Parlamentarismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/09/06/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-1/ Tue, 06 Sep 2022 20:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73685 di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, [...]]]> di Emilio Quadrelli

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.» (K. Marx, F. Engels, «Manifesto del partito comunista»)

Genealogia di un concetto

Tra i motivi che ci hanno portato alla stesura di queste note il ricorso al parlamentarismo, sia di gran parte della residualità comunista sia della galassia antagonista, ha giocato un ruolo non secondario. Attraverso la formazione di liste partitiche autonome o identificando, come nel caso dei 5 Stelle, un interlocutore dai decisi tratti “antisistema” il parlamentarismo continua a essere considerato un ambito importante, o perlomeno utile, per le masse subalterne.

Notoriamente il tema del parlamentarismo è stato oggetto di non poche contrapposizioni all’interno del movimento operaio e comunista. A partire da Lenin e dal suo Estremismo, malattia infantile del comunismo il “dogma” della partecipazione alle elezioni è stato moneta corrente per la maggior parte delle pur diverse anime del movimento comunista rispetto alle quali facevano eccezione le frazioni dei “comunisti di sinistra” e dei “comunisti consiliari” che con Lenin avevano rotto sin dai tempi del III Congresso dell’Internazionale comunista. In Italia, anche se non in chiave antileninista, il rifiuto del parlamentarismo può vantare una lunga, ancorché assai minoritaria”, tradizione grazie a Bordiga e all’area politica definitasi “sinistra comunista”.

Sull’utilità di presentarsi o meno alle elezioni si sono consumati fiumi di inchiostro all’interno di quella “nuova sinistra” sorta sull’onda del ’68. Proprio il ’68 e le sue pratiche avevano pesantemente posto sotto critica il parlamentarismo e le logiche che si portava appresso. È la lotta/non il voto/è la lotta che decide era stata la “linea di condotta” dell’altro movimento operaio il quale, insieme al parlamentarismo, aveva posto in archivio per intero la logica della delega e di tutte le forme di rappresentanza dal sapore istituzionale. Con ciò il parlamentarismo diventava qualcosa di superfluo non tanto per una questione di principio ma perché superato dalla materialità dei fatti. In questo, a ben vedere, vi era una totale adesione proprio alle argomentazioni di Lenin il quale non assolutizzava il parlamentarismo, ma lo giocava dentro la concretezza della fase politica. In un momento di ripiego partecipare alle elezioni aveva un senso ma, in una fase di attacco, non solo era insensato ma assumeva i tratti di un autentico tradimento, poiché non la Duma bensì la strada diventava il solo e vero ambito di lotta.

Con il ripiegamento del movimento di classe la questione del parlamentarismo tornò a farsi viva tanto da protrarsi sino ai giorni nostri. A nostro avviso questo dibattito si mostra del tutto privo di fondamento poiché non considera le differenze storiche tra la fase imperialista affrontata da Lenin e la fase imperialista contemporanea. Lenin agisce in un contesto nel quale è la borghesia stessa a includere i subalterni all’interno dei perimetri politici e statuali mentre, nel presente, assistiamo esattamente all’opposto. Per il potere politico le masse e il loro inserimento nel gioco istituzionale si è fatto del tutto privo di un qualche interesse tanto che gli elevati indici di astensione non sono forieri di alcuna preoccupazione. A differenza dell’epoca di Lenin, tutta incentrata sull’inclusione politica e sociale delle masse subalterne, oggi siamo dentro uno scenario completamente rovesciato: l’esclusione è la cornice entro la quale il potere politico ascrive classe operaia e proletariato ed è esattamente da ciò che occorre partire.

Il tema dell’esclusione sociale conosce oggi una fortuna inaspettata tanto da emanciparlo dagli angusti e ristretti ambiti disciplinari in cui, tradizionalmente, è stato ascritto. Mentre, classicamente, a occuparsi di esclusione sociale sono state discipline quali l’antropologia culturale, la sociologia della devianza e, in particolare negli ultimi anni, la sociologia della cultura oggi questa è diventata tema non secondario della teoria politica1.

Tutto ciò, già di per sé, è indicativo di quanto l’era attuale sia attraversata da un insieme di trasformazioni in grado di scompaginare per intero le coordinate concettuali di un’intera epoca. Non a caso gli stessi movimenti operai, proletari e comunisti che nei confronti dei temi dell’esclusione sociale hanno sempre nutrito interessi a dir poco vaghi, oggi sono costretti ad assumerla come uno degli aspetti centrali della condizione dei subalterni. Legittimo, quindi, domandarsi che cosa sia accaduto. Occorre, pur sommariamente, ricostruire la storia di un concetto.

Obiettivamente l’esclusione sociale ha sempre rimandato ai mondi della marginalità. Una marginalità che poteva essere ascritta a due ambiti. Il primo riconducibile direttamente al mondo dei poveri, il secondo a quello degli “anormali”. Per quanto, in non pochi casi, i due ambiti abbiano finito spesso con l’incontrarsi analiticamente occorre tenerli separati. Partiamo, pertanto, a definire l’ambito della povertà e a domandarci per quali motivi, i movimenti operai e comunisti, si siano sostanzialmente disinteressati dei poveri. Chi sono i poveri e in che cosa si distinguono dagli operai e dai proletari? Fondamentalmente in una cosa: questi non sono una classe sociale e, il che ne è l’aspetto decisivo, non sono, e né possono esserlo, una classe storica2.

A differenza del proletariato deputato a diventare agente della storia universale in quanto classe in grado di incarnare l’interesse generale, il povero consuma la sua esistenza dentro una dimensione mesta sia sul piano empirico sia su quello della scena storico–politica. Il povero, il marginale, l’escluso non sono in grado di rovesciare alcun rapporto di forza poiché, si potrebbe dire, la loro condizione si colloca fuori da una relazione dialettica ancorché nella dimensione servo – padrone3. Del resto, mentre è pensabile la dittatura operaia, proletaria e contadina, come forma statuale in grado di organizzare il potere di classe in un determinato territorio, a dir poco dadaista sarebbe un’ipotesi politica che fondasse la sua prospettiva sulla dittatura rivoluzionaria dei poveri4.

