Paul Schrader – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Da Tom Joad a Capitol Hill, passando per Rambo e Rocky https://www.carmillaonline.com/2021/03/04/da-tom-joad-a-capitol-hill-passando-per-rambo-e-rocky/ Thu, 04 Mar 2021 22:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65099 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Il grande Sly. Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario, Milieu edizioni, 2021, pp. 174, 1,90 euro

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1931, i membri della Workers Film and Photo League potevano scrivere su “Experimental Cinema” (una rivista redatta da Jan Leyda, David Platt e Seymour Stern e ricollegabile al Partito Comunista degli Stati Uniti) che: «Movie must become our weapon (il film deve diventare la nostra arma)». Nel frattempo quel cinema e quei film che gli autori del vecchio articolo [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Il grande Sly. Film e avventure di Sylvester Stallone, eroe proletario, Milieu edizioni, 2021, pp. 174, 1,90 euro

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1931, i membri della Workers Film and Photo League potevano scrivere su “Experimental Cinema” (una rivista redatta da Jan Leyda, David Platt e Seymour Stern e ricollegabile al Partito Comunista degli Stati Uniti) che: «Movie must become our weapon (il film deve diventare la nostra arma)». Nel frattempo quel cinema e quei film che gli autori del vecchio articolo avrebbero voluto virare in chiave di rivendicazione proletaria hanno cambiato più volte colore e non soltanto per il passaggio dalle pellicole in bianco e nero a quelle in technicolor e, per finire, al digitale.

Anche il cambiamento dell’eroe proletario non è stato di poco conto. Da Tom Joad a Rambo il salto non era facilmente prevedibile ai tempi della grande crisi, anche se il secondo sarebbe uscito dritto dritto dalle pagine di First Blood, un romanzo di David Morrell pubblicato in America nel 1972 e in Italia, da Feltrinelli, nel 1973. Una vicenda destinata a simboleggiare il dramma di una generazione di reduci che, alla fine di un allucinante apprendistato durante la guerra in Vietnam, si ritrovò carica di medaglie e disturbi mentali, ma priva di diritti reali.

Non solo, però, poiché il libro scritto da Diego Gabutti, con la solita arguzia ed ironia, e pubblicato da Milieu, con un ricco e spesso divertente apparato iconografico, ci ricorda come proprio intorno alla e dalla figura di eroe proletario dipinta nei film che hanno visto Sylvester Stallone (Sly) sia come interprete che come ideatore abbia avuto inizio ciò che è attualmente definibile come action movie. Se qualcuno, poi, si scandalizzasse davanti alla definizione di eroe proletario qui, e nel libro, utilizzata a proposito dei personaggi interpretati da Sly val forse la pena di ricordare che la migliore cinematografia americana degli anni ’70 produsse sì una gran quantità di film dallo spirito nettamente antagonista, ma anche che in quei film “di contestazione” quasi sempre i protagonisti erano studenti oppure drop-out ed emarginati di vario genere, più facilmente riconducibili al proletariato marginale che non a quello (bianco) di fabbrica. L’unico ad avere al suo centro tre figure di operai piuttosto incazzati è il celebre Blue Collar (1978) di Paul Schrader, con Richard Pryor e Harvey Keitel, liberamente tratto dalla crime story Across 110th Street di Wally Ferris (1970)1, in cui le “scelte” proletarie bianche e nere danno il via a una girandola di violenze, inseguimenti, tradimenti e fughe verso impossibili lidi di benessere. In qualche modo, quindi, ad un primo action movie, in questo caso vagamente politicizzato, in cui il fondamento è dato da una insoddisfazione “di classe” accompagnata da una scelta irreversibile, destinata a sfociare nella violenza e nell’azione.

