patriottismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Egemonia e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2023/08/17/egemonia-e-rivoluzione/ Thu, 17 Aug 2023 21:55:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78626 di Nico Maccentelli

Introduzione Questo intervento non vuole dare certo un quadro esaustivo dell’attuale fase politica italiana e internazionale, ma articolare alcuni aspetti politici, che sino a oggi non mi risulta siano stati sviscerati con compiuta contezza. L’eredità analitica della Terza Internazionale, ci diceva che i processi rivoluzionari hanno delle proprie peculiarità in base alle composizioni sociali e ai rapporti tra classi sociali tra loro, seguendo uno schema interno alle diverse formazioni economico-sociali: rivoluzioni democratico-borghesi nei paesi in via sviluppo (o sottosviluppati) con diverse gradazioni in base al livello raggiunto [...]]]> di Nico Maccentelli

Introduzione
Questo intervento non vuole dare certo un quadro esaustivo dell’attuale fase politica italiana e internazionale, ma articolare alcuni aspetti politici, che sino a oggi non mi risulta siano stati sviscerati con compiuta contezza.
L’eredità analitica della Terza Internazionale, ci diceva che i processi rivoluzionari hanno delle proprie peculiarità in base alle composizioni sociali e ai rapporti tra classi sociali tra loro, seguendo uno schema interno alle diverse formazioni economico-sociali: rivoluzioni democratico-borghesi nei paesi in via sviluppo (o sottosviluppati) con diverse gradazioni in base al livello raggiunto dalle forze produttive e alla crescita dei mezzi di produzione del capitale nella formazione delle classi operaie, fino alle rivoluzioni proletarie socialiste a guida proletaria nei paesi a capitalismo avanzato. Ora nel sistema mondo, per essendoci ancora le diverse gradazioni di sviluppo e la diversità delle composizioni sociali, non si può non aver capito come la questione nazionale sia in realtà questione dirimente anche nelle società complesse, di fronte a un dominio imperialista fortemente gerarchizzato che ridisegna le colonie e neocolonie anche dentro la catena dei paesi imperialisti stessi.

Le lotte per l’emancipazione di settori sociali e di classe, per la liberazione della donna, per l’indipendenza nazionale, sono tutte parti di un mosaico che che definisce nella sua generalità la lotta di classe nel sistema capitalista. Dentro questo sistema vigente vi sono forme di egemonia e di oppressione differenziate che vanno a comporre un mosaico assai frammentato. Le lotte non seguono un percorso e non hanno un posizionamento definito, ma sono frammentate e spesso anche in conflitto tra loro.
Tuttavia, le particolarità rischiano di fuorviare la direzione rivoluzionaria giusta nei conflitti sociali e ogni particolare rischia di assumente una sua centralità. È il limite contraddittorio delle istanze sociali spesso giuste e sacrosante, ma che non colgono più il cuore del problema dell’oppressione generale da parte dell’imperialismo sui soggetti, sicché ciò favorisce quel lavoro controrivoluzionario che stiamo vedendo nelle “rivoluzioni” e nei movimenti colorati.
Un primo passo per comprendere se delle istanze di liberazione siano manipolate e usate contro la rivoluzione socialista stessa e quindi siano antimperialiste o siano nella direzione giusta è appunto la direzione stessa che prendono nel conflitto, la scelta di campo.
L’egemonia sociale, ma soprattutto politica (in dialettica tra loro) definiscono il carattere rivoluzionario o quanto meno progressivo di un processo. Per meglio intenderci vanno fatti esempi concreti.
Un esempio tipico riguarda il Rojava da una parte e l’Ucraina dall’altro.
Due contesti che rivelano come i nostri fan della rivoluzione curda abbiano reso un abbaglio, riportando meccanicamente la Resistenza del popolo curdo, il municipalismo comunitario dell’autogestione popolare democratica dei popoli in quella zona, in una frase: l’autodeterminazione dei popoli in un contesto in cui questa no c’è: l’Ucraina: la direzione politica e le forme di gestione del potere sono addirittura naziste banderiste, non vige certo alcuna resistenza di popolo ma una direzione dall’alto della NATO nella guerra contro la Russia, dopo anni di aggressione sanguinaria alle popolazioni russofone del Donbass. Semmai è nel Donbass, tra la popolazione russofona che si è ripresentata questa questione, dopo il golpe di Euromaidan e una vera e propria pulizia etnica da parte dei nazi banderisti. Semmai è la miriade di azioni di Resistenza alla repressione della SBU (servizi segreti, la Gestapo ucraina), atti di diserzione, tentativi di espatrio e di darsi alla macchia per non divenire carme da cannone a rappresentare l’autodeterminazione del popolo.
Il primo processo di guerra rivoluzionaria contro poteri esterni (la Turchia), ossia quello curdo nel Rojava è a direzione popolare dal basso, esattamente come lo zapatismo o le guerriglie come quella filippina. E poco importa, in questo caso, se tatticamente può avere avuto un sostegno militare degli USA, nel fornire loro appoggio contro il Daesh. Qui siamo davvero su un terreno della tattica come fu per il CLN e in particolare i comunisti nella guerra al nazifascismo del 1943-45, dove l’apporto militare degli alleati (paesi imperialisti) fu addirittura decisivo per la Liberazione.
Il secondo è il mero esercizio sotto il giogo anglo-euroimperialista di un regime nazista che ha soppresso in Ucraina le più elementari libertà democratiche, perseguito le opposizioni, adottato assassinii e torture come prassi dominanti, in un quadro politico nei rapporti tra potere e opposizioni del tutto inesistenti. Un paese terrorista che nel perseguire le politiche di potenza e di aggressione dell’unipolarismo, non ha nulla a vantaggio delle masse popolari di quel paese.
Dunque fa specie che personaggi della sinistra radicale, “libertari” che hanno vissuto l’esperienza del Rojava, o sindacalisti di base, o ancora realtà che si dicono autonome, municipaliste o anarchiche finiscano con il sostenere i nazi-banderisti del governo di Kiev e in ultima analisi la NATO.

 

1. Cosa ha significato la lotta politica di massa in questo periodo di pandemia da coronavirus Covid19: indipendenza e classe

Molti soggetti e piccole organizzazioni si sono battute in questi tre anni contro le restrizioni che sono state adottate dai sistemi politici dominanti e contro l’imposizione dei sieri genici alla popolazione. C’è chi si è limitato a vedere la questione come un attacco alle libertà civili che definisco borghesi, ossia nate dai cambiamenti messi in atto dalle borghesie liberali negli ultimi duecento anni, considerandoli come libertà assolute ed esaustive, ma senza inquadrare il problema dentro gli scopi fondamentali dei ristretti ceti dirigenti che sono essenzialmente quelli del capitalismo dominante.
Questo insieme di vertenze avevano il denominatore comune i principi costituzionali che sono inscritti nella nostra Carta, nella visione di una loro applicazione che non è mai stata realmente applicata e quindi della conquista finalmente di una sovranità nazionale, del popolo per il popolo.
La comprensione di un passaggio autoritario di portata epocale, ossia che ha chiuso e aperto un’epoca nuova per le democrazie liberali nel divenire democrature: democrazie borghesi senza nemmeno una soglia minima di rappresentatività, non ha corrisposto a una piena comprensione di questo passaggio, poiché la fase precedente è stata letta da una pletora di apprendisti dell’antagonismo interclassista come un periodo ideale, democratico, non viziato (in realtà) dalle politiche di regime delle classi dominanti del capitale e quindi priva di un’analisi marxista rivoluzionaria che ci porti dalla fase precedente a quella attuale con una lettura politica coerente.
Infatti, dopo il ciclo espansivo del capitalismo nel secondo dopoguerra del secolo scorso, alla crisi strutturale e di sistema si accompagna da circa quattro decenni una risposta neoliberista di distruzione dello stato sociale e della politica di sistema keynesiana con l’inizio del tatcherismo e reaganismo e a una progressiva separazione tra democrazia rappresentativa e politica coercitiva dominante di tali ceti basata sul TINA: there is not alternative. Questo passaggio politico autoritario è il prodotto storico ed epocale di questo processo di dominio di classe e di sistema a livello planetario, con il quale procede l’imperialismo, ossia la catena di paesi imperialisti a dominanza USA.

Considerata questa traiettoria politica di sistema, il passaggio pandemico coincide con l’avvento di un totalitarismo dei grandi gruppi oligopolistici multinazionali e finanziari sul resto dei settori sociali, compreso il piccolo capitalismo e le attività territoriali di prossimità.
Dunque, le restrizioni delle più elementari libertà, per un approccio marxista al problema, rappresentano una vera e propria svolta autoritaria, biopolitica, tecnologica di controllo e irrigimentazione dei rapporti sociali e di produzione e circolazione del capitale, che oppongono le oligarchie transnazionali del capitale al resto della società che vive e produce in un dato territorio.
Per questo, le lotte dei sabati contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, contro il lockdown e le norme che di sanitario non avevano nulla, sono elemento fondamentale sia sul terreno della questione nazionale, dell’indipendenza dall’oligarchia sovranazionale del capitalismo, sia su quello della lotta di classe tra basso contro l’alto, tra classi popolari che vanno dal proletariato più o meno precario ai ceti medi colpiti da tale irrigimentazione, contro i ceti politici di regime e gli apparati che dentro lo stato capitalista conducono per campagne emergenziali, in modo bipartisan, destra o sinistra che sia, gli interessi del TINA, dalla pandemia alla guerra. Occorre pertanto comprendere che la politica di questo sistema di potere del grande capitale degli oligopoli multinazionali e finanziari ha due fronti:

a) un fronte esterno di riaffermazione manu militari dell’egemonia atlantista messa in discussione dalle tendenze economiche e geopolitiche al multipolarismo di popoli e paesi sul piano internazionale, ben rappresentata dal suo epicentro bellico (su cui non mi soffermo per ragioni di spazio) della guerra in Ucraina, gravida di un’escalation autodistruttiva in una guerra su vasta scala, dove l’obiettivo è separare la Russia dall’Europa e sottomettere quest’ultima al disegno suprematista dell’anglosfera a dominanza USA;

b) un fronte interno, in cui il grande capitale finanziario e multinazionale riconduce le filiere, i flussi di capitale, i rapporti commerciali e di committenza, le modalità consumistiche, l’accesso alle risorse, i sistemi di relazioni sociali e di welfare, la catena del valore sotto il proprio diretto controllo, configurando questo totalitarismo politico, tutt’altro che transitorio. In questo si spiega il superamento della democrazia borghese liberale e non certo il suo trionfo. Per questo anche se spontaneamente e istintivamente sono scese in campo componenti di borghesia colpita da questa irrigimentazione.
Questa duplicità delle questioni pone una duplicità nella lotta per l’egemonia. Ma questo lo vedremo in seguito, sul finire di questo saggio.

 

2. Lo scenario internazionale

Nello scenario internazionale vediamo due tendenze scontrarsi:
- quella egemonica dell’imperialismo atlantista a dominanza USA e i suoi vassalli, i paesi imperialisti come UE Canada, Giappone e Australia
- e dall’altra potenze mondiali e regionali capitaliste come Cina e Russia, India ossia i BRICS, ma anche paesi che procedono in processi di transizione al socialismo, da Cuba al Vietnam, dalle esperienze sudamericane di ALBA e il bolivarismo.
Questa seconda tendenza rappresenta nel complesso quella parte maggioritaria di mondo che non costituisce un blocco omogeneo come quello atlantico. Sono paesi spesso in frizione tra loro, ma che rappresentano la spinta alla decolonizzazione, ossia a rompere i vincoli coloniali e neocoloniali della supremazia dell’Occidente che fino ad oggi si è espressa con lo sfruttamento delle risorse, il monopolio commerciale e finanziario: dall’egemonia del dollaro a quella del franco africano.
È uno scenario diverso dalla tripartizione di mezzo secolo fa tra capitalismo, socialismo e paesi non allineati, ma è comunque l’espressione che assume oggi la contraddizione globale tra imperialismo e popoli emergenti, per la quale un sincero schierarsi verso questi ultimi, al di là dei singoli sistemi politici in campo, costituisce una scelta di campo strategica antimperialista e internazionalista.
Questo schierarsi con il multipolarismo e la decolonizzazione, con tutte le loro contraddizioni sociali e culturali, non significa ripudiare lotte sacrosante come la laicità dello stato contro le teocrazie, l’emancipazione della donna o la stessa lotta proletaria contro gli specifici capitalismi, ma comprendere che l’emancipazione globale dal lavoro salariato, la democrazia socialista dei consigli e della socializzazione dei mezzi di produzione passa strategicamente dall’individuazione del nemico principale su scala planetaria, che è unipolare e suprematista sul piano economico, dalla sua sconfitta e dall’affermazione di un sistema mondiale multipolare che aprirà a nuovi cicli di lotte popolari in ogni specificità, ma sopratutto ci farà uscire dallo spettro sempre più imminente di un conflitto atomico. E dalla polvere radioattiva non nasce nessuna società democratica, né tanto meno socialista. Così come, nella migliore delle ipotesi, non nasce certo da un’imposizione bio-tecno-fascista di modelli di sfruttamento e consumo basati su un sempre più goebbelsiano sistema mediatico di consenso valoriale. Non nasce nulla di buono da un società della sorveglianza discriminatoria e selettiva sui comportamenti compatibili e acquiescenti, aderenti alle varie emergenze imposte e alle campagne del terrore allarmistico di cui il capitalismo unipolare si nutre e domina.
Occorre dunque riappropriarci di una politica del cambiamento radicale dei rapporti sociali e di forza tra classi, a partire dalla composizione sociale, dai settori sociali che nel nostro paese ci troviamo ad avere, per quello che essi sono, senza rievocare rivoluzioni del passato nelle modalità in cui sono avvenute e costruirci mentalmente proletariati granitici e coesi, che esistono solo nei giornaletti e nei proclami di una sinistra comunista ormai in confusione e priva di una visione realistica della fase e del contesto socioeconomico e culturale che ha davanti a sé.
Occorre comprendere le contraddizioni economiche e sociali, e quindi politiche, della nostra contemporaneità, che muovo dialetticamente bidirezionalmente dal generale al particolare e dal globale al locale, riconoscendo in questa dialettica le tre contraddizioni fondamentali dell’epoca attuale.

