Patti Smith – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il comodo divano della upper class https://www.carmillaonline.com/2020/04/17/il-comodo-divano-della-upper-class/ Fri, 17 Apr 2020 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59507 di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il [...]]]> di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il suo status di personaggio smart. Perché appartiene a quella élite upper class cui tutto è concesso. Quelli come lui se desiderano una cosa devono solo allungare una mano e prenderla. Non ci sono barriere tra loro e l’oggetto del desiderio. Nessun ostacolo. E’ nella loro natura. Lo è dalla nascita.

Il motivo di questo fenomeno è ignoto. Come ignote sono le cause scatenanti dell’amore, dell’arte, della fede religiosa. Fanno parte della storia millenaria della nostra specie. Di sicuro gli appartenenti a questa élite, come canta Frankie, “si sentono meglio”. È tutto molto comodo, e facile. Mentre per noi che ci agitiamo nella working class ogni piccolo gesto è carico di complicanze e di fatiche. Dobbiamo combattere duramente per raggiungere i nostri obiettivi, anche minimi, e spesso falliamo. E non ci sentiamo affatto meglio.

Per upper class e cool non intendo la ricchezza. I soldi non c’entrano. O meglio, non sono tutto. Un esempio molto significativo di cosa intendo è dato da un flash nel bellissimo Just Kids di Patti Smith. Janis Joplin era sempre attorniata da ancelle, ragazze che la seguivano ovunque e la accudivano. Accadeva che dopo i concerti Janis adocchiasse qualche giovanotto attraente. Allora cercava di sedurlo, di portarselo in camera, per scacciare la tristezza cronica che la perseguitava. Dopo una serata di chiacchiere, di risate, di canne, il giovanotto, d’un tratto se ne andava con una delle ancelle, che per tutta la serata non aveva quasi aperto bocca. E Janis ci rimaneva con un palmo di naso. Così si ritirava in camera, da sola, piangeva disperata e si strafaceva. Più di una volta Patti l’ha accompagnata per consolarla, tenendole la mano.

Franco Arminio è come quell’ancella. Gli basta uno sguardo, un gesto, e tutto diventa cremoso, e dolce. Ho visto un’intervista televisiva, lui in uno scenario dei suoi magnifici appennini. A un certo punto l’intervistatrice gli ha chiesto come mai non scrive romanzi. Franco Arminio ha risposto che non lo fa perché la narrativa è governata dal tempo, e lui non vuole essere dipendente dal tempo. Una risposta perfetta. Infatti l’intervistatrice era rapita. Spalancava gli occhi straripanti di ammirazione e sbatteva continuamente le palpebre. Stava assistendo a una scena epica. Il Poeta che rivelava una grande verità. Un momento irripetibile.

Ecco la differenza tra Franco Arminio e me. Se anch’io riuscissi a essere smart, a una domanda perché non scrivo poesia risponderei che la poesia è governata dalla rarefazione del tempo, e io non voglio dipendere dalla rarefazione del tempo. Invece cosa risponderei? Che non scrivo poesia perché non ne sono capace. Una rispostaccia. L’intervistatrice non spalancherebbe gli occhi, ma alzerebbe le sopracciglia con un imbarazzato “oh”. Ecco perché non sono invidioso del poeta Franco Arminio: perché non so scrivere poesia. Non ne vado fiero. È un limite che mi fa soffrire. Ma non riesco a trovare un modo fascinoso per dirlo. E sono costretto a esprimermi conformemente alla mia classe.

La mia classe è la più dura, e la più faticosa. Siamo in guerra. La guerra eterna. Per restare a galla, per andare avanti. Per non recedere nella over: la povertà, il precariato perenne, l’emarginazione. Se si fa politica, poi, è la sconfitta garantita. In realtà se si è giovani, e in buona salute, conviene rompere. Meglio mandare al diavolo il mondo con la sua teoria dell’ingiustizia, col culto del denaro e del privilegio. Henry Miller, un secolo fa, fece questa scelta. Ne parla diffusamente in Plexus, secondo me il suo capolavoro. A New York lavorava come direttore del personale alla Western Union. Tutti i giorni andava al lavoro, doveva gestire un’umanità pazzoide, derelitta, i disperati, i fattorini precari. Perché, si chiedeva, devo lavorare dalla mattina alla sera rischiando la pazzia, con l’incubo dell’affitto pagare, delle bollette, chinando il capo di fronte ai superiori, per poi accanirmi sui più deboli? All’inferno la Società Cosmodemonica, addio all’America puritana e conformista. Così spaccò tutto. Piantò il lavoro, gli impegni, e fuggì nella città dei suoi sogni, Parigi, con dieci dollari in tasca. Iniziò una nuova vita, una vita da marginale, da artista squattrinato. Da happy rock.

Franco Arminio non ha questa esigenza.
Gli basta il suo morbido, strano destino di poeta cool di successo.
Ha tutto ciò che gli serve.
Franco Arminio si sente meglio.

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Due passi avanti nell’Underground e uno indietro nell’oblio. https://www.carmillaonline.com/2019/10/02/due-passi-avanti-nellunderground-e-uno-indietro-nelloblio/ Wed, 02 Oct 2019 21:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54843 di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, [...]]]> di Sandro Moiso

Barry Miles, Beatles. The Zapple Diaries, Jaca Book, Milano 2019, pp. 272, 30,00 euro

Zapple presenterà suoni di ogni tipo…non necessariamente la musica che conoscete, amate o temete. (Comunicato stampa per il lancio negli USA della nuova etichetta discografica dei Beatles, 1° maggio 1969)

Per una volta iniziamo dalla fine ovvero dalle parole con cui John Lennon descrisse all’autore del libro il fallimento dell’avventura artistica e imprenditoriale della Apple, l’etichetta discografica che i quattro di Liverpool avevano fondato e si erano intestati non soltanto per promuovere le proprie opere, ma anche per lanciarsi nel mondo dell’underground e della controcultura attraverso la sua parallela Zapple: “Apple è stata una manifestazione di ingenuità beatlesiana, di ingenuità collettiva: dicevamo che avremmo fatto questo e quello, che avremmo aiutato chiunque e via dicendo: E siamo rimasti fregati alla grande, proprio alla grande. Non si sono fatti vivi gli artisti migliori, nessuno che valesse la pena di registrare – ci siamo beccati tutti gli scarti, gente a cui tutti gli altri avevano chiuso la porta in faccia. E gli altri, quelli che ci stavano veramente dentro, sono rimasti alla larga perché erano troppo orgogliosi”.
Un’efficace descrizione di un fallimento forse annunciato ma che, allo stesso tempo, descrive e sintetizza le speranze, le ingenuità, le gelosie e l’inettitudine che caratterizzarono la breve stagione della controcultura, al di qua e al di là dell’Atlantico, sul finire degli anni Sessanta.

Barry Miles (classe 1943), autentico cronista di quella cultura a cavallo degli anni Sessanta e Settanta cui ha dedicato decine di testi, fu indubbiamente tra i protagonisti di quella stagione: fondatore di International Times, meglio nota come IT, la prima rivista underground inglese ed europea, gestore di librerie e gallerie d’avanguardia (tutte destinate a chiudere quasi sempre rapidamente i battenti), amico e sodale di musicisti, poeti e artisti sui due lati dell’Atlantico, oltre ad essere anche tra gli organizzatori del 14 Hour Technicolor Dream, il concerto tenutosi il 29 aprile 1967 presso la Great Hall dell’Alexandra Palace di Londra, che avrebbe lanciato definitivamente gruppi come i Pink Floyd e i Soft Machine.

Nel testo, uscito in lingua originale nel 2014 per la Elephant Book Company Limited e corredato da un apparato iconografico piuttosto ricco ed interessante nell’attuale edizione, con ironia molto british e molta partecipazione, con qualche tracci di antipatia nei confronti di John Lennon e Yoko Ono e di ammirazione per il giovane Pul McCartney, narra appunto le vicissitudini di un esperimento creativo ed imprenditoriale, quello della Zapple Records, destinato all’insuccesso probabilmente fin dai primi vagiti che ne accompagnarono la nascita, di cui ci rimangono soltanto due opere, criptiche ed insolute: The Unfinished Music no.2. Life with Lions di John Lennon e Yoko Ono, assistiti da due musicisti jazz d’avanguardia come John Tchicai al sax e John Stevens alle percussioni, e Electronic Sounds di George Harrison, destinate a vedere la luce entrambe il 9 maggio 1969.

