglesia/ Tue, 19 Jan 2016 22:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27502 di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_IglesiaSara Martin, Streghe, pagliacci, mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 146 pagine, € 14,00

Quella scritta da Sara Martin è la prima monografia italiana dedicata al regista basco Álex de la Iglesia, la cui produzione attraversa, frequentemente anche all’interno dello stesso film, generi che vanno dal fantastico al western, dal road movie alla commedia grottesca, dal dramma al documentario biografico. L’obiettivo del volume, dichiara l’autrice, è quello di affrontare la produzione del regista attraverso quelli che considera due elementi propri della sua poetica: il tempo e lo spazio.
Il saggio è suddiviso in tre capitoli. Nel primo capitolo (Tempo) la studiosa si avvale di testimonianze dirette del cineasta e di un’analisi approfondita degli scritti a lui dedicati al fine di testimoniare la relazione esistente tra l’esperienza spettatoriale del regista, la sua formazione culturale e le sue opere. Nel secondo capitolo (Spazio) vengono da una parte indagate le maschere ed i corpi messi in scena nelle opere del regista e dall’altra i luoghi in cui vengono ad agire i personaggi. Nel terzo capitolo (Opere), attraverso una serie di schede critiche, viene offerta una panoramica dell’intera produzione del cineasta.

La prima parte del saggio è strutturata in modo da offrire una rassegna critica della produzione del regista a partire da Mirindas asesinas (1991), cortometraggio d’esordio di Álex de la Iglesia. Si tratta di un 16 mm in bianco e nero che da una situazione comica iniziale si trasforma via via in una commedia nera surreale per poi diventare un thriller psicologico. Sin da questa opera compaiono alcuni personaggi che risulteranno poi essere una costante delle opere visionarie del regista.
azione_mutanteIl primo lungometraggio di de la Iglesia, Acción mutante (Azione mutante, 1993), prodotta da Pedro Almodóvar, inizia alludendo al film A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) di Stanley Kubrick,  trasformandosi poi in un prodotto audiovisivo dall’estetica tipica dell’informazione televisiva, dunque in una commedia sempre più nera fino a giungere alla fantascienza, all’horror ed al western. «De la Iglesia realizza un lungometraggio che offre un paesaggio completamente inusuale nel cinema spagnolo e dove i riferimenti costanti alla televisione, al suo linguaggio, ai suoi segni e al suo stile, annunciano già il peso che avrà questo medium nella gran parte dei suoi lavori. Per lui parlare della televisione è come parlare del mondo. La televisione è un’imago mundi attraverso cui vedere l’intero universo. La sua generazione ha conosciuto tutto attraverso il filtro della televisione» (p. 27).
Il nuovo lungometraggio, El dia de la Bestia (1995), si sviluppa attorno all’idea di pensare il maligno nell’uomo dalla porta accanto. «L’anticristo nasce nelle torri KIO [La Porta d’Europa di Madrid, NdR], simbolo tanto del potere finanziario come della dittatura franchista e nel film diventano poi, piegate dagli sceneggiatori, anche simbolo di antiche premonizioni» (p. 29). Di nuovo, sottolinea l’autrice, si intrecciano generi diversi, «Commedia, humour nero, tradizioni ispaniche, immaginario satanico, estetica heavy metal, cinema del terrore» (p. 29). Il film intende denunciare «l’intolleranza, il razzismo, la violenza politica, la televisione spazzatura, le sette sataniche, i programmi esoterici» (p. 31), senza timore di fare nomi e cognomi dei personaggi che il regista detesta nella società contemporanea.
L’opera successiva è Perdita Durango (1997), realizzazione internazionale d’ambientazione americana con un cast importante che incontra non pochi problemi di censura: violenza, sesso esplicito e contenuti ritenuti blasfemi bloccano il film in molti paesi o lo vedono ampiamente mutilato. Il film è realizzato ibridando, nuovamente, generi diversi; di fondo è un thriller ma risulta decisamente contaminato dal cinema politico, gotico e surreale. «De la Iglesia passa dalla demonologia di El dia de la bestia alla santeria di Perdita Durango; anche se il soggetto del film non è scritto da lui, il tema del male come potenza e come fascinazione permane» (p. 33).