 

3. Le tre contraddizioni


Partendo dal generale e arrivando al particolare, dal mondiale al locale, ci troviamo davanti a tre contraddizioni entro le quali operare, senza distorsioni meccanicistiche e nostalgie del passato che fu:

1. La contraddizione tra imperialismo e popoli/paesi (già trattata nel punto precedente), dentro la quale in chiave capitalistica o welfariana-statalista, pur burocratica ci stanno varie forme di capitalismo regionale o nazionale. Ma anche esperienze di carattere socialista, come il bolivarismo. In sintesi: la contraddizione tra unipolarismo e multipolarismo. Da una parte abbiamo un blocco coeso di paesi imperialisti che riproducono, o intendono farlo, le dinamiche di accumulazione capitalistica di sempre, di stampo predatorio coloniale e neocoloniale, di supremazia negli scambi basati sul dollaro, di controllo dei flussi economici sulle materie prime, sulle filiere, sulla ripartizione dei mercati e sulle politiche di sfruttamento intensivo della forza-lavoro. Dall’altra il resto del mondo, piuttosto diversificato per realtà economico-sociali e culturali.
A questa politica di supremazia, quindi, non corrisponde un blocco contrapposto omogeneo, se non un’alleanza tra due potenze: Cina e Russia. Il resto è una rete di partenariati a livello mondiale, coordinati da alleanze economiche come i BRICS o l’alternativa alla Banca Mondiale: NDB (New Development Bank), che sta attraendo sempre di più paesi. Più che di “interimperialismo” (con buona pace delle tesi neutraliste e manichee nel loro essere dottrinarie quanto eurocentriche) si tratta di uno scontro tra il dominio colonialista e predatorio ultrasecolare del sistema imperialistico occidentale e il processo di decolonizzazione e sganciamento della parte di mondo fatta di questi paesi e popoli in via di sviluppo.

2. La contraddizione dentro le nazioni stesse tra le diverse frazioni di capitale e di borghesia, che corrisponde del resto a quelle frazioni capitaliste che rispondono alle politiche di potenza del capitalismo unipolare e delle sue cancellerie occidentali e dall’altra quel piccolo capitale che pone i suoi interessi economici e le sue attività sul territorio di riferimento.
In definitiva è la contraddizione interna agli stati nazione tra classi capitaliste locali, nazionali e imperialismo atlantista unipolare. E anche in questo caso vive la lotta di classe tra diverse frazioni borghesi: capitale sovranazionale delle oligarchie dell’alta finanza e delle multinazionali e piccolo capitale, borghesia nel vero senso della parola, ossia che ha i suoi interessi prevalenti nel borgo, mentre questo viene devastato dalle grandi filiere della produzione multinazionale, della logistica che impone nuove modalità di accesso alle merci e al consumo, l’amazonizzazione della circolazione del capitale. A farne le spese, dunque, è anche l’economia di prossimità. E anche in questo caso dentro i settori sociali legati al territorio abbiamo la composizione di classe proletaria, spesso non facilmente distinguibile se non dal fatto che il TINA delle politiche neoliberiste imposte dal grande capitale oligopolistico ha imposto il blocco dell’ascensore sociale e la pauperizzazione o proletarizzazione di vasti settori di piccola e media borghesia. Sicché ci si chiede se una famiglia composta da un piccolo commerciante ortofrutticolo con moglie operaia in cassa integrazione è proletaria o piccolo borghese. O ci si chiede per esempio se un impiegato licenziato che si mette a fare il fontaniere con partita IVA è collocabile sempre nella medesima categoria del lavoro subordinato o cosa un operaio o cosa. Una visione schematica dell’esercito industriale di riserva, dopo decenni in cui si è passati dall’operaio massa all’operaio sociale, e in cui abbiamo avuto forti cambiamenti tecnologici nei processi di produzione, non solo non aiuta ma è fuorviante e occorre agire nell’ambito di una composizione sociale subordinata estremamente (questo sì) fluida e mobile dentro i recinti dello sfruttamento capitalistico nelle sue varie modalità di lavoro subordinato.

3. È precisamente questo il terzo punto: il proletariato con la sua contraddizione capitale/ lavoro esiste, è il cuore epocale e apicale del problema, la contraddizione di ultima istanza, che non va trascurata, ma fatta vivere dentro le altre contraddizioni. Chi la mette al centro tatticamente e meccanicisticamente agendo su vecchi schemi politici e modelli di classe anacronistici, elidendo, ossia, cassando le altre due contraddizioni è destinato a fare la fine che sta facendo: essere esterno e marginale allo scontro tra unipolarismo e multipolarismo, tra popoli ed élite, nel conflitto intercapitalistico e interborghese in atto, come se la questione non riguardasse il proletariato stesso. Significa costruirsi un recinto politico avulso dal resto della società e della classe stessa, dalla composizione sociale di classe, restringere il campo dei referenti sociali e condannarsi alla marginalità politica. E nel nostro paese la forza politica di un soggetto di classe non esiste proprio per questo,. Si approda, per esempio, a un mutualismo missionaristico, che surroga la funzione del pubblico di welfare invece di rivendicarlo come sottrazione/riappropriazione di ricchezza sociale, pianificazione e centralità dei bisogni sociali delle classi popolari, ripensando a un ruolo socialista dello stato anche dentro un’economia di mercato (che diverrebbe così di transizione), con una forte presenza di settori sociali di piccola e media impresa che non possono certo essere kolkovizzati tutti d’un colpo.
In definitiva è questa la scommessa non solo dei comunisti, ma di tutte le forze realmente democratiche che intendono liberare il paese dalla dominazione di un imperialismo che ha la sua testa a Davos e non certo a Roma. Con buona pace di chi chiacchiera ancora di polo imperialista europeo: un consesso di paesi vassalli senza una politica economica che non sia interna ai processi di capitale continentali (dove la Germania la fa da padrona, ma solo dentro il perimetro del dominio USA), senza una politica estera di potenza (se eccettuiamo la Francia in Africa, anche in questo caso subordinata agli USA) che china la testa e accetta una guerra che va contro i suoi stessi interessi, contro scelte commerciali e di partner imposte da Washington dentro una catena imperialista strutturata dagli USA attraverso il G7 e la NATO e organismi di compensazione intercapitalistica come la Trilateral, il Bildelberg, l’Aspen.

Nei tre anni di lotte sociali contro il greenpass e l’obbligo vaccinale, soggetti e piccole forze come l’Assemblea Antifascista cGP di Bologna, più o meno consapevolmente hanno agito come piccoli nuclei di avanguardia, avendo come comune denominatore ideologico tra comunisti e libertari, l’anticapitalismo dentro un movimento ideologicamente borghese, incentrato sulle libertà civili e su una concezione generica di democrazia, ma a composizione sociale eterogenea tra ceti medi settori di proletariato precario ancora più precario sotto questo attacco. Con l’Assemblea Militante abbiamo avuto il primo esperimento di ingegneria tattica casualmente leninista, poiché uscito dall’ambito autoreferenziale per agire nell’insieme di un vasto movimento sottovalutato dai dogmatici abitudinari, divenuti addirittura ascari del regime nella sua torsione autoritaria biopolitica e tecnologica. Come i riformisti di sempre, attori al servizio del capitale nel nome di uno scientismo demenziale, con una concezione neutrale e non di classe (di critica sul piano euristico) della scienza borghese, improntata sul controllo sociale, dei soggetti e sulla massimizzazione del profitto di big pharma e, in ultima istanza di Black Rock, Vanguard e State Street. Esponiamo la questione con riferimenti politici precisi riguardo gli artefici della debacle di gran parte della sinistra di classe organizzata in questi tre anni: gran parte del sindacalismo di base, eccettuate componenti interne alla CUB e ad altre, ma anche gli svarioni di svariati centri sociali e, soprattutto, quella sinistra che si autodefinisce antagonista e che ha partecipato a diverse elezioni in questi ultimi anni.
La strada intrapresa invece dai nuclei d’avanguardia prima menzionati si è rivelata corretta: è stato il primo tentativo serio di operare una sortita fuori dalle “riserve indiane”, dai recinti politici e mentali, per relazionarsi con uno dei più vasti movimenti di massa degli ultimi decenni. Propositiva è stata la sua la presenza nel movimento di massa anti-GP, anche se non ha saputo sedimentare organizzazione di massa e politica d’avanguardia. Nei momenti di riflusso, come ora, deve però prevalere il lavoro di organizzazione, nell’ipotesi di costruzione di un fronte ampio dei soggetti e delle forze rimaste e di lavoro culturale per realizzare un processo di crescita egemonica dentro le lotte e i momenti aggregativi che ci sono e che ci saranno.

 

4. Per cosa e come lottiamo

Un cambiamento politico (rapporti tra forze politiche) e sociale (rapporti classe) può avvenire in tre modalità:

1. Hai dietro le masse come avanguardia e vai allo scontro sociale (opzione ideologizzata, vedi parole d‘ordine come “governo operaio”, ecc.), riducendo la lotta di classe alla sola questione “operaia”.

2. C’è una crisi di potere, data dalle contraddizioni tra forze di regime, nella quale irrompe l’incognita di quali di queste monopolizzerà un movimento sociale o partirà dalle posizioni di potere interna alle istituzioni, in chiave populista, ed effettuerà per esempio un colpo di mano istituzionale verso una fase elettorale o costituente plebiscitaria, anche attraverso la forzatura di un conflitto sociale. Ma tale fase è solitamente favorevole alle destre fasciste per quella visione centrata di Gramsci sul concetto di egemonia, dove la cultura nazionale rispecchia l’emergere di un sentiment popolare che in questo caso non prederebbe una strada rivoluzionaria ma servirebbe una sostituzione del blocco al potere con conseguente “orbanizzazione” del nuovo governo.

3. Un blocco popolare d’opposizione, populista, anti-sistema, che rappresenti l’interesse nazionale di più settori (maggioritari) della società: piccola borghesia produttiva, mondo precario e salariato, classi subalterne, che si uniscono in chiave anti-oligopoli finanziari e multinazionali in un patto politico patriottico di fuori uscita dalla NATO e dalla UE per liberare l’Italia dal nodo scorsoio di queste élite atlantiste e unipolari. In pratica un terzo polo antagonista e alternativo agli altri due: da una parte le sinistre euroimperialiste e i loro lacchè più o meno consapevoli, con un PD centrale che rappresenta da anni il capitalismo delle multinazionali e della finanza da una parte, e dall’altra le destre che da Renzi-Calenda fino a Lega e Fratelli d’Italia rappresentano il tentativo di unire gli interessi del piccolo capitale con quelli oligopolistici del grande capitalismo sovranazionale.

Un’opera di Jorit

A. Il primo è totalmente irrealistico e, va da sé, non c’è bisogno di spiegare che non avremo le masse proletarie dalla nostra né oggi, né domani, a causa di due fattori: a) la composizione di classe scomposta (gioco di parole e ossimoro che ben spiega lo stato della produzione e riproduzione sociale e dei soggetti “fluidi” sul piano del posto che occupano dentro questo contesto), tipico della configurazione economico-sociale del nostro paese; b) l’egemonia (sul piano gramsciano) e la “rivoluzione passiva” che la borghesia dominante, imperialista e oligopolista esercita su tutta la società e che può tutt’al più lasciare spazi di manovra alla…

B. … seconda modalità: l’emergere politico degli interessi dei ceti medi e del piccolo capitale che dirigono lo scontro sociale per un semplice ricambio al vertice, che va oltre il melonismo filo-atlantista per andare a contrattare seriamente il riposizionamento del nostro paese nei rapporti internazionali e con un programma populista di stampo “peronista” che va incontro demagogicamente ad alcune delle istanze popolari in chiave nazionalistica.
Di fatto da qui possono prendere piede forze che rappresentano in embrione questa opzione, mescolando la critica alla guerra e alla NATO e il filo-multipolarismo putiniano a una sorta di resistenza ultracattolica e trumpiana all’avvento della società fluida che attacca le identità individuali e collettive. Il che dimostra come da tendenze reazionarie possono nascere controtendenze altrettanto reazionarie. E che quindi il punto non è tenersene alla larga, ma impegnare una battaglia politica e culturale dentro un campo anti-atlantista e anti-autoritario che inevitabilmente oggi si manifesta come espressione di settori di borghesia di stampo nazionalista e ultra-cristiana, occupando uno spazio politico fino a contenderne l’egemonia. Questione spinosa, forse vissuta come forche caudine di una sinistra di classe e rivoluzionaria allo sfascio, ma in realtà opportunità da cogliere di fronte a quella parte di popolazione che non crede più nei partiti di regime ed è stata abbagliata prima da pentastellati e da Salvini e poi dalla Meloni, tutti pifferai di Hamelin nella stessa partitocrazia che si batte semplicemente per rappresentare gli interessi dei poteri forti. Davanti all’egemonia di una destra reazionaria che contratta gli interessi medio-borghesi e piccolo-capitalistici dentro il perimetro atlantista, ossia, davanti alle prossime e imminenti ondate populiste, occorre agire come opzione politica più avanzata sul piano progettuale e dell’azione militante, essere come i montoneros (1) nel movimento peronista, con o senza caudillo di turno, che potrebbe sempre esserci e affermarsi se non si contende l’egemonia alle forze della borghesia che agiscono e aggregano dentro le stesse contraddizioni tra ceti medi colpiti dall’attacco del grande capitale che rispolverano un nostalgico nazionalismo da una parte e appunto oligarchie capitaliste dominanti, transnazionali e atlantiste dall’altra. Un teatrino dei pupi, l’ennesimo che andrebbe spezzato con la lotta e l’affermazione del terzo punto di vista, quello dei settori sociali depauperizzati, proletari e proletarizzati, in una battaglia sociale per l’egemonia e di prospettiva per una reale alternativa costituente di sistema.