Come afferma nella sua prefazione Enzo Gentile:

I solchi del primo vinile rilasciano rumori, feroci feedback chitarristici, singhiozzi, strepiti: in parte le registrazioni provengono dall’ospedale in cui Yoko era stata ricoverata per una minaccia d’aborto.
Sono macchie di vita, emozioni e virus potentissimi, da sprigionare tra lo stupore dei media e la sostanziale incomprensione dei fans dei Beatles: i quali contemporaneamente lanciavano sul mercato il singolo Get Back, seguito dopo qualche settimana da The Ballad of John and Yoko, mentre correvano a pieni giri anche i motori delle session di Abbey Road, previsto per fine settembre.
Uno tsunami continuo, inafferrabile, il precipizio e l’estasi dentro il perimetro beatlesiano che oggi pare irreale, quasi una sfida al buon senso comune…

Un’esperienza crepuscolare, sul finire della storia del quartetto che più ha segnato la musica pop degli anni Sessanta in termini di successo, creatività e innovazione, che non vide coinvolti soltanto altri musicisti ma, soprattutto, anche poeti e scrittori del calibro di William Buttoughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Richard Brautigan, Charles Bukowski, Ken Weaver (membro dei Fugs) e Charles Olson.

Sì, poiché mentre gli artisti che furono prodotti e raggiunsero il successo con l’etichetta Apple, o anche soltanto lo sfiorarono, furono piuttosto insulsi come Mary Hopkins oppure i Grapefruit, il piano della Zapple prevedeva la pubblicazione di dischi contenenti le registrazioni di tali altri poeti mentre recitavano o leggevano le loro opere. Pare oggi incredibile, quando anche le letture di Patti Smith sembrano stentare a raccogliere un minimo di successo, ma all’epoca la poesia registrata poteva raggiungere buoni livelli di vendita e i festival di poesia potevano essere affollati anche da migliaia di persone.

Barry Miles avrebbe dovuto essere il responsabile di tali registrazioni e di tale settore della Zapple ed effettivamente ne realizzò diverse, sia in patria che negli Stati Uniti. Ma quell’esperienza doveva essere fatta, shakespearianamente, della sostanza dei sogni e quelle che furono realizzate effettivamente furono pubblicate solo successivamente, alla chiusura dell’esperienza Zapple, su altre etichette (EMI-Harvest, Folkways, Fantasy), mentre quelle di Charles Bukowski uscirono soltanto nel 1988 come album doppio per la King Mob: At Terror Street and Agony Way.
La parte più consistente di questi diari è proprio quella dedicata a questi incontri e all’influenza che alcuni di questi poeti, principalmente Burroughs con la sua tecnica di cut-up e Ginsberg con le sue stravaganze, ebbero sui Beatles e su John e Paul in particolare.

Un libro sicuramente da leggere per conoscere e approfondire la storia, e non il mito, di un’epoca e di un gruppo fondamentali per l’evoluzione della musica popolare e della cultura contemporanea, attraverso la breve vita di un’etichetta e di un progetto (febbraio 1969 – giugno dello stesso anno) destinati all’oblio nei fatti e al culto nella memoria di chiunque li abbia conosciuti e apprezzati.

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Il Tuono Rotolante di Bob Dylan https://www.carmillaonline.com/2019/06/13/il-tuono-rotolante-di-bob-dylan/ Thu, 13 Jun 2019 21:30:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53110 di Mauro Baldrati

Martedì 12 giugno è stato proiettato, all’Arena Puccini di Bologna, in anteprima mondiale Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story By Martin Scorsese. Lunedì 18 sarà possibile rivederlo sullo schermo gigante di Piazza Maggiore. E poi, chissà quando e dove, nelle sale. Inoltre da ieri è su Netflix.

Dunque i dylaniati storici si preparino. Le emozioni non mancano. E sono forti. Ci sono molti materiali inediti, Scorsese ha assemblato, rimontato, restaurato le pellicole in maniera discontinua (era impegnato in altre opere), con un disegno preciso però: [...]]]> di Mauro Baldrati

Martedì 12 giugno è stato proiettato, all’Arena Puccini di Bologna, in anteprima mondiale Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story By Martin Scorsese. Lunedì 18 sarà possibile rivederlo sullo schermo gigante di Piazza Maggiore. E poi, chissà quando e dove, nelle sale. Inoltre da ieri è su Netflix.

Dunque i dylaniati storici si preparino. Le emozioni non mancano. E sono forti. Ci sono molti materiali inediti, Scorsese ha assemblato, rimontato, restaurato le pellicole in maniera discontinua (era impegnato in altre opere), con un disegno preciso però: non realizzare un No Direction Home 2.0, il precedente documentario colto e filologicamente corretto, ma un’opera apparentemente caotica, artisticamente libera e controcorrente, molto dylaniana appunto. Parecchie pellicole sono in 16 mm, copie di lavoro perché gli originali, pare, sono andati perduti, oppure giacciono dimenticati in qualche magazzino. Questo non fa che migliorare “l’effetto presenza”, per la grana, e i colori a tratti slavati a tratti sgargianti.

Sì, i dylaniati siano pronti. Come reagire infatti di fronte al loro cantautore preferito con la faccia dipinta di bianco in stile Kabuki, ma non solo, anche come i musicisti di strada del secolo scorso, compresi “gli italiani”, un cappello bianco carico di fiori e un’energia dirompente, da bluesman giovane e in salute?

Cantautore. E’ Dylan stesso a dirlo, quando Allen Ginsberg, da sempre innamorato follemente di lui, si esibisce sul palco, e vuole essere come lui. Ma non può. Perché è un poeta, un grande poeta che ha raggiunto tutte le vette internazionali, ma non è e non sarà mai un cantautore. E proprio come poeta le sue esibizioni richiedono troppo tempo, per le letture, le riflessioni (poetiche), i mantra. Così Ginsberg, e il suo compagno di vita Peter Orlovsky, diventano gli addetti ai bagagli. Ma non abbandona il tour. Grande ballerino, si aggira per i territori del gruppo-carovana come un padre che tutto sistema, tutto mette a posto. Così lo definisce il regista di gran parte dei filmati, Martin Von Haselberg, contraddetto, in puro stile dylanesco, da Dylan stesso: “Ma no. Allen non era affatto un personaggio paterno.” Se c’è una cosa che non può essere negata di Bob Dylan è che non sia stato un artista accattivante e diplomatico. Come quando un giornalista scrittore, uno dei tanti che seguono o cercano di aggregarsi al tour, gli telefona per un’intervista e gli pone una domanda sul concerto, cosa pensa del fatto che il pubblico gli chiede i classici mentre lui i classici li stravolge. E lui: “Cristo, mi hai beccato di prima mattina, non riesco neanche a pensare.”

Il tour, il Rolling Thunder, è una comune viaggiante che nel 1975 percorre gli States a bordo di un grande camper a tre assi con lui sempre alla guida (proprio come Ken Kesey sul Prankster-bus undici anni prima). Tocca piccole e grandi città, dove si aggregano amici e musicisti, come Patti Smith, che recita continuamente poesie ed espone il ritratto di Rimbaud, o Joni Mitchell, stupenda con la sua voce celestiale in un trio d’eccezione, lei, Bob Dylan e Roger McGuinn. E naturalmente Joan Baez, la sua ex fidanzata, con la quale può cantare “qualsiasi cosa”. In un faccia-faccia lui le dice che “mi sono sposato con la donna che amavo.” E lei: “Mi sono sposata con l’uomo che credevo di amare.” Facce sorridenti. Facce tirate. Facce imbarazzate. E poi Sam Shepard, nel ruolo inventato di cronista del tour (perché bisogna sempre trovare agli ospiti qualcosa da fare). O la giovane, bellissima modella Sharon Stone, che Dylan nota tra il pubblico, e la mette a lavorare nel back-office del tour, tipo servire da bere e da mangiare. Lei, che sogna di diventare una grande attrice, accetta, benché perplessa. Nessuno vuole perdere quell’occasione. Nessuno vuole starne fuori.