In poche parole, il marginale, il povero, il socialmente escluso incarnano sempre, almeno sotto il profilo economico e sociale, una disgregazione seguita ai processi di modernizzazione. Ciò che lo caratterizza è un sostanziale declassamento che lo fa precipitare ai margini della vita sociale5. Non a caso, il socialmente escluso, è per lo più estraneo all’ambito della produzione e la sua vita si dipana tra assistenza pubblica e/o religiosa o attività illegali di piccolo cabotaggio. Lo stesso disoccupato, in quanto esercito industriale di riserva6, ha ben poco a che spartire, indipendentemente dalle condizioni empiriche nelle quali può ritrovarsi, con il povero e il marginale. Solo nel caso in cui, in seguito al prolungato stato di disoccupazione, l’operaio vive un oggettivo processo di declassamento la sua iscrizione al mondo della marginalità diventa un fatto acquisito ma, per l’appunto, ciò è il frutto di un passaggio dentro un ambito sociale completamente diverso7. In quel caso, l’operaio declassato, si ritroverà in mezzo ad altri declassati provenienti dalle più svariate classi sociali. In poche parole l’esclusione sociale, classicamente, sembrava porsi fuori dai rapporti capitalistici di produzione.

Sotto tale profilo il capolavoro di Hugo è quanto mai esemplificativo. Il mondo dei miserabili raccoglie, al contempo, tutti i residui delle ere passate e le “vite di scarto”8 del presente, poiché escluse definitivamente dal ciclo di produzione capitalista. Questo mondo, sempre propenso a compiere un colpo di stato dal basso, non mira alla presa del Palazzo d’Inverno ma, ben più prosaicamente, al portafoglio di qualche malaugurato passante o, nella migliore delle ipotesi, agli arredi di qualche abitazione o negozio momentaneamente non custodito. In non pochi casi, il colpo di stato, è tentato o realizzato verso i propri simili per sottrargli le piccole fortune momentaneamente acquisite.

Nei confronti del potere politico e della polizia in particolare questi ambiti si mostrano a dir poco ossequiosi e sempre pronti a vendere qualcuno in cambio di un momentaneo salvacondotto, qualche moneta o per acquisire un piccolo credito da consumare in una futura occasione. In non poche occasioni, inoltre, i socialmente esclusi non si sono fatti problemi a svolgere il “lavoro sporco” per conto del potere legittimo, in funzione antioperaia e antiproletaria. Più modestamente come crumiri o con qualche pretesa in più in veste di novelli pretoriani, per l’insieme di questi motivi, agli occhi della classe operaia e del proletariato, sono sempre stati percepiti come corpo estraneo se non come veri e propri avversari del fronte di classe. Dalla Brigata dei Macellai sino ai mazzieri fascisti il rapporto tra movimento operaio e marginalità sociale non è mai stato particolarmente amorevole9.

Il secondo ambito tipico del socialmente escluso, come si è detto, è riconducibile a quell’insieme di comportamenti ascrivibili ai mondi dei cosiddetti anormali10. Un mondo quanto mai variegato che, attraverso i secoli, ha accolto nel suo grembo dal folle11 all’omosessuale. Il socialmente escluso, in questo caso, è sempre il frutto di un ordine discorsivo e di un effetto di potere dal duplice scopo: sperimentare in vitro tecniche di controllo e di disciplinamento il cui utilizzo, in un processo a cascata, può essere esteso ai più svariati ambiti sociali; uniformare i comportamenti e i costumi della popolazione al fine di rendere la nazione più forte e più sana12. Per sua natura il termine “anormale” è talmente polisemico da potersi, volta per volta, applicare a qualunque comportamento socialmente non convenzionale, in un preciso svolto storico. Come esempio non secondario può essere assunto l’ordine discorsivo che si è prodotto intorno all’omosessualità.

La messa al bando dell’omosessualità ha attraversato l’intera epopea in cui la potenza statuale coincideva con la forza della nazione. Epoca in cui, produzione ed esercito, potere economico e forza militare si fondano prevalentemente sul numero. In tale contesto la forza di una potenza statuale sarà direttamente proporzionata alla sua capacità industriale, quindi alla quantità di forza – lavoro salariata messa al lavoro, unita alla vastità della mobilitazione militare che il numero rende possibile. In tale scenario la necessità di una nazione ricca, per non dire abbondante, di prole rappresenta per il potere politico un obiettivo strategico irrinunciabile. L’omosessuale, suo malgrado, diventa colui che “oggettivamente” compie un atto di sabotaggio nei confronti del potere. Non procreando, l’omosessuale, depotenzia il patrimonio nazionale e statuale limitando obiettivamente le capacità di riserva, economica e militare, dello stato13.

Significativamente, nel momento in cui il paradigma industriale della guerra14 viene meno, l’ordine discorsivo intorno all’omosessualità comincerà a mutare15. L’emancipazione alla quale, nelle nostre società, la pratica omosessuale sembra andare incontro più che l’effetto di un improbabile processo di civilizzazione appare come l’effetto del mutamento di paradigma intervenuto dentro la forma guerra. Non è un caso, infatti, che l’ostracismo a cui l’omosessualità è tuttora sottoposta in determinate aree del mondo sia opera di sistemi statuali ancora pervasi dal paradigma della guerra industriale. Nelle nostre società “civilizzate”, tuttavia, l’ordine discorsivo intorno agli “anormali” non si è estinto ma ha semplicemente cambiato indirizzo o indirizzi cogliendo l’anormalità in quei comportamenti, come ad esempio nel caso degli ultras16, in qualche modo turbativi di un ordine sociale che, per definizione, è dato per pacificato.

Ma torniamo a occuparci della dimensione “strutturale” dell’emarginazione sociale. Andando al sodo se, come si è detto, non è il reddito in quanto tale a definire gli ambiti della marginalità e dell’esclusione, attraverso quale criterio diventa definibile l’ambito dell’esclusione sociale? Rispondere che la dimensione del lavoro, e in particolare del lavoro salariato, è stata a lungo la condizione necessaria e sufficiente al contempo per delimitare il campo dell’esclusione e della marginalità è certamente vero ma, a sua volta, tale condizione era il frutto di una reciprocità che ha fatto da sfondo alla modernità, ossia alla nascita del modo di produzione capitalista.

