partito della nazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’autonomia di classe…innanzitutto! https://www.carmillaonline.com/2016/05/16/lautonomia-classe-innanzitutto/ Mon, 16 May 2016 20:24:31 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30537 di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il [...]]]> di Sandro Moiso

MontaldiSaggioCopertina Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Edito per conto del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano) dalla Cooperativa Colibrì, 2016, pp. 480, € 29,00

A quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione1 torna disponibile, per l’opera meritoria del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano, un testo imprescindibile per la comprensione dell’evoluzione del movimento operaio italiano e del suo, o almeno presunto tale, partito più rappresentativo. Attenzione però, il lettore non si troverà davanti ad un testo di “Storia” del Partito Comunista Italiano, ma piuttosto ad un’opera militante tesa ad aiutare l’opposizione di classe ad uscire, soprattutto all’epoca della sua redazione, dall’impasse troppo spesso rappresentata dalla separazione tra una sinistra istituzionale, ormai interamente rivolta ad un’attività di tipo parlamentare ed amministrativo, e una sinistra extra-parlamentare, presunta rivoluzionaria, che della prima non faceva altro che ricalcare i passi.

Il testo di Montaldi quindi si distanziava per impostazione sia dalla monumentale e canonica Storia dello stesso partito che a partire dal 1967 e fino al 1975 la casa editrice Einaudi era andata pubblicando per opera di Paolo Spriano, sia dalla più “eretica”, ma pur sempre tradizionale per impianto, storia pubblicata in un primo tempo, subito dopo la crisi ungherese e l’avvio del processo di “destalinizzazione”, nel 1957 da Giorgio Galli (poi rivista e ampliata nel 19762 ).

Purtroppo l’opera di Montaldi, che aveva avuto una lunghissima e tormentata gestazione, veniva già all’epoca pubblicata postuma, poiché l’autore, nato nel 1929 a Cremona, era drammaticamente scomparso un anno prima nelle acque del fiume Roia, presso il confine italo-francese. Da questo fatto derivava, forse, una struttura del testo divisa in 82 capitoli privi di titoli che aiutassero il lettore ad individuare velocemente gli argomenti e gli eventi trattati nelle sua pagine. L’edizione attuale, però, ha supplito a questa “carenza” con un ricchissimo indice analitico. Cui, sempre nella stessa vanno aggiunti un importante carteggio tra l’autore e vari corrispondenti proprio sul lavoro fatto in preparazione del testo ed una più che ampia ed esaustiva bibliografia oltre che un sostanziale ampliamento dell’apparato di note già presente nella prima edizione.

L’opera veniva così a chiudere, forzatamente, il percorso di un intellettuale militante che dopo essere entrato nel PCI nel 1944 lo aveva abbandonato appena due anni dopo, sull’onda dell’espulsione dalla sezione cremonese del partito di quella componente internazionalista, legata ancora a Amadeo Bordiga, che avrebbe voluto spronare il proletariato a portare a compimento, armi alla mano, il processo “rivoluzionario” iniziatosi con la Resistenza.

Questa esperienza in giovane età aveva contribuito a spingere l’autore verso una ricerca militante e politica che nel volgere di pochi anni lo avrebbero portato a produrre una discreta mole di articoli e saggi destinati a segnare in maniera esemplare il rinnovamento del discorso sull’interpretazione da dare dei comportamenti e dell’azione politica e sindacale determinata dall’autonomia di classe e sull’inchiesta operaia (che egli contribuì a rinnovare sensibilmente dal punto di vista metodologico).3

Una metodologia che da un lato lo avrebbe avvicinato a Gianni Bosio nel campo della storia orale, mentre dall’altro lo avrebbe portato a dare vita a quella che sarebbe poi stata successivamente meglio definita da Romano Alquati come “conricerca”. Sergio Bologna avrebbe poi affermato, nella primavera del 1975, nel necrologio scritto in occasione della morte di Montaldi sulla rivista Primo Maggio che: “non c’è vigliaccata peggiore che dargli del sociologo, di attribuirgli uno sforzo di identificazione o di traduzione delle sue «storie dirette»”.

Montaldi non voleva essere inquadrato in una parrocchia politica. Forse non voleva nemmeno essere considerato un intellettuale. Usava gli spazi disponibili (libri, giornali, riviste, dibattiti) per portare avanti e affinare la sua ricerca e la sua visione dell’azione di classe, proprio come pensava che il proletariato avrebbe saputo fare, in piena autonomia, senza il bisogno di qualcuno che lo guidasse o che ne raccontasse la storia dall’esterno. L’autonoma azione politica doveva infatti preludere anche ad una autonoma ricostruzione della propria storia, non mediata da altri interessi che non fossero quelli della liberazione dalla servitù salariale e capitalistica.

Tali presupposti e tale metodo sono presenti, per forza di cose, anche nel “Saggio”, dove nelle parti più indirizzate alla critica ideologica delle posizioni assunte dal Partito attraverso lo stalinismo e il togliattismo l’autore si basa principalmente su documenti e testi della tradizione e della storiografia comunista “di vertice”, mentre in quelle destinate all’esplorazione delle possibilità insite nell’utilizzo, o nel ribaltamento, proletario dello strumento “partito” utilizza principalmente testimonianze dirette o materiali prodotti dalla “base” e dai suoi movimenti spontanei.