Si esibiscono preferibilmente in piccoli club, tra le proteste del tour-operator, che per coprire i costi dei compensi, degli alberghi, del catering ecc. avrebbe bisogno di spazi con almeno 20.000 persone, mentre i locali possono ospitarne 3.000. Ma le proteste sono inutili. Dylan vuole contenitori ridotti gremiti di spettatori, gente “calda”, affettuosa. Vuole qualcosa di “popolare”, in risposta allo sfarzoso tour precedente, seguito al fortunato album-capolavoro Blod on the Tracks. E anche politico. Si esibisce in una riserva indiana, e nel carcere dove è rinchiuso il pugile nero Hurricane, al quale dedicherà una canzone che contribuirà a farlo uscire dal carcere, smontando l’accusa di omicidio.

La comune è un’entità festosa, post hippy, circense, frequentata anche da personaggi improbabili, che da sempre costituiscono un motivo di ansia per Dylan, perché si sente assediato, minacciato. Il fatto è che tutti vogliono stargli vicino, parlargli, attirare la sua attenzione. Tutti vogliono bere un sorso alla fonte del suo successo. Lui è presente, allegro, ma anche riservato, diciamo pure distaccato. Come un semidio. Perché se nella storia dell’arte è esistito qualcuno che si è avvicinato allo status di un semidio greco, quello è stato Bob Dylan.

E questo, i dylaniati storici, lo sanno bene.

(N.B: Dylaniato è il titolo di un album di Tito Schipa Jr, composto da pezzi di Dylan. Ma io ho udito per la prima volta “dylaniati” dal mio vecchio amico scomparso, Valter Binaghi, un dylaniato di classe A; così per me questo concetto, che va oltre il dylaniano o dylanologo, l’ha inventato lui.)

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Eversione politica ed insurrezione espressiva https://www.carmillaonline.com/2016/06/29/eversione-politica-ed-insurrezione-espressiva/ Wed, 29 Jun 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30940 di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. [...]]]> di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva, Ombre Corte, Verona, 2016, 202 pagine, € 18,00. Tale testo si snoda lungo una successione tripartita che prende il via con alcuni contributi (Parte prima) che indagano la matrice politica di Burroughs, prosegue poi (Parte seconda) presentando tre scritti dello scomparso Antonio Caronia (autore di importanti studi a proposito di cyberpunk, mutanti, androidi, virtuale, postumano, ibridi uomo-macchina ecc.) e si conclude (Parte terza) con alcuni interventi che analizzano le tecniche di scrittura di Burroughs ed il suo rapporto con i media.

Da parte nostra passeremo in rassegna il volume seguendo un ordine differente: inizieremo dai contributi di Caronia, proseguiremo con i saggi che trattano William S. Burroughs tra cut-up, remix, musica underground, lingua teatralizzata, sonic weapons, shotgun paintings ed audiovisivi “infetti”… e termineremo con gli scritti che si concentrano su “Burroughs ed il politico”.

I tre interventi di Antonio Caronia raccolti in questo volume sono stati prodotti dallo studioso tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Il primo scritto, “Il sistema dei media nell’universo della fantascienza” (1990) [originalmente in: C. De Stasio, M. Gotti, R Bonadei (a cura di), La rappresentazione verbale e iconica: valori estetici e funzionali. Atti dell’XI Congresso nazionale dell’A.I.A., Bergamo 24-25 ottobre 1988, Guerini, Milano, 1990] individua nella scrittura burroughsiana la capacità di intercettare le trasformazioni sensoriali, individuali e sociali determinate dalla comunicazione elettronica. In tale intervento Caronia sostiene che del sistema dei media della seconda metà del Novecento, «di questa rete di audiovisivi che connette il pianeta via etere e lo trasforma in villaggio globale (o in una metropoli locale, il che forse è la stessa cosa), Burroughs coglie un carattere fondamentale, quello della trasparenza. Attraverso il collegamento punto-a-punto della radio e della televisione le distanze si annullano, il tempo si relativizza e noi riusciamo a vivere in un eterno presente, espanso a inglobare il lontano e il vicino, il passato e il futuro. Il mondo diviene trasparente, e questa trasparenza è per noi una garanzia della realtà del mondo» (p. 77).

Nella social science fiction, sostiene lo studioso, i mass media risultano metafora del potere, strumenti attraverso cui vengono create realtà artificiali che imprigionano l’essere umano attraverso pratiche di disciplinamento dei corpi. Tale intuizione, da parte della fantascienza più orientata verso la critica sociale ed antropologica, secondo Caronia, esprime «la consapevolezza del processo che vede i media costituirsi come vero e proprio corpo sociale complessivo a detrimento dei corpi individuali» (p. 78). Ad esempio, nel racconto di James Ballard In The Intensive Care Unit (Riunione di famiglia, 1977), viene presentata una società futura ove i corpi non possono entrare in contatto tra loro; tutti i rapporti debbono essere filtrati dal video. Anche nei racconti di Philip Dick il tema dell’espropriazione del corpo risulta ricorrete e viene affrontato soprattutto attraverso la figura dell’androide, come nel celebre Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi, 1968).

scanners009A proposito della capacità di certa fantascienza di percepire la problematica dello “statuto del corpo” nell’ambito delle trasformazioni produttive e sociali che attorno alla metà del Novecento iniziano a palesarsi, Caronia, oltre alla narrativa, fa riferimento anche ad una celebre produzione televisiva degli anni Ottanta: Max Headroom (1987-1988) di Annabel Jankel e Rocky Morton, opera che pone la questione del “corpo immateriale” nell’epoca dell’immagine elettronica.
Ancora una volta, secondo Caronia, «la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae le tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inviabile fra parola e immagine» (p. 80), come ben testimoniano le produzioni cyberpunk. William Gibson, in particolare, «nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale» (pp. 80-81). Parola ed immagine, da questo punto di visto, a queste latitudini, ci parlano di un “nuovo corpo sintetico” dato dall’intrecciarsi sempre più inestricabile di naturale ed artificiale.

Caronia, nel suo secondo intervento, “Immaginari a confronto: William S. Burroughs e James Ballard” (1992) [originalmente in: A. Caronia, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001], propone un’analisi comparata dei testi di William S. Burroughs e di James Ballard soffermandosi soprattutto su Naked Lunch, opera in cui lo studioso individua «l’irreparabile urgenza di rappresentare, nella sua incontenibile virulenza, i processi di degradazione della carne, la purulenta carne del tossicodipendente, sui cui destini si esercitano le violentissime guerre del potere nell'”universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga» (p. 76).
In questo scritto viene sottolineato come Naked Lunch, nonostante la sua destrutturazione narrativa e la mescolanza di stili differenti, riesca a coinvolgere il lettore grazie soprattutto al suo saper trasmettere una «stringente sensazione di necessità» (p. 83). In tale romanzo non viene ancora fatto ricorso al metodo del cut-up e l’effetto straniante, che comunque lo contraddistingue, deriva, secondo lo studioso, dall’urgenza della scrittura. «Quello che Il pasto nudo ci offre è insomma uno sguardo sull’universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga. Da qui prende l’avvio quella particolarissima “continuità” che lega l’uno all’altro tutti i libri di Burroughs almeno fino a Nova Express […] e che ruota attorno al tema del controllo e del complotto» (p. 84) e, continua lo studioso, le «”aree psichiche” esplorate da Burroughs diventano qui delle aree geografiche in senso letterale, paesi fantastici che servono da sfondo e da commento alle azioni dei personaggi» (p. 84). Dunque, la galleria di figure che scorre davanti agli occhi del lettore «è innanzitutto la loro carne malata di droga in continua trasformazione, e le parole che la descrivono, un flusso di parole in caduta libera» (p. 85). Naked Lunch, attraverso la magmaticità del linguaggio, mette in scena il decadimento, la trasformazione, la dissoluzione e la perdita del corpo umano. In Burroughs però, sostiene lo studioso, non vi è alcuna visione romantica dell’innocenza originaria del corpo; il corpo è malato in quanto tale e lo è irreparabilmente.

