Partito bolscevico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 10 Apr 2025 22:05:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Terre di mezzo https://www.carmillaonline.com/2018/02/08/terre-di-mezzo/ Wed, 07 Feb 2018 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43275 di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, [...]]]> di Sandro Moiso

Collettivo “Mauvaise Troupe”, CONTRADE. Storie di ZAD e NOTAV, Edizioni Tabor, Dicembre 2017, pp. 416, € 12,00

Prendendo in mano il testo appena pubblicato dalle Edizioni Tabor e tradotto dal francese con l’aiuto sia di compagni italiani che degli stessi autori del collettivo Mauvaise Troupe, ho ripensato all’incontro svoltosi a Venaus il 12 giugno 2016 tra i rappresentanti del Movimento NoTav valsusino, i compagni francesi di Notre Dame des Landes e i delegati di diverse fabbriche autogestite in Argentina, Francia e Italia. In quei giorni in Val di Susa, nel corso delle tre giornate della “Montagna di libri nella valle che resiste”, i rappresentanti di vari movimenti antagonisti nei confronti dello stato di cose presenti avevano cercato di fare un primo punto tra le loro diverse e spesso lontane esperienze.

Proprio in quell’occasione fu presentato, nella sua edizione francese, il testo di cui qui di seguito si parlerà e che affonda le sue radici nelle comuni e allo stesso tempo differenti esperienze che la storia delle battaglie del movimento NoTav e dei compagni della ZAD (attualmente vincitori nei confronti dello Stato francese dopo la dichiarazione di rinuncia al progetto di costruzione del secondo aeroporto di Nantes rilasciata a metà gennaio dal presidente Macron) hanno portato avanti negli anni. L’edizione attuale rende disponibile per il pubblico di lingua italiana la storia incrociata di due esperienze che possono un po’ fungere da simbolo e da modello (si pensi anche solo a come si va estendendo e organizzando la battaglia del movimento NoTap su scala nazionale) per le lotte a venire e la presa di distanza dal modello novecentesco che fu al centro di uno dei dibattiti svoltisi in quegli stessi giorni, in cui si era parlato della morte del ‘900 e delle sue ideologie.

Non ho timore ad affermarlo: si tratta sicuramente del lavoro migliore sin qui realizzato sull’esperienza NoTav e sulla parallela esperienza della ZAD. Sono infatti alcuni militanti della ZAD, riuniti nel collettivo Mauvaise Troupe, a raccogliere le voci degli altri militanti e a dare voce anche a quelli della battaglia NoTav. Un contatto diretto tra realtà di lotta parallele e molto simili nelle finalità e nelle modalità di conduzione della lotta. Non è necessaria una mediazione di qualsiasi tipo (culturale, sociologica, antropologica o altro). Le due realtà si parlano e si narrano con naturalezza. Si confrontano. Definiscono obiettivi. Mantengono e difendono le proprie specificità.
Questo è il tipo di dialogo e di ricerca che può servire alle lotte di oggi e di domani. Non sono le ideologie a parlarsi e a confrontarsi: sono le persone, i fatti e le scelte che ne derivano. Una sorta di assemblea popolare a distanza in cui il lettore è immerso, mentre al contempo può ripercorrere le vicende pluridecennali che stanno ormai alla base, più che alle spalle, delle due lotte.

Lotte che prima di tutto si definiscono sul territorio dove si svolgono e che dal territorio sono determinate: il bocage1 per i francesi oppure la montagna per i valsusini. Territori che portano in sé i segni del rapporto con l’Uomo, ma che a loro volta hanno fortemente segnato il tipo di comunità che li abita. In cui, non bisogna ignorarlo, sia in un caso che nell’altro il senso di comunanza e di appartenenza deriva anche da una forte capacità di azione autonoma, individuale e collettiva, alla base della quale stanno (soprattutto nel caso francese) le forme dei rapporti di proprietà e di lavoro e i conflitti che ne derivano.

Territori segnati non soltanto dalla storia recente, ma anche da quella passata. In cui l’autonomia delle comunità (soprattutto quelle alpine ed occitane) ha caratterizzato le vicende locali anche nei rapporti con i regni, gli stati e gli invasori che di volta in volta hanno cercato di sottometterle alle loro leggi ed ai loro interessi. Territori e comunità in cui la storia di lunga durata incrocia quella degli eventi più vicini a noi. Tutto sommato ancora oggi, ma senza la retorica, la pompa magna e le narrazioni farlocche che invece spesso caratterizzano i nazionalismi statali, finalizzati esclusivamente a giustificare lo sviluppo economico. A qualsiasi costo e come tale definito “progresso”e coincidente di volta in volta con la cementificazione e la distruzione del territorio e dell’ambiente, con la costruzione di un nuovo aeroporto o di una linea ferroviaria ad alta velocità, magari là dove i lavoratori pendolari sono costretti ad ammassarsi e a morire su treni e lungo linee inadeguate e sempre meno soggette ad una efficace manutenzione.

Per chi non lo sapesse, come chiariscono, gli autori e i curatori:

“«ZAD» è una «Zone d’Aménagement Différé» (Zona di sistemazione differita), un dispositivo amministrativo che fornisce a enti locali o a imprese pubbliche il diritto di prelazione sui terreni in vendita in una determinata zona. L’acronimo è stato detournato da parte degli oppositori dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes in «Zone a défendre» (Zona da difendere). La sigla è ormai entrata nell’uso comune e viene utilizzata anche d aaltre lotte in difesa di territori minacciati.”

Una resistenza che affonda le sue radici fin nei tardi sessanta e nell’esperienza del movimento Paysans Travailleurs, che raccolse l’esperienza della convergenza tra operai e lavoratori della Loira Atlantica nel periodo attorno al Maggio del 1968 e portò un turbamento rivoluzionario nel conservatorismo locale.

“Da questa esperienza nascerà poi la Confédération paysanne. In un mondo di contadini senza terra e di mezzadri, l’accesso alla terra e la priorità da dare all’uso rispetto alla proprietà privata sono motivi di duro contrasto. I mezzi dell’azione sono all’altezza delle ambizioni: occupazione di campi e cascine, blocchi di strade e ferrovie… Questi conflitti, con le loro impennate, segnano profondamente la città di Notre-Dame-des-Landes e alimentano questa fase di resistenza all’aeroporto, come dimostra il fatto che le terre della ZAD continuano ad essere coltivate.” (pag. 37)

L’ADECA (Associazione di difesa dei coltivatori interessati dall’aeroporto) nasce nel 1972, a partire da una frattura tra i locali sindacati contadini e la Camera dell’agricoltura, impegnatasi a promuovere l’aeroporto a braccetto con la prefettura. Cui sono seguiti 46 anni di lotte che nel gennaio di quest’anno, come si è detto più sopra, sono giunte ad una, forse, definitiva vittoria.
Ma qui più ancora della storia e della ricostruzione di quelle vicende, che un autentico coro di voci narra fin nei dettagli nel libro, ciò che forse è ancora più importante riconoscere in quell’esperienza, così come in quella del Movimento NoTav della Val di Susa, sono le forme di aggregazione e di organizzazione immediata e dal basso che gli hanno dato le gambe su cui marciare. Un’autentica democrazia diretta che ha finito col costituire anche una nuova forma di organizzazione socio-politica e un modello di vita più umano e in maggior sintonia con l’ambiente circostante.

E’ a questo punto che non posso fare a meno di ricordare una frase spesso ripetuta da un mio caro amico che, da anni, va affermando che “gli hippy erano avanti di 500 anni rispetto ai bordighisti”. Si badi bene, tale affermazione non va intesa in spregio di Amadeo Bordiga, ma delle sette e delle conventicole para-comuniste che da quella esperienza sono, troppo spesso, disgraziatamente sorte. Non per amore di altre sette, -ismi o partitini e partitucoli, ma proprio come rifiuto di tutta la pomposità, la seriosità, il leaderismo e gli errori, a volte comici e troppe altre tragici, che hanno accompagnato nel tempo il tentativo di rinnovare l’esperienza bolscevica scimmiottandone atteggiamenti, metodi organizzativi e parole d’ordine e ottenendo, come unico risultato, quello di dividere i movimenti reali in base a presunte ed inutili carte di identità politica.

Tali pretese identitarie, che si ponevano subito al di fuori dei movimenti con la pretesa di porsi però come forze dirigenti degli stessi, hanno fatto poi sì che quelle lotte (economiche, sociali, ambientali, di genere e tutte le altre ancora sorte a partire dal secondo dopoguerra e dalla fine degli anni sessanta in particolare) fossero spesso risospinte ancora una volta all’interno di quei recinti da cui erano appena fuggite. Lo Stato nazionale continuava ad essere il riferimento reale di ogni trattativa oppure di ogni processo insurrezionale. Si cercava “il cuore” di una macchina spietata e priva di cuore alcuno. Occorreva colpire la macchina per poi riappropriarsene e ricostruirla o, molto più spesso, si cercava di modificarla con riforme proposte dal basso (quanto in basso? mi viene oggi da chiedermi).

Oppure la si difendeva, tout-cour, dalle trame fasciste, golpiste, eversive di destra per salvane, almeno, lo statuto democratico, facendo così di una Costituzione ampiamente compromissoria un modello ineguagliabile di diritto e di democrazia. L’autonomia dell’azione di classe finiva con lo stemperarsi in un oceano di ricette, enunciati e affermazioni troppo spesso apodittiche e auto-referenziali. Trasformando spesso le assemblee in parlamentini da cui l’unica voce assente era proprio, come nei parlamenti reali, quella di chi dava alle lotte le gambe sulle quali camminare.

Il Partito di classe che nella prima parte del ‘900 aveva costituito un punto d’arrivo per unificare una classe operaia concentrata in grandi agglomerati industriali e in vasti stabilimenti dall’organizzazione tayloristica che si era espansa da Detroit a Pietroburgo passando poi agli stabilimenti torinesi di Mirafiori, era anche il prodotto di un immaginario politico di cui l’organizzazione di fabbrica, con la separazione delle mansioni e tra progettazione e produzione, aveva svolto un ruolo fondamentale. E’ difficile credere che il Partito immaginato da Marx corrispondesse esattamente a quello teorizzato da Lenin o, ancor peggio, dal successivo marxismo-leninismo.

In una sorta di interpretazione lamarckiana dell’evolversi dei conflitti di classe e della loro organizzazione, il partito programma della Prima Internazionale si era trasformato nel Partito macchina, apparentemente buono per ogni uso come un tornio o una fresa o la linea di montaggio, con cui raggiungere una determinata capacità produttiva “rivoluzionaria” . Lotte, esperienze reali, auto-organizzazione dovevano essere revisionate alla luce dello scopo produttivo e rimodellate come materie prime alle quali i “lavoratori” attraverso il loro strumento avrebbero dato la “giusta forma”.