C. Ed è qui che entra in ballo la terza modalità: quella che si innesta in questo scontro sociale, e si relazione alla seconda per le questioni poste al punto 3., senza vaneggiare di rivoluzioni proletarie in marcia al socialismo, ma riconoscendo che occorrono una o più tappe intermedie, la prima di queste basata sull’indipendenza del paese riguardo finanza e multinazionali, sull’uscita dallo schieramento atlantista per il multipolarismo, avviando la politica economica del paese al welfare pubblico, al controllo della finanza privata, alla moneta sovrana, al rilancio della produzione interna, alla pianificazione economica e alla nazionalizzazione degli asset portanti, governando sugli interessi di parte che sono espressione delle diverse componenti produttive e sociali del paese.
Siamo in ritardo perché la quasi totalità della sinistra di classe non ha compreso le tre contraddizioni nel loro divenire, le forze in campo e la dura realtà che ci dice gramscianamente come siamo distanti da una qualsivoglia egemonia proletaria o popolare di classe in chiave socialista. Siamo fuori e marginali dallo scontro sociale, perché il cuore di questo scontro vede opporsi tra loro le diverse frazioni borghesi con una massa di manovra popolar-proletaria che funge da massa di sostegno di volta in volta a rappresentazioni populistiche interne o esterne al regime, ma tutte egemonizzate dalla borghesia.

Se vogliamo irrompere sulla scena politica e costruire una testa di ponte rossa e proletaria in uno scontro che è dominato dalle borghesie, occorre riconoscere questa realtà in quanto tale e agire conseguentemente sul piano delle alleanze senza essere ideologicamente schizzinosi. Occorre essere leniniani.
Puntare a uno scontro che delimiti il perimetro del soggetto sociale e storico di classe in una visione retrò e anacronistica di proletariato porta a romperci le corna amaramente. La lotta di classe deve continuare ovviamente, ma intervenendo nelle contraddizioni del campo avverso, portando su un terreno anti-UE e anti- NATO e di indipendenza nazionale reale quei settori di piccola borghesia pauperizzata e vessata dalle politiche del grande capitale, favorendo un fronte ampio che apra a una prima tappa del processo rivoluzionario al socialismo. Obiettivo che oggi appare assai arduo: l’egemonia interna al fronte.

L’obiettivo è costruire l’egemonia a partire dalle lotte per quelle che esse sono, senza “selezionarle” o peggio ripudiarle sul piano di un ideologismo schizzinoso ed élitario (tipico di un atteggiamento questo sì borghese anche se insieme alla birretta degli aperitivi “autogestiti” ci metti pane e salame…) e spingendole in avanti per contenuti e progettualità, a partire dai soggetti sociali che oggi si muovono, quando e come si muovono. Prepararsi per i futuri cicli di lotte contro gli oligopoli imperialisti, rappresentando gli interessi di classe e gli elementi di programma minimo, dentro un crogiolo variegato di manifestazioni ed espressioni sociali, ponendo le questioni di un welfare pubblico, di una politica economica pianificata e di un processo costituente che, facendo leva sugli elementi progressivi della nostra Costituzione, punti a scalzare i poteri forti dalla loro funzione totalitaria decisionale, ridando senso al pubblico, ai bisogni sociali della popolazione e ai suoi diritti contro le logiche di smantellamento dello stato sociale e della privatizzazione, contro la messa a profitto di servizi, beni comuni e risorse.
Ogni forma di lotta che si apre nello scenario politico non va scartata, anche quella elettorale, portando per esempio più antagonisti e rivoluzionari dentro le istituzioni borghesi. Sul piano sociale, ogni spazio conquistato è una casamatta da cui ripartire e attaccare politicamente e culturalmente il nemico, per creare confronto tra soggetti, organizzazione e iniziativa di lotta.

 

5. La questione nazionale

Ma a questo punto intendo affrontare la seconda questione spinosa: la questione nazionale. Per chi è internazionalista può sembrare un boccone indigesto perché oggi nel nostro paese gran parte della sinistra la associa al nazionalismo di stampo fascista, campanilista, etnocentrico, al razzismo. In realtà la lotta per l’indipendenza nazionale è largamente patrimonio delle forze progressiste e socialiste in oltre cento anni di lotta di classe e antimperialista. Le lotte latinoamericane da Cuba al sandinismo, passando per le sinistre rivoluzionarie cilene, uruguayane, argentine, fino alle questioni irlandese, basca, catalana, corsa, sarda, ma anche alla rivoluzione cinese, algerina e vietnamita, pur nei diversi contesti e processi la liberazione patriottica non ha certo fatto a cazzotti con una visione più ampia di liberazione antimperialista e internazionalista delle masse proletarie e contadine di transizione al socialismo.
Qualcuno dirà: sì, ma si parla sempre di terzo mondo. Fanon e Nguy Giap funzionano lì.
Ma è proprio questo il punto: non c’entra il grado di sviluppo delle forze produttive di un paese, o la composizione sociale di classe, quanta classe operaia c’è o no, bensì la questione nazionale pertiene le diverse tipologie di lotta per l’indipendenza dei paesi e l’autodeterminazione dei popoli.
Ovviamente la questione nazionale italiana non è quella coloniale di un paese africano nella rapina imperialista di risorse. Non è neppure associabile alle lotte anti-neocoloniale basca, irlandese o catalana, che ha radici sulla specificità culturale di questi popoli e nel loro assoggettamento e sfruttamento salariato da parte di classi dominanti che hanno costituito nazioni su confini del tutto arbitrari e non consensuali. Anche se l’aspetto culturale, del dominio valoriale, hollywoodiano, mitopoietico del “sogno americano” attraversi di fatto e globalmente tutti i popoli (ma è un aspetto che merita una trattazione diversa e a parte), da quasi ottant’anni.
Tuttavia, questioni nazionali dove l’oppressione neocoloniale si basa non tanto sulla rapina di risorse ma sullo sfruttamento della forza-lavoro e sul controllo dei processi produttivi, come sui mercati interni, si avvicinano alla questione nazionale italiana Da 77 anni siamo una portaerei degli USA attraverso la NATO, non abbiamo nemmeno più quella politica estera con margini di autonomia che aveva la Prima Repubblica. Economicamente siamo assoggettati alle euroburocrazie che con il pareggio di bilancio e le astruse regole imposte da Bruxelles (ma non rispettate dalla Germania) e oggi con il MES che sta arrivando, una moneta non stampata ma comprata a strozzo, siamo diventati un terminale delle economie più forti, delle multinazionali dominanti e dei movimenti di capitale dell’alta finanza che ci mettono in costante ricatto. Siamo commissariati, siamo un vero e proprio batustan dell’anglosfera e delle euroburocrazie attraverso organismi come NATO e UE.
 Per questo la questione nazionale nella sua originalità che nulla ha a che vedere con Ulster, Euskadi e Catalunya, ha connotati più direttamente di classe, che comprendono più classi interessate a sciogliere i legami di dominazione.
Come giustamente osserva Carlo Formenti, la contraddizione è tra un capitalismo dei flussi di capitali e di merci sul piano transnazionale e chi vive e lavora nel territorio, che sia autoctono o di provenienza da altrove.
Riporto integralmente la sua riflessione ne “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi:

“… la lotta di classe tende a presentarsi come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un lato, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro.
Accettare la sfida del populismo a partire da questi due eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare, la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale. Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea «post-nazionalista» di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio.” (2)

E questo aspetto: 
a) distingue il patriottismo progressista dal nazionalismo sciovinista da piccola potenza e di esclusione e divisione delle masse popolari alla Salvini e Meloni; b) contende questo terreno proprio a loro e a quelle forze interne al sostegno anti-bellico al multipolarismo che ripropongono divisioni interne ed esclusione.
Dunque è un patriottismo partigiano come quello della Resistenza, che ha lottato contro il nazifascismo unendo tutto il popolo di fronte a oggettivi interessi nazionali: finire la guerra, scacciare l’invasore e avviare una democrazia rappresentativa di tutto il popolo e le sue forze di Liberazione. L’accostamento è solo valoriale, non certo di analogia storico-politica. Ma indipendenza, antifascismo e liberazione da forze straniere, sono la conditio sine qua non possa avvenire la liberazione dall’oppressione salariata di un capitalismo che va battuto sia che sia estero che interno.

Formenti arriva quindi alla logica conseguenza di questo impianto politico:

“… accettare questo punto di vista implica assumere un atteggiamento totalmente controcorrente rispetto a quello delle sinistre europeiste: difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario. La lotta anticapitalista, nel nostro continente, passa inevitabilmente dalla lotta contro l’Europa.” (3)

E oggi è ancora più vero (l’opera qui citata fu pubblicata nel 2016), considerando che questa guerra in Ucraina ci ha consegnato e rivelato un’Europa completamente supina alla politica militarista statunitense attraverso la NATO e a quella sanzionatoria e finanziaria del dollaro, di più: acriticamente aderente al Washington consensus, con gruppi dirigenti e cancellerie che da Berlino a Parigi ci stanno portando verso la catastrofe di una guerra imperialista nel continente e nella migliore delle ipotesi a perdere nell’economia di una guerra ibrida permanente alle forze multipolari, quel posizionamento autonomo che, se da sempre privo di una politica estera ed economica che non fosse nell’ambito delle gerarchie NATO e ordoliberale sui salari e sullo svendita ai privati del welfare pubblico, oggi si riduce a essere una mera protesi della potenza statunitense.
A maggior ragione l’impostazione data da Formenti alla questione della sovranità popolare è una via obbligata per qualsiasi forza antimperialista, progressista e comunista.
Nulla di nuovo del resto: è la dialettica che intercorre tra liberazione nazionale e internazionale, perché la nostra liberazione pone le basi per la liberazione di altri popoli e paesi. E viceversa.

 

6. In definitiva…

Il posizionamento politico di un terzo polo nella società italiana, di fronte antagonista al sistema di potere dominante tiene conto delle contraddizioni prima esposte e si schiera contro l’atlantismo unipolare e con le entità nazionali e i movimenti che nel mondo si battono per la liberazione dal giogo imperialista degli USA e dei suoi vassalli, quindi a favore di tutte le tendenze e politiche che favoriscono l’avvento di un mondo multipolare.
Nel nostro continente l’opposizione alla guerra imperialista della NATO deve diventare la spranga negli ingranaggi della macchina bellica e del sistema imperialista stesso, a trazione USA e della sua subordinata UE, per l’indipendenza nazionale del nostro paese.

Sul fronte sociale il lavoro è più complesso, poiché tocca istanze oppositive al capitalismo finanziario e delle multinazionali, che sono sempre in contraddizione tra loro, risultato di interessi anche contrapposti. Il che spiega che nei tempi lunghi di maturazione politica di massa è la classe operaia anche nella sua composizione sociale in divenire che può e deve ricoprire un ruolo egemone e dirigente nello scontro di classe, poiché i settori intermedi sono da sempre una palude, sono ondivaghi e basta una vittoria parziale, un contentino (una volta si diceva un piatto di lenticchie) o la stessa macchina repressiva nell’innalzamento dei livelli di scontro, per renderli inerti o far loro cambiare campo. Ovviamente quando parlo di classe operaia, o più estensivamente classe lavoratrice, ho in mente quanto affermato in precedenza sulla composizione sociale: certo le linee di demarcazione non sono ben definibili, ma è piuttosto chiaro oggi che il lavoro salariato, subordinato, seppur frammentato include quel mondo sociale precario che definisce una forza-lavoro che non riesce a entrare in pianta stabile nel mondo del lavoro, per lo più giovanile, migranti sottopagati e ricattati, forza-lavoro a “fine vita”, totalmente priva di coperture previdenziali e servizi, frutto delle politiche criminali dei governi di destra come di sinistra all’insegna de privato è bello, del più mercato meno stato.

Se l’interesse dei populismi di destra è quello di ritagliare uno spazio per la borghesia e il piccolo capitale nel quadro internazionale, che non tocchi i rapporti di sfruttamento sul piano nazionale, usando una retorica nazionalista da potenza stracciona, il patriottismo antimperialista passa attraverso l’affermazione dei diritti proletari e dei mutamenti dei rapporti di forza interni alle classi sociali, in una sorta di contropotere o potere costituente.
Nell’immediato, con tutta la consapevolezza che non esiste un movimento contro la guerra e un pacifismo organizzato, l’attività delle forze democratiche e popolari patriottiche devono avere come obiettivo di fondo lo:

SPEZZARE LA MACCHINA IMPERIALISTA MILITARE CON LE MOBILITAZIONI DI MASSA
Oggi al centro dell’agire, che sia di movimento o di avanguardie organizzate, c’è la lotta contro la guerra della NATO, nelle più diverse forme possibili della disobbedienza, del boicottaggio, del sabotaggio e della diserzione anche simbolica da parte dei civili. Dove c’è presenza politica, culturale, anche istituzionale, dichiarare ogni contesto zona demilitarizzata, che ripudia la guerra e diffonde una cultura di pace, inclusiva, contro le campagne denigratorie e criminalizzanti nei confronti di chi critica la politica guerrafondaia di regime e dei suoi lacchè, di chi si oppone al razzismo sciovinista antirusso e al filonazismo nelle sue varie forme fluide e sinistresi, centrosocialare come istituzionali. Man mano che la guerra con le sue logiche e narrazioni, con la sua neolingua avanza, occorre diffondere l’opposizione organizzata a tutto questo.

COSTITUIRE LE BASI PATRIOTTICHE ANTIMPERIALISTE COME TESTE DI PONTE PROGRESSIVE IN UNO SCHIERAMENTO LARGO

È ciò che occorre per scatenare questa opposizione di massa, intransigente, irriducibile, collegando i temi sociali e delle costrizioni biopolitiche delle libertà e dei diritti sociali (quelli veri, non i desideri di qualcuno…), le condizioni di vita e di lavoro al militarismo guerrafondaio dominante.