Parafrasando Schimtt potremmo facilmente sostenere che il rapporto borghesia e proletariato, per quanto improntato oggettivamente su un criterio di inimicizia, si è sempre dato dentro una relazione di eguaglianza: nemici sì, ma di pari grado e dignità. Ciò in qualche modo, del resto, era già presente in Marx. Che cosa significa, infatti, la nota affermazione presente nel paragrafo dedicato alla giornata lavorativa del primo libro de Il capitale: “Fra diritti eguali decide la forza”17, se non che la relazione tra capitale e lavoro salariato, sul piano storico, si pone dentro una cornice di eguaglianza e reciprocità? Nel rapporto tra proletariato e borghesia sembra rivivere quello jus publicum che aveva regolarizzato la guerra tra stati legittimi, ossia europei, sino al delinearsi della guerra imperialista18. Del resto la dialettica propria del modo di produzione capitalista non poteva che porre la questione esattamente in questi termini19.

(fine prima parte – continua)


  1. Nel Novecento l’interesse nei confronti degli ambiti dell’esclusione e della marginalità è stato un tema particolarmente coltivato dalla sociologia nordamericana e in particolare dalla “scuola etnografica” di Chicago, al proposito di veda R. Rauty, Società e metropoli. La scuola sociologica di Chicago, Donzelli, Roma 1995. Questo non è un caso poiché la presenza non secondaria di immigrati, estranei al ceppo bianco, protestante e anglosassone dominante negli USA, forniva al fenomeno dell’esclusione sociale e della marginalità numeri e consistenze di gran lunga superiori, e quindi socialmente interessanti, rispetto alle società europee la cui costituzione e formazione poggiava su delle popolazioni maggiormente omogenee. Inoltre, proprio nel Novecento statunitense, era presente un fenomeno come quello di una classe operaia mobile e flessibile che rappresentava un problema sociale e politico, molti di questi lavoratori erano infatti legati agli IWW, al proposito si veda F. Manganaro, Senza patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati Uniti, Odradek, Roma 2004 ma anche, benché collocato in una panoramica temporale più ampia, J. Brecher, Sciopero! Storia delle rivolte di massa nell’America dell’ultimo secolo, Derive Approdi, Roma 1999, che doveva essere affrontato non solo in termini di ordine pubblico ma anche analizzati da un punto di vista sociale e culturale. Proprio intorno a questa figura sociale, non per caso, è stata costruita una delle opere di maggior rilievo della “scuola di Chicago”, N. Anderson, Hobo. Sociologia dell’uomo senza dimora, Donzelli, Roma 1996. Un insieme di lavori che, pur assumendo il conflitto come parte costitutiva della vita sociale, ne perimetravano gli effetti dentro una cornice puramente antropologica e culturale glissando bellamente sulla sua dimensione politica. Sotto il profilo politico, invece, la questione dell’esclusione sociale è stata posta come semplice problema di governance delimitata agli ambiti della povertà. Al proposito si veda: G. Procacci, Governare la povertà. La società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998  

  2. Sul concetto di classe storica si veda in particolare G. Lukács, “La reificazione e la coscienza del proletariato”, in Id., Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973  

  3. Oltre allo scontato riferimento al famoso passaggio hegeliano, G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1973 si vedano al proposito le argomentazioni weberiane, M. Weber, Economia e società, Vol. II, Edizioni di Comunità, Torino 1995, in relazione ai vincoli che legano, in un abbraccio mortale, servo e padrone nelle società preindustriali. Vincolo che, in ogni caso, è determinato da un determinato modo di produzione. Solo la rivoluzione industriale, l’avvento dell’economia monetaria e la relazione capitale lavoro salariato hanno sciolto i vincoli propri di un’era dominata, indipendentemente dall’odio o dall’amore che legava le parti, dalla gabbia del rapporto comunitario.  

  4. Significativa, al proposito, è l’alleanza tra proletariato e contadini poveri inaugurata, in quanto forma di governo, nel corso della rivoluzione russa. Il partito bolscevico, al fine di mantenere il potere dei soviet, cerca l’alleanza con una classe sociale che, in virtù della postazione che occupa dentro il ciclo produttivo, è classe economica e sociale a tutti gli effetti mentre del tutto inessenziali risultano, ancorché quantitativamente non irrilevanti, le masse impoverite presenti soprattutto nelle città. Ciò che diventa decisivo, per stipulare una politica di alleanza, è il ruolo e la funzione produttiva che una classe sociale è in grado di vantare ed esercitare. L’estraneità dei poveri al mondo delle produzione li rende, obiettivamente, privi di potere contrattuale nei confronti di qualunque forma di governo. Sull’alleanza del proletariato con i contadini poveri si veda, V. I. Lenin, “Tesi per il rapporto sulla tattica del partito comunista di Russia al III Congresso dell’Internazionale Comunista”, in Id., Opere, Vol. 32, Editori Riuniti, Roma 1967; “La Nuova Politica Economica e i compiti dei Centri di educazione politica. Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica di tutta la Russia”, in Id., Opere, Vol. 33, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Cfr. G. Simmel, “Il povero”, in Id., Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano 1989.  

  6. K. Marx, “Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva”, in Id., Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1994  

  7. Il mondo dell’esclusione sociale e della marginalità, pertanto, raccoglie in maniera indistinta resti e frattaglie di ambiti sociali che hanno perso qualunque tipo di identità. Il nobile decaduto, il commerciante fallito, il disoccupato cronico al pari del contadino sradicato e così via diventano le figure abituali dei mondi dell’esclusione. Ciò che li unisce, oltre a un comune risentimento nei confronti del mondo, è la perdita di ogni prospettiva storica. L’unico tempo in cui diventa possibile abitare è il presente mentre del tutto assente diventa la dimensione del tempo storico. Con ogni probabilità chi ha colto con maggiore lucidità il rapporto tra proletariato e tempo storico è stato Paul Nizan in I cani da guardia, La Nuova Italia, Firenze 1970.  