Guardiamolo bene quel Partito: gli addetti alla progettazione sviluppavano e delineavano il progetto, gli operai lo mettevano in esecuzione usando gli strumenti consigliati e messi a disposizione dalla Direzione per poi ottenere il risultato voluto. Che poi il risultato sia stato spesso, e soprattutto a partire dagli anni successivi alla Rivoluzione bolscevica, deludente, ridimensionato o addirittura rovesciato rispetto alle aspettative sembrava non importare. L’importante era lo sforzo collettivo, il sacrificio individuale, lo stakanovismo politico del volantinaggio o dell’azione ad ogni costo. In cui a trionfare è sempre l’aurea mediocritas, madre di ogni burocratizzazione istituzionale e sociale: la regola dell’adattamento alla norma e all’esistente anche quando si finge di volerlo cambiare. Dai burocrati dei partiti nati dalla bolscevizzazione staliniana ad Adolf Eichmann, tanto per essere chiari e come ebbe a ricordare forse la più grande interprete della politica del ‘900: Hannah Arendt.

Per troppo tempo l’immaginario e il politico sono stati considerati come campi separati del sapere e dell’operare umano, mentre in realtà il “politico” è soltanto uno dei territori dell’immaginario. Con questa affermazione non intendo affatto ritornare all’idealismo o all’affermazione del primato della mente e dell’idea sulle condizioni materiali. Piuttosto vorrei ribadire con più forza che l’immaginario non può esistere senza affondare profondamente le proprie radici nella concreta realtà materiale di cui è una delle espressioni. Non ci è possibile immaginare nulla che già non esista o senza partire dall’interpretazione dei segnali che il mondo circostante già ci invia.

Proprio per questo ogni atto politico e ogni sua teorizzazione è frutto di una interpretazione dei segnali che la società umana ci trasmette e degli scopi possibili che la specie, e le classi in cui è ancora divisa, prova a perseguire. Sappiamo bene che l’immaginario culturale, politico, economico e morale è, generalmente, dominato dalla visione che le classi dominanti intendono trasmettere alle classi spossessate della facoltà di decidere ed organizzare la struttura socio-economica, ma proprio per questo diventa importante slegare la coscienza e la conoscenza delle classi sfruttate da quella prodotta da quelle al potere.

E’ un vecchio problema del movimento operaio e dell’antagonismo di classe quello di combattere la falsa coscienza, disvelandone contenuti, metodi e finalità. Ma troppo spesso tale riflessione e azione critica si è fermata alla superficie della rappresentazione del mondo, non andando ad incidere sulla produzione reale del mondo e dei rapporti sociali che lo fondano. Occorre abbandonare l’idea di una battaglia teorica destinata a scardinare il pensiero borghese in attesa di una successiva (post-mortem?) trasformazione della società a seguito di un suo miglioramento riformistico o rivoluzionario. E non basta nemmeno detournarne i simboli e le immagini come suggerirono a loro tempo i situazionisti: oggi la pubblicità lo fa quotidianamente, facendo perdere al détournement gran parte del vantaggio precedentemente acquisito.

Tale linea di condotta ha contribuito, involontariamente (forse), al mantenimento e al rafforzamento degli attuali rapporti di produzione, poiché dandoli per scontati e inevitabili, fino ad un radioso futuro, è servita a mantenere e rafforzare le basi materiali delle ideologie dominanti. L’accettazione dei rapporti attuali implica l’accettazione, per quanto critica, sia della legge del valore che dell’estorsione del plusvalore dal corpo vivente della manodopera. Da qui, anche, le teorie del socialismo in un paese solo e della possibilità, discussa negli anni venti, di un’accumulazione socialista. In attesa del radioso avvenire, secondo questa interpretazione, ciò che occorre è cambiare la direzione della macchina, non la macchina stessa. Il prima citato Bordiga fu forse l’unico a intuire la contraddizione interna, non soltanto teorica, a tale formulazione dello sviluppo sociale in divenire ma anche lui continuò a crogiolarsi nell’idea del Partito salva tutto.

Gli hippy, ma insieme a loro parecchi comunitaristi che già li avevano preceduti nel corso del ‘900 e dell’Ottocento, forzarono la mano in questo senso: la società andava cambiata qui, ora e subito. Le comuni, il rifiuto del lavoro salariato e dello sfruttamento, uno stile di vita alternativo basato più sulla lentezza e l’ozio che non sulla produttività e l’assillante ricerca del guadagno andavano a rompere la rappresentazione che la società faceva di se stessa e delle sue leggi “necessarie”. La domanda posta era molto semplice: fino a quando?2

L’immaginario diventa allora il luogo privilegiato in cui i segnali, variamente interpretati dalla mente individuale o collettiva, vengono tradotti in simboli, destinati a costituire la base di ogni discorso (politico, filosofico, scientifico, letterario, culturale, religioso o altro ancora che sia). Cambiarlo, cambiarne i segni e i simboli significa rovesciare non solo l’ordine del discorso, ma le sue leggi, i suoi presupposti, il significato generale della narrazione costruita intorno ad esso. Infine, rovesciare o modificare radicalmente i termini del discorso è l’unico strumento che permette di giungere alla formulazione di un nuovo paradigma, necessario per definire nuovi campi della conoscenza e dell’azione umana.3

Condividerne i significati simbolici diventa allora un modo per condividere la necessità del cambiamento e del rovesciamento che già si presenta nell’agire della comunità umana, agitandone i sogni e i desideri, contribuendo a definirne nuove finalità ed obiettivi; mentre la condivisione dei simboli legati all’ordine socio-economico e culturale dato finisce col contribuire a mantenere in vita ciò che, potenzialmente, è già morto.

Sì, perché fino a quando si è convinti di vivere in un regime di necessità non si riesce ad interpretare i segnali, prodotti dalla storia reale e dalla società materiale, che ci indicano che questo stato di “necessità” è soltanto uno dei possibili scenari. La commedia funziona fino a quando non solo il regista e gli sceneggiatori ne tengono in mano il copione, ma anche e soprattutto perché tutti gli attori e tutte le comparse si impegnano a recitarla bene. A renderla convincente. Se a stonare o a recitare le battute sbagliate è solo uno o sono poche comparse è chiaro che sarà comodo per chi si occupa di casting sostituirli.

E poi si sa, gli attori si affezionano ai loro personaggi, si identificano e credono in loro. Basti citare il povero Bela Lugosi che, dopo aver recitato decine di film in cui interpretava Dracula o altri vampiri, finì col vivere gli ultimi anni credendosi un figlio della notte e dormendo in una bara.

Tornando al libro, posso dire che non è qui possibile, e tanto meno utile, ripercorrere per filo e per segno le vicende parallele delle due lotte, anche per non togliere il piacere e la sorpresa al lettore di ritrovarle nella narrazione viva e trascinante delle voci dei militanti, francesi ed italiani, interpellati e che nessuna ulteriore penna o mestierantismo della scrittura può narrare o sintetizzare meglio.

Rispetto all’edizione francese del 2016 il lavoro della “Cattiva compagnia” tradotto in italiano non presenta la cronologia delle due lotte, l’elenco dei personaggi citati e l’indice analitico finale, probabilmente per non appesantire un testo gia di per sé piuttosto corposo, ma costituisce un testo che potrebbe diventare di riferimento non solo per chi volesse conoscere di più sulle due lotte ma anche per coloro che vogliono liberarsi dai canoni novecenteschi di un agire politico che è più politicantismo che non azione/riflessione di classe per affrontare più efficacemente, e a partire dall’immediato, i compiti futuri legati al superamento del modo di produzione attuale e di una società divisa in classi.

Sorge a questo punto il sospetto che l’accanimento repressivo contro le due comunità messo in atto dagli Stati e dai loro apparati polizieschi4 non siano tanto dovuto al fatto di essersi opposte alla realizzazione di due delle grandi opere inutili cui il capitalismo attuale ci ha abituati in ogni periodo di crisi degli investimenti, ma proprio per la capacità che entrambe le lotte hanno saputo dimostrare in termini di critica e riorganizzazione dell’esistente e, soprattutto, per aver saputo ridisegnare l’immaginario delle classi e degli strati sociali in lotta. Rifuggendo da qualsiasi richiamo al modello di sviluppo dato così per scontato dai media, dai governi e, troppo spesso, anche dalle classi subalterne.

Ecco che allora anche il termine popoli, che compare all’interno dei ragionamenti del libro e dei due movimenti, assume un valore e un significato totalmente diverso da quel “popolo” che oggi, scusate il gioco di parole, spopola tanto a destra che a sinistra. Nel secondo caso il concetto si basa sempre su una base sostanzialmente etnica, linguistica e nazionale (quindi statale) oltre che interclassista ed esclusivista, mentre nel primo caso il concetto serve ad definire coloro che lottano insieme per un obiettivo che travalica i limiti della territorialità per porsi come strumento di liberazione individuale e collettivo allo stesso tempo. Termine che diventa inclusivo così come lo sono diventate le due comunità nei confronti di tutti coloro che le hanno affiancate nella lotta, ne hanno chiesto l’aiuto oppure le hanno raggiunte nella comune convivenza.

Un modello di inclusione attraverso la condivisione di obiettivi e il coinvolgimento in battaglie comuni che non può non rimandare anche all’esperimento comunalistico del Rojava che, a sua volta, ha spesso ricevuto l’appoggio delle due realtà di cui si è fin qui parlato.
Al lettore ora il compito di leggere, sfogliare, trarre ispirazione dalle pagine del libro e dal corredo di fotografie e mappe che lo accompagnano.

Non ho mai amato molto Tolkien e Il signore degli anelli, ma il concetto di terra di mezzo mi sembra adattissimo a definire l’esperienza di un mondo che non è più e, allo stesso tempo, ancora non è. Forse gli hippy e i compagni delle lotte passate più radicali hanno vissuto negli stessi territori dell’immaginario e del reale. Ora, insieme ai compagni della ZAD e del NoTav, tocca noi: A sarà düra, ma vinceremo!


  1. Termine intraducibile in italiano che serve a definire una particolare conformazione territoriale costituita da piccoli campi ed appezzamenti divisi da siepi di confine che nella zona di Notre-Dame-des-Landes è sopravvissuta al dilagare della monocultura  

  2. Per comprendere a fondo lo spirito che animò le iniziative comunitarie degli anni sessanta e settanta, al posto dei soliti film o documentari e testi “alternativi”, consiglio la visione del documentario Valley Uprising di Peter Mortimer e Nick Rosen (2014), oggi disponibile in edizione italiana, con lo stesso titolo, in dvd nella collana Il grande alpinismo come quarta uscita della serie. Si tratta di una ricostruzione attenta delle innovazioni portate nell’alpinismo tradizionale dalle tecniche di arrampicata sviluppatesi in California, nella Yosemite Valley, a partire dagli anni ’50, in cui la costante ricerca della fuga dalla legge di caduta dei gravi, perseguita dai climber americani del celebre Camp 4, costituisce una magnifica metafora della liberazione della specie umana dalle catene del lavoro, della famiglia e dello Stato.  

  3. Valga per tutti la rivoluzione apportata nel pensiero e nella ricerca umana dalla formulazione galileiana, contenuta nel Saggiatore, in cui afferma “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’ universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto“. Ponendo di fatto le basi, nel 1623, del moderno paradigma scientifico.  

  4. Basti pensare al fatto che il presidente Macron, nello stesso momento in cui ha dovuto prendere atto della sconfitta del progetto di nuovo aeroporto,ha ventilato la minaccia di voler comunque espellere gli occupanti dalle terre della ZAD.  

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1917, un anno da non dimenticare https://www.carmillaonline.com/2017/12/28/1917-un-anno-non-dimenticare/ Wed, 27 Dec 2017 23:01:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42158 di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il [...]]]> di Sandro Moiso

China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00

Voglio chiudere questo centenario di scarse e, ancor più, confuse celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed interessanti pubblicati dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero alla Rivoluzione di Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso degli anni, ha continuato a dedicare grande attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.

Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.

Queste due passioni l’hanno portato a ideare una letteratura visionaria che, soprattutto nella trilogia della città di New Crobuzon (Perdido Street Station, La città delle navi e Il treno degli Dei),1 mescola al suo interno socialismo utopico, aspetti steampunk, lotta di classe, rivoluzione sociale, orrori di sapore lovecraftiano, scienze magiche, creature aliene e avventura. Generando una sorta di anticipazione distopica di un mondo che assomiglia fin troppo al passato dell’industrializzazione e delle rivolte dell’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento.

Sarà per questo motivo che China Miéville, pur lavorando su testi tratti sia dalla storiografia classica sull’evento quanto da quella degli ultimi decenni (sono una sessantina in tutto quelli elencati nella bibliografia), andando dalle opere di Edward Carr, Reed e Trockij a quelli ancora inediti in Italia di Ian D. Thatcher, Sarah Badcock e Lars T. Lih, solo per citarne alcuni, è riuscito a dare una ricostruzione estremamente originale, dinamica e interessante di un periodo storico su cui molti credono, ingiustamente, che non ci sia più nulla da dire o scrivere.

Molto vicino, nello sguardo e nella prospettiva, a Victor Serge, l’autore ricostruisce i fatti in dieci capitoli dedicati il primo a ricostruire La preistoria del 1917 (ovvero un sunto degli avvenimenti che condurranno alla Rivoluzione, dalla fondazione di Pietrogrado nel 1703 alla prima rivoluzione del 1905 e fino al disastro della partecipazione zarista al primo conflitto mondiale e alla morte di Rasputin) e gli altri nove ognuno ad un mese di quell’anno fatale per le sorti della Russia e del mondo, tra il Febbraio e l’Ottobre.

Il punto di vista è immediatamente chiaro al lettore: radicale e dal basso, senza inutili geremiadi sul bene o sul male rappresentato da quell’evento e, soprattutto, senza soffermarsi troppo sui meriti e demeriti dei grandi protagonisti, da un parte o dall’altra della barricata.
Ciò che conta è ciò che viene dal basso e chi sono quelli (soldati e operai, donne e contadini) che spingono avanti la Rivoluzione. Ancor prima che questa si imponga chiaramente nella testa di coloro che poi pretenderanno di averla guidata fin dagli inizi.

Il testo lo afferma chiaramente fin dalle pagine del primo capitolo: Quello che porrà fine al regime russo sorgerà dal basso. (pag. 54) Così, invece di dilungarsi troppo sulle storie dei partiti e dei presunti demiurghi dell’evento, l’autore porterà subito in scena i soldati, gli operai e le operaie di Pietrogrado con i loro desideri, le loro richieste concrete, le loro speranze di riscatto e di rispetto, il loro immaginario.

Un immaginario politico che non è fatto soltanto di slogan partitici e dibattiti ideologici, ma che è suggerito ed esaltato dalle dure condizioni della guerra e del lavoro. In una città che all’epoca , con i suoi due milioni e mezzo di abitanti e quasi mezzo milione di operai, era la più grande città industriale del mondo. Più di Detroit in cui pur già stava esplodendo l’industria dell’automobile.
Una città industriale che si trovava a galleggiare all’estremità occidentale del più grande impero del mondo (24 milioni di chilometri quadrati) i cui due terzi si trovavano in Asia e la cui popolazione di circa 160 milioni di abitanti era composta per 4/5 da contadini.

Una città fabbrica in cui l’età media era molto bassa e la popolazione, soprattutto quella operaia, giovane. Almeno 30.000 lavoratori avevano meno i 16 anni e le operaie, che erano 130.000, per il 68% avevano meno di trent’anni. L’età giusta per iniziare una grande avventura. La più grande che si possa immaginare: rovesciare un regime plurisecolare corrotto e marcio per instaurare una nuova società. Un tema epico, una prospettiva appassionante, una dinamica inarrestabile che sembra correre come un’onda anomala oceanica dalle trincee alle fabbriche fino alle campagne e alle regioni più lontane per poi ricadere col suo immenso ricciolo di schiuma sui palazzi del potere e sulle fantasie liberali e gradualistiche di quasi tutti i partiti coinvolti.

China Miéville con grande perizia letteraria e efficace ed incisiva documentazione sa trasmetterci l’autentico sense of wonder di quegli avvenimenti e di quei giorni intensi e movimentatissimi. In cui nel giro di poche ore tutto poteva cambiare, essere rovesciato e modificato. Una suspence continua che accompagna il lettore, anche chi già pensa di conoscere lo svolgersi di quegli avvenimenti non così lontani nel tempo, per tutta la lettura e dove, alla fine, la presa del Palazzo di inverno è un brindisi senza botto, senza l’enfasi che troppi hanno posto su un fatto che chiudeva un periodo ben più emozionante e denso di avvenimenti.

Molti degli episodi narrati lo erano già stati in altri libri e in altre memorie, ma qui sembrano assumere un nuovo splendore un nuovo significato. Luoghi e personaggi assumono una dimensione che sfugge alla tradizione della narrazione burocratica oppure agiografica, che poi è la stessa in fin dei conti, fatta successivamente dai vincitori o dagli esclusi.
Qui le masse non si muovono sullo sfondo, ma in primo piano. Semmai sullo sfondo, spesso arrancando in una direzione o in un’altra, stanno i battilocchi della Storia,2 sia che si di tratti partiti ed organizzazioni formali, sia che si tratti di individui, “grandi” o “piccoli” non importa.

Valga un episodio narrato per tutti che si svolge durante l’insurrezione di luglio, il giorno 4, quando soldati e operai pongono massicciamente e concretamente all’ordine del giorno la presa del potere da parte del Soviet di Pietrogrado, mentre questo tentenna dichiarando di preferire una via più graduale e democratica per la trasformazione della società russa e lo stesso Lenin si accontenta di chiedere una manifestazione pacifica: “parlando a una colonna di uomini armati, che desideravano correre alla battaglia”. (pag.219)

Assediati nel Palazzo di Tauride, i capi del Soviet erano nel panico. Dopo una rapida consultazione, mandarono il dirigente socialista rivoluzionario Černov in qualità di emissario, per calmare quelli che urlavano e intonavano slogan […] Uomo amabile ed eudito, un tempo rispettato da tutti, pensavano che avrebbe potuto calmare i manifestanti con un tipico discorso pieno di citazioni.
Ma quando apparve, qualcuno gridò; “Ecco uno di quelli che sparano contro il popolo!”. I marinai si mossero per afferrarlo. Sorpreso e spaventato, Černov si arrampicò su un barile e iniziò a parlare coraggiosamente. […] Mentre uomini e donne dall’aria sospetta che lo circondavano si facevano largo per avvicinarsi al punto in cui lui stava in equilibrio, un grosso operaio si fece strada fino a lui, salì al suo fianco e gli agitò il pugno chiuso davanti alla faccia.
“Prendi il potere, figlio di puttana”, gli urlò in una delle frasi più famose del 1917, “quando te lo danno!” (pag. 221)

E’ uno dei tanti momenti salienti di un annus mirabilis durante il quale i momenti topici sono attesi, preparati e commentati da masse attive che sembrano dare vita e corpo contemporaneamente ai protagonisti e al coro di una grande tragedia greca.
Fin da quel 23 di Febbraio quando le operaie delle industrie tessili scendono in sciopero senza ascoltare il parere contrario dei sindacati, dei partiti e dai rappresentanti locali dello stesso partito bolscevico.

Alla fine delle assemblee e degli incontri, le donne iniziarono a riversarsi dalle fabbriche nelle strade, urlando a gran voce per chiedere il pane. Sfilarono per i distretti politicizzati della città – Vyborg, Liteinj, Roždestvenskij – gridando alle persone radunate nei cortili dei palazzi, riempiendo le ampie strade con li loro numero sempre maggiore, precipitandosi alle fabbriche e chiamando gli uomini per invitarli ad unirsi a loro.[…] All’improvviso, senza che nessuno lo avesse pianificato quasi novantamila donne e uomini urlavano furiosi per le strade di Pietrogrado. E ora non chiedevano solo il pane, ma anche la fine della guerra, La fine della vituperata monarchia. (pag. 58)

Da lì a una settimana il regno dell’ultimo degli zar avrebbe cessato di esistere e da lì a sette mesi e mezzo anche il governo fantoccio che l’aveva momentaneamente sostituito sarebbe scomparso.

Grazie anche ad un’altra iniziativa dal basso, quell’Ordine numero 1 che un folto gruppi di soldati e marinai aveva imposto ai rappresentanti del Soviet di redigere la sera del primo marzo. Tale ordine aboliva in un colpo i soprusi su cui si basava soprattutto lo strapotere degli ufficiali sui soldati e quindi del Governo sull’esercito e, allo stesso tempo, poneva le armi e l’autorizzazione al loro uso non più sotto l’autorità dei comandi militari ma dello stesso Soviet e degli organismi creati dai soldati e dai marinai. In conseguenza del quale, il 2 marzo, lo zar si dimise, mentre il 3 anche il fratello dello stesso avrebbe rifiutato di accollarsi ancora la responsabilità di un trono che era scomparso, come per magia, nel giro di poche ore.

Nelle pagine di Mièville e nel loro scorrere, però, si impongono anche i luoghi della Rivoluzione: da quel quartiere di Vyborg che raccoglieva l’ala più radicale del movimento operaio pietroburghese, e in cui Lenin con tanto di parrucca bionda poté nascondersi nei giorni successivi alla mancata presa del potere di luglio ad un Palazzo d’Inverno, abbandonato e praticamente indifeso, in cui regna solo il caos durante le ultime ore dell’Ottobre.

E poi i personaggi, tanti, vari, tutti descritti nelle loro insicurezze e certezze; nella loro arroganza oppure nella loro umiltà: nel loro coraggio e nella loro viltà. Uno tra tutti vorrei ricordare qui, nella descrizione dell’autore: Maria Spiridonova.3

Spiridonova, dopo undici anni passati in prigione in condizioni brutali, era stat liberata a febbraio,era arrivata da poco a Pietrogrado in stile teatrale e trionfale. Immediatamente eletta sindaco di Čita, in Siberia, vicino a dove era stata al fresco, al suo rilascio ordinò immediatamente che si facessero saltare in aria le prigioni. Ora lei e gli altri socialisti rivoluzionari di sinistra accusarono Černov di aver “mutilato” il programma del partito. Avanzarono le loro proposte per la confisca della terra, per la pace immediata e per il governo socialista. (pag. 172)

Maria Spiridonova, la quasi leggendaria socialista rivoluzionaria, che aveva ucciso per il popolo e ne aveva pagato il prezzo, le cui torture e la cui carcerazione nel 1906 avevano scosso persino le coscienze liberali. Il suo coraggio, la sua sincerità e il suo spirito di sacrificio – e indubbiamente la sua sconvolgente bellezza – avevano fatto di lei qualcosa di simile a una santa famosa. E Lei, ancora implacabilmente salda alla sinistra dura e irrequieta del suo partito, era una fiera oppositrice di Kerenskij e del suo governo. (pag. 218)

Miéville trasforma i protagonisti dell’immenso rivolgimento in figure o in gruppi che difficilmente il lettore potrà dimenticare; contribuendo così a ridefinire un’epica rivoluzionaria che, sfuggendo alle maglie delle ideologie novecentesche, fonderà probabilmente l’immaginario delle lotte a venire, fuori da ogni accademismo e da ogni inutile settarismo. Soprattutto per le nuove generazioni tale operazione di svecchiamento e rinvigorimento della memoria potrebbe ritenersi altamente utile e salutare e anche per questo si rende necessario ringraziare Nutrimenti per aver avuto il coraggio di pubblicare una delle opere più originali e, allo stesso tempo, più coinvolgenti sull’argomento.