In fin dei conti il trucco stava già nel fatto che, a differenza del romanzo di David Morrell, nel film di Ted Kotcheff del 1982 Rambo non sarebbe morto. Permettendo così quella trasformazione dell’eroe di origini proletarie in eroe seriale che poi avrebbe costituito uno degli aspetti più noti della carriera di Sylvester Stallone. Rambo, Rocky (e ci scusiamo qui di aver fatto sì che il reduce sembri precedere il pugile, considerato che il secondo fu il protagonista del film di John G. Avildsen già nel 1976) e il Barney Ross de I mercenari (The Expendables 1, 2, 3, 4…) che, però, già rimette iconoclasticamente in discussione, quasi distruggendolo dall’interno, lo stesso genere.

Con il suo solito stile, irridente e irriverente, Gabutti ci guida dai gangster, eleganti e raffinati, in smoking del cinema muto a quelli “con la faccia sporca” del cinema di James Cagney e Edward G. Robinson degli anni della Grande Depressione, quando il codice Hays2 vietò, in un momento storico in cui i rapinatori di banche alla Dillinger erano vissuti negli Stati Uniti come autentici eroi3 dal proletariato e dai piccoli agricoltori caduti in disgrazia, la realizzazione di film nelle cui vicende i gangster potessero essere i vincitori oppure gli autentici eroi.

Quei proletari e piccoli farmer che, come i personaggi di Steinbeck (il cui romanzo sulle conseguenze sociali della grande crisi e delle tempeste di polvere fu pubblicato nel 1939) portati sullo schermo da John Ford nel 1940, erano sempre e comunque bianchi, così come il volto di Henry Fonda destinato a diventare quello di Tom Joad, il protagonista di Furore. Inutile non vederlo oppure ricordarsi che in altri due romanzi dello stesso Steinbeck, Pian della Tortilla (1935) e Vicolo Cannery (1945), ai poveri emarginati bianchi della California si sarebbe aggiunto qualche immigrato o vecchio residente messicano.

Le vicende che porteranno Sly, che poco o nulla aveva di proletario nella sua storia personale, da un cinema di serie Z blandamente pornografico, che lo rese celebre come Italian Stallion, oppure in cui si narravano le vicende di un confuso hippy- terrorista, alla celebrità sono ricostruite dall’autore, che non manca mai di sottolineare la novità rappresentata comunque dalla cinematografia “stalloniana” nella reinvenzione del cinema destinato al vasto pubblico del consumo di massa.
Niente di raffinato o sperimentale, per carità, ma una narrazione molto vicina al cuore profondo di un’America bianca, spesso lontana dal potere reale ma ancora illusa da sogni di grandezza ormai morti e sepolti, di cui, anche dopo l’assalto a Capitol Hill nel giorno della Befana, ci sfuggono i contorni (e la storia). Ma che nei suoi film l’attore ha saputo benissimo interpretare o, almeno, ha saputo dare un volto riconoscibile e in cui riconoscersi.

Forse il miglior riconoscimento per Stallone e il suo cinema potrebbe essere quello di aver costituito, prima dell’avvento di Donald Trump con il suo Make America Great Again, il grande premio di consolazione per “una classe operaia che fu”, anche se non sono pienamente convinto che Diego possa accettare tale definizione per l’oggetto della sua indagine.


  1. Pubblicato in Italia come Notte di caccia a Harlem da Aldo Garzanti Editore, Milano 1972  

  2. Codice Hays è il nome con cui è indicato, dal nome del suo creatore Will H. Hays, il Production Code, una serie di linee guida che per molti decenni hanno governato e limitato la produzione del cinema negli USA. La Motion Picture Producers and Distributors of America adottò il codice nel 1930, iniziando però ad applicarlo effettivamente nel 1934, e lo abbandonò solo nel 1967  

  3. Si pensi soltanto alla ballata di Woody Guthrie Pretty Boy Floyd, dedicata ad un membro della banda Dillinger  

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THE CANYONS VS LE BELVE https://www.carmillaonline.com/2014/01/24/canyons-vs-le-belve/ Thu, 23 Jan 2014 23:10:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12262 di Mauro Baldrati