James Ballard, una decina di anni dopo l’uscita di Naked Lunch di Burroughs, è alle prese con i suoi condensed novels poi raccolti in The Atrocity Exhibition (1970), tradotti in italiano soltanto nel 1990 proprio da Antonio Caronia con il titolo La mostra delle atrocità. A proposito di tale raccolta, sostiene lo studioso, «non c’è altro testo, forse, che sollevi temi analoghi e che possa stare al pari del libro di Burroughs quanto a intensità e lucidità della visione» (p. 87). Da una costola di questo libro di Ballard nasce il romanzo Crash (1975) che ha nella mutazione del corpo il suo nucleo fondamentale. In questo caso la mutazione viene indagata «attraverso una violenta e catastrofica variante del matrimonio tra corpo e tecnologia: la compenetrazione del corpo e della macchina nell’incidente automobilistico» (p. 87). In Ballard, dunque, interno ed esterno del corpo, corpo e mondo si compenetrano diventando «un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità» (p. 87)

nl_cronembergNel terzo intervento, “Il pasto nudo. Storia di un testo” [scritto per il saggio Naked Lunch messo in cantiere da Telemaco Edizioni nel 1992 ma mai pubblicato], Caronia ricostruisce brevemente la faticosa genesi del celebre romanzo di Burroughs a partire dalle difficoltà nel trovare un editore e, soprattutto, una diffusione in America a causa dei tanti problemi di censura.

La parte di Saccheggiare il Louvre che si occupa del rapporto di Burroughs con le arti mediali prende il via con il contributo di Vito Campanelli, Lieterary Cut-Ups. Le radici letterarie della cultura del remix”, in cui lo studioso intende verificare se la figura di Burroughs può essere collocata tra i fondatori di quello che oggi è divenuto un vero e proprio fenomeno di massa: la “cultura del remix”. Se è pur vero che ogni epoca ha fatto ricorso a frammenti di produzioni precedenti, è indubbio che mai come nell’età contemporanea si può parlare di cultura del remix come tratto distintivo. La diffusione di strumenti di post-produzione che permettono di campionare e sovrapporre fonti diverse, la moltiplicazione delle fonti a cui si può accedere ovunque ed in ogni istante e la tendenza a riversare in formato digitale quanto prodotto precedentemente dalla cultura analogica, sono alcuni dei motivi che permettono alla cultura del remix di caratterizzare la contemporaneità. Inoltre, le ingenti quantità di informazioni a disposizione richiedono memorie artificiale in grado di contenerle in maniera modulare, dunque immediatamente disponibili ad operazioni di remix.
Campanelli, che segnala come le radici della tecnica burroughsiana del cut-up possono essere individuate nelle sperimentazioni della poetica dadaista di inizio Novecento, sottolinea come ricorrendo al “gioco modulare” dei frammenti, Burroughs possa «andare oltre la definitività, quasi la sacralità, dei testi per aprire ad opere e visioni che non possono mai dirsi finite, concluse, appunto, definitive […] Anche i concetti di autorialità ed originalità sono messi fortemente in discussione attraverso i cut-up» (pp. 101-102). L’operazione burroughsiana contribuisce ad esplicitare come innovazione ed originalità non siano ormai più possibili.

Sono diversi anche i musicisti sperimentali contemporanei che hanno contribuito a diffondere la cultura del remix; si pensi alle pratiche di campionatura che rendono l’opera mai davvero conclusa in quanto chiunque può riprendere il lavoro e modificarlo ulteriormente. Proprio ai musicisti lo studioso concede un ruolo privilegiato nella diffusione di tale cultura perché più che alle fonti dell’avanguardia artistica è al mondo musicale che si deve la comprensione profonda del remix. Campanelli ricostruisce brevemente i punti salienti della storia del remix musicale a partire dalle pratiche dei DJ giamaicani che, a fine anni Sessanta, utilizzano basi ritmiche preregistrate per poi riarrangiarle. È in queste pratiche musicali che si devono ricercare le radici della cultura del remix e non nell’avanguardia dada primonovecentesca o nel cut-up burroughsiano. A suffragio di tale ipotesi nello scritto vengono riportate le riflessioni della studiosa statunitense Rosalind Krauss (L’originalità dell’avanguardia) che vede nelle avanguardie storiche il permanere del mito modernista dell’originalità; «l’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente. Un concetto questo che è incompatibile con la prospettiva del remix che si fonda proprio sul riutilizzo creativo del passato» (p.103). A differenze delle avanguardie storiche, la contemporaneità avrebbe una maggior consapevolezza di come il concetto di originalità sia ormai completamente andato in frantumi a causa dei processi di automazione nella produzione, riproduzione e distribuzione oltre che, a parere nostro, a causa di pratiche di esproprio, di appropriazione, votate ai commons, alla conquista ed alla condivisione di beni comuni in ostilità all’industria culturale ed al concetto di proprietà autoriale.

Se la rivoluzione del remix ha fatto saltare le rigide distinzioni tra autore e fruitore, tra emittente e ricevente, sostiene Campanelli, il mercato dell’arte ha reagito a ciò “commercializzando l’aura”; «Nell’attuale mercato dell’arte, infatti, ciò che si vende e si compra è l'”aura”, ovvero la possibilità di definire qualcosa come arte e in tale ottica, l’originalità dell’opera, la possibilità di attribuirne la paternità al genio solitario del presunto artista di turno, diventa l’aspetto nodale» (p. 104).
Secondo lo studioso «la cultura del remix rappresenta l’approdo finale di quel processo di sgretolamento di quel mito modernista dell’originalità che, sotto una serie di spinte concentriche (economiche, sociali, culturali e tecnologiche), giunge al pieno compimento con il diffondersi su scala planetaria dei media digitali» (p. 105).
I cut-up burroughsiani sembrerebbero un tentativo di sottrazione ai ruoli prescritti dalle principali istituzioni: famiglia, scuola, azienda, moda e comunicazione dei media. Attraverso operazioni di remix, come il cut-up, si possono sperimentare strade differenti da quelle tracciate ma, sottolinea Campanelli, «Il problema diventa, in ultima analisi, quello di capire quali condizioni devono verificarsi affinché le pratiche remixatorie attuali possano sottrarsi a quelle forme di creatività indotte dalla Rete, omologanti, massificanti al massimo grado, come nel caso delle memi, le idee-virus che si diffondono con enorme rapidità nel Web. In definitiva, quali sono le condizioni perché il remix possa accogliere l’eredità dei cut-up letterari divenendo una pratica per sottrarsi agli stampi prefabbricati dell’auto-identità?» (p. 106).

Bacon-Studies-Self-PortraitNel contributo The cut-up up the cut the up cut. Le rivoluzioni linguistiche e metodologiche di William S. Burroughs” di Linda Barone e Gerardo Guarino, gli autori si soffermano soprattutto sul rapporto tra Burroughs e la musica, mettendo in luce come una parte non irrilevante della scena musicale underground «in pieno stile cut-up, abbia tagliato frammenti del messaggio e dell’opera di Burroughs e se li sia cuciti addosso sotto forma di citazioni, tecniche del cut-up e fold in, dreamachine, ma soprattutto imparando il suo linguaggio, facendo propria la sua cultura, ergendosi spesso a parte attiva e spinta rinnovatrice diventando veicolo di un cambiamento con l’obiettivo di ricostruire il sistema sociale» (p. 108).