Gli sforzi che vanno fatti a più livelli e in più ambiti è quello di:

COSTRUIRE IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE E PATRIOTTICO, PER L’USCITA DELL’ITALIA DALLA NATO E DALL’UE


Non sappiamo come sarà questo fronte, ma certamente non sarà quello compromissorio di una sinistra sinistrata e decotta, che si dichiara ancora “di classe”, che si va unendo tra pentastellati e cespugli del PD nell’ennesimo inciucio che taglia fuori le reali opposizioni organizzate contro la NATO, quelle dei tre referendum che costituiscono un patrimonio politico e di esperienza sociale nelle masse preziosa. Il lavoro svolto dalle componenti politiche nei referendum contro l’invio di armi e per la sanità pubblica ha avuto il pregio e il merito di avvicinarsi molto al metodo maoista dell’inchiesta popolare. Chi pensa a un’alleanza con i pentastellati guarda caso è lo stesso che sui tre referendum non ha mosso un dito per non mischiarsi con i “novax” e i “terrapiattisti”. Tutte scuse di chi non ha capito che dalle forze di regime non può nascere nulla.
Un terzo polo non può nascere dai partiti che, destra o sinistra che siano, rappresentano o si candidano a farlo le élite atlantiste, le oligarchie capitaliste dell’Occidente a dominanza USA, o le euroburocrazie di Bruxelles. Destra e sinistra sono politicamente morte, sono del tutto interne a un bipolarismo di regime, al teatrino dei pupi.

 

Appendice

Mentre chiudo questo intervento, giunge dall’Africa la notizia di un putsch dell’esercito in Niger: deposto il presidente Bazoum, la folla solidarizza con i militari e assalta l’ambasciata francese sventolando le bandiere della nazione e della Russia. La Francia e il fronte di paesi africani dell’Ecowas minaccia un intervento, ma Burkina Faso e Mali si schierano con gli insorti nigerini minacciando a loro volta di intervenire, mentre il parlamento della Nigeria vota contro l’intervento e truppe della Wagner arrivano nella capitale Nigerina Niamey per difenderla.
Mi pare piuttosto chiaro che la funzione della Russia, paese innegabilmente retto da una classe capitalista, abbia comunque in questo frangente una funzione storica antimperialista.
Mi pare altrettanto chiaro che per l’Occidente atlantista si ripeta lo stesso copione ucraino con la democrazia da una parte e la dittatura dall’altra, quando la peggiore dittatura totalitaria e antidemocratica in secoli di colonialismo è proprio quella dell’attuale neoliberalismo occidentale.
Lo scontro tra unipolarismo imperialista e multipolarismo dei popoli e dei paesi che si affrancano dal dominio imperialista mi sembra ormai piuttosto evidente e foriero di implicazioni in Occidente: un Europa ridotta a batustan degli USA che rischia la distruzione di una guerra allargata nel continente, e paesi imperialisti che si ritrovano senza uranio a buon prezzo mentre sul campo mondiale i flussi delle risorse si capovolgono a vantaggio di Cina e Russia.
Ciò comporta l’acuirsi delle contraddizioni economiche e sociali nei centri metropolitani dell’imperialismo a partire dall’Europa stessa.
Pertanto va da sé, che al netto di tutte le posizioni ideologiche e diritto-umanitarie colorate, è urgente inserirsi in questo conflitto mondiale per volgerlo anche nei nostri paesi occidentali a favore dei processi di liberazione popolare, che siano frutto di insurrezioni, elezioni o golpe. La democrazia borghese è andata ormai a farsi friggere e a questa storiella ci credono ormai solo i vari Mentana.
Il fascismo biopolitico e ipertecnologico delle democrature è quello che parla di democrazia a vanvera, mentre il patriottismo autentico e non quello nazionalista delle destre classiche, è internazionalista poiché non sostiene volontà di potenza contro i popoli, la predazione ultrasecolare, ma appoggia questi processi di liberazione. E questo (Cuba docet) è autentico internazionalismo.
Concludo ponendo come fondamentale, secondo quanto Gramsci definì come decisiva per un cambio rivoluzionario, la questione dell’egemonia, che oggi è duplice:
– affermare nella società italiana l’interesse vitale all’indipendenza nazionale del paese dalle gabbie imposte con organismi e dispositivi di potere sovranazionale: UE con i suoi trattati, Eurozona con la moneta unica, l’euro, la NATO
– affermare in questo processo costituente, di liberazione e costruzione che ha basi costituzionali l’egemonia delle classi popolari e lavoratrici in una visione di transizione al socialismo, a partire dai bisogni delle classi popolari che corrispondono alla centralità dello stato sociale, di un’economia pianificata, di un processo di socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale e di una partecipazione popolare sul piano decisionale.
Se non comprendiamo questo passaggio storico e politico di questa epoca è come se non avessimo compreso nulla dei movimenti di liberazione e anticoloniali del Ventesimo secolo, come se dei comunisti non avessero capito nulla di Cuba socialista, di Sandino, del bolivarismo, del Cile di Allende, Corvalan e del MIR, del Vietnam di Ho Chi Min e Nguy Giap, proseguendo con una politica fessa e spanata, poiché dottrinaria e autoreferenziale.

 

§ § § § § § §

Note

1. I Montoneros furono un’organizzazione peronista argentina operante tra gli anni ’60 e ’70 per combattere  l’ascesa del fascismo, culminato nel golpe dei generali nel 1976, e che di fatto rappresentava l’ala sinistra del peronismo. Sul peronismo suggerisco la lettura dell’opea di Alfredo Helman Il peronismo, Edizioni Clandestine, 2005 Saggistica

2. Carlo Formenti “La variante populista”, Comunità concrete, ed. DeriveApprodi, pag. 9

3. Ibidem, pag. 9

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Lo sguardo dei viaggiatori stranieri sulla quotidianità del Terzo Reich https://www.carmillaonline.com/2023/08/06/lo-sguardo-dei-viaggiatori-stranieri-sulla-quotidianita-del-terzo-reich/ Sun, 06 Aug 2023 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78112 di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano [...]]]> di Gioacchino Toni

Julia Boyd, Turisti nel Terzo Reich. Viaggiare in Germania all’epoca del nazismo, Luiss University Press, Roma, 2023, pp. 424, € 26,00 stampa, € 14,99 ebook

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, la Germania esercitava ancora una forte attrazione sugli stranieri presentandosi come un paese incantevole e incontaminato, con le sue città, i suoi borghi medievali, i suoi castelli e le sue cattedrali risparmiati dal conflitto, a cui si aggiungeva il fascino della sua cultura romantica e della sua tradizione musicale. La quantità di stranieri che, per vari motivi, soggiornavano e attraversavano il paese – in buona parte statunitensi e britannici – era decisamente elevata, tanto da arrivare a toccare nel 1937 quasi il mezzo milione di presenze l’anno.

Raccogliendo le testimonianze di tanti studenti, giornalisti, diplomatici, letterati, musicisti ecc., il corposo volume di Julia Boyd ricostruisce lo sguardo con cui i viaggiatori stranieri osservavano la quotidianità tedesca nel periodo hitleriano. Molti di loro avevano già un’idea ben precisa della Germania hitleriana prima di mettervi piede e la loro permanenza in terra tedesca, spesso, non faceva che confermare le loro aspettative; pochi cambiarono idea dopo avervi soggiornato. Tra gli stranieri presenti in Germania, almeno fino al 1937, a denunciare la deriva intrapresa dal paese erano soprattutto giornalisti e diplomatici ma, in molti casi, ai loro allarmi si guardava con disinteresse in patria.

Non è facile, sostiene, Boyd, trovare una spiegazione al perché così tanti statunitensi e britannici inviassero i loro figli a soggiornare nella Germania nazista persino quando la guerra sembrava sempre più imminente. Nonostante a livello internazionale non mancassero i timori che Hitler potesse condurre a un nuovo conflitto, molti visitatori desideravano vedere in lui un uomo di pace. Inoltre, l’enfasi nazista sull’ordine e sulla ferrea disciplina non mancava di esercitare un certo fascino sugli stranieri.

Nonostante fosse passato poco tempo dalla fine del primo conflitto mondiale, molti dei britannici che mettevano piede in Germania tendevano a guardare a quel paese come a un modello a cui ispirarsi. I viaggiatori statunitensi, sottolinea Boyd, pur stupiti dalla diffusione capillare di proclami antisemiti, faticavano ad affrontare criticamente la persecuzione nei confronti degli ebrei non solo in quanto, in molti casi, erano antisemiti loro stessi, ma anche perché ciò li avrebbe costretti a fare i conti con le discriminazioni praticate nel loro paese nei confronti degli afroamericani.

Inizialmente, per conquistarsi i favori stranieri, i nazisti insistevano molto nel presentarsi come baluardo alla minaccia “bolscevico-ebraica”. E se diversi viaggiatori di fede antibolscevica erano pronti a denunciare l’onnipotenza della polizia segreta, la propaganda martellante e l’autoritarismo del paese di Stalin, non altrettanto erano disposti a fare nei confronti di quello di Hitler, forse che le finalità di quest’ultimo bastassero a far passare del tutto in secondo piano tutto il resto.

Le prime testimonianze raccolte dal volume fanno riferimento al periodo weimariano, quando gli stranieri, nel visitare la Germania, non potevano che notare quanto fosse diffuso il risentimento per le condizione imposte dal Trattato di Versailles accentuato dall’impressionante livello di malnutrizione e povertà che toccava anche il ceto medio soprattutto nelle grandi città.

A stupire i viaggiatori britannici e statunitensi erano anche le tante espressioni artistiche, cinematografiche e teatrali d’avanguardia, il livello di emancipazione femminile, il libertinismo che si respirava a Berlino e, più in generale, la tendenza a un’esibizione del corpo del tutto sconosciuta nei loro paesi di provenienza. Negli ultimi anni della Germania weimariana a colpire i visitatori stranieri era anche l’incredibile attenzione riservata alle aggregazioni giovanili da parte di associazioni ecclesiastiche e formazioni politiche.

In apertura degli anni Trenta, la crisi dilagante aveva ridimensionato la presenza di visitatori stranieri in Germania, inoltre, le prime forme di turismo organizzato diminuirono le spese pro capite dei gruppi rispetto a quelle dei viaggiatori in proprio. Dopo la presa del potere da pare di Hitler, non pochi stranieri notarono come pian piano i tedeschi, a prescindere dalle precedenti posizioni politiche, si allineassero sempre più al nazismo per questioni di sopravvivenza.

Nel volume sono riportati gli sguardi attraverso cui i viaggiatori stranieri guardarono al rogo dei libri, ai sempre più frequenti prelievi di oppositori operati nottetempo e alle persecuzioni nei confronti degli ebrei. A proposito di queste ultime, dalle testimonianze raccolte, emerge come molti stranieri tendessero a ritenerle “un piccolo prezzo da pagare” per la rinascita di una grande nazione di cui si comprendeva, tutto sommato, il risentimento post Versailles.

Nel 1933 così vedeva invece le cose il giornalista francese di sinistra Daniel Guérin:

Per un socialista, visitare la Germania al di là del Reno era come esplorare le rovine di una città dopo un terremoto. Qui, fino a poco tempo fa, c’era il quartier gemerle di un partito politico, di un sindacato, di un giornale,là una libreria per i lavoratori. Oggi a quegli edifici son appese enorme bandiere con la svastica. Questa era solita essere una strada rossa; qui sapevano come si combatte. Oggi ci si imbatte solo in uomini silenziosi, dagli sguardi tristi e preoccupati, mentre i bambini ti spaccano i timpani con i loro “Heil Hitler!” (p. 114)

Quegli ostelli che solo poco tempo prima erano gremiti di giovani escursionisti pacifici ora erano occupati da giovani nazisti con cinturoni, stivali e la cravatta della Gioventù hitleriana indossata sulla camicia color cachi, indottrinati a ricordare agli stranieri che era grazie a loro se si stava salvando il pianeta dal bolscevismo. Non era difficile immaginare come questi giovani così entusiasti della disciplina a cui erano stati assoggettati prima o poi sarebbero stati ben disposti a prender le armi.

Oltre a notare quanto i giovani fossero stati coinvolti dal movimento nazista, qualche osservatore straniero restò stupito dal vedere come il ceto medio fosse disponibile a rinunciare a diverse libertà conquistate nel periodo weimariano e come molte donne, in nome dell’“interesse del popolo tedesco”, accettassero di abbandonare il lavoro per occuparsi solo della famiglia e di essere riprese se fumavano in pubblico o se andavano in giro truccate.

Se molti viaggiatori stranieri preferivano non guardare troppo in profondità la realtà tedesca, Guérin aveva notato come esistessero ancora luoghi nelle città tedesche in cui i nazisti preferivano non avventurarsi: nei bassifondi di Amburgo, ad esempio, continuavano a comparire sulle mura scritte come “Morte a Hitler!” e “Lunga vita alla rivoluzione”. Per qualche tempo, osservando piccoli comportamenti quotidiani, alcuni viaggiatori dedussero che non tutti i tedeschi sembravano in realtà convinti nazisti.

Consapevole dell’importanza del turismo come strumento di propaganda, il regime si adoperò per mostrare ai visitatori stranieri quanto la Germania fosse una nazione “amante della pace”, gaudente e ospitale: «“Venite a vedere con i vostri occhi” vantava un opuscolo “i progressi che sta facendo la Germania: disoccupazione assente, produzione ai massimi livelli, sicurezza sociale, grandi opere per lo sviluppo industriale, pianificazione economica, efficienza organizzata, una dinamica volontà di unire le forze, un popolo felice ed energico, lieto di condividere i sui successi con voi”» (p. 119).

A colpire gli stranieri era anche l’utilizzo propagandistico del festival wagneriano di Bayreuth, della festa del raccolto sulla collina di Bückeberg nei pressi di Hamelin, della rappresentazione della Passione di Oberammergau, di cui si accentuavano i caratteri antisemiti già presenti alla sua nascita secentesca. Probabilmente a sbalordire maggiormente i visitatori stranieri erano le tante iniziative neopagnane che celebravano il solstizio d’estate spronando i giovani al fervore patriottico. Molti stranieri raccontarono degli imponenti festeggiamenti annuali tenuti sulla collina di Hesselberg, scelta come Montagna Sacra dai nazisti, in cui si danzava attorno a un grande falò rivolgendo preghiere al sole e venerando Hitler. Centinaia di viaggiatori stranieri parteciparono agli oceanici raduni di Norimberga organizzati tra il 1933 e il 1938 e in diverse loro testimonianze raccontarono di quanto fossero coinvolgenti.