  1. Tutti e tre pubblicati in Italia da Fanucci  

  2. Battilocchio, termine dialettale napoletano spesso usato da Amadeo Bordiga nei suoi scritti. Deriva dal vocabolo francese battant l’oeil usato per indicare una cuffietta femminile che ricadeva sugli occhi. Metaforicamente lo stesso termine è stato poi usato a Napoli per indicare una persona che sembra essere sempre frastornata e stordita. Così come chi indossa la cuffietta non vede bene per l’indumento che annebbia la vista, così chi è definito “battilocchio” sembra essere confuso come se non vedesse, è considerato di scarsa intelligenza ed è spesso additato come “scemo del villaggio”. Fonte: http://www.vesuviolive.it/cultura-napoletana/145024-battilocchio-parola-tanti-significati-si-dice/  

  3. Di cui si è già parlato qui su Carmilla: https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/  

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Dopo cinque generazioni https://www.carmillaonline.com/2017/11/08/dopo-cinque-generazioni/ Wed, 08 Nov 2017 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41429 di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla, io sulla bocca. (Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono. Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli. Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far [...]]]> di Sandro Moiso

Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00

Ti bacerà sul petto la mia palla,
io sulla bocca
.
(Anna Barkòva)

A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono.
Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli.
Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far sì che quella prima rivoluzione proletaria e socialista non dimenticasse le differenze e le specificità legate alla loro condizione che ancora costituivano un ostacolo alla piena e reale liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione di classe e di genere.
Infine con la lotta serrata che molte di esse, dentro e soprattutto fuori dal partito bolscevico rapidamente salito al potere, condussero per opporsi alla degenerazione non solo progettuale di una rivoluzione che, nata in nome del trionfo dell’eguaglianza sociale ed economica, avrebbe portato ad uno dei regimi massimamente responsabili per il trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.

Il volume intenso e serrato di Lorenzo Pezzica, che si era già occupato in parte dell’argomento nel precedente Anarchiche. Donne ribelli del Novecento,1 si occupa fondamentalmente dell’ultimo dei tre punti sopra elencati e lo fa con passione e indiscutibile efficacia. Anche se talvolta le fonti storiografiche utilizzate per la ricostruzione generale del periodo affrontato (1917-1921) appaiono un po’ limitate e segnate dalle interpretazioni liberali tipiche della meritoria, ma pur sempre “orientata”, storiografia anglo-sassone.2

Tenendo come filo conduttore per una parte del testo l’autobiografia dell’anarchica americana di origine russa Emma Goldman,3 che tra il gennaio del 1920 e la primavera del 1921 ebbe modo di compiere un lungo viaggio attraverso il paese dei soviet per osservare più da vicino quella rivoluzione che aveva acceso in lei, come in tanti altri anarchici, grandi speranza in un prossimo avvicinarsi della rivoluzione mondiale, l’autore traccia le sintetiche e più che drammatiche vicende che accompagnarono le vite di Fanya Baron, Marija Nikiforova (meglio conosciuta come Marusja), Fanya Kaplan (detta anche Dora), Marija Spiridonova, Irina Kakhovskaja, Ida Mett, Mollie Steimer (pseudonimo di Marthe Alperine), Senya Fleshin, Marija Veger, Marija Korshunova (nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja») e della poetessa Anna Barkòva.

Quasi tutte queste donne furono militanti anarchiche o socialiste rivoluzionarie. Tutte pagarono pesantemente con anni di carcere, deportazione, torture, violenze e quasi sempre con la morte la colpa di essere ribelli e rivoluzionarie. Molte avevano impugnato le armi e sparato contro i funzionari dello zar, i generali delle armate bianche o contro i rappresentanti di un bolscevismo ormai tramutatosi in strumento di oppressione. In un caso anche contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. Molte di loro erano di origine ebraica e diverse, dopo essere emigrate in giovane età in America da sole o con la famiglia per sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni che si abbattevano spesso sulle fasce più povere della popolazione di lingua yiddish, tornarono sul suolo russo proprio a seguito dello scoppio della rivoluzione.

Come afferma l’autore:

“Un aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne […] è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale. […] Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». […] La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917.
La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale.
Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai ad esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica.” 4

Accanto a loro compaiono anche altre donne, anch’esse rivoluzionarie, anch’esse prese negli ingranaggi spietati della rivoluzione in cui, nonostante tutto, cercano di difendere i diritti di genere e affermare una nuova morale sessuale e sociale. Sono bolsceviche come Aleksandra Kollontaj, Angelica Balabanoff, Inessa Armand o la stessa Nadeshda Krupskaja, compagna di Lenin. Anche nei confronti di queste ultime le figure dei leader rivoluzionari bolscevichi, anche i più importanti come Lenin e Trockij, impallidiscono dal punto di vista umano e politico, trascinati come sono in un fiume di cui non possono, non sanno e, forse, non vogliono dirigere la corrente se non canalizzandola in un flusso costante di repressione e negazione di ogni forma di autonomia di classe e di genere.

Scomparse nel Gulag, colpite nei loro affetti, uccise e seviziate nei corridoi più oscuri della Čeka, come Marija Spiridonova torturata e violentata prima dagli agenti della polizia zarista5 e in seguito condannata a lunghe detenzioni in manicomio e infine a morte dai tribunali di Stalin, o ancor prima da quelli messi in atto dai bolscevichi già prima della tragica repressione di Kronstadt, oppure salvatesi soltanto dopo essere state messe nell’impossibilità di esprimere le loro idee, queste rivoluzionarie ferme e coraggiose ci raggiungono ancora oggi con la loro voce e la loro esperienza a cinque generazioni di distanza.

Proprio come la poetessa Anna Barkòva, che passò quasi tutta la sua vita nel Gulag, aveva osato anticipare in una sua poesia:
Chissà, forse tra cinque generazioni
Dopo il terribile straripare del tempo,
il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti
e il mio nome fra gli altri
.

Davanti a tanto coraggio e a tanta lucida passione non ci resta altro da fare che chinare il capo in segno di rispetto e ringraziare l’autore che ha voluto così ricordarcele in occasione di questo contraddittorio centenario di una rivoluzione destinata a diventare, sostanzialmente, la prima delle grandi rivoluzioni nazionali asiatiche, ma non la realizzazione effettiva di una comunità umana più giusta ed eguale.


  1. Shake Edizioni 2013  

  2. Valga da esempio il testo di Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori 2016  

  3. Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra 1980 e Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta 1993 (che forse qualche editore, magari la stessa eléuthera che già nel 2016 ha dedicato alla rivoluzionaria e femminista americana il testo di Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, «la donna più pericolosa d’America», dovrebbe prendere la decisione di ripubblicare)  

  4. pp. 10-11  

  5. Marija Spiridonova era stata arrestata e condannata nel 1906 a 11 anni di lavori forzati in Siberia per l’attentato portato a termine contro l’ispettore generale di polizia Gavriil Luznovskij che aveva diretto la repressione dei contadini della regione di Tambov dopo la rivoluzione del 1905. Per un tragico paradosso della Storia quella stessa regione nel 1920 vide ancora i contadini protagonisti di una vasta rivolta contro la leva obbligatoria che, nel 1921, fu duramente repressa dall’armata rossa. La ribellione era stata organizzata militarmente da Aleksandr Stepanovič Antonov (ucciso in combattimento nel 1922 da agenti della Čeka) che, mentre era a capo della Milizia governativa del Soviet di Tambov, era riuscito anche a disarmare le legioni cecoslovacche, autentica spina nel fianco dell’armata rossa durante i primi anni della guerra civile.  

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La rivoluzione non è (soltanto) affare di Partito https://www.carmillaonline.com/2017/07/26/la-rivoluzione-non-affare-partito/ Tue, 25 Jul 2017 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39349 di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il [...]]]> di Sandro Moiso

Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, (a cura di Massimo Cappitti), con un testo di Pier Carlo Masini con la sua traduzione di Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, BFS Edizioni 2017, pp. 128, € 12,00

“I passi falsi che compie un reale movimento rivoluzionario sono sul piano storico incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell’infallibilità del miglior comitato centrale” (Rosa Luxemburg)

Nel centenario di una rivoluzione che nemmeno la Russia di Vladimir Putin sembra voler celebrare, la ripubblicazione del testo di Rosa Luxemburg sull’esperienza bolscevica e delle masse sovietiche a cavallo tra il 1917 e il 1918 appare ancora di sorprendente attualità. Non solo per i commenti “a caldo” che dalle sue pagine è possibile raccogliere ma, e soprattutto, per comprendere come tale esperienza rivoluzionaria sia stata liquidata tanto da chi, ieri ed oggi, l’ha voluta osteggiare quanto da coloro che l’hanno voluta e continuano ad esaltare.

Tanto da far sì che a cent’anni di distanza siano realmente pochi gli scritti e le ricostruzioni critiche, ovvero tese a ricostruirne fasi, errori, vittorie, possibili esperienze sia da rivalutare che da abbandonare o da rifiutare decisamente. La letteratura specialistica e politica, fatte salve alcune opere dovute a protagonisti e testimoni di quell’esperienza (Trockij e Bordiga1 in primis, ma pur sempre segnati dalla necessità di intervenire nelle battaglie politiche e nelle polemiche in corso all’epoca dello loro stesura) oppure allo storico inglese Edward H. Carr, 2 sembra essersi schierata fino ad oggi o sul fronte del rifiuto e della condanna oppure su quello della passiva accettazione, o quasi, di ogni suo aspetto. Fenomeno inaspritosi sicuramente, in ogni senso, a partire dal 1989.

Il testo della Luxemburg fu probabilmente scritto nell’autunno del 1918, mentre l’autrice si trovava in carcere per scontare una condanna dovuta al suo intransigente antimilitarismo. Avrebbe dovuto essere successivamente rivisto, come alcune lapidarie frasi e brevi appunti al suo interno sembrano rivelare ad un lettore attento, ma ciò non poté essere portato a termine a causa dell’omicidio di Rosa, ad opera dei Freikorps di Noske, durante l’insurrezione spartachista di Berlino nel gennaio del 1919.