  8. Un’espressione che, nel presente, nei confronti soprattutto delle masse migranti ha conosciuto una certa notorietà, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma – Bari 2005. Si tratta, almeno questa è l’opinione di chi scrive, di un ipotesi decisamente fuorviante poiché, a differenza dei miserabili di Hugo, a tutti gli effetti scarti delle ere passate, le masse migranti attuali più che a una storia di ieri rimandano a una storia di un futuro divenuto in gran parte già presente. Queste, infatti, prefigurano al meglio la condizione proletaria media e necessaria a cui l’attuale modello di produzione capitalista aspira. Ben distanti dall’essere scarti queste rappresentano il corpo operaio massimamente produttivo e, grazie alle pratiche e ai dispositivi di segregazione, maggiormente docile. La loro salvezza ed emancipazione non sta in un “nuovo umanesimo” del quale l’intellighenzia progressista si fa paladina bensì nella loro organizzazione politica autonoma su basi classiste. Così come mai la merce sfamerà l’uomo, mai il culturalismo emanciperà i nuovi dannati delle metropoli.  

  9. Le vicende tedesche tra le due guerre, cfr. W. L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 1962, sotto tale profilo ne rappresentano una più che significativa esemplificazione. Il problema che queste masse ponevano alle organizzazioni proletarie e di classe non è sfuggito al movimento comunista internazionale che, proprio nella Germania weimariana, si mostrò in tutta la sua complessità dando vita a un dibattito quanto mai vivo e intenso tra le menti più lucide e attente del movimento comunista internazionale. Una buona ricostruzione del dibattito che attraversò per intero il KPD e l’Internazionale comunista è reperibile nei capitoli che formano la seconda parte del testo di E. H. Carr, La morte di Lenin. L’interregno 1923 – 1924, Einaudi, Torino 1965.  

  10. M. Foucault, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2000.  

  11. Al proposito si vedano M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992; Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004  

  12. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988  

  13. Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998  

  14. Per una buona discussione di questo tema si veda R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009  

  15. Rispetto al passato, oggi, le nazioni più ricche e potenti si pongono il problema del controllo e della limitazione delle nascite invece che del loro incremento esponenziale. Non è secondario notare come, nelle società contemporanee, il grado di ricchezza, forza e potenza, avendo a mente come parametro la popolazione, sia dato dalla longevità piuttosto che dal numero delle nascite.  

  16. Cfr. AA. VV., Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, La casa Usher, Firenze 2010  

  17. K. Marx, Il capitale, Libro primo, pag. 269, cit.  

  18. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991.  

  19. Mentre la borghesia, nei confronti delle classi aristocratiche, aveva potuto svilupparsi in maniera indipendente da queste tanto che, nel momento in cui decapita l’antico regime, la sua presa sul mondo, in senso economico, sociale e amministrativo può vantare uno stadio più che avanzato, paradigmatico al proposito il noto libello di E – J Sieyès, Che cos’è il terzo stato? Editori Riuniti, Roma 1992 nonché il classico, A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1990, per cui la “rivoluzione politica” diventa l’atto conclusivo di un processo che, sul piano economico e sociale, aveva conosciuto una lunga gestazione nel corso della quale, le vecchie classi dominanti, avevano potuto “ignorare” la borghesia e considerarla come ceto sociale di grado inferiore, la natura del modo di produzione capitalista obbliga a una relazione di natura completamente diversa. Il proletariato, infatti, non è esterno ed estraneo alla borghesia poiché, in veste di capitale variabile, è la vera fonte del plusvalore. Non per caso, mentre l’estinzione delle classi nobiliari spalancano le porte al dominio della borghesia, il proletariato emancipandosi, ossia negandosi come classe, decreta la morte del modo di produzione capitalista e della borghesia.  

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La nuova guerra civile europea https://www.carmillaonline.com/2018/05/03/la-nuova-guerra-civile-europea/ Wed, 02 May 2018 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45285 di Sandro Moiso

Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.

2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla [...]]]> di Sandro Moiso

Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.

2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.

Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.

Mentre qui da noi i “nuovi” nani della politica inscenano il solito e nauseante teatrino, dimostrando di non essere altro che novelli e miseri gattopardi (specialisti nel cambiare tutto affinché nulla cambi) decisi a tutto pur di salvaguardare in qualche modo proprio ciò che gli elettori italiani, con il voto maggioritario ai 5 Stelle e alla Lega, si erano illusi di scacciare definitivamente dai loro incubi (PD, Renzi, Forza Italia e Berlusconi), là il cambiamento si gioca direttamente, faccia a faccia, tra chi questo osceno modo di produzione vuole continuare a salvaguardare e chi vorrebbe invece affossarlo per sempre.

Non a caso la ZAD è stata da tempo definita come zona di “non Stato” dalle stesse autorità francesi e non a caso proprio il non marché, l’area in cui era possibile prelevare o scambiare i prodotti dell’agricoltura locale senza ricorrere al denaro, è stata la prima area ad essere distrutta, ricostruita in pochi giorni e nuovamente rasa al suolo dalle ruspe delle forze del dis/ordine. Rendendo così evidente che non si tratta di riportare l’ordine repubblicano in un territorio di quasi 1700 ettari sfuggito al suo controllo, ma di ristabilire le norme della civile società del mercato, del profitto e dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo e dell’ambiente.

Ma qui, nell’Italietta sempiterna fascista e democratico-parlamentare allo stesso tempo, in questa grande unica Brescello di Don Camillo e Peppone, anche le forze che si vorrebbero “altre” sembrano preoccuparsi più della raccolta firme per le prossime elezioni amministrative oppure delle fratture interne legate ai vari mal di pancia individuali e di gruppuscolo oppure, ancora e semplicemente, di ricondurre il gregge degli scontenti all’interno dell’alveo parlamentare, più che di elaborare strategie ed iniziative adeguate ai mutamenti in atto nella società odierna. Dimostrando così, ancora una volta e semmai ce ne fosse ancora bisogno, che l’elettoralismo è sinonimo soltanto di negazione delle lotte e della reale liberazione da un esistente morto da tempo e di cui, per ora, soltanto i riti voodoo parlamentari riescono ancora a tenere nascosta la constatazione del decesso.