Muertos de Risa (1998) è invece una commedia nera, non distribuita in Italia, che narra l’acuirsi, fino alle estreme conseguenze, dell’odio reciproco di una coppia di comici televisivi. «In Muertos de risa de la Iglesia contrappone immagini della Spagna franchista con quelle dell’inaugurazione dei Giochi olimpici (la Spagna europea), ma si tratta dello stesso paese, così come i protagonisti del lungometraggio rappresentano il dritto e il rovescio di un’unica medaglia, rispondendo a una sorta di cliché comune a tutte le culture nelle coppie di comici» (p. 36). Oltre al discorso politico, nel film vi è anche una riflessione sul rapporto tra umorismo e violenza e sull’influenza sociale della televisione. Se nelle prime opere il regista gioca con i generi cinematografici, con Muertos de risa si inaugura una piccola serie di opere basate sulla rappresentazione della quotidianità intesa come ambito che si rivela denso di misteri e colpi di scena.
La comunidad (2000) è una commedia grottesca che svolta sempre più verso l’horror ma, segnala Sara Martin, è anche «un tour de force metacinematografico»; sono evidenti infatti i rimandi a diversi film di Alfred Hitchcock, Roman Polanski ed alla serie The Twilight Zone (Ai confini della realtà, di Rod Serlig, 1959-1964). Secondo la studiosa mentre El dia de la bestia esibisce i demoni esteriori di Madrid, La comunidad invece mostra quelli interiori, quelli di una città dura e spietata che dietro all’immagine di progresso e modernità cela corruzione e marciume.
Con 800 balas (2002), opera non distribuita in Italia, il regista si cimenta anche con il genere western, seppure con un taglio surreale. Come in molte opere, sostiene Martin, anche in 800 balas, i personaggi secondari permettono al regista di mettere in scena una serie di perdenti che si trovano meglio a vivere una vita di finzione piuttosto che la realtà quotidiana. Sebbene il film, nella sua struttura portante, celebri il cinema, non manca di criticare la società spagnola contemporanea affetta da corruzione e speculazione edilizia. I perdenti tornano anche nell’opera successiva, Crimen ferpecto (2004), commedia nera che non manca di omaggiare, nuovamente, Alfred Hitchcock e Luis Buñuel, ambientata in un universo in cui dilaga l’ipocrisia. Anche in questo caso tornano personaggi eccentrici e perdenti che finiscono col suscitare una certa simpatia nello spettatore ma, a differenza di quanto accade nei film precedenti, sostiene Sara Martin, qui la scena è totalmente occupata dai personaggi principali e le presenze femminili risultano violente, spietate, avide e, soprattutto, trionfanti sugli uomini.
Pluton_BRB_Nero_Serie_TV_22Dopo aver realizzato La habitación del niño (La stanza del bambino) (2006), un horror per la tv con diversi riferimenti ai mondi paralleli derivati da Philip K. Dick, de la Iglesia lavora ad un poliziesco di produzione internazionale girato in inglese, The Oxford Murders (Oxford Murders – Teorema di un delitto) (2008) ed a Pluton B.R.B. Nero (2008-2009), una serie televisiva, mai trasmessa in Italia, di 26 episodi suddivisi in due stagioni, in cui compaiono ossessioni e personaggi cari al regista. «Più che una serie fantascientifica», sostiene Sara Martin, «Pluton B.R.B. Nero è una commedia in costume intrisa di humour nero e provocazione» (p. 48),
Il successo internazionale per de la Iglesia arriva con Balada triste de trompeta (2010). Il film ottiene il Premio della giuria e quello per la Miglior sceneggiatura alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2010. Per certi versi si tratta del seguito di Muertos de risa, con due pagliacci al posto dei comici televisivi. «Attraverso il racconto di due losers (e una donna), de la Iglesia percorre ancora una volta la storia del suo Paese con toni scuri, neri. I riferimenti cromatici del film sono da individuarsi soprattutto nella pittura di Goya e di Grünewald. Le atmosfere sono quanto di più lontano dal cinema felliniano a cui sovente l’autore spagnolo è stato paragonato. Per Fellini il circo è magia e meraviglia, per de la Iglesia il circo è sangue e morte e in Balada non a caso si colloca fra le rovine in un luogo decadente, squallido, brutto. I titoli di testa e quelli di coda raccontano la Spagna e raccontano il film. Si alternano immagini documentali della guerra civile e del post-guerra franchista. Nei titoli di testa si scorgono numerose immagini iconiche del franchismo (…) alternate a riferimenti alla cultura del paese (…) e miti cinematografici personali del regista» (p. 55).
Di nuovo, si sottolinea nel saggio, è il mondo della televisione a fornire immagini a tale patchwork visivo in cui, insieme ai rimandi colti, viene criticata quella sottocultura che ha fatto da sfondo all’immaginario collettivo negli ultimi tempi che «nel cinema di de la Iglesia ha una doppia funzione: da una parte desacralizzare la Cultura “alta”, dall’altra accumulare immagini, oggetti, personaggi che vanno a costruire un cinema che si pone coscientemente all’opposto della sobrietà, della pulizia, della misura per dare libero sfogo all’eccesso, alla stravaganza, alla ricchezza delle immagini stratificate nello spazio e nel tempo» (p. 56).