Rimase inedito fino al 1921 quando Paul Levi, già presidente del Partito comunista tedesco e da questo espulso nel 1920, decise di pubblicarlo, nonostante la contrarietà di amici e compagni della Luxemburg (trattandosi appunto di un testo non rivisto dall’autrice), proprio per contrastare le premesse teoriche della tattica e dell’organizzazione bolscevica e di quella Terza Internazionale che iniziava a richiederne l’applicazione da parte di ogni Partito comunista.3

Forse tale interpretazione servì a far sì che in seguito non solo tale testo, insieme a molti altri dell’autrice, fosse rimosso dalla tradizione e dalla stampa comunista, ma “quando già l’Internazionale comunista cominciava ad agonizzare, fu considerato un merito quello di aver proceduto in Germania alla liquidazione del luxemburghismo nel movimento operaio e nel Partito comunista tedesco”.4

Mentre nella “letteratura” stalinista: ”Alla voce «Luxemburg» dell’Enciclopedia Sovietica si può leggere quanto male abbia fatto alla classe operaia e al socialismo questa povera semi-menscevica, questa intellettuale piccolo-borghese, rea di spontaneismo, di oggettivismo, di meccanicismo, di liquidatorismo”.5 Eppure, eppure…

Proprio nell’incipit del testo ora ripubblicato a cura di Massimo Cappitti, Rosa Luxemburg aveva scritto: “La rivoluzione russa è l’avvenimento più importante della guerra mondiale”.6
Da questa perentoria affermazione la comunista tedesca prende l’avvio per un’analisi sia dell’immaturità del proletariato tedesco che si era lasciato irretire dalle chimere della guerra nazionale che la socialdemocrazia, tradendo anche i più semplici principi del socialismo, aveva travestito da lotta contro l’autocrazia russa e da campagna progressiva di liberazione dell’Europa e dello stesso proletariato russo da condizioni socio-economiche arretrate; sia per una autentica scomunica dei tentennamenti, delle giravolte e degli autentici tradimenti dei compiti dei partiti socialisti che la direzione e i giornali del partito tedesco, con Karl Kautsky in testa, avevano contribuito a diffondere con l’obiettivo di confondere e cancellare la memoria e l’esperienza di classe dei suoi militanti e dei lavoratori tedeschi.

Per fare ciò la rossa Rosa sente la necessità di tracciare un paragone tra le scelte dei rivoluzionari russi dal marzo all’ottobre del 1917 e quella delle componenti più radicali della rivoluzione inglese e di quella francese. L’excursus storico che la porterà ad affermare che “il partito leninista fu l’unico a capire i veri interessi della rivoluzione in quel primo periodo, ne fu l’elemento trainante, in questo senso, in quanto unico partito a fare una politica davvero socialista7 passa attraverso la valutazione delle scelte fatte dai Levellers e dai Diggers nello spingere avanti il corso della rivoluzione inglese, affinché questa non si arenasse nelle trame presbiteriane e monarchiche e, successivamente, attraverso la ricostruzione dell’azione giacobina nello spingere verso una compiuta democrazia la rivoluzione francese.

In entrambi i casi sono proprio le componenti più umili della società sei/settecentesca a spingere in avanti i progressi rivoluzionari. Ad impedire che dirigenze incerte potessero limitare o fare arretrare il percorso rivoluzionario dal suo naturale percorso. Riferendosi alla rivoluzione francese, ma in realtà anche ai compiti del moderno socialismo e alle teorie di coloro che, sia in Russia che in Germania, affermavano che la rivoluzione russa avrebbe dovuto accontentarsi di realizzare una compiuta democrazia borghese prima di affrontare il tema della rivoluzione socialista, la Luxemburg scriveva: “La superficialità liberale nel concepire la storia naturalmente non permise di capire che senza il sovvertimento «senza regole» dei giacobini, anche le prime, incerte e parziali, conquiste della fase girondina sarebbero state sepolte sotto le macerie della rivoluzione, che la vera alternativa alla dittatura giacobina, così come la poneva il ferreo corso dello sviluppo storico nel 1793, non era la democrazia «moderata» ma la restaurazione dei Borboni! La rivoluzione non è in grado di mantenere l’«aureo mezzo», la sua natura esige una rapida decisione: o la locomotiva, pompando a tutto vapore, viene trainata su per la salita della storia fino in cima, oppure, trascinata dalla forza di gravità, rotola indietro fino al punto più basso e trascina irrimediabilmente con sé nell’abisso quanti, con le loro fiacche energie, volevano tenerle a metà strada.“8

Per la teorica tedesca però era “chiaro che non un’apologia acritica, ma solo una critica accurata e riflessiva è in grado di rivelare la ricchezza di esperienze e insegnamenti. Sarebbe infatti una follia pensare che, in coincidenza con il primo esperimento nella storia mondiale di una dittatura della classe lavoratrice, e proprio nelle peggiori condizioni possibili – in mezzo all’incendio e al caos di un eccidio imperialista nella morsa di ferro della potenza militare più reazionari d’Europa, nel pieno fallimento del proletariato internazionale – proprio tutto quanto in Russia era stato fatto e disfatto fosse stato il massimo della perfezione. Al contrario, i concetti elementari della politica socialista e la comprensione delle sue necessarie premesse storiche costringono a prendere atto del fatto che , in condizioni così fatali, nemmeno l’idealismo più smisurato e l’energia rivoluzionaria più impetuosa sono in grado di realizzare democrazia o socialismo, ma solo tentativi impotenti e distorti verso entrambi9

Quali furono quindi i principali elementi “critici” su cui si soffermò all’epoca la rivoluzionaria tedesca?
Sostanzialmente tre: la ripartizione delle terre subito dopo la presa del potere da parte dei soviet e del Partito rivoluzionario, il principio dell’autodeterminazione delle nazioni applicato a partire dalla pace di Brest –Litovsk con cui la Russia rivoluzionaria aveva dovuto concedere ingenti conquiste territoriali alla Germania guglielmina per poter giungere alla fine della guerra e la questione della democrazia interna e dei rapporti tra Partito bolscevico ed esigenze e proposte delle masse rivoluzionarie.

Nei primi due punti, intrinsecamente legati alle parole d’ordine che Lenin aveva lanciato nell’ottobre del ’17 (Potere ai soviet, terra ai contadini e pace ad ogni costo), la Luxemburg intravedeva, nel primo, il pericolo, poi effettivamente verificatosi, che una disordinata distribuzione delle terre dei latifondi avrebbe potuto creare una classe di piccoli e medi proprietari che avrebbero poi potuto opporsi, in nome dei propri diritti proprietari, alla rivoluzione stessa. Con le successive note conseguenze, soprattutto durante la collettivizzazione forzata voluta successivamente da Stalin, la carestia in Ucraina e il massacro di centinaia di migliaia di presunti kulaki (medi proprietari terrieri) negli anni Trenta.

Mentre nel secondo la rivoluzionaria tedesca, sempre nemica di ogni forma di nazionalismo, vedeva la possibilità di una risorgenza nazionalista borghese e piccolo borghese che avrebbe minato sia la fiducia delle masse proletarie nella rivoluzione e nelle sue conquiste, sia il potere stesso della politica rivoluzionaria. Proprio come in seguito gli episodi della lunga e stremante guerra civile avrebbero poi dimostrato (dalla Finlandia all’Ucraina, che per la Luxemburg “non aveva mai costituito una nazione o uno stato”,10 e successivamente con l’argine costituito dalla Polonia del maresciallo Józef Klemens Piłsudski all’avanzata delle truppe rivoluzionarie verso il cuore tedesco del capitalismo europeo nel 1920). Finendo poi, di ritorno, a costituire la giustificazione per l’annessione forzata e l’occupazione militare voluta dalla politica “Grande russa” di Stalin nei decenni successivi alla sua presa del potere.

Ma al di là delle virtù “profetiche” dell’attenta analisi luxemburghiana della situazione “sul campo”, quello che il testo riprende ( e per questo in appendice è stato aggiunto il testo Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, scritto nel 1904, un anno prima della rivoluzione del 1905 e due anni dopo la stesura del Che fare? di Lenin) è la polemica dell’autrice con la concezione esclusivamente partitica e accentratrice dell’azione rivoluzionaria concepita dall’avanguardia bolscevica e da Lenin stesso.

Il partito di Lenin era l’unico ad aver compreso davvero il dovere e l’esigenza di un vero partito rivoluzionario che, con la parola d’ordine: «tutto il potere nelle mani di proletari e dei contadini» ha assicurato il proseguire della rivoluzione.11 Ma tale parola d’ordine era destinata ad entrare presto in conflitto con le decisioni, prese essenzialmente da Lenin e da Trockij, di limitazione delle espressioni di democrazia, a partire dall’affossamento dell’Assemblea costituente,

In primo luogo, a seguito di ciò, il diritto elettorale fu concesso solo a coloro che vivevano del loro lavoro mentre era negato agli altri. Ma “è ormai chiaro – scrive ancora Rosa – che un siffatto diritto elettorale ha senso solo in una società che è anche economicamente in condizione di garantire a tutti quanti vogliano lavorare una vita decente e civile attraverso il loro lavoro. E’ vero anche per la Russia attuale? Con le terribili difficoltà con cui la Russia sovietica – esclusa dal mercato mondiale, privata delle sue principali fonti di materie prime – si deve scontrare […] E’ un fatto che la riduzione dell’industria ha suscitato un massiccio afflusso verso le campagne di un proletariato urbano in cerca di una sistemazione. In tali condizioni, un diritto elettorale politico che abbia come premessa economica il lavoro obbligatorio, rappresenta una misura incomprensibile. In linea generale esso dovrebbe privare dei diritti politici soltanto gli sfruttatori. E mentre le forze produttive vengono sradicate, il governo sovietico si vede letteralmente costretto a lasciare l’industria nazionale nelle mani dei precedenti proprietari capitalisti.12

La tacita premessa della teoria della dittatura in senso leninista-trockista è che il capovolgimento socialista sia una questione per la quale c’è una ricetta bell’e pronta, infilata nella tasca del partito rivoluzionario, che deve solo essere realizzata energicamente. Purtroppo, o per fortuna, non è così […] Quello di cui disponiamo nel nostro programma è un numero esiguo di grandi indicazioni di carattere peraltro negativo, che mostrano la direzione in cui andrebbero presi i provvedimenti […] Del negativo, della demolizione si può decretare, del positivo e della costruzione no […] Solo la vita libera e in fermento inventa migliaia di nuove forme, improvvisa, promana la forza creatrice, corregge da sé gli errori13

Ecco cosa differenzierà sempre il pensiero della Luxemburg da quello di Lenin: la fiducia nell’azione delle masse di cui l’azione del partito deve essere un risultato e non una premessa obbligata. La rivoluzionaria tedesca era convinta che “nelle sue grandi linee, la tattica di lotta della socialdemocrazia non è, in generale, da ‘inventare’; essa è il risultato di una serie ininterrotta di grandi atti creatori della lotta di classe spesso spontanea, che cerca la sua strada. Anche in questo caso l’incosciente precede il cosciente e la logica del processo storico oggettivo precede la logica soggettiva dei suoi protagonisti“.14

Da ciò faceva derivare la seguente osservazione: “Se la tattica del partito è il prodotto non del Comitato centrale, ma dell’insieme del partito o, meglio ancora, dell’insieme del movimento operaio, è evidente che […] l’ultracentralismo difeso da Lenin ci appare come impregnato non già da uno spirito positivo e creatore, bensì dello spirito sterile del sorvegliante notturno. Tutta la sua cura è rivolta a controllare l’attività del Partito, e non a fecondarla; a restringere il movimento e non a svilupparlo, a strozzarlo, non a unificarlo15

Differenze e polemiche che, però, non videro mai venir meno la stima reciproca tra la rivoluzionaria tedesca e Lenin. Entrambi erano rimasti vicini nella sostanza, soprattutto quando erano stati tra i pochi socialisti contrari al primo macello imperialista; così che se la Luxemburg riconosceva in Lenin tutte le qualità del leader rivoluzionario agitato da una grande passione e da una grande energia, dall’altra il rivoluzionario russo riconosceva in lei lo “sguardo d’aquila” da grande teorica del socialismo.