Parlando a Strasburgo davanti al parlamento europeo, il 17 aprile di quest’anno, Emmanuel Macron ha sottolineato il rischio che in Europa possa esplodere una guerra civile. Per una volta il giovane e rampante rappresentante della grandeur francese non ha mentito. Non ha mentito sapendo benissimo di che cosa stava parlando, essendo lui stesso uno dei promotori della stessa. Una guerra che, ormai da anni, il capitale finanziario sta conducendo contro i cittadini d’Europa, soprattutto là dove quegli stessi cittadini non si lasciano ingabbiare dalle logiche nazionaliste, populiste e razziste (che lo stesso capitale finanziario promuove facendo allo stesso tempo finta di combatterle).

Così mentre viene invocato ed applicato l’uso della forza aerea e militare contro la Siria di Assad per l’uso dei gas e delle armi chimiche che questi avrebbe fatto nei confronti della popolazione civile, allo stesso tempo si usano su tutto il territorio europeo i gas CS, proibiti dalla convenzione di Parigi (qui), per gasare i manifestanti dalla Val di Susa a tutta l’Europa. Oppure i gas paralizzanti e inabilitanti, insieme a flashball e proiettili di gomma, contro i difensori della ZAD di Notre Dame des Landes o in altre parti della Francia.

La guerra preventiva è diventata forma di controllo planetaria, e anche se in Europa non abbiamo ancora assistito agli orrori di Gaza, investita dalla vendetta del fascista Netanyahu, o del Rojava, investito dalla furia del sultano Erdogan, è certo che la logica della violenza aperta e dichiarata è diventata la formula corrente per il governo delle contraddizioni politiche e sociali.

In ogni angolo del continente europeo e del mondo i margini della trattativa si sono ridotti ad una mera logica di scontro e di rapporti di forza, anche e forse soprattutto militari. Vale per la concorrenza tra potenze tardo-imperialiste e neo-imperialiste, ma vale soprattutto per il conflitto di classe all’interno degli Stati. E non vi è più parlamento nazionale che possa effettivamente risolvere le contraddizioni interne, siano esse economiche o sociali, senza far ricorso all’uso dell’intimidazione e della violenza.

Proprio per questi motivi la solidarietà tra gli oppressi non può più misurarsi soltanto sulla base delle generiche petizioni di principio che hanno costituito il paravento dietro al quale sinistre ormai decrepite, nostalgiche e asfittiche, istituzionali e non, si sono riparate per decenni. Non bastano più e non ci sono proprio più, come la scarsa informazione su Gaza o su quello che succede alla ZAD ben dimostra.

Come negli anni della guerra civile spagnola oppure, ancor prima, delle guerre di indipendenza europee dell’Ottocento, la solidarietà si manifesta attraverso la partecipazione o il sostegno diretto alle lotte, dal Rojava alla Val di Susa, dalla Zad alla Palestina.
Una nuova generazione e un nuovo paradigma politico di lotta e resistenza si stanno imponendo, proprio a causa di quell’imposizione violenta dell’ordine e della volontà di dominio che il capitalismo internazionale sembra intendere come unica forma di governo sovranzionale.

Lo Stato così come è stato concepito dalle borghesie liberali è morto. E’ morto fin dai primi del ‘900, quando la grande paura delle insurrezioni e delle rivoluzioni “rosse” portò alla costituzione di nuovi organismi statali e partitici che coincisero con il fascismo, il nazismo e lo stalinismo.

Anime belle e pie affermarono allora che occorreva lottare contro quei mostri per tornare ai rapporti democratico-parlamentari precedenti. Ma se è vero che non vi è direzione teleologica della Storia, ovvero che la Storia non ha di per se stessa un fine, è anche vero che difficilmente lo sviluppo sociale e politico potrà tornare sui suoi passi. Con buona pace delle teorie sull’eterno ritorno e sulla circolarità della Storia stessa.

Fascismo e nazismo soprattutto non furono sconfitti nella riorganizzazione della forma Stato, che in effetti non ci fu affatto. A parte il farsesco processo di Norimberga in cui i vincitori, dopo aver messo in salvo gli avversari più prestigiosi e più utili, finsero di eliminare l’idra dalle molte teste, quasi ovunque, e soprattutto in Italia dopo la spettacolare eliminazione del Duce con una fine teatrale che servì al contempo a farlo tacere per sempre sui suoi rapporti con le forze politiche ed economiche che avrebbero preso in mano le redini della Repubblica, gli apparati dello Stato, le strutture economiche e sindacali (la concertazione, emanazione diretta di quella Carta del Lavoro voluta dal regime per dirimere senza conflitto i rapporti tra imprese e lavoratori), le strutture dedite alla repressione di classe e le forze armate rimasero sostanzialmente ancorate e fondate sulle pratiche e sulle idee del ventennio.

Basti rinviare ancora una volta alla mancata epurazione e all’amnistia concessa dal guardasigilli Togliatti, più attento a reprimere i sovversivi alla sua sinistra che a punire i rappresentanti degli apparati e del regime e che permise a un numero non piccolo di fascisti di reintegrarsi non solo nella DC, ma anche nel PCI, di cui in alcuni casi sarebbero diventati esponenti importanti.

Ma oggi quell’organizzazione statale nuova e democratica che, dietro ad un gran polverone di principi, formule e parole, aveva continuato, con l’antifascismo formale, la tradizione fascista del coinvolgimento del cittadino nelle strutture dello Stato, più ancora che attraverso la partecipazione alla vita politica per il tramite del parlamentarismo “democratico”, attraverso la sua completa sussunzione nello stesso tramite l’ideologia nazionalista, l’assistenzialismo diffuso e il rimbecillimento mediatico e associativo, non basta più. Semplicemente costa troppo. Anche per il “ricco” Occidente. Da qui i “populismi” e il loro feroce, volgare e superficiale attacco alle prebende parlamentari, alle spese inutili o l’uso di slogan che sembrano voler far riecheggiare l’antico chi non lavora non mangia, oggi diretto soprattutto ai migranti e giovani disoccupati non intenzionati a farsi sfruttare come bestie.