CANYONSbelveIl regista Paul Schrader e lo scrittore-sceneggiatore Bret Easton Ellis sono un’accoppiata decadente. Puro decadentismo storico occidentale, epica delle persone-oggetto, incroci tra larve lacerate dal gelo di vite fallite e oggetti dominati dalle proprie ossessioni, dall’impotenza affettiva. The Canyons è un OGM filmico di queste tematiche, di questa estetica, di questa immobilità. E’ ambientato nei dintorni di Los Angeles, villa con vista sull’oceano, nel downtown di un’umanità giovanile, rampante, post-yuppie, ossessionata dal successo e dal “vizio” ma anche terrorizzata dalla povertà. In questo l’astuto Easton Ellis sembra perfettamente a proprio agio, [...]]]> di Mauro Baldrati

CANYONSbelveIl regista Paul Schrader e lo scrittore-sceneggiatore Bret Easton Ellis sono un’accoppiata decadente. Puro decadentismo storico occidentale, epica delle persone-oggetto, incroci tra larve lacerate dal gelo di vite fallite e oggetti dominati dalle proprie ossessioni, dall’impotenza affettiva. The Canyons è un OGM filmico di queste tematiche, di questa estetica, di questa immobilità. E’ ambientato nei dintorni di Los Angeles, villa con vista sull’oceano, nel downtown di un’umanità giovanile, rampante, post-yuppie, ossessionata dal successo e dal “vizio” ma anche terrorizzata dalla povertà. In questo l’astuto Easton Ellis sembra perfettamente a proprio agio, come un luccio in uno stagno.

Christian (l’attore porno James Deen) è un figlio di papà che si diletta nella produzione, ma soprattutto nei filmini che realizza lui stesso col cellulare (oggetto onnipresente nel film), dove “recita” la sua ragazza Tara (Lindsay Lohan) con altri uomini. Non è geloso di questi ménage a tre o a quattro, anzi, vedere Tara “guardata” o toccata da altri maschi lo eccita. La loro vita va avanti piatta, tra orgette, peep show casalinghi, e bicchieri di vino bianco, che secondo la retorica hollywoodiana è la bevanda nazionale dei wasp. La situazione si complica quando entra in scena un ragazzotto palestrato, Ryan, aspirante attore che sbarca il lunario con lavori umili, il quale è anche il fidanzato dell’efficiente segretaria-assistente di Christian. Dovrebbe recitare in un b-movie di genere horror, ma la cui realizzazione è incerta. La variabile distruttiva è costituita dal fatto che Ryan e Tara sono stati amanti, in un passato recente. Christian sospetta, sente che tra i due serpeggia qualcosa. E qui diventa morbosamente, violentemente geloso. Per Christian Tara può accoppiarsi con sconosciuti, ma per nessun motivo può sentirsi attratta da un altro. Il film procede tra scene di sesso straordinariamente poco intriganti, ricerca di un piacere che non è tale, ma solo ripetizione, farsa, nello scenario di una città cosparsa di sale cinematografiche abbandonate, sorta di monumenti spettrali alla morte di qualsiasi espressività, fino alla conclusione all’insegna di una violenza banale e gratuita.
Il fulcro creativo del film è costituito da due elementi: la regia incostante, disconnessa, con una fotografia a tratti curiosamente naif, quasi tirata via, da filmetto amatoriale a basso costo. Alla fine risulta una componente interessante, che stupisce, nella piattezza del “vizio” a sangue freddo e del vuoto centrale delle vite dei protagonisti. E poi da Lindsay Lohan, un’attrice molto espressiva, dotata di un talento naturale, che si collega col suo personaggio reale. Nella vita è stata più volte arrestata per guida in stato di ebbrezza, obbligata a disintossicarsi dall’alcol, a prestare servizio nei servizi sociali, poi è fuggita, riacciuffata, di nuovo fuggita, nuovamente in galera per il furto di un gioiello, e così via per anni. Non è “bella” secondo la morfologia classica hollywoodiana, ogni tanto ha la faccia gonfia, le gambe costellate di lividi, un corpo in bilico tra il crollo alcolico e un fascino magnetico. Sorprende la sua capacità di cambiare, di essere sciatta, raffinata, ricercata e splendida anche con un rossetto sbavato e il trucco pesante.