Grazie dunque a Massimo Capritti e alle Edizioni BFS per averci ricordato, in occasione di questo centenario sotto tono, di quali contenuti fossero intessuti i dibattiti e di quali energie fossero dotati i rivoluzionari di quella stagione gloriosa della storia del movimento operaio.


  1. Amadeo Bordiga: Russia e rivoluzione nelle teoria marxista (autunno1954 – inverno1955), Le grandi questioni della rivoluzione in Russia (1955), La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea (1956) e Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (aprile 1955 – dicembre 1957)  

  2. La rivoluzione russa, pubblicata in lingua originale a partire dal 1950 e tradotta in italiano da Einaudi nella Collezione Storica tra il 1964 e il 1978, di cui soltanto il primo volume è dedicato alla Rivoluzione mentre gli altri nove ripercorrono il periodo dalla morte di Lenin all’esperienza del socialismo in un solo paese, alla pianificazione economica e ai rapporti con gli altri paesi e gli altri partiti comunisti fino al 1929  

  3. Almeno questo è ciò che afferma György Lukács nelle sue Osservazioni critiche sulla critica della rivoluzione russa di Rosa Luxemburg, contenute ora in Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1978  

  4. Pier Carlo Masini, Introduzione a Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, pag. 81  

  5. P.C. Masini, op. cit. pag. 83  

  6. pag. 7  

  7. pag. 39  

  8. pp. 43-44  

  9. pag. 33  

  10. pag. 58  

  11. pag. 44  

  12. pp. 67-68  

  13. pp. 71-72  

  14. Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa, pp. 99-100  

  15. Problemi, pag. 101  

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Tutto deve essere rimesso in questione: Victor Serge e la Russia post-rivoluzionaria https://www.carmillaonline.com/2017/02/07/deve-messo-questione-victor-serge-la-russia-post-rivoluzionaria/ Mon, 06 Feb 2017 23:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36247 di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia [...]]]> di Sandro Moiso

da lenin a stalin A Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00

Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia del Novecento.

Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del movimento operaio che per quella del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione, ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo un’analisi attenta e complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.

Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.

Victor_Serge L’autore (il cui vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič) era nato a Bruxelles nel 1890 da un esule rifugiato in Belgio. Dopo aver militato nell’anarchismo più combattivo avrebbe raggiunto la Russia dopo lo scoppio della Rivoluzione, dove avrebbe partecipato attivamente alla vita politica della neonata Unione Sovietica e ricoperto incarichi di prestigio sia lì che all’estero. Dopo la morte di Lenin, nel 1924, si sarebbe avvicinato a Trockij e all’opposizione di sinistra e per questo motivo, nel 1933, venne arrestato ed esiliato in Siberia.

Per sua fortuna una mobilitazione internazionale a suo favore gli permise di tornare in libertà nel 1936, proprio prima dell’inizio dei grandi processi di Mosca, e di riparare a Parigi. Da cui dovette emigrare successivamente in Messico nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista del suolo francese. Dopo la rottura con Trockij, la cui teoria dello stato operaio degenerato sembrava a Serge ancora troppo riduttiva per descrivere il regime ormai instauratosi nell’URSS, continuò la sua attività politica e culturale di pubblicista e scrittore fino alla sua morte. Avvenuta, mentre si trovava in condizioni di estrema povertà, a Città del Messico nel 1947.

Il testo riproposto da Bollati Boringhieri ripercorre le principali tappe sociali e politiche dei venti anni che intercorrono tra il 1917 e il 1937, dalle iniziative dal basso di soldati e operai che diedero avvio alla rivoluzione fino alle scelte politiche, ideologiche e repressive che la trasformarono in uno dei più mostruosi strumenti della controrivoluzione.

Al di là della passione messa in campo dal “vecchio” militante rivoluzionario nel narrare e ricostruire gli eventi, non vi può essere dubbio che una riflessione su quegli stessi e sulle condizioni e le scelte che li determinarono sia ancora oggi indispensabile per misurare con piena coscienza di causa ciò che ancora sta avvenendo a livello politico, economico e sociale. Sia a livello nazionale che internazionale.

Quale fu l’abilità principale di Lenin nel 1917? Quella di avere un partito ben organizzato ed un’organizzazione, anche militare, ben disciplinata? Oppure quella di saper cogliere ciò che le masse stavano esprimendo, con le azioni più che con le parole? Serge opta decisamente per quest’ultima spiegazione e ci presenta un Lenin quasi isolato, se non per l’appoggio fornitogli da Trockij, dall’opportunismo e dai timori che sembravano ancora dominare all’interno dello stesso partito bolscevico.

Una logica inesorabile spingeva migliaia di uomini all’azione, ma questi uomini avevano bisogno di una chiara concezione dei metodi e dei fini. Ci sarebbero riusciti ad ottenerla? Questo era il punto. Al momento decisivo le masse non sempre trovano uomini capaci di esprimere senza ripensamenti i loro interessi, le loro aspirazioni e la loro vocazione al potere”.1 Oppure, potremmo aggiungere oggi, li trovano ma soltanto fittiziamente schierati al loro fianco e in realtà ben determinati ad ottenere risultati contrari all’interesse dei più. Dalle varie forme di fascismo e populismo fino a Trump, passando, e lo vedremo tra poco, dallo stesso Stalin e i suoi mefitici derivati.

All’inizio la rivoluzione russa fu grandiosa per le sue necessità interiori e nello stesso tempo misera per la sua incapacità di soddisfarle. Il giorno stesso in cui gli operai tessili di Pietrogrado lanciarono lo sciopero che meno di un mese dopo avrebbe portato alla caduta dell’assolutismo, il Comitato bolscevico di un quartiere della capitale si pronunciò contro lo sciopero. Mentre le truppe stavano per ammutinarsi – e fu proprio questo ammutinamento che provocò la caduta dell’Impero – quegli stessi rivoluzionari consideravano, timorosi, se non si dovesse consigliare il ritorno al lavoro. I rivoluzionari di ogni partito, che avevano passato tutta la vita a prepararsi per la rivoluzione, non si resero conto che essa era a portata di mano e che la via verso la vittoria era già aperta”.2

Viltà, opportunismo, volontà di salvaguardia del Partito avanti tutto? Forse tutte e tre le cose insieme che, unite ad una eccessiva rigidità ideologica, avrebbero poi ancora accompagnato alla tomba l’esperienza rivoluzionaria e migliaia di rivoluzionari nell’era successiva alla morte di Lenin. Il quale, come afferma l’autore nel suo libro, ebbe il merito di “essere un rivoluzionario in un periodo di rivoluzione”.3

Egli vedeva chiaramente i limiti del possibile, ma intendeva superarli. In Russia non proclamò il socialismo,4 bensì l’espropriazione delle grandi aziende a beneficio dei contadini; il controllo operaio sulla produzione; una dittatura democratica dei lavoratori con l’egemonia della classe operaia . Era appena sceso dal treno quando chiese ai suoi compagni di partito: «Perché non avete preso il potere?» […] Tutto il suo genio consisteva nella sua capacità di dire ciò che il popolo voleva dire e che non sapeva dire, con la sua capacità di dire ciò che nessun uomo politico e nessun rivoluzionario era ancora riuscito a dire”.5

Così la rivoluzione russa ebbe carattere spontaneo: all’inizio sembrava che non avesse nessuno capace di aiutarla a svilupparsi; si può ricavare una grande lezione da questa constatazione: avvenimenti del genere non possono né essere anticipati né fatti precipitare. E’ cieco chi immagina di poter essere a favore o contrario alle necessità storiche, ma se coloro che sono capaci di distinguere le caratteristiche di queste necessità si mettono al loro servizio, allora da questo atto possono raccogliere grandi frutti e più sono capaci di integrarsi nel corso inesorabile degli avvenimenti e ricavarne le leggi che sono in essi contenute, più riescono ad aumentarne i frutti. Solo uomini del genere possono essere dei rivoluzionari”.6

Valeva la pena di soffermarsi sui fatti e le lezioni che caratterizzarono la Rivoluzione del ’17 e gli anni immediatamente successivi fino alla morte di Lenin, cui vengono dedicate complessivamente le prime sessanta pagine del testo. Prima di entrare in quello che potremmo tranquillamente definire come un autentico abisso politico, sociale, economico, ideologico e morale. Un girone infernale di sviluppo forzato e gulag che nel giro di quindici anni riuscì a divorare e ad ingoiare tutte le conquiste e le speranze messe in moto in quei primi gloriosi anni.

Conviene lasciare alla lettura diretta del testo la ricostruzione dei drammi e delle violenze che videro coinvolti ed eliminati i più oscuri militanti operai e i più celebri rappresentanti del Partito bolscevico e della rivoluzione. Quello che vale la pena qui sottolineare è come, da un lato, Serge riesca a ricollegare la crescita della potenza sovietica alla miseria e all’autentica espropriazione politica di milioni di operai e contadini russi e allo stesso tempo, dall’altro, cercare di spiegare come e perchè i migliori esponenti del comunismo sovietico abbiano finito col piegarsi e, talvolta, allearsi con Stalin e il suo progetto. Pur finendo sempre con l’essere eliminati fisicamente, oltre che politicamente.

Sono pagine più che drammatiche in cui l’autore mette al servizio della verità storica e politica le sue memorie, i documenti raccolti e la sua abilissima penna di scrittore.
Tutto deve essere rimesso in questione e le verità di regime devono essere severamente smontate e ricondotte alla realtà dei fatti. Molto distanti dalla narrazione fattane dai servitori, sempre fedeli e spesso destinati anch’essi all’eliminazione fisica, di Josef Vissarionovic Džugašvili, georgiano nato a Tiflis nel 1879, in arte Stalin.