Da qui le fittizie contese sul lavoro e sulle pensioni, utili solo a raccattare voti tra ciò che resta della classe operaia e della classe media impoverita. Da qui un terzomondismo povero di idee, oggi ancor più di quello di ieri, che invece di guardare avanti, verso una società senza stato, sfruttamento, proprietà privata dei mezzi di produzione, salari e consumo di merci, guarda indietro, a rapporti più “equi” nello sfruttamento capitalistico e nell’appropriazione, nazionale o privata non importa, delle risorse e del loro prodotto.

Volutamente sono stati qui messi insieme slogan e atteggiamenti che appartengono a forze politiche apparentemente diverse tra loro, che però ubbidiscono ancora tutte ad una logica e a un immaginario che, se non fosse proprio per il teatrino mediatico e politico che contribuiscono tutte ad alimentare, avrebbero già potuto essere seppelliti da tempo. Come la crisi istituzionale che andrà in scena nei giorni a venire non farà altro che confermare definitivamente.

Chi oggi vuole cambiare l’esistente lotta sulle barricate della ZAD, in Val di Susa, nelle strade di Parigi del primo maggio o nel Rojava. Luoghi, insieme a molti altri, che sanno accogliere chi lotta, chi fugge e chi migra. Luoghi pericolosi perché non rappresentano il locale e l’immediato, ma il mondo di domani.

Come, tutto sommato, ha capito Macron che, dopo aver dichiarato il 17 gennaio di quest’anno definitivamente chiusa la possibilità di realizzare il secondo aeroporto di Nantes, ha scatenato i suoi cani da guardia contro coloro che, su quei territori, hanno già sconfitto il passato e lo Stato, in tutti i sensi e senza bisogno di partiti.

Fornendo un magnifico esempio al nuovo maggio di lotte che, a cinquant’anni di distanza dal 1968, sta tornando a divampare in Francia tra i lavoratori dei trasporti, gli studenti, i giovani senza lavoro e che ha già visto un sempre giovane Karl Marx tornare a prendere il posto che gli spetta nei cortei di testa.

Avvertenza
Con il presente articolo si inaugura una nuova rubrica di Carmilla, che i lettori troveranno in basso nella colonna di sinistra, dichiaratamente ispirata alla definizione di comunismo data dal giovane Marx: Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Al suo interno troveranno spazio tutti quegli interventi, redazionali e non, che vorranno occuparsi dello sviluppo dei movimenti di lotta contro i differenti aspetti della società che ci circonda e indirizzati ad un suo sostanziale cambiamento.
Resta naturalmente evidente che la responsabilità per il contenuto degli stessi rimane esclusivamente a carico degli autori e non della Redazione di Carmilla nel suo insieme.

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Le Strategie delle Destre in Brasile https://www.carmillaonline.com/2016/03/31/le-strategie-delle-destre-brasile/ Wed, 30 Mar 2016 23:15:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29559 di Fabrizio Lorusso

nao vai ter golpe (1)In Brasile da circa tre anni l’offensiva contro l’esecutivo di Dilma Rousseff, presidentessa eletta per un secondo mandato nel 2014 col 51% dei voti, e il governativo Partido dos Trabalhadores (PT) è alimentata da fattori congiunturali, come la caduta del PIL (-3,8% nel 2015) e delle esportazioni (14,1%), l’inflazione (10,6%) e la svalutazione della moneta nazionale, il Real (del 48,3%), ma anche da elementi strutturali e da una strategia basata su tre pilastri: il politico, il mediatico e il giudiziario. Tutti vengono a sovrapporsi e [...]]]> di Fabrizio Lorusso

nao vai ter golpe (1)In Brasile da circa tre anni l’offensiva contro l’esecutivo di Dilma Rousseff, presidentessa eletta per un secondo mandato nel 2014 col 51% dei voti, e il governativo Partido dos Trabalhadores (PT) è alimentata da fattori congiunturali, come la caduta del PIL (-3,8% nel 2015) e delle esportazioni (14,1%), l’inflazione (10,6%) e la svalutazione della moneta nazionale, il Real (del 48,3%), ma anche da elementi strutturali e da una strategia basata su tre pilastri: il politico, il mediatico e il giudiziario. Tutti vengono a sovrapporsi e ad allacciarsi con la difficile situazione economica.

Golpe Soft?

Nel mondo dell’informazione, per le strade e nelle istituzioni si preparano le condizioni per quello che i politologi definiscono “golpe soft”, cioè lo spodestamento non violento di un governo e un presidente, specialmente all’interno di un sistema presidenzialista in cui i mandati sono fissi, per mezzo della destabilizzazione, l’istigazione di conflitti e l’uso di espedienti eccezionali come l’impeachment. Si tratta di provvedimenti estremi, spesso ai limiti del dettato costituzionale o in certi casi illegali, applicati anche quando la situazione non richiederebbe misure d’emergenza. Se ormai oggi un golpe militare non pare più un’opzione viabile, ci sono dunque altre tattiche non elettorali praticabili, legittimate da poteri forti extrapolitici (mass media, monopoli-oligopoli, burocrazie) e attori esterni, per defenestrare un presidente.

Per esempio la costruzione di trame giudiziarie o parlamentari ai margini dello stato di diritto e della legalità democratica è stata la chiave determinante per i colpi di stato “soft” in Honduras nel 2009 e in Paraguay nel 2012. Altri strumenti “a disposizione” sono il blocco o l’ostruzionismo a oltranza dei processi legislativi, soprattutto quando il partito o la coalizione del presidente non hanno la maggioranza assoluta come in Brasile, o cavalcando sapientemente lo scontento popolare o, più specificamente, delle classi di riferimento dell’opposizione politica. Il sistema parlamentario permette l’uscita del presidente del consiglio con il voto di sfiducia, quello presidenziale no.

L’opposizione, rappresentata in parlamento dal PSDB (Partito della Socialdemocrazia Brasiliana), in alleanza con altri partiti, con le vecchie oligarchie e con i media mainstream, sta inducendo nel Paese sudamericano uno stato di confusione attraverso una decisa manipolazione dell’opinione pubblica. Infatti, è in atto un tentativo di accelerare un “cambiamento” politico abrupto e mediaticamente prevale un’informazione propagandistica che sovrappone e confonde le tematiche più disparate per amplificare la crisi. Così il giudizio sull’impeachment contro Rousseff, l’economia, la corruzione, la critica dei programmi sociali, che hanno contribuito a togliere dalla povertà 40 milioni di persone, e le indagini contro l’ex presidente Lula da Silva, mentore di Dilma, diventano emblemi di “un sistema” monolitico da abbattere.