Il concetto di parola/lingua come strumento di controllo compare in molta della produzione burroughsiana e, secondo lo scrittore americano, se le droghe, il potere ed il sesso attivano un controllo sul corpo, la lingua esercita il suo controllo sulla mente ed è perciò necessario ricorre a tecniche come il cut-up al fine di sottrarsi a tale controllo. Gerardo Guarino, riprendendo le riflessioni di Matteo Boscarol (William Burroughs, Rock and Roll Virus. Conversazioni con: David Bowie, Patti Smith, Blondie, Devo) sottolinea come «le tematiche dell’eccesso, delle droghe, del viaggio psichedelico da una parte e quelle del controllo, dell’alienazione, della mutazione e dello spazio, dall’altro, come rifugio per l’essere umano, via di fuga dal controllo e dal condizionamento della pattumiera dell’establishment che reprime l’uomo sono topoi, luoghi, quartieri (boroughs in altre parole) centrali in certi ambienti musicali» (p. 122). Tra i musicisti che, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta, sono stati influenzati, seppure in modo diverso, dalla cultura burroughsiana lo studioso cita: David Bowie, Patti Smith, Lou Reed, Mick Jagger, Bob Dylan, John Cage, Philip Glass, Laurie Anderson, Frank Zappa, Ian Curtis, Nick Cave, Kurt Cobain, Lydia Lunch, David Johanesen, Tom Waits… e gruppi come: Blondie, Devo, Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Ramones, Sonic Youth, The Future…

Vincenzo Del Gaudio, nel suo “Il segno e il caso: William S. Burroughs tra scrittura e teatro”, affronta il processo che porta la parola scritta dal foglio alla voce trasformandola in suono declamato ed udito. La tecnica del cut-up in Burroughs, dopo aver frantumato e fatto esplodere la consequenzialità del discorso-potere, ha lo scopo di creare una nuova lingua e come prerequisito il principio della teatralizzazione della parola che «non è una semplice operazione di rappresentazione, ma ha come scopo principale rendere la lingua creata non una mera lingua rappresentabile, ma una lingua teatrabile, ovvero, da ultimo, una lingua declamabile» (pp. 128-129). La teatralizzazione in Burroughs richiede «un’attivazione sonora della lingua, attraverso un teatro della voce senza attore, attraverso una messa in presenza della lingua» (p. 129). Dunque, sostiene Del Gaudio, «La lingua di Burroughs è un corpo teatrale, un corpo teatro, una scrittura dove “non c’è più spettacolo possibile, ci sono soltanto lo scontro, la mischia con il mondo, le attrazioni e le repulsioni” [Jean-Luc Nancy, Corpo teatro]» (p. 129). La scrittura burroughsiana, per dirla con Roland Barthes (Variazioni sul tema), è una “scrittura ad alta voce”, legata al respiro, alla vita, che «biologizza la macchina di scrittura» (p. 130).

A partire da tali premesse, Del Gaudio passa ad analizzare lo spettacolo The Black Rider: The Casting of Magic Bullets, realizzato da Burroughs insieme al regista Robert Wilson ed al musicista Tom Waits, andato inscena per la prima volta ad Amburgo nel 1990. Tale spettacolo è descritto dallo studioso come «un’eroica messa in vita operativa della lingua che si fa suono e respiro e che diventa una lingua teatralizzata, un’oscena voce oscura che proviene dalla black box, una voce metallica filtrata da un megafono: “Ascoltate le mie ultime parole in qualsiasi luogo”» (p. 134).

crocif_bacon005Stefano Perna, in Mixes by Bill. Tape experiments, armi sonore”, si occupa invece del rapporto tra Burroughs e le tecnologie di registrazione, manipolazione e riproduzione del suono, viste dallo scrittore americano come strumenti dotatati di possibilità rivoluzionarie in termini conoscitivi e di decondizionamento mentale. Perna individua nel cut-up non solo un procedimento artistico ma anche la modalità di funzionamento del sistema media elettronico, dunque, secondo lo studioso, l’artista può, attraverso tale pratica, produrre «uno sfasamento “denarcotizzante, la riappropriazione critica di una routine già implicita nel funzionamento stesso dell’ecosistema mediale» (p. 138).

Le tecniche di sperimentazione di Burroughs e compagni variano dalla sovrincisione di suoni su registrazioni preesistenti (drop-in) ai rimaneggiamenti di una “frase sonora” al fine di sfruttare tutte le possibilità combinatorie, dalle manipolazioni dello scorrimento del nastro durante la fase di registrazione (inching) alla registrazione simultanea di fonti differenti provenienti da vari media ecc. Alcuni di questi procedimenti sono simili a quelli utilizzati da compositori come Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Pierre Schaeffer e Pierre Henry ma, sostiene Perna, «sebbene le procedure e alcuni risultati possano sembrare per certi versi simili a quelli dei compositori, i presupposti da cui prendono le mosse gli esperimenti di Burroughs erano estremamente differenti. Mentre i compositori di area avanguardistica con le loro manipolazioni e decostruzioni tramite nastro erano alla ricerca di nuovi metodi per generare mondi sonori sconosciuti o inauditi, sui quali esercitare però un pieno e totale controllo espressivo, una sorta di ampliamento delle loro possibilità di azione e composizione della materia artistica, l’orizzonte di Burroughs era completamente diverso, semmai più vicino all’utilizzo delle tecnologie mediali fatto da John Cage» (pp. 139-140). Per Burroughs si tratta di ricavare zone/ritagli di tempo sottratti a quel “fluire normale” degli eventi attraverso cui viene esercitato il controllo: «frammenti di realtà depurati dalle manipolazioni che la macchina del controllo impone su tutti i discorsi e i contenuti prodotti e riprodotti dal linguaggio e dai media» (p. 140). I media sonori sono pertanto per Burroughs vere e proprie armi da utilizzare ed indirizzare al meglio, visto che lo stesso esercito americano non ha mancato di condurre ricerche sulle cosiddette sonic weapon, «armi che, producendo suoni nello spettro ultra- o infra-sonico, puntano a provocare effetti deflagranti e allo stesso tempo invisibili sulle persone, andando ad agire direttamente sui “ritmi” interni del corpo e della percezione» (p. 144).

Nell’intervento di Costantino Vassallo, “William S. Burroughs e i lineamenti di una pittura autografa”, viene presa in esame l’attività pittorica di Burroughs attuata ricorrendo alla pratica degli shotgun paintings. Se nel caso del cut-up la scrittura è trattata in forma plastica, come il materiale in pittura od in scultura, all’opposto, sostiene lo studioso, Burroughs sembra trattare la pittura come la scrittura: «i dipinti scrivono. Raccontano e predicono storie» (p. 151), afferma lo stesso Burroughs (The Third Mind). Lo scrittore americano sostiene che la pittura, a differenza della scrittura, può trasmettere serie di immagini e storie contemporaneamente, dunque «lo sparo per Burroughs permetterebbe il deliberasi di una precipua quanto particolare simultaneità narrativa in buona parte promossa per via automatica» (pp. 151-152).

Mario Trino, nel suo scritto Junker’s Movies. Il cinema infetto di William S. Burroughs”, analizza il rapporto tra lo scrittore americano e gli audiovisivi a partire delle esplorazioni della tecnica del cut-up in ambito audiovisivo da parte dello stesso Burroughs insieme a Brion Gysin, Ian Sommerville ed Anthony Balch. In The Cut Ups (1967), ad esempio, la durata dei fotogrammi viene calibrata, durante il montaggio, in modo che le immagini vengano percepite dallo spettatore senza che questi abbia il tempo di analizzarle in profondità. Se il cut-up nella scrittura permette di realizzare testi liberatori che rompono la linearità del testo, «espongono al pubblico la metodologia del controllo e la distruggono» (p. 158), in ambito audiovisivo le medesime tecniche «invece di liberare lo spettatore, ne impegnano le risorse cognitive con immagini intermittenti, che alimentano disturbi percettivi e fisici» (p. 158). Si intende così «rinegoziare la natura dell’esperienza mediale e i termini della costruzione e, quindi, della percezione del reale: esattamente come nelle opere letterarie, ma con processi e tecniche tipiche del cinema sperimentale, il loro obiettivo primario consiste nel mettere in discussione la “natura della realtà percepita”» (p. 160).

saccheggiate_louvre_Burroughs_coverSe c’è un cineasta influenzato da Burroughs, questo è David Cronemberg. Molte delle sue produzioni sono popolate da corpi mutanti e tecniche di controllo esercitate su di essi e sulla mente, si pensi a film come: Rabid (Rabid – Sete di Sangue, 1977), Videodrome (id., 1983), The Fly (La mosca, 1986), Scanners (id., 1981), The Dead Zone (La zona morta, 1983), Dead Ringers (Inseparabili, 1988). In Nake Lunch (Il pasto nudo, 1992), Cronemberg decide di «utilizzare il testo di partenza per creare una sorta di intertesto, un Naked Lunch che è nella stessa misura intessuto di sostanze burroughsiane, eppure le oltrepassa verso una dimensione audiovisiva autonoma in un processo acutamente definito “a dialectis intoxication”» (pp. 163-164). Il risultato è un nuovo Naked Lunch, in forma cinematografica, che può essere inteso come un’espansione dell’immaginario di Burroughs.