Dopo la realizzazione di La chispa de la vida (2011), tragedia in cui non si salva nessuno, influenzata dalla situazione politica e sociale spagnola segnata da crisi economica, disoccupazione e precarietà, il regista basco gira Las brujas de Zugarramurdi (Le streghe son tornate) (2013), una commedia horror ambientata nella cava di Zugarramurdi, tra Francia e Navarra, luogo in cui l’inquisizione Spagnola, ad inizio XVII secolo, ha dato vita ad una spietata caccia alla streghe. Il film, che non manca di criticare gli stereotipi di genere che attraversano la società contemporanea, è disseminato di riferimenti ai film amati dal regista, in particolare al cinema fantastico hollywoodiano degli anni ’80. Poco dopo il cineasta realizza Messi (2014), una biografia del celebre calciatore argentino e, nello stesso periodo, il cortometraggio The Confession, con cui Álex de la Iglesia prende parte al film collettivo Words with Gods (2014) ideato da Guillermo Arriaga in cui diversi registi raccontano, credenti o meno, la personale visione del mondo e dell’uomo in rapporto alla religione.

balada tristeLa seconda parte del saggio si sofferma sulle maschere, sui corpi e i luoghi messi in scena dal regista basco. Il pagliaccio è sicuramente una delle figure ricorrenti nei film di Álex de la Iglesia; «La figura del pagliaccio è una maschera che non simula un personaggio ma lo estetizza, nel senso che la finzione è dichiarata, la messa in scena evidente. Niente come il trucco del pagliaccio rende presente l’emozione che si trova dipinta sul viso. Il sentimento è tutto fuori, così come lo è il contesto in cui il pagliaccio si muove (il circo, la festa, il carnevale)» (p. 71). In Balada triste de trompeta si narra la storia di Javier, un pagliaccio triste disadattato che vive gli ultimi anni del franchismo vittima della superficialità e della violenza dei suoi simili, incapace di integrarsi fino a quando, improvvisamente decide di ribellarsi ma, anziché liberarsi del costume e della maschera da pagliaccio triste, «Javier fonde la maschera al proprio corpo cancellando così ogni traccia della sua storia personale: si sbianca il viso con dell’idrossido di sodio e si stampa delle cicatrici rosse con un ferro da stiro per creare un trucco da pagliaccio permanente (…) Finalmente il suo abito corrisponde al suo essere, un angelo sterminatore in grado di riportare il giusto equilibrio nella sua vita e nel mondo, padrone del proprio corpo e delle proprie azioni» (p. 70).
Elemento ricorrente nelle opere di de la Iglesia è la presenza della «immagine del “vendicatore folle” che fa esplodere lo spazio reale della fisica per impossessarsi del nuovo mondo comunitario, dove ciò che è brutto, vecchio, sporco e dimenticato, si riannoda alle dinamiche di un nuovo cosmo fatto di corpi che sono immagini, in un’euforia post-apocalittica dove i vecchi idoli del capitale e della borghesia, vengono spazzati via, fatti letteralmente saltare in aria. Le storie di de la Iglesia (…) si strutturano sempre intorno ad una visione apocalittica dello spazio scenico, in un processo di disgregazione progressiva dell’ordine costituito per mano di personaggi borderline». (pp. 72-73)

AccionmutanteI corpi rappresentano un altro elemento su si sofferma il saggio, ad esempio, in Accion mutante «una comunità di invalidi postapocalittica organizza il rapimento della figlia di un magnate dell’industria e della televisione. Questa volta il corpo-proprio è trasfigurato dalle protesi macchina che nascondono o cancellano una deformità (…) Il corpo dello storpio non simula, è autenticamente acrobatico, ovvero intrinsecamente spinto a ribaltare gli ostacoli in vantaggi, in un movimento di super-compensazione che può portarlo a gettare via le stampelle, si chiamino Stato, Democrazia, Borghesia, ecc.. Da qui deriva la sua aura rivoluzionaria sfruttata dal regista» (pp. 74-75). Il personaggio dell’alieno Roswell in Plutón B.R.B. Nero «odia l’umanità come l’umanità ha odiato lui, è disgustoso fisicamente e ributtante dal punto di vista etico-morale: trae godimento soltanto dal dolore fisico personale e dall’osservazione del dolore altrui. L’alieno deforme ribalta la sua disabilità e ne fa un’arma a danno degli esseri umani» (p. 75). Per certi versi anche nell’opera documentaria Messi, il protagonista è un freak; un individuo sproporzionato, dalle gambe corte, afflitto da problemi di crescita ma che riesce a diventare un campione del calcio alla faccia di tutti i “normodotati”. Dal cinema di de la Iglesia si evince, secondo Martin, che «i freak rimangono freak, e gli outsider rimangono outsider, ma aver mostrato la fine possibile, aver scritto un’apocalisse nera e impietosa, significa aver creato lo spazio della sua apparizione, significa reintegrare lo scudo narcisistico di tutti coloro che non accettano la disillusione in cui ci ha catapultato l’epoca moderna di matrice illuminista» (p. 83).