Le piazze e i mass media

Le opinioni dei manifestanti anti-PT e anti-Dilma, raccolte per esempio durante le imponenti manifestazioni del 13 marzo in decine di città brasiliane, mostrano una confusione imperante e una mancanza evidente di obiettivi, al di là degli slogan Fuori Dilma! o Rinuncia subito!, che favoriscono l’opportunismo del PSDB, il cui candidato alle presidenziali del 2014, Aecio Neves, è stato sconfitto da Dilma Rousseff, e di altre fazioni a destra dello spettro politico. Le proteste hanno una forte connotazione classista e geografica. Mobilitano soprattutto i settori delle élite e della classe medio-alta, specialmente nel Sudest, ma non coinvolgono le classi medio-basse, i neri, gli abitanti delle periferie e il Nordest. E’ un riflesso chiaro della spaccata geografia elettorale, socio-demografica ed economica del Paese. Gli effetti delle dimostrazioni, sempre accompagnate dallo sventolare dei colori della bandiera nazionale e perfino da alcuni cartelli inneggianti al ritorno della dittatura o a un intervento militare, sono il rafforzamento della strategia delle destre, che possono mostrare l’esistenza di un movimento “popolare” nelle piazze favorevole alla destituzione di Rousseff con due anni e mezzo d’anticipo, e simultaneamente il deterioramento della ancora popolarissima figura di Lula, che ha dichiarato di volersi ricandidare alle presidenziali del 2018.

Il Paese sta vivendo una forte crisi politica, istituzionale ed economica e non sono certo poche le mancanze o gli errori dei governi del PT (petistas), che si sono succeduti al potere tra il 2002 e il 2016, come per esempio lo scollamento delle basi e dei movimenti sociali, i conflitti socio-ambientali di un modello economico ancora basato sulle materie prime, il graduale rallentamento dell’inclusione sociale e della redistribuzione del reddito, gli sprechi e gli sfratti massivi legati ai megaeventi, la corruzione, le riforme agraria e politica in sospeso. Ma non sarà certo un cambio repentino di governo a migliorare la situazione, anzi, i fattori esterni e quelli strutturali resteranno. La prospettiva è che un governo ad interim di PSDB e PMDB (Partito Movimento Democratico Brasiliano, prima forza politica nazionale in Camera e Senato e per 13 anni alleato del PT al governo), chiaramente senza il PT e le sinistre, possa solo  far retrocedere le tante conquiste di diritti sociali e del lavoro degli ultimi 15 anni in pochi mesi senza garantire nessun piano concreto per uscire dalla crisi.

globo golpeComunque sia il vero potere di convocazione dei cortei degli ultimi due anni proviene dall’azione del gigante mediatico Globo e delle potenti confederazioni industriali di Rio de Janeiro e San Paolo e non, come si vuol far credere, da una presunta forza “democratica” delle reti sociali e dalla capacità d’organizzazione dal basso della gente. Il 18 marzo, in risposta alle proteste antigovernative delle settimane precedenti e soprattutto agli attacchi contro le istituzioni, centinaia di migliaia di petistas e cittadini hanno realizzato cortei e atti politici in difesa della democrazia e per il rispetto del voto espresso nelle urne al grido di Non ci sarà il golpe! Il 31 marzo, data in cui nel 1964 le forze armate fecero un colpo di stato e instaurarono una dittatura ventennale, ci sarà una replica delle iniziative in corrispondenza con le tradizionali manifestazioni in memoria del golpe militare.

Il processo d’impeachment

Il giudizio di impeachment contro Dilma Rousseff, che segue il suo corso in parlamento e dovrà essere approvato dapprima da una commissione ad hoc e poi da Camera e Senato con maggioranza qualificata dei due terzi, non riguarda atti di corruzione, ma presunte anomalie nei conti pubblici e nel finanziamento di alcuni programmi sociali del governo da parte di banche statali (Caixa Economica Federal), a cui peraltro è stato restituito il denaro prestato. Si tratta di una pratica, possibilmente sanzionata dalla legge di responsabilità fiscale ma comunque da provare, che era abbastanza comune anche nei governi precedenti di Lula (2002-2010) e di Cardoso (1998-2002) ed è nota come “pedalata fiscale”. L’impeachment avrebbe dunque motivazioni e dimensioni squisitamente politiche che rientrano nei giochi di potere tra i partiti dell’opposizione, che non hanno accettato la sconfitta del 2014, e il trasformista PMDB. Il parlamento brasiliano è molto frammentato ed è il ricettacolo di fazioni e clientele che si muovono tra estenuanti e complesse negoziazioni e che poco hanno a che vedere col bene comune e la stabilità.

Paradossalmente se Dilma venisse destituita dal parlamento, una possibilità concreta dopo l’uscita il 29 marzo dalla coalizione di governo del centrista PMDB, le potrebbero succedere temporaneamente il suo vicepresidente, il presidente del Senato o quello della Camera, Eduardo Cunha. Tutti sono citati (e Cunha è addirittura indagato) nell’Operazione Lava-Jato (Auto-Lavaggio) condotta dal giudice Sergio Moro, la quale sta scoperchiando lo schema di mazzette e contratti gonfiati tra dirigenti politici e contrattisti della compagni energetica statale Petrobras. Il vice di Dilma, Michel Temer è del PMDB, partito al centro di varie indagini per corruzione ma non degli scandali e dell’attenzione dei mass media, e non nasconde le sue aspirazioni presidenziali. Il suo partito s’è sganciato dall’esecutivo, ha invitato i propri parlamentari a votare liberamente sull’impeachment e ha chiesto ai sette ministri in forza al governo Rousseff di dimettersi. Per ora solo uno, quello del turismo, il delfino di Temer Henrique Eduardo Alves, ha eseguito gli ordini, ma altri potrebbero farlo nei prossimi giorni. Il PMDB, però, non ha invitato l’ambizioso Temer a farsi da parte, rinunciando al ruolo di vicepresidente, e cerca piuttosto di conquistare il potere con un colpo di mano e con un cambio d’alleanze a 360 gradi. Una corrente del partito, infatti, pensa di formare un governo con il conservatore PSDB dopo l’eventuale caduta della presidenta.