La coppia Oliver Stone–Don Winslow è altamente conflittuale, viscerale, violentissima. Le belve, come The Canyons, è ambientato in un contesto giovanile californiano, oceano, sole, villa, soldi. Ma rispetto al film di Schrader–Easton Ellis non vi è alcun decadentismo, nessun indugio sull’incomunicabilità e sulla sterilità della ricchezza. Chon (un ex guerriero seal), Ben (pacifista, che devolve in beneficenza i proventi dei suoi traffici) e la bellissima “O” (diminutivo di Ofelia) coltivano una ganja idroponica stratosferica, con la quale guadagnano un sacco di soldi. Conducono un ménage a tre, ma senza gelosie né compiacimento nel “vizio”, anzi, stanno bene, sono soddisfatti e, si potrebbe dire, felici. Lavorano, si divertono, si amano. Si sentono vivi, fumano i “purini” (joint o pipette senza tabacco). Si godono il mare e il sole. Ma Il Male è sempre in agguato, sempre in osservazione. Un potente e spietato cartello della droga messicano vuole mettere le mani sul piccolo ma poderoso commercio dei tre. L’indipendenza non è tollerata, mai. Iniziano le minacce, le aggressioni, i ricatti, tra terrificanti snuff-movies, omicidi efferati, torture, gestite dal criminale-macellaio Lado (Benicio del Toro), padre di famiglia che come mestiere decapita, smembra, sbudella. E’ una guerra senza esclusione di colpi, col coinvolgimento del poliziotto corrotto John Travolta, che ha come posta la sopravvivenza, e la libertà, del trio Chon-Ben-O. Vi è un conflitto aspro e sanguinario tra Bene e Male, dove il Bene non è la Morale Americana, né il lieto fine ad ogni costo, ma l’accettazione della vita, del piacere, della libertà. Pienamente inserito in un genere thriller-duro, con esplosioni pulp, Le belve si porta dietro istanze rimodernizzate di anarchia e alternativa libertaria anni ’60, ultraviolenza anni ’70, il tutto girato con una regia spavalda da Oliver Stone, a sua volta contaminatore di stili e tonalità, cineprese guizzanti e brusche, che fa dimenticare alcuni film-baraccone a dir poco mediocri (come Alexander), e filtrato, governato dalla sceneggiatura magistrale, benché non del tutto priva di buchi, di Don Winslow.

I due film condividono i finali piuttosto ambigui, quasi insicuri, nel loro voler essere “aperti” e non perfettamente rassicuranti: manierista e abbastanza scontato in The Canyons, con la pretesa ad ogni costo di essere cattivi, scorretti, viziosi; doppio in Le belve, uno per gli ottimisti e uno per i pessimisti; e due personaggi femminili di grande spessore: la Lohan in The Canyons e Salma Hayek in Le Belve. Salma interpreta Helena Sanchez, la “regina” del cartello, donna meta-criminale che non esita a condannare a morte i nemici con estrema crudeltà, eppure si intenerisce quando guarda “O” prigioniera, o parla con lei, perché le ricorda la figlia. Assassina splatter sentimentale, passa dal fascino all’ironia, dalla minaccia al paradosso, e proprio come con Lindsay Lohan, non riusciamo a staccare gli occhi da lei.

Insomma, la coppia Stone–Winslow è altra merce rispetto a Schrader-Ellis, non c’è storia.
Ma se mettiamo di fronte Lindsay Lohan con Salma Hayek la faccenda si complica alquanto.
E il gioco si fa duro.

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