Anche i luoghi in cui il cineasta basco colloca i suoi personaggi hanno una funzione importante nell’ambito della costruzione narrativa. Il film La comunidad è ambientato all’interno di un condominio madrileno abitato da individui che sembrano impossibilitati ad abbandonare lo stabile. «Impressiona la spazzatura e la sporcizia che in più riprese invade lo schermo; pare che l’organismo del condominio non possa purificarsi espellendo i propri escrementi. Tutto rimane dentro. (…) La comunità che si è costituita nel condominio è ormai un agglomerato di mostri» (p. 76). Secondo Sara Martin l’idea di fondo è quella di mettere in scena quel processo di disgregazione sociale che ha investito da qualche decennio la società contemporanea ed «il progressivo ritorno a uno stile epocale estetico barocco, che si intravvede nel mondo contemporaneo bombardato da milioni di immagini, in sostituzione di uno stile economico che ancora sopravvive, si traduce in Álex de la Iglesia come ritorno al mondo dei corpi e delle immagini, luoghi assoluti della compresenza, un mondo fatto di carne e sangue. Per raggiungere questa nuova dimensione neo-comunitaria, il mondo conosciuto, classico, spazialmente coerente e matematicamente organizzato, deve essere distrutto» (p. 78).
In La habitación del niño lo spazio interno diviene il personaggio centrale della narrazione e giocando sul concetto di mondo parallelo il regista basco mette a confronto nello spazio interno dell’abitazione due dimensioni estetiche contrapposte, una fatiscente ed una perfetta. All’interno di una stanza segreta si trova una miniatura della casa ed il protagonista, dopo essere entrato a contatto con questa, una volta uscito dalla stanza si ritrova proiettato in un mondo parallelo perfetto e ben arredato. Il «mondo bello, ricco e colorato nascosto dentro la casa, come ne La comunidad, è il luogo originario in cui si muove l’individuo dionisiaco del futuro, destinato a sovvertire l’ordine costituito e chiuso del mondo borghese. È dall’interiorità pura, priva di relazioni con il resto del mondo che ha inizio la rivolta, la distruzione dell’universo. Un virus autoprodotto che si genera dal burnout di una vita organizzata sul mito della certezza e del progresso, ormai fuori controllo in una società stanca e decadente (…) L’apocalisse come rinascita. La distruzione come rigenerazione. Questo è il fil rouge della produzione scenica di Álex de la Iglesia» (pp. 81-82).

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 59 https://www.carmillaonline.com/2014/05/20/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-59/ Mon, 19 May 2014 22:01:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14692 di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città! È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà [...]]]> di Dziga Cacace

So no one told you life was gonna be this way… (clap clap clap clap)

ddv5901ManoNegra585 – Mano Negra – Out of Time di autori vari, Francia 2005 …e il Boss e Santana sono in città!
È un periodo senza film – va così – e solo con un po’ di musica, che posso farci? Cerco allora tracce di cinema nella musica che gira intorno, per esempio in un dvd da recensire, che tratto con spocchia da criticonzo (è assurdo, ma se ti poni da ‘sto cazzo allora ti viene dato credito) e in realtà grande affetto: “Dopo il punk, ultima scossa tellurica datata 1977, il rock che non vive di maniera ha ripreso a vivere solo grazie all’innesto di nuove forme musicali e al recupero di quelle tradizionali, diventando una creatura mutevole, spesso sfuggente, ma ancora vitale perché crogiuolo di suoni e significati. E speranze. La Mano Negra è l’incarnazione più riuscita di questo meticciamento, tanto da dargli un nome, patchanka, che tutti utilizziamo per indicare quel cocktail inebriante di rock’n’roll, punk, musica araba, reggae e quello che saltava in testa ai membri della band in quel momento. Una fusione viscerale e coinvolgente, politicamente esplosiva perché autonoma, avulsa dai canoni spettacolari dello showbiz: rock per pensare e per ballare, dove l’attività del bacino asseconda quello degli emisferi cerebrali. Out of time documenta con generosità (sono 6 ore, tutte meritevoli) la storia di questa banda di delinquenti che ha rifiutato le lusinghe dello star system andando a suonare (perlopiù gratis) nelle periferie del mondo, regalando emozioni e catturando ogni volta nuove energie vitali per la propria arte. Il doppio dvd presenta 4 coloratissimi film documentari, 17 videoclip (molti inediti) e altre 17 tracce audio tra cui – guarda un po’ – saltano fuori cover di Little Richard, Elvis, Fats Domino e Chuck Berry, le radici della rivoluzione. Musica e immagini ci rendono un universo di truffatori, puttane, sbronze e consapevolezza politica, contro l’odierno strapotere culturale e politico yanqui. Edizione in francese (di tali Joseph Dahan, Thomas Darnal, Philippe Teboul) con sottotitoli, ma musica e immagini parlano da sé. Facce scure, sorrisi, chitarre, trombe e tamburi… come dice la Mano Negra: pura vida”.
E poi che altro cinema c’è stato? Beh, il mio, perché il 12 maggio Bruce Springsteen era in città e io (mesi prima) avevo già deciso che non avevo l’età per cercare i biglietti. Però, la mattina, un mio vicino mi fa: “ne ho uno che mi avanza… interessa?”. Secondo te? Ad Assago siamo tutti ipnotizzati da un concerto bello, intenso e musicalmente validissimo che fa seguito all’album tributo We Shall Overcome – The Seeger Sessions: folk, work song, un po’ di Woody Guthrie e nessuna concessione al repertorio del Boss. Alla prima canzone scoppio a piangere, davanti a gente che non conosco. Non sono l’unico a commuoversi e mi abbraccio con uno sconosciuto. Il mio amico Max non ha dubbi: non è passione musicale condivisa, è solo depressione incipiente.
Il 30 invece ho visto, sempre ad Assago ma stavolta con acustica degna di un mercato ittico, Santana: concerto buono ma non eccezionale, con qualche chicca (A Love Supreme, l’attacco di Santana III) ma troppi pezzi da Supernatural e dai recenti album danzerecci che sembrano prodotti in un villaggio vacanze. Sono piazzato in tribuna Gold ed è un pacco perché è lontanissima dal palco: la vera fiesta è sotto, con una marea di latinos che hanno finalmente una meritata serata para gozar en paz. Seduto vicino a me c’è Antonio Ricci che al cellulare, sornione, dà indicazioni per la messa in onda in diretta di Striscia la notizia: “Allunghiamo il brodo… mettici Capitan Ventosa”. Sotto la tribuna bambini, vecchie signore che ballano il merengue anche se non c’entra nulla e tanti giovani ingiacchettati che quando riconoscono le hit si scamiciano, “esagerando” per manifestare il loro apprezzamento. Per tornare a casa ci metto un’ora e mezza, come se abitassi ancora a Genova: i vigili ti dirottano solo sulla tangenziale dove ci sono lavori, incidenti e polizia e non è possibile puntare direttamente verso il centro città. Tutti provano a superare tutti e la coda conosce un processo di gemmazione inarrestabile. Questa è la Milano che ha eletto ieri Letizia Moratti sindaco. Addavenì la dittatura, ma quella cattiva cattiva. (Dvd; 26 e 27/5/06)