Nei primi tempi il campo di Dachau, inaugurato nel 1933, veniva mostrato con orgoglio ai visitatori stranieri. Le testimonianze riportate nel volume sono di diverso tono; mentre alcuni visitatori mettevano l’accento sul terrore che si poteva leggere negli occhi dei reclusi, consapevoli di essere in balia del totale arbitrio delle guardie, altri evidenziavano come, dopotutto, non si trattasse che di una modalità di rieducazione attraverso il lavoro. «L’antisemitismo era diffuso nell’alta società inglese, come pure in Francia e in buona parte dell’America. Analogamente il destino dei comunisti, degli zingari, degli omosessuali e dei “malati di mente”, che finivano a Dachau insieme agli ebrei, non rappresentava di certo una questione scottante per molti» (p. 154).

La testimonianza di uno straniero che aveva voluto sperimentare la partecipazione a un campo di lavoro nei primi anni del regime hitleriano riporta la facilità con cui era risuscito a integrarsi con lo spirito cameratesco dei giovani presenti e, soprattutto, come le esercitazioni fisiche che si tenevano – come nelle scuole –, pur essendo eseguite senza armi, si sarebbero potute rivelare un ottimo addestramento per un futuro conflitto militare.

Stando a Boyd non erano pochi gli statunitensi presenti a Berlino nel 1934 per il congresso battista – che si diceva contrario al razzismo e all’antisemitismo – ad apprezzare la Germania hitleriana per aver «dato alle fiamme cumuli di libri e riviste diseducativi» facendo «piazza pulita delle librerie ebraiche comuniste» (p. 140). A visitare il paese erano anche diversi letterati europei e statunitensi. Anche in questo caso l’esperienza diretta aveva confermato il giudizio che già avevano del regime.

Nel volume viene racconta anche l’esperienza di un gruppo di studenti cinesi decisi a passare un periodo di vacanza a Berlino anche perché meno costosa rispetto alla capitale francese ove studiavano. Dai resoconti di questi studenti emerge un certo fastidio per l’ossessione con cui i tedeschi si esibivano costantemente in saluti a braccio teso e, soprattutto, la piena consapevolezza delle politiche repressive riservate agli ebrei.

Rimettendo piede in Germania dopo alcuni anni, qualche visitatore aveva notato come la popolazione apparisse improvvisamente più bionda; nel solo 1934 erano state vendute nel paese oltre 10 milioni di confezioni di tinta per capelli, mentre il rossetto, considerato non in linea con l’ideale femminile ariano, era letteralmente scomparso.

Nel 1936 si erano svolte in Germania sia le olimpiadi estive che quelle invernali e ciò aveva portato nel paese – soprattutto a Berlino – un numero elevato di stranieri, seppure, a conti fatti, inferiore alle attese. Per il regime nazista si trattava di una grande occasione per mostrare al mondo la rinascita e l’efficienza del paese. Se qualche inviato straniero colse l’occasione per denunciare quanto i giochi intendessero nascondere il totalitarismo del regime, così invece si esprimeva l’antisemita e razzista presidente del Comitato olimpico americano Avery Brundage: «Nessuna nazione dai tempi dell’antica Grecia ha colto il vero spirito olimpico come la Germania» (p. 218).

Anche nel biennio 1937-1938 il numero di visitatori stranieri in Germania restava alto. Nel commentare la sua visita alla mostra di Arte degenerata inaugurata a Monaco nel 1937, un commentatore straniero si diceva colpito dall’insistita presenza presenza tra le opere esposte di didascalie, punti esclamativi e interrogativi, «quasi come se i nazisti avessero paura che i visitatori non le schernissero abbastanza» (p. 270).

Curiosi sono i commenti rilasciati da un uomo di provate simpatie naziste come Crawford, consigliere del re d’Inghilterra, a margine della sua partecipazione (su invito) a una delle crociere a basso prezzo che lo stato, tra il 1933 ed il 1939, offriva ai lavoratori tedeschi: stupito dal cameratismo e dalla naturalezza con cui i tedeschi rispondevano con entusiasmo agli ordini loro impartiti – cosa, a suo avviso, inimmaginabile per i britannici –, con ironia espresse il convincimento che i tedeschi fossero gli unici al mondo «nati socialisti».

Parrebbe che persino i viaggiatori fondamentalmente ostili al nazismo guardassero istintivamente oltre il regime e vedessero quella che immaginavano essere la reale Germania: un paese che, nonostante tutto, conservava la sua inossidabile capacità di sedurre e incantare (p. 281).

A partire dal 1938, quando si assistette a una vera e propria escalation di violenze, la visione della Germania da parte dei viaggiatori stranieri iniziò a cambiare; diversi “scoprirono” quanto sino ad allora non avevano saputo o voluto vedere e si resero conto di come la guerra fosse sempre più imminente. Non a caso nel 1939 le presenze straniere sul suolo tedesco diminuirono decisamente e molti tra i presenti optarono per abbandonare velocemente il paese. Poi arrivò la guerra. «Tutti i racconti che ci hanno tramandato gli stranieri ancora in grado di viaggiare in modo indipendente nel Reich durante gli ultimi tre anni di guerra sono raccapriccianti e commoventi al tempo stesso. Un tema li accomuna, i bombardamenti» (p. 229)

Ricostruendo le modalità con cui tanti viaggiatori stranieri avevano guardato alla quotidianità tedesca durante il regime hitleriano, il volume di Boyd, pur non aggiungendo nulla di nuovo sulla Germania del periodo, ha il merito di mostrare come a lungo, soprattutto i britannici e gli statunitensi avessero voluto vedere soltanto ciò che confermava il giudizio che già avevano sul regime e come, in diversi casi, forti delle convinzioni antibolsceviche e antisemite, che di certo non mancavano nei paesi d’origine, vi avessero guardato con una certa benevolenza, almeno fino allo scoppio della guerra.

Certo, non erano mancate voci dissonanti, provenienti da chi politicamente manifestava convincimenti risolutamente antinazisti, ma, complice anche la composizione sociale dei viaggiatori, i più non trovarono poi così disdicevole il totalitarismo incontrato visto che questo garantiva, ai loro occhi, l’efficiente rinascita di una nazione umiliata dal Tratto di Versailles e, soprattutto, un baluardo al comunismo. E pazienza per chi ne faceva e ne avrebbe fatto le spese con lo scoppio della guerra.

Attorno alla metà degli anni Trenta molti viaggiatori stranieri erano stati favorevolmente colpiti dal livello di idealismo e patriottismo manifestato dai tedeschi comuni, cosa che ritenevano del tutto impossibile nei loro paesi. Altra cosa che, come testimoniano diversi racconti, aveva profondamente colpito gli occhi dei visitatori era l’ostinato desiderio dei tedeschi di essere apprezzati, capiti e rispettati dagli stranieri.

Persino alla fine degli anni Trenta era ancora possibile per uno straniero passare settimane in Germania e non provare niente di più spiacevole di una puntura d’insetto. Tuttavia c ’ è una differenza tra “non vedere” e “non sapere”. E dopo la Notte dei cristalli del 9 novembre 1938 non potevano esserci scusanti per un viaggiatore straniero che affermasse di “non conoscere” la vera natura dei nazisti (p. 362).

A distanza di tempo, la disinvoltura con cui si tende ad appiccicare l’etichetta “nazista” a tutto ciò che si presenta autoritario rischia di sminuire la portata di quanto accaduto. Meglio sarebbe non dimenticarsi mai cosa è stato davvero il nazismo e di cosa è stato capace.

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Guerra o pace https://www.carmillaonline.com/2023/06/18/guerra-o-pace/ Sun, 18 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77350 di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Lev Tolstoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 128, euro 10,00

Ancora guerra. Ancora sofferenze immotivate, delle quali nessuno beneficia; ancora menzogne; ancora gente inebetita e inferocita (Ravvedetevi! – Lev Tostoj, 1904)

Il titolo di questa recensione ricalca il titolo del capolavoro maggiore di Lev Tolstoj (1828-1910), proprio per sottolineare come non possa esistere una linea intermedia tra la prima e la seconda per chi, davvero, intenda rifiutare i grandi macelli nazionalisti e imperialisti come modo per promuovere la seconda oppure per “difenderla”. Questo soprattutto alla luce del fatto che il grande autore russo, che proprio al tema della guerra dedicò alcune delle sue opere più importanti fin dai suoi esordi letterari, nei tre testi selezionati da Verdiana Neglia per il volumetto pubblicato da Mattioli, cerca di disvelare le menzogne del patriottismo, del difesismo e del pacifismo “armato” che servono solo e sempre a giustificare l’espansionismo imperiale, il revanscismo nazionalista e l’odio per un “nemico” spesso costruito a tavolino e servito bell’e pronto per l’immaginario collettivo e la sua manipolazione in chiave bellicista.

I tre testi: Ravvedetevi! (1904), Le due guerre (1898) e Patriottismo o pace? (1896) appartengono all’ultimo periodo della vita dello scrittore e si riferiscono a momenti ed episodi diversi. Il primo, che è anche il più recente, scritto in occasione dello scoppio del conflitto russo-giapponese; il secondo in occasione del conflitto ispano-americano che avrebbe portato all’espansione dell’imperialismo americano nel Mar dei Caraibi e nel Pacifico e, infine, il terzo, in occasione del conflitto che rischiò di esplodere tra Stati Uniti e Regno Unito a proposito dei confini del Venezuela nel 1895.

In tutti e tre i casi Tolstoj, nel manifestare il suo pacifismo integrale di stampo cristiano, rivolge la sua critica sia all’uso delle armi come strumento di risoluzione delle vertenza internazionali, sia, e forse soprattutto, alle mire imperiali ed espansionistiche che tutte quelle chiamate alla armi celavano dietro a roboanti discorsi anelanti alla libertà e alla giustizia oppure ad una pace “più giusta”.

Non fa sconti lo scrittore né all’imperialismo zarista né, tanto meno, a quello delle altre potenze principali dell’epoca, che da lì a poco, dopo la morte di Tolstoj, si sarebbero confrontate nell’immane carneficina della Prima guerra mondiale. Ma soprattutto non fa sconti agli intellettuali, ai pennivendoli, ai politici presunti “illuminati” che diffondono ed esaltano il verbo di una guerra cui loro, però, prendono parte soltanto a parole.

[…] come possono i cosiddetti uomini illuminati predicare la guerra, promuoverla, parteciparvi senza minimamente esporsi ai pericoli (è questa la cosa peggiore), fomentarla e mandarvi incontro i propri fratelli, infelici e ingannati? […] La maggior parte di loro ha scritto o discusso di questo argomento. […] Tutte queste persone illuminate sono consapevoli che l’armamento generale degli Stati l’uno contro l’altro conduce, senza fallo, a guerre interminabili, o alla bancarotta generale, o a entrambe le cose; sanno che, oltre allo spreco sciocco e insensato di miliardi – ossia di una grande quantità di risorse umane – per prepararsi al conflitto, periscono milioni di uomini energici e vigorosi nel momento della loro vita più adatto a svolgere un lavoro produttivo (le guerre del secolo scorso hanno portato a una perdita di quattordici milioni di uomini). […] Tutti sanno – non possono non saperlo – che le guerre suscitano nelle persone le passioni più depravate e animalesche, le corrompono, le brutalizzano. Tutti conoscono la natura poco convincente delle argomentazioni a favore della guerra […] ma all’improvviso scoppia una guerra e dimenticano ogni cosa. Coloro che fino a ieri sottolineavano la crudeltà, l’inutilità, la follia delle guerre, ora pensano, parlano e scrivono solo di come sconfiggere il maggior numero possibile di avversari, rovinare e distruggere le opere dell’ingegno umano e come fomentare il più possibile la misantropia delle persone pacifiche, innocue e laboriose che con il loro lavoro sfamano, vestono e sostengono proprio questi soggetti pseudo-illuminati, gli stessi che le costringono a commettere atti terribili1.

Non c’è una parola, tra quelle riportate, non un esempio che non sia direttamente riferibile alla guerra in corso in Ucraina e all’atteggiamento che governi, media e intellettuali di regime hanno assunto nei suoi confronti, da una parte e dall’altra dei due schieramenti. E questo rivela anche come l’attuale russofobia, sul lato occidentale e nelle istituzioni politiche e culturali nostrane, cerchi di cancellare contributi di una letteratura, quella russa dell’Ottocento e del Novecento, che forse più di tante altre ha ben conosciuto e combattuto l’ipocrisia del potere e la sua intrinseca violenza.

Non a caso, forse, la prefazione al testo è stata affidata a Paolo Nori, docente, traduttore dal russo, scrittore e saggista2 cui subito, all’inizio della guerra, nel marzo del 2022 fu impedito di tenere un corso su Fëdor M. Dostoevskij all’Università Bicocca di Milano. Eppure, eppure… l’Italia e l’Occidente vantano la superiorità morale del proprio sistema liberal-democratico rispetto al dispotico Putin, che diventa così esempio dell’illiberalità e della violenza di un intero popolo e di un’intera cultura. C’è forse qualcosa che è ancora necessario aggiungere?

Sì, forse proprio la risposta che lo stesso Nori ha dato ad un lettore che accusava Tolstoj di mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti: “Tolstoj lo faceva sempre, era un po’ un disgraziato”. Continuando poi con l’affermare:

E quando sempre in Ravvedetevi!, Tolstoj scrive: «Ieri è arrivata ala notizia dell’affondamento delle corazzate giapponesi e nelle cosiddette sfere altolocate della nobiltà russa, ricca e intelligente, senza alcun rimorso di coscienza, ci si è rallegrati per la fine di migliaia di vite umane» (p.99), a me viene in mente Kurt Vonnegut quando in Mattatoio n. 5 – il romanzo che ha dedicato al bombardamento di Dresda, del quale è stato involontariamente protagonista (era a Dresda, prigioniero dei tedeschi) – scrive: «Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare ad un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione o di gioia»3.