Già nel novembre del 1929, “lo scarso livello nutritivo degli operai fece diminuire la produttività del lavoro. […] L’operaio abbandonava la fabbrica o vi restava solamente formalmente e si guadagnava la vita mediante piccoli furti. Rivendendo un paio di calze guadagnava di più che con tre giorni di lavoro. Egli doveva essere costretto a lavorare con una legislazione draconiana. Per legarlo ai centri industriali, venivano istituiti passaporti interni, che privavano la popolazione del diritto di muoversi liberamente per il paese e che rendevano possibile la deportazione di chiunque senza alcuna formalità. […] Furono anni di incubo. La carestia arrivò in Ucraina, nelle terre nere, in Siberia e in tutti i granai della Russia”.7

Ma, tenendo anche conto della gravissima crisi che nel ’29 iniziò a colpire tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, se ci spostiamo qualche anno più avanti, quando il regime iniziò a celebrare i suoi trionfi, le cose non cambiano di molto. Anzi. “Kharkov si è ingrandita sensibilmente. Ci sono molte fabbriche e cooperative nuove. Tuttavia migliaia di persone passano la sera senza luce e quasi senza riscaldamento; a interi settori della città manca l’elettricità.. I cinema sono chiusi, le abitazioni sono nell’oscurità e tutto ciò va avanti per intere settimane. Niente olio, niente candele, completa oscurità. Solo i burocrati, i maledetti fortunati, posseggono brutte lampade a petrolio […] la gente vive instupidita, in uno stato di bestiale disperazione. Il contrasto tra produzione e consumo è incredibile”.8

E più avanti ancora: “I pidocchi, a cui una volta Lenin aveva dichiarato guerra, sono tornati a frotte, Folle sporche e cenciose riempiono le stazioni, uomini, donne e bambini aspettano a gruppi Dio sa che treni. Vengono cacciati via, ma ritornano senza denaro e senza biglietti. Si arrampicano su tutti i treni su cui possono salire e ci rimangono finché non vengono cacciati via. Sono silenziosi e passivi. Dove vanno? Vanno in cerca di pane, di patate o di lavoro nelle fabbriche dove gli operai sono nutriti un po’ meno peggio…Il pane è il grande stimolo di questa folla. E che dire dei furti? La gente ruba dappertutto, dappertutto”.9

L’industria pesante era stata favorita come base per lo sviluppo della potenza sovietica e con essa in particolare quella degli armamenti. Fame in casa e immagine muscolare verso l’esterno mentre Stalin scenderà a compromessi vergognosi con la Francia, l’Inghilterra e, dal ’39, anche con la Germania nazista. In contemporanea andranno avanti le epurazioni: nel Partito, nel Politburo e tra la popolazione: “L’epurazione della popolazione di Leningrado10 mediante la la prigione e la deportazione arrivò a comprendere da ottantamila a centomila vittime. E tutto ciò accadeva nel 1935“.11

Ma il dramma ancora maggiore fu proprio quello costituito dal fatto che i più importanti artefici della Rivoluzione accettassero prima di firmare le infamanti accuse costruite su di loro dalla GPU e dagli apparati di informazione e poi di subire, spesso quasi passivamente, i processi e poi le esecuzioni. Senza contare le decine o forse centinaia di migliaia di membri e funzionari di partito scomparsi senza lasciar traccia nelle prigioni e nei campi di lavoro siberiani.

victor-serge 1 Nel testo Serge dedica a questo argomento pagine terribili e sconvolgenti che vale la pena di leggere, mentre le riflessioni profonde che ne derivarono avrebbero accompagnato le sue opere letterarie migliori12 fino alla fine dei suoi giorni.

Bene ha fatto dunque la casa editrice a riproporre il testo qui esaminato, seppur nella stessa traduzione del 1973 di Sirio Di Giuliomaria che in qualche punto avrebbe potuto essere rivista, non soltanto al fine di una riflessione sull’esperienza sovietica condotta non da un conservatore o da qualcuno che abbia fatto, già all’epoca, il salto della barricata, ma anche per la riscoperta di un autore e militante rivoluzionaria che David Bidussa, in una breve ma significativa e netta Prefazione, contribuisce ad inquadrare e a differenziare da altri autori più celebri, come Koestler o Silone, individuando i motivi della sua rimozione dalla memoria “democratica” proprio nella radicalità del suo operato e della sua testimonianza.


  1. pag. 4  

  2. pag. 6  

  3. pag.15  

  4. Come poi avrebbe fatto Stalin con la teoria, nazionalista e negatrice della rivoluzione internazionale, del socialismo in un solo paese – Nota del recensore  

  5. pp. 13-14  

  6. pag. 9  

  7. pag. 94  

  8. pag. 106  

  9. pag. 107  

  10. Città mai particolarmente cara a Stalin, tanto che nei libri di storia è più celebre l’assedio di Stalingrado che quello di Leningrado che pur durò 900 giorni e vide lo stesso una severa sconfitta delle truppe dell’Asse – Nota del recensore  

  11. pag. 129  

  12. E’ mezzanotte del secolo, Il caso Tulaev e Anni Spietati. I primi due ristampati in Italia in anni recenti  

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Otello Gaggi: perseguitato dal fascismo, eliminato dallo stalinismo https://www.carmillaonline.com/2015/06/17/otello-gaggi-perseguitato-dal-fascismo-eliminato-dallo-stalinismo/ Wed, 17 Jun 2015 20:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23275 di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati [...]]]> di Sandro Moiso

otello gaggi Giorgio Sacchetti, OTELLO GAGGI. Vittima del fascismo e dello stalinismo, Nuova edizione riveduta ed ampliata, BFS edizioni 2015, pp.104, € 12,00

Nella infinita, e talvolta soltanto retorica, diatriba che accompagna da sempre il conteggio delle vittime, dei martiri, degli eroi e dei combattenti caduti sui due fronti della guerra civile italiana tra il 1943 e il 1945 e, ancor prima, tra il 1919 e i primi anni del regime fascista, spesso non vengono conteggiati tutti quei militanti e proletari che una volta rifugiatisi nel paese dei soviet, colpiti da provvedimenti persecutori e condanne dei tribunali fascistizzati e dallo squadrismo nero, finirono con l’essere lì eliminati fisicamente nel corso delle epurazioni volute da Stalin e dai suoi accoliti per eliminare ogni opposizione interna al Partito Bolscevico e all’Internazionale Comunista. Tragedia che in alcuni casi continuò anche fuori dei confini dell’URSS dopo la caduta del fascismo e dell’occupazione tedesca, come nel caso dell’omicidio del militante internazionalista Mario Acquaviva avvenuto a Casale l’11 luglio 1945 ad opera del partigianesimo togliattiano.1

Per molti anni infatti, grazie anche alle connivenze del Partito Comunista Italiano, il cui leader Palmiro Togliatti aveva pienamente condiviso la responsabilità dei provvedimenti letali presi nei confronti dei rifugiati politici che avevano osato criticare le scelte dello stalinismo, si è venuto così a formare, precedendo nel tempo quello di estrema destra nei confronti della shoa, una sorta di vero e proprio “negazionismo di sinistra” tutto teso a negare oppure a giustificare tali provvedimenti liquidatori nei confronti di centinaia di militanti antifascisti italiani che avevano cercato scampo nell’URSS.

Esattamente come nel caso del negazionismo, tali rimozioni o, ancor peggio, giustificazioni storico-politiche avevano tutte l’obiettivo di negare la realtà dei fatti o, addirittura, le testimonianze dirette di chi era sopravvissuto sia alle purghe che al gulag e aveva potuto tornare in Italia a denunciare ciò che era avvenuto,2 nonostante le denunce su ciò che stava avvenendo o era già avvenuto fossero note, grazie all’opposizione all’estero sia internazionalista che trozkista. O, ancora, grazie alla prima dettagliata sintesi, con tanto di elenco di qualche centinaio di nomi, pubblicata da Alfonso Leonetti nel 1978.3

Il saggio di Giorgio Sacchetti, professore associato di Storia contemporanea e docente a contratto di Storia delle ideologie del novecento in Europa presso il dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova e già autore di altri saggi sulla storia del movimento libertario ed antifascista, ricostruisce le vicende e la tragedia di un operaio anarchico delle ferriere di San Giovanni Valdarno che, riparato in modo avventuroso in Russia per sfuggire alla vendetta fascista , avrebbe trovato la morte nei campi di lavoro siberiani dopo più di un decennio di detenzione, cui era stato condannato come “controrivoluzionario”.

Come recita il titolo di uno dei testi più celebri sull’argomento: una piccola pietra nel mare delle storie, dimenticate e rimosse, dell’antifascismo e dell’antistalinismo classista,4 eliminato per volontà dei vertici del partito sovietico e di quelli asserviti di quello italiano. Piccola, ma significativa. Un’autentica sineddoche storico-politica utile a comprendere come le vicende, anche infinitesimali, di una parte dell’antifascismo e del sovversivismo italiano tra gli anni venti e il 1945 possano rappresentare un’intera tragedia non ancora completamente affrontata dalla storiografia di classe.5

Rispetto all’edizione pubblicata nel 1992, sempre dalla Biblioteca Franco Serantini, la presente può avvalersi di nuovi documenti ed importanti testimonianze anche dei parenti russi collegati alla nuova famiglia che il Gaggi aveva là ricostituito. Ma è soprattutto dalle carte del “processone” contro quello che fu definito il soviet del Valdarno (quasi un centinaio di imputati, tra cui lo stesso Otello, latitante per i fatti di Castelnuovo Sabbioni del 1921) che “ traspaiono chiari i termini di uno scontro di classe di inaudita brutalità nel quale la schermaglia giudiziaria è solo un pretesto per saldare i conti politici e sindacali ormai pendenti fin dal periodo del famoso Biennio rosso”, utili ai fini di comprendere “quale sia stato il clima della violenta battaglia tra fascisti e sovversivi in quell’epoca e la successiva «normalizzazione»” (pag. 9)

Dal voluminoso e inesplorato fascicolo del Casellario politico, presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma, sono inoltre usciti importanti documenti soprattutto relativi agli anni della sua permanenza nell’URSS e accurate informative dell’ambasciata italiana a Mosca, luogo quest’ultimo di indicibili transiti controllato a vista dalla polizia sovietica, postazione dell’OVRA e crocevia di ambigui personaggi. Sono carte preziose per capire il destino doloroso della comunità italiana in quel paese. Ne esce uno spaccato assai significativo sulla situazione di terrore e di sospetto vissuta in tutto l’ambiente dell’emigrazione” (pp. 9-10) Cui vanno ancora aggiunti stralci dall’interrogatorio al Gaggi trascritti negli archivi sovietici.6

Nato a San Giovanni Valdarno il 6 maggio 1896 nella numerosa famiglia di un operaio siderurgico, Otello percorrerà nella sua gioventù tutte le tappe di una militanza politica radicale. Assunto come operaio in ferriera a 15 anni, “sa il fatto suo come mestiere, ma «non è assiduo al lavoro» come lamentano i caporali dello stabilimento di quel giovane che, per di più, ha frequentazioni con soggetti poco raccomandabili e risulta accanito lettore di stampa sovversiva” (pag. 22)

Dall’Archivio centrale dello Stato risulta, poi, che: “Ha fatto propaganda contro la guerra del 1915 partecipando come promotore abusivo a manifestazioni clamorose, sì da essere denunziato. Antimilitarista per viltà e per assenza di sentimento patriottico, nonché per indole ribelle, incorse sotto le armi in delitti che condussero alla sua espulsione dall’esercito” (pag. 23)

Evidentemente, anche in questo caso, le vicende del Gaggi rappresentano ancora una volta molto bene la situazione generalizzata di conflitto e di rifiuto del militarismo e della guerra che si era venuta a creare in Italia nel corso del primo macello imperialista, se è vero che: “Su circa 5.200.000 sudditi del Regno, chiamati alle armi dal 1915 al 1918, in 870.000 subiscono denunzie all’autorità giudiziaria. Di questi oltre la metà (470.000, in maggioranza residenti all’estero) per renitenza alla leva e il resto per fatti commessi sotto le armi. Su 350.000 processi celebrati dai tribunali di guerra sono 140.000 le sentenze di assoluzione e 210.000 quelle di condanna […] Il 15% dei mobilitati e il 6% di coloro che, come Gaggi, pure avevano risposto alla chiamata scendendo in trincea e accettando di indossare la divisa di soldato, si trovarono quindi sotto processo per il loro NO alla guerra” (pag. 27)

Ma saranno i drammatici fatti del 23 marzo 1921 a segnare il destino di Otello, quando in Valdarno, a seguito di una provocazione fascista si svilupperà un violento scontro tra forze dell’ordine e squadristi da un lato e lavoratori antifascisti che per armarsi e reagire avevano svaligiato un’armeria. Tra gli antifascisti si conteranno un morto e nove feriti, mentre nel vicino bacino minerario i minatori sequestreranno l’intera direzione degli impianti e resterà ucciso un ingegnere e ferito il direttore degli stessi.