ddv5902lenny586 – Splendido Lenny di Bob Fosse, Usa 1974
Quando rivedo un film dopo tanti anni, ho sempre una paura tremenda. Perché la memoria addolcisce tutto e a 17 anni non avevo pensieri: ogni film era un regalo, una storia nuova con delle immagini da affidare al catalogo dei ricordi. E infatti Lenny ce l’ho ancora stampato qui in testa: le scene, le facce dei personaggi, le interpretazioni, il bianco e nero aspro e doloroso, anche la musica. E poi la vecchia nonna ebrea che fa Feee feeee!, Dustin Hoffman in un ruolo della vita, la battaglia artistica contro la società e le convenzioni, la disperazione, la solitudine e i propri demoni combattuti con armi suicide come alcol e droga. Ho letto l’anno passato Come parlare sporco e influenzare la gente, curato da Luttazzi, e qui ritrovo quel sapore amaro e disincantato. Film amato ai tempi del liceo e anche a quelli dell’università: il timore di non aver capito nulla allora è fugato: Lenny è ancora bellissimo (oppure non capisco niente anche adesso, fate voi). (Dvd; 4/6/06)

ddv5903TheCorporation587 – Il mappazzone The Corporation di tre tizi, Canada 2003
Film paratelevisivo dei carneadi Mark Achbar, Jennifer Abbott & Joel Bakan, frutto del rimontaggio di un ciclo di episodi più lunghi. Gode di meriti dovuti alla sua natura no global ma, sinceramente, è un pasticcio montato neanche granché bene. Tante storie di capitalismo sfruttate senza un’idea dietro che non fosse il metterle in fila. E mancano anche le conclusioni su cosa produca questo sistema mondiale, fermandosi al singolo cattivello preso con le mani nel sacco. In più l’edizione italiana parla continuamente della Corporazione, qualcosa che a me evoca dei sindacati fascisti e non il Nuovo Ordine Mondiale (per non parlare del SIM, ecco). Peccato, anche se vedendo cosa raccontano, meglio che l’abbiano fatto, dài. (Dvd; 6/6/06)

ddv5904Vergeat589 – Il capolavoro artigianale Vic Vergeat Live at Music Village di Riccardo Festinese ed IO, Italia 2006
Questa è una storia lunga ed è meglio raccontata a voce, ma il succo è che a fine novembre dell’anno passato abbiamo organizzato in pochi giorni le riprese di un concerto di Vic Vergeat, un amico musicista sulla cui vicenda di milite chitarrista ignoto Riccardo ed io stiamo progettando un documentario. In due giorni abbiamo messo su una squadra di 4 persone (noi compresi) approfittando dei potenti mezzi televisivi della redazione in cui lavoriamo (abbiamo cioè fregato nastri, microfoni e telecamere). Poi, in loco s’è decisa la regia, impostato le luci e scelto coll’artista una scaletta. E poi ci siamo affidati alla buona sorte. La prima serata non è stata eccezionale né per Vic né per noi: stavamo ancora capendo tutti come comportarci. La seconda è venuta benissimo, band e troupe in forma, con l’unico personale problema di tenere la telecamera dritta mentre balli. Il Dvd lo abbiamo montato all’antica, mettendo al passo tutte le camere e scegliendo gli stacchi – pochi – in modo preciso, non a cazzo come sembra di moda fare adesso. È venuto sinceramente bene e le advanced copies mandate alle riviste musicali hanno fruttato una marea di recensioni entusiastiche, dovute anche all’affetto per il musicista e per la modalità produttiva da banditi, a costo veramente ridottissimo. L’unico problema è che il Dvd, poi, la Cramps non lo ha praticamente distribuito. Io l’ho portato materialmente da Black Widow, negozio di settore di Genova, e le dieci copie che gli ho lasciato sono state tutte acquistate entro una settimana. Misteri del mercato. È stata una bella esperienza e sul curriculum adesso vanto regia, direzione della fotografia, montaggio e produzione di un titolo. Che però non ha dato gli esiti sperati. Amen. (Dvd; luglio 2006)