Come sembra invece accadere, ancora oggi, nei salotti mediatici e politici e sulle prime pagine dei giornali e dei notiziari, dove la conta dei danni arrecati agli avversari sembra rasentare la necrofilia e la pornografia della morte. Continuando invece, ancora una volta da una parte e dall’altra, a trattare le azioni nemiche solo e sempre come specifici atti criminali oppure di terrorismo, nascondendo il “semplice” fatto che proprio la guerra di per sé già li comprende e produce entrambi. Così come pensava il sempre attuale, ammirevole, umanamente testardo e inamovibile Lev Nikolàevič Tolstòj.


  1. L. Tolstoj, Ravvedetevi! Ora in L. Tostoj, Patriottismo o pace?, Mattioli 1885, 2023, pp. 17-19  

  2. Tra i suoi titoli: Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij, Mondadori 2021, e I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991, UTET, 2019.  

  3. P. Nori, Modernità, testardaggine, semplicità, prefazione a L. Tolstoj, op. cit., pp. 10-11  

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L’Italia delle piccole “matrie” https://www.carmillaonline.com/2021/08/08/litalia-delle-piccole-matrie/ Sun, 08 Aug 2021 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67249 di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, successivamente, a garantire alla borghesia mercantile prima ed industriale poi un’area di mercato privilegiata, sufficientemente vasta per assicurarne lo sviluppo e l’arricchimento della stessa classe, non vi è più alcun dubbio dal punto di vista storico.

Dal punto di vista politico e dell’immaginario, spesso coincidenti, invece lo Stato Nazionale sembra essere diventato una sorta di realtà astratta, sempiterna e indiscutibile, che il sempre risorgente nazionalismo, sia a destra che a sinistra, continua a sbandierare come fattore indiscutibile di unità di interessi, sicurezza, uguaglianza dei diritti e libertà collettiva e che sfocia quasi sempre in una sorta di religione laica e di fede fanatica di cui il recente sventolio trionfalistico di tricolori in occasione del campionato europeo di calcio ha costituito un’inequivocabile testimonianza.

Stato nazionale e patria, nazionalismo e patriottismo che coincidono nel pensiero comune, ma anche nelle riflessioni filosofiche e politiche ancora dominanti, nascondendo il fatto, ancora una volta certo dal punto di vista storico, che ogni stato nazionale in realtà è sorto dalla distruzione e sopraffazione di innumerevoli identità diverse, non solo di classe, ma culturali, religiose, linguistiche, produttive, economiche e di genere.

Partendo dall’ultimo punto e in attesa di recensire il testo di Michela Zucca recentemente riedito da Tabor1, occorre dire che proprio la formazione degli Stati moderni, con tutto il loro apparato repressivo, inquisitoriale, giuridico e cognitivo, contribuì a posare definitivamente una pietra tombale sull’autonomia delle donne e il loro importantissimo ruolo all’interno delle comunità locali, affermando così, una volta per tutte, un potere, una cultura e una mentalità di stampo patriarcale che contraddistinguono ancora la cultura cristiana e occidentale contemporanea.

Non a caso Massimo Angelini, autore del testo e “coltivatore”, come si definisce egli stesso, delle iniziative editoriali di Pentàgora oltre che studioso delle mentalità, del ruralismo e delle culture orali, parla provocatoriamente di “matrie” invece che di patrie per definire le più di 500 realtà geografiche e sociali illustrate nel testo.

C’è un’Italia che la geografia politica e amministrativa ignora, un’Italia di piccole patrie, anzi màtrie (come la lingua-madre e la terra-madre), sub-regioni, terre identitarie, bioregioni, case comuni, nicchie linguistiche, luoghi omogenei per ambiente o per storia o per cultura, talvolta grandi come piccole regioni, talvolta piccole come lo spazio che lo sguardo può abbracciare da un campanile; c’è un’Italia dove prossimità e vicinato forse vogliono dire qualcosa e il locale è un portato di cultura quando, però, non degrada nel localismo, in uno spazio meschino di paura e chiusura, in uno spazio di autocompiacimento attraverso la costruzione dell’altro, il foresto, l’estraneo, lo straniero; c’è un’Italia fatta di molte terre, più grandi dei singoli comuni meno dei territori amministrativi, multicolore come l’abito di Arlecchino dove, però, nessun rombo è uguale agli altri; un’Italia che tutti conoscono e forse per la prima volta qui viene rappresentata. Un’Italia composta di terre, di màtrie [ne sono state contate, descritte e cartografate 581] definite nel tempo per ragioni di omogeneità ambientale, per questioni di storia politica laica o ecclesiastica (le diocesi), intorno alla diffusione di una lingua locale o di una sua declinazione, separate da fiumi o dislivelli, o da coste e crinali o da altri confini meno visibili, meno reali, eppure veri per l’incidenza che hanno avuto nella vita delle persone e nella costruzione degli immaginari locali2.

E’ un’Italia che non compare sugli atlanti tradizionali e che la carta allegata al testo ci rivela in tutta la sua varietà e complessità linguistica, culturale e geografica. La scelta dell’autore è stata quella di chiamare regioni i territori che hanno una estensione superiore ai 1.000 kmq e terre quando sono di minor estensione, mentre in altri casi si parla di circondario, conurbazione o più genericamente di territorio. In ogni caso, poi, si usa sempre il termine dialetto per indicare le lingue locali. Tutte senza eccezione e senza svalutazione. Per ognuna di queste “matrie” vengono inoltre forniti il numero dei comuni che vi sono dislocati, il capoluogo (inteso come centro di maggior rilevanza amministrativa e/o culturale), l’origine della definizione del territorio e una lettura consigliata per comprendere meglio il tutto (in genere un romanzo).

Questa prima edizione è inevitabilmente incompleta e approssimativa, con numerose informazioni da rivedere, imprecisioni da correggere; ma è anche un’occasione per iniziare una riflessione su quei territori che in qualche misura definiscono un’appartenenza locale per ambiente, immaginario, lingua, abitazione, desiderio (jus cordis, questo è ciò che dovrebbe bastare per essere o diventare nativi di un luogo: né jus sanguinisjus soli, solo jus cordis3), e permettono ai membri di una collettività di dire ‘io vengo da…’, ‘io vivo in…’.
[… Ma] ha senso parlare di màtrie e terre identitarie nell’era declinata alla globalizzazione? C’è il rischio che il loro riconoscimento possa essere usato per ravvivare retoriche di nostalgia e rinforzare voglie di separazione o campanilismi da strapaese?
Sono domande che mi sono posto più volte durante l’intera ricerca: alla prima non so rispondere con certezza; quanto al rischio evocato nella seconda… sì, lo vedo.
Comunque, al di là dei rischi di fraintendimento, credo che ripensare le geometrie del creato e della cultura sulla base dei saperi condivisi, delle conoscenze comunitarie, dell’immaginario popolare – penso, per esempio, ai sistemi di soprannominazione personale e familiare vs l’anagrafe pubblica o alle tassonomie popolari vs quella linneiana o a tutto quanto lasci trasparire un recupero di dignità dello sguardo sul mondo prevalentemente innervato sull’oralità rispetto a quello su cui pesa il monopolio della scrittura – sia necessario per la crescita di una sensibilità profondamente democratica e altrettanto utile per mantenere aperto il respiro della poesia4.

L’elenco è lungo, ampio e dettagliato e anche se contiene, come afferma lo stesso autore, qualche imprecisione, ad esempio Oulx come luogo principale della Valsusa, che potrà essere corretto in futuro, certamente potrà essere di stimolo per vedere la geografia “politica” dell’Italia sotto un altro punto di vista. Soprattutto il testo può contribuire anche a rimettere in discussione quei confini “naturali” dati per scontati e che, soltanto per citare un esempio, nel caso delle valli occitane non sono altro che un escamotage ideologico-politico per separare popolazioni molto più vicine di quanto gli Stati vorrebbero ammettere (e permettere).

Un ottimo libro, infine, per programmare nel corso dell’estate un viaggio di esplorazione di un paese che, dopo aver consultato le sue pagine, non vi sembrerà più lo stesso e così scontato.


  1. Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021  

  2. Massimo Angelini, Una prefazione necessaria in M. Angelini (a cura di), Un’altra Italia, Pentàgora 2021, pp. 9-10  

  3. cor, cordis: latino per animo, intelligenza, senno, cuore  

  4. M. Angelini, op.cit., pp. 10-16  

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Walt Whitman e la fondazione del mito nazionale americano https://www.carmillaonline.com/2017/04/20/walt-whitman-la-fondazione-del-mito-nazionale-americano/ Wed, 19 Apr 2017 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37729 di Sandro Moiso

Whitman_West Walt Whitman, Un sillabario americano, a cura di Livio Crescenzi, Mattioli 1885 2017, pp. 94, € 8,90 – W. Whitman, Taccuini della guerra di secessione, a cura di L. Crescenzi e Silvia Zamagni, Mattioli 1885 2016, pp. 134, € 16,90 – W. Whitman, Nel West e altri viaggi, Mattioli 1885 2008, pp. 120, € 16,00

Nel nostro linguaggio si è depositata un’intera mitologia” (Ludwig Wittgenstein – Note sul “Ramo d’oro” di Frazer)

Grazie alla ristampa dei tre testi di Walt Whitman operata, nel corso degli ultimi anni, da Mattioli 1885 oggi diventa forse più facile giungere a [...]]]> di Sandro Moiso

Whitman_West Walt Whitman, Un sillabario americano, a cura di Livio Crescenzi, Mattioli 1885 2017, pp. 94, € 8,90 – W. Whitman, Taccuini della guerra di secessione, a cura di L. Crescenzi e Silvia Zamagni, Mattioli 1885 2016, pp. 134, € 16,90 – W. Whitman, Nel West e altri viaggi, Mattioli 1885 2008, pp. 120, € 16,00

Nel nostro linguaggio si è depositata un’intera mitologia” (Ludwig Wittgenstein – Note sul “Ramo d’oro” di Frazer)

Grazie alla ristampa dei tre testi di Walt Whitman operata, nel corso degli ultimi anni, da Mattioli 1885 oggi diventa forse più facile giungere a fissare i momenti attraverso i quali il mito nazionale di quella che si avviava a diventare la più grande potenza mondiale esistita fino ad oggi è stato formulato. E individuare con certezza uno degli inventori, magari involontario, di una narrazione che sarebbe diventata dominante per un’intera nazione e per la cultura politica (e non solo) di una buona parte dell’Ottocento e del Novecento.

Walt Whitman (1813 – 1892), progressista, democratico e omosessuale, è da considerare non solo come uno dei padri della poesia americana moderna, ma anche dell’ “american dream”, mentre la sua raccolta di poesie Leaves of Grass, rivista e ripubblicata dall’autore in ben nove differenti edizioni tra il 1855 e il 1892, ha costituito una sorta di autentico faro per il rinnovamento della poesia moderna tout court. Almeno fino a tutta la prima metà del ‘900.
In Italia, attraverso la tesi di laurea di Cesare Pavese, segnò l’inizio di un tormentato rapporto tra la cultura accademica tradizionale e la scoperta della letteratura americana, fino ad allora ritenuta barbara, portata avanti proprio da Pavese ed Elio Vittorini.1

Cresciuta dalle iniziali dodici sino al mezzo migliaio di poesie e poesie in prosa contenute nelle ultime edizioni, l’opera non suscitò soltanto interesse o contrarietà per l’abbandono delle forme metriche tradizionali e l’uso di un linguaggio spesso preso dal parlato quotidiano e dallo slang, ma anche una tenace opposizione da parte di chi coglieva nella sua ricerca poetica elementi di oscenità e immoralità, fino alla proibizione, ad opera di un procuratore di Boston, della sua pubblicazione in occasione della sua settima edizione nel 1881 .

Come molti altri scrittori americani della sua epoca,2 Whitman fu prima giornalista e poi scrittore. Anzi, ancor prima tipografo poiché, a causa delle difficili condizioni economiche della famiglia di origine che gli avevano impedito di seguire un regolare percorso educativo, di fatto imparò a scrivere proprio attraverso l’uso dei caratteri tipografici. La sua lingua e le sue idee si sarebbero espresse e manifestate così sui giornali a diffusione popolare ancor prima che nelle poesie o nelle prose che avrebbe in seguito scritto oppure nelle conferenze, su argomenti quali il sesso, il linguaggio e sulle caratteristiche che dovrebbe avere una democrazia ideale, che sarebbe poi stato invitato a tenere .

Proprio questa sua formazione da irregolare lo avrebbe portato a riflettere sulla lingua americana, su ciò che avrebbe dovuto essere e ciò che avrebbe potuto esprimere. Nella testimonianza di Horace Traubel, amico intimo di Whitman e autore di una biografia in nove volumi dell’autore americano, riportata nel Sillabario, il poeta ebbe modo di affermare: “Quest’argomento del linguaggio mi interessa…m’interessa molto…Non m’è mai uscito dalla testa. A volte mi viene da pensare che le foglie non siano altro che un esperimento di carattere linguistico…Insomma , che si sia trattato soltanto di un tentativo…offrire allo spirito, al corpo, all’individuo, nuove parole, nuove potenzialità del linguaggio…una sorta di estensione americana e cosmopolita della libera espressione […] Il nuovo mondo, i tempi nuovi, i nuovi popoli, le nuove opinioni, le nuove prospettive, necessitano di una lingua appropriata – sì, e ciò che è più importante è che noi questa lingua alla fine l’avremo3

whitman sillabario Gli scritti di Withman raccolti nel saggio sulla lingua americana appartengono a quello che molti considerano il periodo più fertile per la sua opera, quello compreso tra il 1850 e la Guerra di Secessione. “In America è necessario un enorme numero di nuove parole per incarnare i nuovi fatti politici, […] i discorsi politici fatti a braccio – le modalità della propaganda elettorale – il modo di rivolgersi al popolo – stabilire tutto ciò che deve essere espresso nei modi adatti alla vita e alle esperienze degli abitanti dell’Indiana, del Michigan, del Vermont, degli uomini del Maine4

Per il poeta americano l’infanzia costituiva il riflesso in ogni singolo essere umano dell’infanzia dell’umanità e l’infanzia della nazione americana sembrava dover ripercorrere, ai suoi occhi, tutti i processi di apprendimento che si sviluppano nell’individuo durante la sua crescita. In primo luogo quello dell’apprendimento e sviluppo del linguaggio. L’infanzia dell’America diventa dunque l’infanzia di un nuovo mondo. Immagine dalla forte valenza mitopoietica che diventerà dominante in quasi tutti i discorsi sul ruolo degli Stati Uniti nella storia del mondo. Una nazione nuova, schietta, democratica.