L’obiettivo del saggio di Montaldi sembra dovere e volere coincidere con quello della ripresa delle lotte che dal 1968 in avanti avevano rivitalizzato la classe operaia e il proletariato nel suo insieme. E l’autore lo sintetizza proprio nelle pagine finali del testo: “Una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi dalla sua ipoteca fallimentare. La profonda secessione che si è verificata dal ’68 in avanti racchiude entro di sé il rifiuto di un passato che è stato anche di alienazione […] Un vasto processo di ricomposizione organizzativa del corpo rivoluzionario tende a rompere il vincolo nel quale, dal 1945, in Europa, il proletariato può vivere, dibattere, crescere, invecchiare, ringiovanire senza però poter mai uscire dalla condizione nella quale si trova ristretto. La condizione perché venga infranto tale giro vizioso […] è di spezzare l’accordo che lega i partiti tradizionali del movimento operaio alle forze della guerra e dell’imperialismo. Nella fabbrica e nella società certe premesse sono già state poste […] Il lungo lavoro della Direzione del PCI non è mai riuscito a stringere in uno schema di comodo la lotta di classe. Non si è tratto unicamente, come nel vecchio PSI, di una crescente influenza del sistema sul partito; con il PCI si è trattato, dal 1944, di un patto nazionale in rapporto con gli altri patti, tra gli Stati maggiori e i blocchi mondiali, a togliere indipendenza e autonomi a al proletariato” (pag. 346)

Nella interpretazione dell’autore in quella funzione contro-rivoluzionario Togliattismo e stalinismo avevano cercato di stringere, non sempre riuscendoci, in un abbraccio mortale la classe, cercando di impedirle qualsiasi autonomia di azione, tanto da far dire a Nicola Gallerano, nella nota introduttiva alla prima edizione, riportata anche nell’attuale, che il memoriale di Yalta, autentico testamento politico di Togliatti, “appare a Montaldi come il punto di arrivo e il suggello di tutta la storia politica del dirigente italiano, esempio di coerenza stalinista «strategica» proprio nel momento in cui è costretto a negarne più decisamente il corollario «tattico» (la dipendenza dall’URSS). Si comprende allora il senso del lavoro sul PC italiano e sulla figura di Togliatti, il dirigente che ne ha segnato di più profondamente il ruolo politico. «Stalinismo cosciente», «nazionale e statale» è quello di Togliatti; e la «continuità», la «staticità», anche, di Togliatti […] consiste nel suo discorrere da «statista», di «Paesi e nazioni, non di classi»” (pag.405)

Ecco allora rivelarsi tutta l’importanza della ricostruzione militante della politica comunista in Italia dal 1919 al 1970, validissima ancora oggi per comprendere come l’attuale Partito della Nazione finisca col coronare, e non tradire, lo spirito di un partito che dalla “svolta di Salerno” in poi non ha perseguito altro che il disarmo dell’autonomia di classe e la difesa degli interessi del capitale nazionale e sovranazionale. La cui la traiettoria, che avrebbe poi portato fino a Renzi e al suo PD, era già tutta compresa in quel giudizio e in quella prospettiva.

Un testo che se rivelava agli occhi dei lettori dell’epoca della sua prima uscita, tra cui mi annovero volentieri, la lotta all’ultimo sangue che si era svolta tra classe e stalinismo nell’URSS, anche con episodi di durissima resistenza operaia allo stakanovismo, e fuori dai suoi confini (dalla Spagna del ’36 all’Ungheria del ’56 e oltre), oggi si rivela ancora enormemente utile per una riflessione non solo sul divenire del rapporto tra classe e partito, ma anche sull’inutilità e la pericolosità di strutture politico-organizzative che tendano a rinchiudere le contraddizioni di classe in un ambito puramente parlamentare ed amministrativo.

Riflessione che accompagnò e costituì, quasi sempre, la base dell’irrequietezza politica e di tutto il lavoro di ricerca di Danilo Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e da Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia. Uno studioso militante tutto da riscoprire a partire, magari, proprio da questo fondamentale testo.

montaldi-feltrinelli N.B.
Per approfondire ulteriormente il discorso sulla figura di Montaldi (ritratto nella fotografia pubblicata qui a lato, è il primo da sinistra, con Giangiacomo Feltrinelli durante un dibattito a Cremona) si consigliano ancora i seguenti testi:

Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, a cura di Luigi Parente, La Città del Sole, 1988, Napoli

Enzo Campelli, Note sulla sociologia di Danilo Montaldi. Alle origini di una proposta metodologica (in La Critica Sociologica n. 49, 1979)

Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Feltrinelli (1977)


  1. Edizioni Quaderni Piacentini, Piacenza 1976 (allora stampata in circa quattrocento copie)  

  2. Giorgio Galli, Storia del PCI, Bompiani 1976  

  3. Si vedano: Franco Alasia-Danilo Montaldi ( a cura di), Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli prima edizione 1960, seconda accresciuta 1975; D.Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi 1961; D.Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi 1971; D.Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Savelli1975; D.Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, in Ombre Rosse n° 13, Savelli 1976; D.Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952 – 1975, Edito per conto dell’Associazione culturale Centro d’iniziativa Luca Rossi – Milano – dalla Cooperativa Colibrì, 1994  

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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