ddv5905ER590 – Il capolavoro seriale E.R. Anno 1 di Aa.Vv., USA 1994/95
Mi sono detto: massì, tra un match e l’altro della Coppa del mondo di calcio in Germania, mi vedo un episodio tanto per gradire e capire perché tanti decerebrati perdono le bave per un maledetto telefilm, come drogati davanti al video per ricevere la dose settimanale. E poi, ovviamente, la scimmia m’è salita in spalla: diventato campione del mondo senza troppo entusiasmo (fuorché nella semifinale coi tedeschi, quando ho gridato afono per non svegliare Sofia), non sono però riuscito più a staccarmi dal serial. Perché è vero: E.R. è altissima narrazione popolare che affronta cronaca e vita, con un linguaggio, un ritmo e un’abilità narrativa e tecnica notevoli. È un capolavoro fruibile a tutti i livelli, io chiaramente al più basso, quello emozionale, de panza, amando subito tutti i personaggi, vivendone i problemi, sentendoli incredibilmente vivi e veri. E il dvd è un’invenzione geniale: 40 minuti a sera, in lingua originale, col formato giusto. E poi tutti a nanna. (Dvd; giugno, luglio e agosto 2006)

??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????591 – Adorabile Volver di Pedro Almodòvar, Spagna 2006
Primo film in sala da un anno e quattro giorni a questa parte, di nuovo a Champoluc: serve un’estate intera e vuota, ormai, per riuscire ad andare al cinema. E per fortuna questo è un bel film che ti sbilancia con le consuete follie almodovariane che tu accetti dicendoti: e beh, Almodòvar! Del resto sei stanco, dormi poco, capisci già quasi niente di tuo… e poi, come per magia, alla fine, tutto ha un senso, il mosaico si ricompone e capisci che sei uomo di poca fede di fronte all’abilità di Pedro. E poi quelle facce, gli occhi di Penelope, quei colori, quella musica, quelle lacrime. E sei felice. (Cinema Sant’Anna, Champoluc; 14/8/06)

ddv5907JoeCocker592 – Il felicemente caotico Joe Cocker Mad Dogs and Englishmen di Pierre Adidge, USA 1971
Quando non c’era il dvd e neanche uno straccio di tivù musicale, se ti perdevi un concerto non ti restava che andare al cinema. E beccarti un film come questo: la cronaca di un tour incredibile che attraversò gli USA nel 1970. Reduce da altre tournée e beneficiato dalla performance immortalata dal film su Woodstock, Joe Cocker fu letteralmente costretto dai discografici a tornare on the road. In pochi giorni quel geniaccio di Leon Russell (il pianista di Delta Lady… ah no? Non la conoscete? Strano…) gli mise su una band funkyssima, con sezione fiati e coriste da infarto: una ventina di crociati del rock (e del blues e del gospel e del soul etc. etc.) con bambini e cani a carico, incubo di ristoratori e albergatori nel cuore dell’Amerika. La regia è minimale: sesso e droga sono pressoché invisibili, ma li leggi negli occhi dei protagonisti, occhi distrutti dalla fatica (in poco più di due mesi, 58 concerti) e dalla tensione che stava montando, dal momento che Cocker non sopportava il ruolo di Russell, vero leader sopra e sotto il palco. Il film è disordinato ed eccitante come i concerti ripresi, talmente intensi che il catarroso Cocker ci ha messo quindici anni per riprendersi e diventare il crooner pelato per yuppies di metà anni Ottanta. Il proletario inglese di allora sembra il bisnipote di quello odierno. Ha ancora i capelli e due basette da ufficiale napoleonico e se l’air guitar è l’abilità a mimare la sei corde ecco a voi il campione del mondo di air orchestra, capace di assecondare coi movimenti spastici del corpo tutti i musicisti che lo accompagnano sul palco. Film tenero, quando si pensava che il rock potesse cambiare il mondo ed evitare la prossima guerra. (Dvd; 23/8/06)