Mi piacciono le parole svelte, durature, feroci […] Pensate forse che le libertà e la forza muscolare di questi Stati debbano avere solo a che fare con delicate parole da signore? Con parole in guanti bianchi dei gentiluomini? Cattivi Presidenti, cattivi giudici, cattivi clienti, cattivi direttori dei giornali, proprietari di schiavi e le interminabili schiere degli intrallazzatori politici del Nord (ladri, traditori, corrotti), monopolisti, infedeli, castrati, impotenti, invertiti, froci, ecclesiastici, uomini che non amano le donne, donne che non amano gli uomini, deplorano in continuazione l’uso delle parolacce forti, taglienti, espressive. Per gli istinti virili del popolo invece saranno sempre le benvenute”. 5

Tutto il discorso dell’America come nazione cui cultura, lingua e tradizione appartengono al Popolo è riassunto in queste parole, che espandono ulteriormente il significato di quel “We the People…” che costituisce il preambolo della Costituzione americana. “Il carattere forgia le parole […] Noi dobbiamo legittimare la nostra eredità, – dobbiamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, anche fra un migliaio di anni, in quanto discendiamo dagli Inglesi di un migliaio di anni fa: la geografia americana – l’abbondanza e la varietà dei grandi popoli dell’Unione – le migliaia di insediamenti – le coste – il Nord canadese – il Sud messicano – la California e l’Oregon – i grandi laghi- le montagne – l’Arizona – le praterie – gli immensi fiumi”.6

Tutto è grande, potente, immenso nella visione di Withman che sembra voler ripercorrere a livello linguistico la dichiarazione di Monroe del 1823.7 Una visione che precorre dal punto di vista dei contenuti tanta letteratura americana fino a Kerouac e, da un altro, l’espansione imperiale ben oltre i confini del Nuovo Mondo. Autentica dimostrazione del fatto che, troppo spesso, la strada per l’inferno è lastricata di buone, talvolta ottime, intenzioni.

whitman_taccuini_della_guerra_di_secessione Così fu proprio nei drammatici Taccuini della guerra di secessione che Whitman giunse a delineare con più precisione e determinazione ciò che costituiva per lui il carattere e la grandezza della nazione americana. “Quattro anni in cui sono concentrati secoli di passioni ancestrali, immagini di prima categoria, tempeste di vita e di morte – una miniera inesauribile di vite e di morti, che riempiranno la storia, il teatro, la letteratura e persino la filosofia dei secoli a venire – anzi, un’autentica colonna vertebrale della poesia e dell’arte (anche di carattere personale) per tutta l’America futura (molto più possente, secondo me, per le penne che saranno in grado di cimentarsi con esse dell’assedio di Troia di Omero e delle guerre francesi di Shakespeare) […] Nei miei ricordi di quel periodo, e attraverso oceani immensi e vortici torbidi e cupi, sempre più chiara emerge la risolutezza, la severità e l’austera saldezza della maggior parte dei normali Americani, l’animo teso ad uno scopo preciso, anche se spezzato e travolto da chissà quale spaventosa tempesta. La gente comune che si è distinta in migliaia di episodi di un grande e straordinario eroismo, che non hanno mai cessato di ripetersi“.8

Attraverso le pagine di taccuino e le descrizioni terribili degli ospedali da campo visitati dal poeta nel corso della guerra, sorge l’immagine di una nazione guerriera, non importa su quale fronte schierata. Una nazione che sa soffrire per raggiungere uno scopo, un popolo che si fa nazione al di là degli interessi egoistici e meschini dei politici o dei proprietari corrotti. Un’immagine che rivela come il Populismo, quasi sempre, finisca col coincidere con il Nazionalismo e che l’unica differenziazione possibile sia costituita dal fatto che mentre per una Nazione ancora in via di formazione o di liberazione dal dominio di una potenza straniera può coincidere con il Patriottismo, una volta che questa si sia formata ed affermata in quanto Stato il significato ultimo di populismo non può essere altro che sinonimo di aggressività, razzismo, egoismo e militarismo. Con buona pace di tutti coloro che oggi cercano di interpretare in chiave classista i fenomeni politici di carattere populista e si stupiscono delle presunte giravolte di Donald Trump.
Il background è comune e Whitman ha almeno il pregio di rivelarcelo con centocinquant’anni di anticipo.

“Dio e Popolo” affermava il nazional-populista risorgimentale Giuseppe Mazzini. “Dal Popolo deriva tutto, compresa, e soprattutto, la lingua” avrebbe potuto affermare Whitman, con la pletora di successivi imitatori che potrebbero andare dai democratici desiderosi di sottomettere i territori messicani nella prima della metà dell’Ottocento fino ai liberatori dalle tirannie delle campagne mediatiche del XX e XXI secolo. Su, su fino a noi, fino a Bruce Springsteen e Donald Trump.

E’ la fondazione mitologica di questo sistema di valori e la loro pretesa universalità […] è la pretesa universalità della cultura di fondazione e formazione a lungo egemonica che questa democrazia nazionale esprime, riflettendone il carattere parziale, classista , razzista, sessista, al fondo molto violento9 che la lettura di Whitman ci aiuta a comprendere. Comprendere per destrutturare un immaginario culturale e , soprattutto, politico che è servito a dare senso, scopo e giustificazione ad un modo di produzione e ad un imperialismo assolutamente privi di raziocinio ed umanità.

Ma quel Popolo e quella Nazione hanno bisogno di uno spazio territoriale in cui poter pienamente insediarsiarsi. Un paesaggio che ne rifletta, allo stesso tempo, l’immagine e la potenza ed ecco allora che l’occasione di un viaggio, o di più viaggi, all’Ovest può costituire il momento per la sua definizione; come avviene nella raccolta di scritti Nel West e altri viaggi.
Tutto negli Stati Uniti è grande , immenso, nuovo, eroico. Dalle praterie alle ferrovie, dai fiumi ai vagoni letto e dalle città alle loro folle.

Dopo un’assenza di molti anni […] eccomi nuovamente qui, pieno di curiosità, a riprendere contatto con le folle e le strade che conosco così bene: con Broadway, con i ferry, con la parte occidentale della città e la democratica Bowery. E ritrovo i modi e l’aspetto della gente che s’incontra in questi luoghi, ma anche intorno ai moli. O nel perpetuo viavai di vetture a cavallo, o nei battelli gremiti di turisti, a Wall Street e Nassau Street di giorno o nei locali di divertimento di notte: un qualcosa di vorticoso, rigurgitante e fluido come le acque che lo circondano, un’umanità sterminata in tutti i suoi stadi, e poi ancora Brooklyn. […] Non c’è bisogno di scendere nei dettagli: basti dire che (pur con le dovute riserve per le ombre e le venature marginali di città da un milione di anime). Dovendo sintetizzare le mie impressioni su queste immense città, sulle loro qualità umane, le ho trovate confortanti, persino eroiche, al di là di ogni definizione. Espressioni vivaci, figure generalmente ben proporzionate in buona salute, occhi limpidi e diretti, la singolare combinazione di reticenza e disinvoltura con un’indole simpatica e socievole; in prevalenza una gamma conforme di modi, gusti, intelligenze, certo più di quanto non si trovi in qualsiasi altro luogo del mondo; e una palpabile fioritura di quel solidale cameratismo cui io guardo come al più sottile e tenace dei collanti futuri per questa variegata Unione: aspetti che non solo si colgono qui, in questi imponenti canali di umanità, ma che costituiscono ovunque la regola e la media. Oggi potrei dire – incurante dei cinici e pessimisti, ma nella piena consapevolezza delle loro ragioni – che un approfondito studio di valutazione sull’attuale popolazione newyorkese sarebbe la prova più concreta finora disponibile per dimostrare la buona riuscita della Democrazia10

Per mezzo di questi taccuini, due dei quali11 poi inseriti da Whitman nella sua unica opera di carattere autobiografico,12 è possibile tracciare il divenire della letteratura americana moderna e non solo. Dall’incipit “I Sing the Body Electric…” della sua poesia più famosa fino al Futurismo sgraziato di Marinetti e al sutra di Denver di Jack Kerouac. Ma è anche possibile individuare i caratteri del populismo interclassista di Trump e dei suoi seguaci europei, oppure, ancora più semplicemente dell’Eroe Americano schietto, diretto e limpido che ha conquistato il mondo attraverso i volti di tanti divi di Hollywood, le portaerei e i marines.

Benissimo ha fatto, quindi, la casa editrice Mattioli 1885 riproponendoli e cogliendone, allo stesso tempo, l’attualità. Sia per il letterato che per lo storico oppure per tutti coloro che possono essere interessati ad una comprensione e ad una critica dell’immaginario che sostiene e giustifica ancora buona parte della società che ci circonda. E domina.

E l’America non è più America, non più un mondo nuovo: è tutta la Terra” (Elio Vittorini – Americana)


  1. Si veda il saggio di Cesare Pavese del 1933, pubblicato sulla rivista “La cultura”, Interpretazione di Walt Whitman poeta, ora in Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, pp. 141- 165, Einaudi 1962  

  2. Brett Harte, Mark Twain, Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne ed altri ancora  

  3. Horace Traubel, Prefazione a W. Whitman, Sillabario americano, pag.21  

  4. Whitman, id., pag.33  

  5. Withman, id., pp. 44-45  

  6. ibidem, pag. 31  

  7. Nota come Dottrina Monroe fu elaborata dal Presidente John Quincy Adams e pronunciata da James Monroe al messaggio annuale al Congresso il 2 dicembre 1823. Costituisce, insieme alla teoria del Manifest Destiny, usata principalmente dai democratici di Andrew Jackson negli anni ’40 dell’Ottocento per promuovere l’annessione di buona parte di quelli che oggi sono gli Stati Uniti Occidentali, la base ideologica del diritto degli Stati Uniti ad occuparsi di tutto il continente americano. A Nord così come a Sud, escludendo qualsiasi ulteriore intervento europeo sul Nuovo Continente. 

  8. W. Whitman, Taccuini della guerra di secessione, pag. 19  

  9. Così come si esprime Samuele F. S. Pardini in Charlie Don’t Surf. Le origini bianche delle guerre americane, Introduzione a Leslie Fiedler, Arrivederci alle armi, Donzelli Editore 2005, pag. X  

  10. W. Whitman, Nel West e altri viaggi, pp.100-101  

  11. Quello sulla Guerra di Secessione e quello dei viaggi all’Ovest  

  12. W. Whitman, Specimen Days, traduzione italiana Giorni rappresentativi, Garzanti 1999  

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Non c’è crisi in Paradiso. Paradossi e identità di classe nell’America di Obama e di Trump – Seconda parte. https://www.carmillaonline.com/2016/10/03/non-ce-crisi-paradiso-paradossi-identita-classe-nellamerica-obama-trump-2/ Mon, 03 Oct 2016 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33570 di Fabrizio Salmoni*

usa-6 Può essere utile alla comprensione del quadro cultural-ideologico dell’ultraconservatore una breve rassegna di temi-chiave.

I sindacati: Ostacolano la volontà di lavorare, e, con le vertenze causano l’aumento dei prezzi o, nel caso peggiore, la delocalizzazione dell’azienda.

La solidarietà: Per portare a casa otto dollari all’ora, lavorando a turni e pregando di poter fare straordinari per poter pagare le bollette, in competizione con i colleghi o con gli immigrati, l’inevitabile conclusione è che ognuno è per sé.

Il lavoro: Piuttosto che perderlo, meglio pagare l’azienda perchè non se ne vada. [...]]]> di Fabrizio Salmoni*

usa-6 Può essere utile alla comprensione del quadro cultural-ideologico dell’ultraconservatore una breve rassegna di temi-chiave.

I sindacati: Ostacolano la volontà di lavorare, e, con le vertenze causano l’aumento dei prezzi o, nel caso peggiore, la delocalizzazione dell’azienda.

La solidarietà: Per portare a casa otto dollari all’ora, lavorando a turni e pregando di poter fare straordinari per poter pagare le bollette, in competizione con i colleghi o con gli immigrati, l’inevitabile conclusione è che ognuno è per sé.

Il lavoro: Piuttosto che perderlo, meglio pagare l’azienda perchè non se ne vada. Come è successo nel 2002 a Winchester, Virginia, dove la comunità e lo Stato hanno raccolto quasi 1 milione di dollari per convincere la Newell Rubbermaid a rimanere, a titolo di “assistenza all’espansione”. La Rubbermaid ha incassato, ringraziato “l’incrollabile etica del lavoro dei cittadini” e ha ridotto il personale1

L’ambiente: Al diavolo gli ambientalisti, noi dobbiamo lavorare. L’ecologia è una dottrina ingannevole dei liberals.

Lo Stato sociale: Roba da negri. Il principio peculiarmente americano della responsabilità individuale impone che ognuno conquisti il proprio benessere senza dover dire grazie a nessuno, tanto meno al governo e tanto peggio se non ci si riesce.Aspettarsi l’assegno di disoccupazione vuol dire che si è pigri, parassiti, non intraprendenti, inadatti alla competizione che è durissima, e che la miseria te la sei meritata. Lo dice anche Dio.

I pacifisti: Dei rompicoglioni. Chiunque impedisca di lavorare o impedisca all’America di prosperare, magari negando fonti energetiche o materie prime, che sia un bamboccio di Hollywood o Bin Laden, è da eliminare senza pensarci su troppo. Ci pensino i militari.

Le armi: Un diritto costituzionale più che mai innegabile specie ora che arrivano profughi e terroristi da ogni buco ad aumentare i pericoli della criminalità. E poi non sono le armi il problema ma solo quelli che non sanno usarle.