Oltre al regista canadese, Trino passa in rassegna anche alcune produzioni di Guns Van Sant che sicuramente derivano dall’immaginario burroughsiano, così come alcuni corti d’animazione e cartoon realizzati da Nick Donkin, Melodie McDaniel, Malcom McNeil, Gerrit van Dijk. Non mancano nemmeno opere audiovisive in cui Burroughs è coinvolto come attore-icona ed opere documentarie. Lo studio di Trino analizza, inoltre, la genesi di Blade Runner: A Movie (1979), opera realizzata da Burroughs ispirandosi al romanzo Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse. Ad inizio anni Ottanta Ridley Scott è alle prese con una sua versione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e decide di acquistare i diritti d’uso del titolo (non dei contenuti) delle opere di Nourse e di Burroughs per il suo film. Nonostante il lungometraggio di Scott derivi dal romanzo di Dick, sostiene Trino, sono evidenti i debiti del regista nei confronti dell’immaginario iconografico burroughsiano.

I contributi relativi a “Burroughs ed il politico” si aprono con lo scritto di Giso Amendola, “Saccheggiate la Banca centrale. Dal controllo al debito, senza tacer d’eccedenti mostruosità”, in cui lo studioso individua nell’opera burroughsiana una topografia del controllo. È lo stesso Gilles Deleuze ad associare il concetto di controllo allo scrittore americano: «Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs propone per designare il nuovo mostro e che Foucault riconosce come il nostro prossimo avvenire» (p. 25). Amendola, dopo aver ricostruito il pensiero di Foucault in merito al superamento della società disciplinare ed all’avvento di quella di controllo, evidenzia come la produzione burroughsiana si leghi a tale nuovo tipo di potere: «La sua concezione del controllo non è iscrivibile nella lunga tradizione delle distopie, non c’è traccia di Grandi Fratelli, e nemmeno di panottici […] La società del controllo è un piano dinamico […] il controllo non si esercita sopra i soggetti, né li osserva: ma attraversa i soggetti stessi, li modifica e ne è costantemente modificato. In Burroughs, la concezione del controllo non passa affatto fuori dal soggetto: lo stesso tema della dipendenza sposta tutto sul campo della produzione di soggettività. La società del controllo taglia fuori qualsiasi culto ideologico del potere» (p. 28).

Il potere è dunque una relazione che attraversa e costituisce i soggetti e Deleuze spiega come l’uomo non sia più rinchiuso ma indebitato. «Il ruolo dell’indebitamento si comprende solo guardando ad una società il cui intero corpo sociale è diventato estesamente produttivo, in cui il welfare, i servizi, la vita stessa, tutta intera, delle persone diventano fonte di estrazione del valore» (p. 31). Secondo Foucault e Deleuze la resistenza non avviene (non può avvenire) a partire da “un fuori” (che non esiste); essa si produce all’interno della relazione di potere, trasformandola. Qualcosa di analogo, sostiene Amendola, avviene in Burroughs ed in lui il controllo è sempre anche una macchina di resistenza e per questo motivo intende portare la rottura dentro il linguaggio attuando pratiche di desoggettivazione e di fuoriuscita dal linguaggio al fine di cercare una via di fuga da esso. «La macchina non è più il mezzo di produzione a noi esterno, ma è intelligenza, sapere, linguaggio: è incorporata dentro di noi e dentro le forme della cooperazione sociale. Così il lavoro, potenza della liberazione umana e insieme origine della sua miseria – la croce dei Grundrisse – si dà ora finalmente come produttività sociale ampliata, dove la macchina è ormai incorporata nella vita di uomini e donne: una potenza diffusa che però continua a incontrare il comando della valorizzazione capitalistica, sempre più parassitaria e estrattiva» (p. 35). È dall’interno della cooperazione sociale che la resistenza può oltrepassare le identità imposte.

nl_cronemberg_008Claudia Landolfi, nel suo “Non potere più dire ‘sono questo’. L’Apocalisse in/di parole di William S. Burroughs”, inizia col collocare Burroughs tra coloro che Timothy S. Murphy (Up the Marks: The Amodern William Burroughs) etichetta come scrittori “amoderni” pur restando per certi versi anomalo anche all’interno di questa categoria. Landolfi individua in Burroughs una radicale critica al capitalismo ed al suo sistema di controllo attuata attraverso le sue sperimentazioni linguistiche con cui è alla ricerca di una linea di fuga dalla catena “capitale-soggettività-linguaggio”: «l’indagine sulle forme paranoiche del controllo capitalistico della società americana che trasforma le soggettività attraverso il linguaggio-virus che usa (e dunque controlla) il corpo umano è ben chiaro da Junky (La scimmia sulla schiena, 1953) a Naked Lunch» (p. 43). In generale, sostiene Landolfi, il limite politico delle opere di Burroughs è ravvisabile nel fatto che, pur ingaggiando una resistenza al controllo votata al cambiamento sociale, non sembrano andare oltre alla negazione dello status quo, mancano di prospettare nuove forme di organizzazione sociale.

Education is a virus from outer space: elementi di anatomia politica” di Alfredo Di Tore parte dalla constatazione di come l’opera burroughsiana mostri «in filigrana, come il filo rosso che lega linguaggio, corpo e mutazione sia oggetto di una deliberata confusione di piani e livelli, di una ibridazione mistificante. Più propriamente il legame tra linguaggio e corpo umano è il frutto dell’attività di quella che Giorgio Agamben definisce la macchina antropologica, un artificio che propone incessantemente una distinzione fittizia tra umano e non umano attraverso un processo arbitrario, ideologicamente orientato, di inclusione/esclusione. Secondo lo studioso in tutta l’attività di Burroughs è possibile rintracciare un tentativo, costante ed efficace, di smantellare la macchina antropologica» (pp. 50-51). Attribuendo al linguaggio la natura di virus, Burroughs dà corpo al linguaggio conferendogli una dimensione parassitaria. Il corpo funzionerebbe dunque come un decodificatore che reagisce al virus del linguaggio. Il rapporto identità/corpo/ambiente è, in Burroughs, un esercizio di potere che deve essere fatto saltare e l’ultima parte dell’intervento di Alfredo Di Tore analizza come la mutazione, in Burroughs, sembri offrirsi come possibilità.

locandina_saccheggiate_louvre_003Concludiamo questa lunga disamina di Saccheggiare il Louvre, con il contributo di Antonio Lucci, “Sciarada gattesca. Schizotecniche della scrittura in William Burroughs”, che prende il via da alcune riflessioni sulle “tecniche culturali” sviluppate dalle Kulturwissenschaften tedesche, in particolare dal filosofo viennese Thomas Macho e dallo studioso tedesco Friedrich A. Kittler. Lucci riprende gli studi di Macho a proposito della “divisione del soggetto” alla base delle “pratiche di solitudine”, tra cui ha un posto eminente la scrittura, mentre da Kittler recupera l’idea che «il soggetto è creato dal sistema di media che utilizza, nella misura in cui ne fa uso» (p. 64). A partire da tali linee guida, Lucci analizza l’opera burroughsiana evidenziandone la «funzione di raddoppiamento, quindi di sdoppiamento e di Spaltung, che assume la scrittura […] andando a vedere come a questa funzione di sdoppiamento scritturale faccia pendant una serie di contenuti narrativi opposta e parallela, vale a dire quella della moltiplicazione, proliferazione ed ibridazione dei soggetti della nella narrazione, che si pone come un affollato e brulicante “brodo primordiale” da cui escono, per poi ricadere nel calderone della scrittura libera e magmatica, figure allucinatorie, allunanti e allucinate, tipiche di una dimensionalità simbolica altra, atta a segnare i (non-) confini di un cosmo anumano» (p. 65).
L’analisi di Lucci si concentra su The Cat Inside (Il gatto in noi, 1986), opera tarda di Burroughs, in cui la funzione del doppio assume la massima evidenza. Secondo lo studioso le tecniche culturali della scrittura, la distruzione del soggetto-scrittore, della scissione della soggettività, costitutive della scrittura burroughsiana, sembrano, in questo testo, essere superate «grazie ad un equilibrio soggettivo ritrovato, attraverso una discreta, magica, sospesa, presenza della dimensione dell’alterità radicale, tanto estranea quanto vicina […]: quella dell’animale domestico, che dà a Burroughs il senso e la dimensione esistenziale e affettiva di una comunità tra i viventi non più vissuta con ferocia critica, ma con l’empatia della compassione» (p. 71).