ddv5908MyArchitect593 – Inaspettatamente sentimentale, My Architect di Nathaniel Kahn, USA 2003
Oggi un po’ dimenticato quando si cita il Movimento Moderno, l’architetto e urbanista Louis Kahn gode di grande fama tra gli intenditori. A me, personalmente, è sempre stato pesantemente sulle balle. Quando studiavo architettura non amavo le sue (poche) realizzazioni monumentali e un po’ ottuse e un prof che ritengo un coglione lo magnificava apoditticamente (sono un po’ invelenito, lo ammetto, perché la carogna mi aveva fatto sputare sangue per l’esame di Composizione II). Grazie a questo documentario scopro che Kahn era anche un farfallone, indebitato fino al collo e incapace di gestire i suoi affari che comunque lo avevano portato in giro per il mondo come guru architettonico ben prima degli odierni archistar. Il figlio avuto fuori dal matrimonio indaga sul padre che non ha conosciuto abbastanza e scopre quanto detto sopra. Ma gli vuole bene lo stesso e gli dedica questo affettuoso filmetto dove si cercano tracce del padre ripercorrendone anche la carriera. Ci sono momenti grandiosi (un bengalese che, davanti al parlamento di Dacca, chiede: “Chi? Farrakhan?!”), altri crudi (l’urbanista pratico che massacra il lavoro dell’architetto), altri ancora impudichi o calorosi. Documentario altalenante, curioso, formalmente impreciso come lo sono le opere fatte col cuore e non con la testa. Per cui fa piacere vederlo. (Dvd; 26/8/06)

ddv5909Hitchhikers594 – The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy di Garth Jennings, Gran Bretagna 2005
Siam dalle parti del capolavoro, e ve lo dice uno che la fantascienza non la capisce mai fino in fondo. In origine uno sceneggiato radiofonico, poi libro, infine film. Conoscevo il testo (che però avevo anche abbastanza dimenticato) e trovo magnifica la riduzione cinematografica, che conserva invenzioni, stupore e ironia: procuratevi un asciugamani, che si parte. (Scusate, ma non so cosa scrivere di più… non so: 42? Grazie per il pesce? Dai, un film così non si commenta, si ama e basta). (Dvd; 30/8/06)

ddv5910InsideMan595 – Molto cool, Inside Man di Spike Lee, USA 2005
È un giovedì e ci diamo un tono da genitori che non subiscono la dittatura dei figli e che vanno allegramente al cinema. Anche a metà settimana, capito? Ed è tutto falso, ma il film lo vediamo veramente, anche se poi non c’è tempo neanche per un toast e una birretta. Inside Man non è niente male e ci va bene così: solido film di genere, con megarapina in banca, simpatia evidente per i delinquenti e investigatore scaltro (Denzel Washington) che esibisce con gusto la sua sensuale blackness. Dialoghi serrati e ben gestiti, attori notevoli, bellissima fotografia sgranata e regia inventiva. E si parla anche della psicosi newyorchese post 11/9 e delle libertà individuali sotto tiro, senza che stavolta Spike parta col trombone retorico, ma facendolo per cenni brevi e sapidi. Bravo. E bravi. Noi. (Cinema Gloria, Milano; 7/9/06)

ddv5911lecollinehannogliocchi596 – Il pessimo anatroccolo Le colline hanno gli occhi di Alexandre Aja, USA 2006
Rifacimento putridissimo di un classico dell’horror che non ho mai visto. Di questo posso dire che la prima parte non mi sembra granché. Lo comunico placidamente a Barbara nell’intervallo, sospirando per la sfiga di chi va poco al cinema e in più si piglia un film dissenterico. Poi però c’è una svolta maligna e il film diventa cattivello come si deve: la bellissima Vinessa Shaw viene ammazzata senza pentimenti (cosa che aggiunge mistero al plot: hai veramente seccato una così? …una che vale da sola la visione del film? Naaa, dài…) e assume importanza anche un sottotesto politico prevedibile ma orchestrato decentemente. Insomma: volevo gli zompi e qualche idea e alla fin fine – siccome son di bocca buona e maltrattato dall’insonnia – li ho avuti. Rilevo che sono tra i pochissimi a cui sia minimamente piaciuto il film. Ci sarà qualche motivo, temo. (Cinema Ducale, Milano; 14/9/06)