Per questo motivo, tra i manifestanti colpiti da provvedimenti giudiziari, 92 su 94 saranno accusati di omicidio. Tra questi Otello Gaggi che, pur essendo stato riconosciuto dai testimoni della parte avversa come colui che si era frapposto tra i minatori armati e il direttore nel tentativo di salvarlo dalla furia proletaria, sarà condannato in contumacia a trent’anni di reclusione, tre anni di vigilanza e 165,50 lire di pena pecuniaria.

Ha inizio da quel momento il travagliato viaggio di Otello verso il paese di utopia: la terra dei soviet. Occorre qui comprendere “come nel movimento operaio italiano e internazionale nasca e perduri il mito della Russia rivoluzionaria, mito di lunga durata che si rivela terreno fertile per lo sviluppo successivo di categorie politiche come lo stalinismo ( e il «togliattismo» per quanto riguarda la specifica vicenda italiana). Con una dinamica in parte analoga a quella già in atto per le masse cattoliche nei confronti dell’autorità millenaria dell’istituzione Chiesa, si instaura un vincolo di tipo ideologico fideistico, mutuato dall’attesa messianica del «sol dell’avvenire», nei confronti dello Stato sovietico appena sorto” (pp. 47-48)

Cui occorrerebbe aggiungere che una parte della fiducia derivava anche, nel caso in questione, dal fatto che all’epoca dei fatti di Castelnuovo dei Sabbioni (la località mineraria di cui si è prima parlato) “il PCd’I è stato appena costituito a Livorno, eppure già riscuote vasti consensi e simpatie tra il movimento operaio valdarnese. Non solo socialisti seguaci di Bordiga, ma anche sindacalisti dell’USI e molti anarchici passeranno al nuovo partito” (nota pag, 39)

Anche se l’accusa di “bordighismo” sarà quella che dopo il 1926, sia in URSS che nel partito italiano sotto la direzione di Togliatti, porterà molti militanti all’espulsione o addirittura alla condanna ai lavori forzati o alla morte, l’entusiasmo iniziale verso il nuovo leader del movimento operaio e per il giovane partito nato a Livorno spingerà molti sovversivi a parteggiare per l’Unione Sovietica e il partito bolscevico. E forse anche per questo motivo il Gaggi, dopo una funambolesca fuga di massa avvenuta il 6 giugno 1921 dal carcere in cui era stato rinchiuso in stato di “arrestato provvisorio”, finirà col giungere ad Odessa sul Mar Nero.

Risulterà in seguito che già nel 1922, a Baku, l’anarchico toscano sarà condannato a tre anni di detenzione per motivi politici, anche se dal dicembre 1921 all’aprile dell’anno successivo era stato ospite dell’Hotel Lux di Mosca, riservato in genere ai dirigenti di partito o ai loro familiari. Ma le condizioni di esistenza del Gaggi e della nuova famiglia che egli ha ricostituito in Russia si faranno via via più precarie, in un clima di sospetto e di delusione che il militante valdarnese non manca di segnalare nelle sue missive ai compagni più fidati.

Gaggi che svolge l’attività di venditore di libri “sospetto ai gerarchi”, a partire dal 1930, pur non perdendo la sua abitudine alla critica, si vedrà sempre più minacciato e diffidato, mentre a partire “dal 1933 tutti gli stranieri residenti nel paese iniziano ad essere considerati, in quanto tali, «nemici dell’URSS»” e “di lì a poco si approverà anche la cosiddetta legge sul «tradimento della patria» che comporta la pena capitale ed estende la responsabilità penale ai familiari del condannato” (pag. 64).

Il totale abbandono delle istanze internazionaliste sulle cui basi era nato l’esperimento sovietico e il ritorno al nazionalismo di stampo slavofilo , segna l’inizio della catastrofe per migliaia di militanti del partito sovietico e per molti di coloro che avevano sperato di trovare nell’URSS un rifugio sicuro dall’ondata montante del fascismo e del nazionalsocialismo. Così la notte del 28 dicembre1934, quattro settimane dopo l’assassinio di Sergej Kirov, considerato l’astro nascente del nuovo firmamento bolscevico in grado di insidiare la leadership del dittatore georgiano, che avrebbe dato la stura alle purghe e ai processi di Mosca, “«gli organi addetti alla sicurezza dello Stato proletario» prelevano dalle loro abitazioni con un’azione simultanea nella città di Mosca, undici persone di cui dieci di nazionalità italiana” (pag. 68). Tra questi l’anarchico valdarnese e la sua compagna russa.

Gaggi negli interrogatori finirà col confessare le sue “terribili colpe”, soprattutto quella di aver condiviso con altri compagni l’opinione “«che in URSS i lavoratori vivano male e che nel paese non ci sia libertà»” (pag.70). Riconosciute, quindi, le proprie colpe il militante toscano sarà successivamente condannato a tre anni di confino. Andrebbe qui segnalato che nel quinquennio 1929 – 1934 era in corso un avvicinamento di carattere politico-economico tra Italia fascista e Russia stalinizzata che avrebbe portato alla realizzazione di progetti comuni, con la realizzazione di fabbriche (per esempio quella di una di cuscinetti a sfera nel 1932, le cui foto dell’inaugurazione con Togliatti al centro si trovano ancora presso l’Archivio storico Fiat). E pare quindi evidente che uno dei caposaldi del business tra imprenditori e gerarchi italiani e gerarchi sovietici7 dovesse essere proprio quello della pacificazione delle frange operaie e politiche più ribelli.

E proprio nel 1935, anno della condanna al confino di Gaggi, ha inizio il mito dell’operaio Aleksej Stachanov che, secondo la vulgata stalinista, avrebbe estratto, con una tecnica di divisione dei ruoli lavorativi di sua ideazione, la notte del 31 agosto, 102 tonnellate di carbone, pari a quattordici volte la quota prevista, in meno di sei ore. Mentre erano proprio gli operai che rifiutavano l’enorme sforzo produttivo richiesto dall’industrializzazione a marce forzate sovietica ad essere deportati ed eliminati dopo aver impiccato ai soffitti delle officine i loro colleghi stakanovisti.8

Le vicende politiche dello stalinismo e delle sue vittime sono state trattate troppe volte, da un lato e dall’altro della barricata, da un punto di vista ideologico e politico mentre a ben guardare9 sono sempre i concreti rapporti di classe a definire i regimi, i modi di produzione che li sostengono e le loro eventuali e tutt’altro che “innaturali” alleanze. Soprattutto nei confronti della risorsa lavoro: dalle officine al gulag e ai lager.

Per quanto riguarda le vicende del Gaggi, “si saprà poi che, in data 29 luglio 1937, era stato nuovamente arrestato «per attività antisovietica svolta tra gli altri prigionieri» e per questo condannato (9 gennaio 1938) a ulteriori cinque anni di carcere. Dal 1938 in poi risultano tre trasferimenti in campi di lavoro destinati alle costruzioni ferroviarie, al disboscamento e alle coltivazioni agricole, tutti situati a nord del paese e gestiti da diverse amministrazioni del sistema concentrazionario sovietico” (pag.88)

Ed è a questo punto che si perdono definitivamente e sciaguratamente le sue tracce, nonostante l’appello rivolto da Victor Serge a Palmiro Togliatti che naturalmente, quando era ancora Ministro del Governo antifascista di Roma, si rifiutò di rispondere. Ma qui occorre fermarsi, anche se le responsabilità togliattiane e del partito italiano stalinizzato nell’opera di eliminazione della dissidenza interna ed internazionale risultano dettagliatissime nel lavoro di Sacchetti. Opera che, seppur segnata a tratti da un’eccessiva enfasi libertaria, tutti coloro che ancora si ritengono avversari del capitale e delle sue maschere politiche e nazionali dovrebbero leggere. Soprattutto chi ancora oggi si crogiola nel “mito” di Stalin e della “patria dei lavoratori”.


  1. Si legga in proposito Giorgio Bona, Sangue di tutti noi, Scritturapura casa editrice, Asti 2012  

  2. Si vedano, soltanto come esempio: G. Fabre, Roma a Mosca. Lo spionaggio fascista in URSS e il caso Guarnaschelli, Dedalo 1990, in cui, sulla base di pochissimi e superficiali elementi si cerca di avvalorare la tesi staliniana dell’appartenenza degli oppositori ai servizi segreti fascisti e ad un complotto controrivoluzionario anti-sovietico, già sbandierato ai tempi dell’eliminazione della vecchia guardia bolscevica e trotzkista. Oppure, sull’altro fronte: Dante Corneli, Il redivivo tiburtino, testimonianza diretta di un sopravvissuto che, una volta tornato in Italia , non trovò nessuno disposto a pubblicare le sue memorie, né nel suo partito, il PCI, perché ritenuto un provocatore, né tanto meno nella restante editoria che lo riteneva comunista e quindi sovversivo. Costringendolo così a pubblicare privatamente la sua testimonianza; cosa che lo accomuna a Primo Levi, il cui fondamentale Se questo è un uomo venne infatti stampato nell’autunno del 1947, in 2.500 copie, da una piccola casa editrice torinese, la De Silva diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni grandi editori, fra cui Einaudi, avevano rifiutato il manoscritto. Soltanto nel 1958 la casa editrice Einaudi, che ne avrebbe poi fatto uno dei suoi monumenti, lo avrebbe accolto ripubblicandolo nei suoi “Saggi”  

  3. A. Leonetti, Vittime italiane dello stalinismo in URSS, Milano, La Salamandra 1978  

  4. Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra. Le lettere di un operaio comunista morto nei gulag di Stalin, prima edizione Garzanti 1982 con prefazione di Alfonso Leonetti, poi Marsilio 1998  

  5. Tanto che in Italia una delle opere più importanti sull’argomento, fino ad ora pubblicate, è stata per lungo tempo disponibile soltanto nel volume collettaneo REFLECTIOS ON THE GULAG with a documentary appendix on the italian victims of repression in the URSS, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti, Annali Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Trentasettesimo 2001 poi solo parzialmente ripubblicato in Gulag. Storia e memoria, Feltrinelli UE/saggi 2004  

  6. Riportati nel testo di F.Bigazzi e G.Lehner (a cura di), Dialogho del terrore.I processi ai comunisti italiana in Unione Sovietica (1930 – 1940), Ponte alle Grazie, Firenze 1991  

  7. Si veda sempre in proposito il fondamentale: Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  8. Come ricordava Danilo Montaldi nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia (1919 – 1970), Edizioni Quaderni Piacentini 1976  

  9. Come nel caso di Margarete Buber Neumann, moglie di un importante dirigente del partito tedesco, rifugiatosi nell’URSS per sfuggire al nazismo e qui eliminato durante le grandi purghe staliniane, restituita alla Germania nazista e ai suoi lager in occasione del patto Ribbentopp – Molotov del 1939  

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