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Jim Jarmusch: solo i malinconici sopravvivono https://www.carmillaonline.com/2014/05/30/i-malinconici-sopravvivono/ Thu, 29 May 2014 22:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14917 di Alessandro Morera

MoreraJarmuschSolo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, 2013

Fin dalla prima inquadratura Jim Jarmusch segnala allo spettatore la poetica dominante di questa sua ultima opera: il cielo stellato che si trasforma in una panoramica dall’alto su un disco in vinile che ruota su un piatto; un vinile non a 33 giri, ma addirittura un 45 giri. La nostalgia per un passato analogico che si scontra con un presente digitale, un passato dove i rapporti umani non eran mediati dalla freddezza della tecnologia digitale, e a tal proposito si noti come i vampiri protagonisti del film [...]]]> di Alessandro Morera

MoreraJarmuschSolo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch, 2013

Fin dalla prima inquadratura Jim Jarmusch segnala allo spettatore la poetica dominante di questa sua ultima opera: il cielo stellato che si trasforma in una panoramica dall’alto su un disco in vinile che ruota su un piatto; un vinile non a 33 giri, ma addirittura un 45 giri. La nostalgia per un passato analogico che si scontra con un presente digitale, un passato dove i rapporti umani non eran mediati dalla freddezza della tecnologia digitale, e a tal proposito si noti come i vampiri protagonisti del film si ostinino a chiamare gli esseri umani “zombie”. Avviso ai possibili futuri spettatori del film: non cercate un intreccio narrativo, né tanto meno vampiri di moda in questi tempi, non troverete atmosfere alla Twilight o alla True Blood; in compenso troverete vampiri che si nutrono di vero sangue umano (seppur i protagonisti lo comprino corrompendo medici e infermieri, i quali non possono far altro che rivender loro sangue inevitabilmente ‘corrotto’ da droghe e medicinali, segni artificiali dei tempi correnti), vampiri archetipici che escono solo di notte, non a caso i due protagonisti si chiamano Adam ed Eva (interpretati magistralmente da Tom Hiddleston e Tilda Swinton). Vampiri che esistono fin dalla notte dei tempi originari dell’essere umano, vampiri che per questo motivo devono trovare la maniera di combattere la noia, l’apatia e la solitudine tipiche di questi tempi contemporanei: nonostante ciò, la Melancholia, ossia la bile nera di aiaciana memoria, non è un sentimento solo per pochi esseri umani che vivono in una società alienante come quella attuale, infatti Jean Starobinski la individua e la analizza già a metà anni Settanta nel suo bel saggio sull’Aiace di Sofocle, presente nel suo libro I Tre furori, fissandola poi definitivamente in un suo più recente testo, L’inchiostro della malinconia. Il film di Jarmusch però, sembra ribaltare l’analisi starobinskiana, laddove alla furia cieca di Aiace dominato inconsapevolmente dalla bile nera, caratterizza i protagonisti dotandoli di astuzia, intelligenza e forza di persuasione che gli derivano dalla consapevolezza di aver vissuto epoche migliori. Nel film i vampiri non subiscono situazioni estreme cadendo nella violenza o nell’inerzia dominati da un potere superiore, bensì, consci di essere il prototipo del genere umano, solo alla fine, in seguito alla morte del loro nume tutelare, Cristopher Marlowe – John Hurt, si vedono costretti dalla loro natura vampiresca a nutrirsi attraverso il loro rituale più atavico e naturale. In una società che ha abbandonato l’immaginazione, la fantasia e la comunicazione umana, solo i veri amanti riescono a sopravvivere cercando, attraverso la Melancholia e l’astuzia, di celebrare l’essenza profonda e più veritiera dell’essere umano e dei suoi impulsi più naturali. Jarmusch realizza un film elegante, pieno di fascino e non privo di risvolti sottilmente ironici, accompagnandolo con una colonna sonora magistrale, non dimenticandosi di rendere omaggio, attraverso una fotografia messa accanto a quelle di altri grandi del passato quali Shakespeare, Lord Byron, Darwin, Mark Twain, a un suo caro amico, quel genio assoluto che è stato Joe Strummer, scomparso prematuramente nel dicembre del 2002. In un film nel quale la bellezza delle notti, grazie a un sapiente uso della fotografia da parte di Yoricjìk Le Saux, risalta tanto quanto la colonna sonora, non ci resta che concludere che Only lovers left alive… because the night belongs to lovers!

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Patti e Robert: Just Kids https://www.carmillaonline.com/2013/05/29/patti-e-robert-just-kids/ Tue, 28 May 2013 22:08:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6013 di Mauro Baldrati

[Just Kids, di Patti Smith, Feltrinelli 2010, pp 293 € 19.00]

Patti_RobertPatricia Lee Smith era una ragazza normale. Non beveva, non amava le droghe, né gli eventi mondani, dove si sentiva fuori posto, impacciata, non conforme. Non era solo per la sua educazione cattolica. Anche Robert proveniva da una famiglia osservante. Da ragazzino era stato chierichetto. Lui le usava le droghe, acidi, fumo, speed ball, e aveva come obiettivo l’entrata a pieno titolo nell’ambiente mondano che seguiva l’onda lunga della Factory. Quando, nel 1969, dopo due anni di privazioni, di fame, di stamberghe pidocchiose (in senso letterale, si [...]]]> di Mauro Baldrati

[Just Kids, di Patti Smith, Feltrinelli 2010, pp 293 € 19.00]

Patti_RobertPatricia Lee Smith era una ragazza normale. Non beveva, non amava le droghe, né gli eventi mondani, dove si sentiva fuori posto, impacciata, non conforme. Non era solo per la sua educazione cattolica. Anche Robert proveniva da una famiglia osservante. Da ragazzino era stato chierichetto. Lui le usava le droghe, acidi, fumo, speed ball, e aveva come obiettivo l’entrata a pieno titolo nell’ambiente mondano che seguiva l’onda lunga della Factory. Quando, nel 1969, dopo due anni di privazioni, di fame, di stamberghe pidocchiose (in senso letterale, si beccavano davvero i parassiti), iniziarono a frequentare il ristorante “Max”, vicino al Chelsea Hotel, il sogno di Mapplethorpe era di sedersi finalmente al tavolo ovale, dove bivaccava la corte della Factory. Andy Warhol, uno dei due miti newyorkesi di quegli anni (l’altro era Bob Dylan), sedeva passivo, distratto, straniato, rarefatto. Ogni tanto regalava ai fortunati di turno un’occhiata, un complimento, una battuta. Prima di uscire di casa Robert curava ossessivamente l’abbigliamento, gli accessori, i capelli. Voleva essere originale, eccentrico, voleva farsi notare. Senza un centesimo in tasca, aveva fatto sua la famosa frase di Hemmings in Blow-up: “Voglio guadagnare un mucchio di soldi./Per fare cosa?/Tutto!” La Patti lo osservava, sorrideva. Non apprezzava Warhol né il suo ambiente, perché era effimero, e celebrava il mondo com’era, mentre lei voleva cambiarlo. Proprio come il “suo” Rimbaud. Però seguiva Robert. L’avrebbe seguito ovunque. Forse perché lo amava. Forse perché era il suo partner artistico, col quale c’era un’intesa perfetta. O forse per tutte queste ragioni, perché erano amici, erano complementari. Perché erano insieme.