ddv5912blackmoreMr. Blackmore, I suppose…
Ritchie Blackmore è l’uomo responsabile di milioni di chitarristi grazie al riff primordiale di Smoke on the Water. Eccentrico, taciturno, spigoloso: dai tempi dei Deep Purple, la fama che lo precede non è rassicurante. Ha fatto impazzire compagni di band coi suoi scherzi pesanti, ha licenziato frotte di musicisti e ha spiazzato i critici con interviste aggressive o dichiarando l’amore per gli ABBA. Dieci anni fa ha imbracciato l’acustica (e spesso anche il liuto) per dedicarsi con perizia alla musica rinascimentale, lasciando tutti di stucco. Ma ha anche ideato un gioco di ruolo: lui è il menestrello in leggings, la futura sposa Candice Night la sua dama e il pubblico la corte danzante. Tutti in costume, come in Non ci resta che piangere. Da allora, complici le esplicite prese per il culo dei critici, non parla più con la stampa rock. Io però ci provo nonostante si dica che Ritchie sia succube non solo della compagna, ma addirittura della futura suocera. Non si sa mai e infatti, siccome non è prevedibile, il giorno prima del concerto che tiene a Milano, arriva un fax che dice: «Sì!». Per cui dopo un’esibizione divertente – e nel consueto clima folle – attendo fuori dai camerini la chiamata. Quando è il momento la prima sorpresa: il chitarrista non è più in calzamaglia e stivaloni, ma è vestito da calciatore della Germania, con tanto di scarpini. Non scherzo. Candice invece, è ancora in costume e presenzia, regalandomi una serie di scambi dialogici degni di una Casa Vianello medievale. Vi risparmio tante ciance, ma Blackmore adora Bob Dylan, Zidane e purtroppo difende Bush. Vado poi dritto alle polemiche con la stampa che non gli perdona di aver abbandonato l’hard rock e lo demolisce puntualmente da anni a ogni disco che pubblica. Azzardo che i nostalgici siano loro, non lui. Ritchie diventa rigido e scandisce le parole una per una, temo che s’incazzi: «Questo È Corretto Al Cento Per Cento». Pfuii… «Ma non m’importa che ci trattino male. Se c’è un brutto pezzo su di noi non m’interessa leggerlo. Se è buono… beh, sono cose che so già. Sono annoiato da interviste sul rock, metal, l’hard… preferisco parlare di altre cose». Allora rilancio: è vero, come hanno scritto, che a casa ti piace passare il battitappeto? «Beh, è vero!». Interviene Candice: «È per questo che mi piace!». Ma perché, tutto ciò? «Sai, nel 1981 viene a trovarmi a casa il mio batterista dei Rainbow. Stavo passando il battitappeto e lui c’è rimasto male: “Ma tu sei una rockstar!”. Tre settimane dopo siamo in tour e in albergo decido di spostare il letto dalla parete. Ho il sonno leggero e da quel lato c’era casino. Quando sposti un letto in albergo, sotto c’è un mondo. Vivo. E allora ho passato il battitappeto e ovviamente in quel momento è arrivato il batterista… e da allora la voce è girata…». Da qui in poi è tutta discesa e allora mi permetto: suonare musica del Rinascimento non è una fuga dal presente? «Sì, certo. Abbiamo tutti fantasie. La mia è di essere ubriaco nel quindicesimo secolo. Non mi piace il mondo di oggi. Musicalmente fa schifo. Mi piace ascoltare musica antica, non la radio». Candice elabora: «E poi, la fuga dal presente… c’è chi va allo stadio, chi passa le ore sotto una macchina a riparare il carburatore… a noi piace andare in giardino, con la luna piena e un falò e suonare musica romantica, con gli amici, nella natura. È una fuga, certo, ma dal PC, dal cellulare…». Ma perché, lo avete? Candice chiarisce: «Solo per le emergenze, io. Lui no, figurati». Chiudo con la più banale domanda, che in tempi di disagio esistenziale mi illumina sempre un po’: alla fine, cosa vi rende felici? Di nuovo la compagna: «A me, piantare fiori in giardino». Ritchie è più raffinato: «A me piace lamentarmi. È un passatempo inglese: sono felice quando mi lamento, è catartico, terapeutico. Sai, in America (dove vivono, N.d.C.) con il politically correct è impossibile farlo. A me piace dire ciò che penso. E quindi lamentarmi». Chiude Candice: «E quando comincia vado in giardino a piantare fiori!». Non esistessero, due così, non ci sarebbe sceneggiatore capace di inventarli. (Live, 16/9/06)

ddv5913Caimano597 – Paura! Il caimano di Nanni Moretti, Italia 2006
Film temuto. Io a Nanni ho voluto bene. Perché godevo colpevolmente compiaciuto delle gomitate complici, delle strizzate d’occhio… e gli ho perdonato anche i morettismi, quei discorsi tra noi. E vabbeh, è la sua cifra. Se non ti piace, non guardarlo. Però negli ultimi tempi mi sembrava che si fosse persa un po’ la misura e questo film – tra dichiarazioni di vario genere e aspettative della stampa – mi faceva molta paura. Una scommessa rischiosa che non volevo veder perdere. E invece, vi dirò, il film mi funziona eccome. La costruzione è azzeccata e Moretti scioglie la tensione con la sua ironia. È un atto d’accusa, certo, ma non c’è piagnisteo, semmai ferma incazzatura. E non credo abbia spostato d’un voto il confronto Prodi/Berlusconi (i voti semmai li hanno spostati altri, ma questa è una storia di cui mai nessuno vi renderà conto, neanche la magistratura). Silvio Orlando è bravissimo, Margherita Buy inaspettatamente perfetta e se la cavano bene anche tutti gli altri. Invece orrenda e spero non premonitrice la scena finale. (Dvd; 22/9/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 59)

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