La cultura: E’ il bagaglio di nozioni che servono nella quotidianità a lavorare bene e a sopravvivere. Tutto il resto è manipolazione dei liberals: giornalisti, storici, sociologi, yuppies fanno quel che fanno perché sono liberal. E i liberals mentono, ingannano. Il progressismo non è un prodotto delle forze sociali ma è una dottrina che si muove secondo schemi tanto meccanici e rigidi da ricordare il comunismo.

Il cittadino Repubblicano non destruttura la letteratura post-moderna, non beve cabernet, non compra dai cataloghi di Abercrombie o Fitch, non beve il “latte” di Starbucks (il nostro latte macchiato) ma sa costruirsi la casa, allevare i propri figli, fare tutti i lavori manuali, riparare un motore, riconoscere un buon albero d’acero per farci lo sciroppo, sparare col fucile, adoperare una sega elettrica senza timori, coltivare un campo, bere birra e whiskey al pub. Diversamente dai liberals che “pensano di essere i più furbi“, che usano il sarcasmo su tutto quanto non riconoscono, che sostengono che tutto quanto è confusione ideologica e morale sia consapevolezza, che frequentano le università più esclusive americane ed europee dove imparano gli insegnamenti di Marx con cui indottrinano i giovani.

Il cibo: Prodotti del grano e carne, non importa se gonfiata e intenerita da Ogm, preferibilmente di selvaggina cacciata, pesce pescato, cucina semplice, casereccia, patate e fagioli, oppure tutto quanto ti sfama in fretta e in qualsiasi momento del giorno: il tempo è denaro non guadagnato. Solo i fighetti e gli alternativi, vegani o vegetariani, fanno shopping alimentare a Wholefoods.

I valori: Umiltà e semplicità, le verità del buon senso popolare dei “vecchi tempi”, di sempre, sono celebrati come veri e originali valori americani. L’autenticità è quella che unisce la gente comune e che distingue dai liberals falsi e ipocriti. Una persona vera è cortese, gentile e rifugge dal sollevare argomenti, come la politica, che possano mettere in imbarazzo gli interlocutori (salvo magari attivarsi per la propaganda locale e poi votare Repubblicano), è una persona che lavora duramente. Il frutto del lavoro è concreto: si può misurare in pounds, bushels (la misura di capacità per i cereali), numero di mattoni posati, di chiodi piantati, mentre i liberals sono burocrati e imbelli imbratta-carte che fanno di tutto aria fritta. E poi c’è il patriottismo, sostenuto sovente contro ogni evidenza quotidiana, che l’America è il Paese migliore del mondo, dove tutte le libertà, anche più estreme se non contraddicono la morale e la legge, sono ammesse, e di conseguenza non si accettano né interferenze né critiche né tanto meno minacce esterne che impediscano il naturale corso della scalata al benessere. E allora si benedicono i figli che vanno in Afghanistan o in Iraq e vederli tornare in una bara innalza soltanto l’orgoglio, lo spirito di sacrificio dovuto al Paese, la volontà di rivalsa estrema (“l’atomica contro i terroristi”). Gli ultraconservatori non negano la realtà ma ne creano una parallela funzionale alla loro abissale ignoranza e sono pronti ad accettare una svolta politica autoritaria basta che garantisca la benzina a basso prezzo e la possibilità di andare alle corse Nascar o alla partita di football, o di fare acquisti al Wal-Mart.

In economia, il cittadino Repubblicano è per il libero mercato, senza ostacoli o regole imposte da governo o da qualsiasi autorità “esterna”, anche quando la realtà gli si ritorce contro sotto forma di tagli allo stipendio, di precarietà, di perdita del lavoro, di aumento dei prezzi, “perché un’azienda ha tutti i diritti di fare i propri interessi“.

Messo tutto questo insieme non deve stupire che, per molti, un Barack Obama, Presidente nero che coltiva gli orticelli alla Casa Bianca, che promuove una riforma sanitaria offensiva per la responsabilità individuale, che favorisce le politiche ambientali, che è favorevole a una seppur blanda regolamentazione delle armi, all’aborto e ai matrimoni omosessuali, sia un elemento estraneo, non-americano, un socialista, la nefasta conseguenza della cultura liberal. Hillary Clinton è quasi peggio: rappresenta l’establishment, la falsità del potere, la burocrazia governativa, le minoranze non-americane, l’odiato welfare, l’interferenza del governo sulle libertà costituzionali.

Quali risposte dal Partito Democratico?

A giudicare dal livello e dalle scelte tematiche del dibattito di lunedi 26 e dalle sue premesse, la candidata Clinton ha fatto poco per differenziarsi dall’avversario e quello che non ha detto non ha fatto che confermare le mutazioni in corso nel suo Partito. Razza e genere sono temi rientranti nella categoria dei valori, argomenti, come abbiamo visto, su cui la destra ha occupato quasi pienamente il campo. Non è quindi un caso che le posizioni espresse dalla Clinton siano solo lievemente più nette di quelle di Trump parlando dei recenti omicidi polizieschi di cittadini neri: si è di fatto limitata ad appoggiare le richieste della comunità nera di Charlotte in rivolta di rendere pubbliche le riprese del fatto e a denunciare “il sistematico razzismo” contro i neri. Giusto per confermare indirettamente l’assunto che il Partito Democratico è il naturale riferimento per neri e minoranze. Il livello delle risposte di entrambi, alle orecchie degli elettori, non fa che ribadire sommessamente che dei neri e delle minoranze ai due partiti importa poco. Tanto meno del proletariato bianco.

Sono anni che il PartitoDemocratico va in direzione diversa da quella della propria storia per assorbire le fasce professionali di indirizzo progressista (il termine yuppie fu coniato nel 1984 per descrivere i sostenitori di Gary Hart), e per corteggiare élite culturali, corporation e grandi aziende capaci di contribuire generosamente alle campagne elettorali, molto più che i sindacati, base tradizionale del partito. Per tali fini, la strategia dei cosiddetti New Democrats si è rivolta al sostegno forte e convinto dei temi”ideologici” (per la libera scelta su aborto, omosessualità, razzismo, diritti civili in genere), i valori, e mettere da parte a loro volta le questioni economiche su cui con l’altra mano fare infinite concessioni: il welfare, il Nafta, le leggi sul lavoro, la flessibilità delle norme (deregulation), le privatizzazioni, le tasse, ecc. ritrovandosi su questo piano in piena sintonia con i Repubblicani. Il voto dei lavoratori? Si suppone che non abbiano altra scelta: il PD avrà sempre un piccolo margine di interesse per loro che non gli avversari. E poi, diciamocelo francamente, quale politico in un Paese che mette la corsa al successo in primo piano ha interesse ad essere la voce dei poveri? O di sindacati che ormai contano per il 9% nel settore privato. Quindi niente battaglie autolesioniste sui temi sociali: gli elettori andranno a istinto. I Repubblicani ringraziano. I poveri sono sempre più soli, abbandonati al consumismo selvaggio nella tempesta del libero mercato.

Ecco dunque come entrambi i partiti sono diventati veicoli degli interessi primari dei ricchi o della medio-alta borghesia. Una tendenza che sembra riguardare tutte le forze politiche dell’Occidente produttivo, che tritura definizioni esauste come destra e/o sinistra.

E Dio, che dice?

usa-4 Questo schematico ritratto del cittadino bianco, povero, Repubblicano, non sarebbe completo e non basterebbe a far capire quanto possa pesare sul piano politico senza considerare l’involucro ideologico-spirituale fornito dalle dottrine evangeliche.
Parliamo dell’altro grande paradosso americano: una nazione che ha sancito dalle origini la separazione dello Stato dalla Chiesa ma che è la più “credente” degli altri paesi moderni contemporanei. I sondaggisti attuali certificano che il 62% dei blue collars va regolarmente in chiesa e una quota tra un quarto e un terzo di loro si riconosce nella definizione di “born again christian“, cristiano ri-nato. Nel loro insieme, i fedeli delle varie congregazioni evangeliche sono nella quasi totalità bianchi e con grado di istruzione massima di diploma superiore. Il fondamentalismo religioso è diviso in molte correnti e con le elezioni del 2000 è venuto allo scoperto sul terreno elettorale giocando un ruolo fondamentale per l’elezione di George W. Bush. Da allora si sono ulteriormente rafforzati e non c’è candidato dei due maggiori partiti che non coltivi rapporti con qualche settore cristiano-militante.

I fondamentalisti, in ogni religione, sono per l’interpretazione alla lettera dei testi sacri e l’applicazione alla realtà della parola di Dio. Come in Iran, come in Israele, come per i musulmani jihadisti, tanto per fare esempi di attualità, i fondamentalisti cristiani americani si pongono l’obiettivo di uno Stato teocratico. Certi evangelici vorrebbero cancellare la Costituzione e instaurare la Legge della Bibbia, altri sono convinti che la Fine dei Tempi e le più cupe profezie bibliche si stiano avvicinando. Una fine dei Tempi iniziata con la fondazione di Israele e che dovrà compiersi con il ritorno del Messia ma solo dopo un’apocalisse, l’Armageddon. Per affrettarne i tempi sostengono di voler accelerare tale processo, favorendo l’occupazione totale dei “territori biblici” da parte di Israele, se necessario anche con una guerra nucleare in Medio Oriente. Per essi, chiunque si adoperi per la pace ritarda l’Avvento ed è strumento di Satana. La sola speranza per gli uomini è di accettare Gesù come salvatore personale.

In questa cornice, tutti i mali del mondo, le guerre, l’aids, la criminalità, il collasso ambientale sono piaghe capitali, i segni dell’avvicinarsi della desiderata Fine dei Tempi.
Si può immaginare quali possano essere le conseguenze politiche di un proselitismo su quelle basi, proselitismo più che mai attivo visto che, per esempio, Mike Spence, il candidato vicepresidente di Trump è uno di loro, come tanti altri politici a ogni livello di rappresentanza. Ci si può cominciare a preoccupare alla luce di una significativa aspettativa: Dio fornirà un leader cristiano per condurre il gregge americano, che diventerà il suo nuovo popolo eletto per estendere il vangelo a tutto il mondo e liberare la Terra dal Male 2

Il ramo dei “dispensazionalisti”, coloro che credono che gli eletti verranno “rapiti” e portati in cielo, invoca anche lo smantellamento di ogni tutela ambientale, perchè non ci sarebbe più bisogno di questo pianeta dopo il “Rapimento”.
La dottrina fondamentalista è consolatoria e gratificante per chi non possiede che il proprio lavoro perché esige gratitudine per quello che Dio elargisce, anche se poco, ma non disdegna il vile denaro per accrescere gli strumenti di proselitismo e la disponibilità personale dei pastori: Tom Anderson, un esempio tra i tanti, è il fondatore della Living Word Bible Church di Mesa, Arizona. La sua Chiesa conta oggi più di 8000 fedeli, un patrimonio di 10 milioni di dollari e cinque sedi in tutto lo Stato. Anderson è autore anche del best seller Becoming a Millionaire God’s Way (Diventare milionari seguendo la strada di Dio) in cui istruisce la gente dicendo che “la prosperità si raggiunge con Dio, con il duro lavoro e con investimenti ben calibrati“. Lui ha evidentemente investito nella sua congregazione perchè chiede a ciascun fedele una “decima” del proprio reddito. Se poi vogliono dare anche di più saranno certi di essere chiamati in Paradiso.

usa-5 Le chiese fondamentaliste si sono espanse con la fine della Guerra Fredda, con la sconfitta del Diavolo materialista. Hanno aperto Fondazioni, scuole, università private, si sono allargate all’estero (anche qui da noi), lavorando sottobanco, catalizzando contributi dall’odiato governo.3
L’obiettivo del cristiano militante è collocare sempre più credenti in posizioni di rilievo nello Stato e naturalmente ne hanno i mezzi e le capacità,4 tra cui quella di convogliare comunicazione alternativa, quella che semplifica ogni argomento con concetti facili da acquisire che alimenta a sua volta il risentimento verso i saccenti intellettuali liberal.

Paradossalmente, ancora, la tensione mistica è al massimo nell’America di oggi, con il suo carico di tensioni millenaristiche e di ansie per la sopravvivenza quotidiana per i bianchi poveri, proprio quando la crisi sancisce la vittoria completa delle corporation, del capitalismo sfrenato. Tra i proletari bianchi5 c’è una rabbia compressa, un odio palpabile verso tutto ciò che è ritenuto snob, elitario, figlio degenerato della società urbana, superfluo, estraneo ai principi ed allo spirito originari americani, che è difficile dire quali sbocchi possa avere. La cattiva politica, i politicanti senza scrupoli ma anche l’ignavia dei progressisti che, arroccati nel nord est e tra le minoranze non vedono la pancia del Paese e ballano sul ponte del Titanic, hanno prodotto un capovolgimento di fronte nelle classi basse che rischia di produrre scenari drammatici per tutti. E’ bene esserne consapevoli.

stanlio-e-ollioSe poi qualcuno volesse trovare in quanto sopra descritto qualche similitudine con processi in corso anche da noi, troverebbe qualche ragione in più per preoccuparsi.

*Master in Studi Americani all’Università del Texas

(Finela prima parte è stata pubblicata su Carmilla sabato 1 ottobre)


  1. Joe Bageant. Deer Hunting with Jesus. Dispatches from America’s Class War, 2006, Crown Group  

  2. Joe Bageant, ibidem  

  3. Il 7% degli stage di lavoro offerti dall’amministrazione Bush è andato al Patrick Henry College di Purcellville, Virginia, un college che offre programmi di intelligence strategica, diritto e politica estera secondo una rigida visione cristiana del mondo. Il risultato è la collocazione della cultura mainstream e dell’istruzione nel recinto delle opzioni.  

  4. Un esempio significativo: sempre durante l’amministrazione Bush jr., l’attivista della destra cristiana Kay Coles James, ex presidente della Regent University del pastore Pat Robertson, è stata nominata direttore dell’Ufficio per gestione del personale del governo. 

  5. Circa il 60% degli americani secondo una stima governativa del 2006, pre-crisi, che però usa il criterio del grado di istruzione non del reddito, contando come istruzione superiore anche le scuole professionali.  

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