Questa infatti è una delle tematiche dell’autobiografia poco reticente di Patti Smith. Quando lei arriva a New York dal New Jersey meridionale, nel 1967, spinta da una voglia ancora confusa, ma selvaggia, di essere un’artista, dall’urgenza di sottrarsi al destino che si prospetta per una ragazza come lei – vale a dire diventare una cameriera come sua madre, che vive soprattutto delle mance dei clienti – da una gravidanza non voluta, e dal dolore di avere consegnato la figlia appena nata a una famiglia adottiva, conosce un ragazzo eccentrico, bello, geniale, buffo: Robert Mapplethorpe. Si intendono subito. Sono due vagabondi, senza un dollaro in tasca. Sono aspiranti artisti. Sono anime gentili e pure. Si innamorano. Vanno a vivere insieme.

patti_smith-mapplethorpeNon c’è nulla di smart in questi 2-3 anni di miseria. Cercano i lavori più svariati (la precarietà era assoluta, si veniva licenziati da un giorno all’altro), camerieri, cassiera, facchino. Hanno il problema immediato del cibo. Saltano parecchi pasti, devono risparmiare anche i centesimi. Cercano mobili e vestiti tra i rifiuti. Vagano per la città cercando di capire cosa fare, come sopravvivere. Di notte disegnano, di continuo. Patti scrive poesie, ispirata dai suoi miti, Genet, Dylan Thomas, William Blake, Rimbaud. Robert ha il pallino delle installazioni, e delle collanine. E’ sempre in attività: confeziona scatole colorate, utilizza stoffe, legno, metallo, crea collages. Eppure non sono due disperati. A volte sono tristi, isolati e affamati, ma sono felici. Perché si vogliono bene, si rispettano e si proteggono. Si fidano. Si sostengono. Sono in due. Sono uniti. Dal racconto emerge chiara la forza dell’unione, della condivisione. Insieme sfidano il mondo, le avversità. Insieme non si perde, mai, perché non esiste il concetto di sconfitta.

Viene spontaneo l’accostamento con altre generazioni di giovani artisti spiantati, disoccupati, affamati. Anche i beat, una ventina di anni prima, vagavano per le città senza un dollaro in tasca e dormivano dove capitava, spinti dalla loro voglia di vivere negata, dalla ricerca frustrata dell’infanzia perduta. Ma erano soli, dentro. Soli con le loro debolezze, con le loro paure. E per questo perdenti, battuti. Mentre ancora una decina d’anni prima, l’anarchico mistico Henry Miller, all’inizio a New York e poi a Parigi, viveva in condizioni estreme di miseria, di fame, ma era con lei. Con la moglie June, Mona nei romanzi. Una coppia granitica, invincibile. E non si trattava certo di una coppia chiusa. Lei faceva la prostituta e portava a casa i soldi (ed era anche discretamente pazza), lui scroccava inviti a cena dagli amici, e magari mentre il marito si assopiva si concedeva una sveltina con la moglie. Henry e Mona erano una coppia trasgressiva. Insieme abbattevano tutti i muri a calci e lui era una happy rock.

Robert Mapplethorpe era trasgressivo, e anche Patti Smith lo era. Ma lei cercava la trasgressione soprattutto con la mente, con l’arte, la poesia, perché in fondo era una ragazza semplice, concreta. Una material girl, ma coi piedi per terra, nulla a che fare coi lustrini e le fuoriserie di Madonna. Invece Mapplethorpe la inseguiva con tutto se stesso, col proprio corpo, con le sue pulsioni spesso in conflitto tra loro. Era trasgressivo in arte, ma non gli bastava. Entrava nell’arte, col corpo e con la mente. Faceva di se stesso un oggetto artistico trasgressivo che spesso finiva per sconfinare nel distruttivo. Patti lo sorprende un giorno nudo davanti allo specchio, alterato, fuori di testa, mentre ripete ossessivamente: “ti amo, ti odio, ti amo, ti odio”. Patti lo conosce a fondo, lo capisce, lo rispetta e lo aiuta. Ma nulla può contro il demone che spalanca le ali nere e lo risucchia nella sua ombra: “l’assillo cattolico della lotta tra il bene e il male stava riaffiorando, quasi imponendogli di scegliere tra l’uno e l’altro”.

Patti_just-kidsJust Kids è soprattutto questo: il racconto autobiografico di una importante unione tra giovani anime ribelli, assetate di purezza, che continuano a essere insieme anche quando prendono strade artistiche e sentimentali diverse. Patti dalla poesia e dal disegno passa alle canzoni, quasi per caso, spinta da Robert e da altri amici. Robert scopre la fotografia, che vivrà come un’attività assoluta, metafisica, usandola come ricerca della santità attraverso il sadomasochismo gay estremo, che alternerà con immagini di fiori di grande lirismo. E’ anche un avventuroso, eroico romanzo di formazione e un ritratto straordinario di Robert Mapplethorpe. Il tutto sullo sfondo di uno scenario epico, dove ci sono tutti: al Max a un tavolo sedeva Janis Joplin, col suo gruppo. Sempre su di giri, tubava con qualche ragazzo carino, il quale a fine serata senza dire una parola se ne andava con “una delle sue tirapiedi”. E lei restava sola. Distrutta. Disperata. Patti l’accompagnava nella suite del Chelsea, la metteva a letto, le asciugava le lacrime, cercava di arginare il suo strazio senza fine. A un altro tavolo Jimi Hendrix mangiava col cappello in testa, di fronte a una ragazza bionda. Jimi, timido e gentile, che un giorno la soccorre, mentre è moralmente a terra, la incoraggia, e si confida con lei: aveva appena acquistato un locale per fondare uno studio di registrazione, progettava di riunire molti musicisti di diversa estrazione e di farli suonare, per giorni, per mesi, finché non avrebbero trovato un linguaggio musicale comune. “Sarà la musica della pace, capisci?” Quello studio diventerà l’Electric Lady, dove, cinque anni dopo, Patti Smith registerà Horses, con John Cale come produttore.

patti-smith.william-burrougNella hall del Chelsea passavano poeti, musicisti, top model, drag queen, stilisti, pittori. Un tipo si avvicinò mentre lei aveva sulla spalla un corvo impagliato, l’accarezzò sulla testa e disse: “sembri proprio un corvo. Un corvo gotico”. Era Salvador Dalì. Passava Gregory Corso, il più grande dei poeti beat, che divenne uno degli amici più cari: enfatico, furioso, entusiasta, ai reading balzava in piedi e si metteva a strillare: “che razza di noia! Che merda! Datti una mossa!”. William Burroughs, “giovane e vecchio al contempo, inarrivabile per una ragazza, ma l’ho amato comunque”. Johnny Winter, surreale, poetico, travolgente, pieno di blues, un’altra delle grandi amicizie di quegli anni.

Just Kids è un racconto che fa tremare i polsi dei più anziani. Quelli che c’erano, o erano nei pressi, e a vari livelli percorrevano le stesse strade. Ai meno anziani, che non c’erano ma hanno avuto genitori di quella generazione, di quelle culture e di quegli stili. E può far rizzare il pelo ai giovanissimi, che a distanza di più di quarant’anni continuano a guardare quei tempi con curiosità che a tratti si fa ossessiva, perché sognano quelle opportunità, quella creatività, quella libertà. Just Kids, senza mai affermarlo, può raccontare la battaglia per rendere reale un ideale. Può aiutare a capire che quando si viaggia per le città desertificate dalla televisione, dalla disoccupazione, dai papi e dai principi, bisogna lottare insieme. E quando il mondo è sempre più triste e ostile, e tutto sembra andare in disfacimento, la battaglia più importante si vince combattendo non contro l’esterno, ma contro la propria solitudine pubblica.

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