Mani Pulite brasiliana?

Vi sarebbero implicati più di 300 imprenditori e politici di vari partiti, ma i mass media hanno diffuso maggiormente i casi legati al PT o al governo, trascurando gli altri, e hanno trasformato Moro in una specie di eroe nazionale, comparandolo altresì con Antonio Di Pietro, PM del pool di Mani Pulite, poi entrato a sua volta nel mondo politico, che si definiva “né di destra né di sinistra” e che nel 2014 ha rinunciato alla sua ambigua creatura politica, il partito Italia dei Valori. Secondo alcune analisi il giudice Moro, che s’ispira esplicitamente a Di Pietro, potrebbe seguire i passi del magistrato italiano e usare la notorietà acquisita in questi mesi per lanciarsi nello scenario politico.

Il Brasile sta vivendo un grave conflitto istituzionale. La procura accusa Lula per un presunto riciclaggio di denaro attraverso l’occultamento di patrimoni e documentazioni false. L’ex presidente non è coinvolto direttamente nell’inchiesta Lava-Jato e non ha condanne a suo carico per corruzione, ma il suo processo nasce come spin off dell’operazione in seguito ad alcune confessioni di indagati.

Moro privilegia un metodo giustizialista aggressivo, un forte protagonismo mediatico e l’uso delle “testimonianze premiate”, note anche come “la legge del pentito”, accompagnate dal carcere preventivo. Con un’operazione enorme trasmessa in diretta TV, un trattamento riservato in genere ai narcotrafficanti, il 4 marzo oltre 200 poliziotti hanno perquisito la casa di Lula da Silva e l’hanno condotto a rendere delle dichiarazioni. Dopo questo fatto inedito Lula ha denunciato un attacco mediatico-giudiziario contro di lui e Moro ha chiesto il suo arresto preventivo, nonostante l’ex sindacalista non si sia mai rifiutato di comparire e testimoniare in passato dinnanzi alla giustizia. Dopo una serie di quotidiani colpi di scena, Rousseff ha nominato Lula Ministro della Casa Civile, una specie di primo ministro incaricato dei rapporti col parlamento, e, se la Corte Suprema (Tribunal Superior Federal) ratifica la decisione e rigetta alcuni ricorsi che sono stati presentati, l’ex presidente godrà dell’immunità e potrà essere giudicato solo dalla Corte stessa e non da tribunali ordinari.

Si tratta di una manovra politica controversa per salvaguardare Lula in una situazione considerata “critica” in un contesto di polarizzazione politico-giudiziaria senza precedenti. La scelta è stata ampiamente criticata e dibattuta in Brasile, ma per impedire a Lula di assumere l’incarico e adempiere a un presunto interesse pubblico, Moro ha diffuso pubblicamente alcune conversazioni private tra Dilma e Lula che erano parte dell’indagine, per cui questa è stata parzialmente compromessa. Vista l’illegalità della pubblicazione delle intercettazioni una sentenza della Corte Suprema ha ritirato temporaneamente Moro dalle indagini. Con rapidità impressionante si rimischiano e si riaggiustano i pezzi del puzzle politico-giudiziario brasiliano. Il governo spera che l’incorporazione di Lula, per ora in sospeso in attesa di una decisione della Corte Suprema sulla legalità della nomina, possa permettergli di sciogliere il bandolo della matassa nell’intrico parlamentare e aiutare Rousseff a cambiare la direzione della politica economica e recuperare la via della crescita e delle riforme. Per questo, finché Lula non potrà agire come ministro e provare a ricucire gli strappi tra i partiti della coalizione di governo o almeno a convincere alcuni parlamentari a sostenere Dilma nel giudizio d’impeachment, l’opposizione avrà tempo di accelerare i tempi e le sessioni per la sua destituzione e scardinare ancora di più il sostegno al PT.

presalFinanza internazionale e geopolitica del petrolio

Il mondo finanziario e dell’economia internazionale sembra reagire positivamente ogni qual volta escono notizie favorevoli all’impeachment o pregiudiziali per Lula e il PT: scende il dollaro, la borsa ferve, gli indici s’elevano e le agenzie di rating promettono migliori score per il rischio-paese. Il gotha finanziari è in “buona compagnia”: l’ex ministro degli esteri messicani, Jorge Castañeda, ha sentenziato che non “ci sono condizioni perché Dilma rimanga al suo posto”, il settimanale inglese The Economist afferma, forse copiando dagli striscioni dei manifestanti benpensanti, che “è ora che Dilma se ne vada”, mentre l’ex presidente del Brasile, Fernando Henrique Cardoso, ha parlato dell’impeachment come “unica strada” di fronte all’ingovernabilità. In questa fase di recupero del neoliberismo e del Consenso di Washington in America Latina il mantra del pensiero convenzionale ripete che è essenziale riguadagnare la fiducia dei mercati e degli investitori. E di deve fare il prima possibile, lavorando anche ai margini del processo democratico e della costituzione, se possibile. A tal fine i settori più reazionari, rinvigoriti dalla vittoria di Mauricio Macri in Argentina, ricompongono vecchie convergenze oligarchiche e rinsaldano i pilastri della loro strategia.

Il tentativo di far cadere l’esperimento progressista brasiliano (post-neoliberale, neo-sviluppista, neostrutturalista o estrattivista, social-democratico redistributivo, neo-populista, a seconda della prospettiva con cui viene etichettato e il dibattito al riguardo è molto intenso) è simile, pur in contesti differenti, a quello che vivono altri presidenti latinoamericani come Nicolas Maduro in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia. Brasile è però il Paese più importante nella definizione della politica regionale, oltre ad essere la prima economia dell’America Latina e la settima del mondo. Il suo modello è in una fase di stanca, anche perché s’è favorita maggiormente l’inclusione attraverso l’economia e il consumo e meno quella basata sul rafforzamento della società civile e della partecipazione cittadina. Inoltre la locomotrice cinese ha rallentato il ritmo e il Brasile, di cui la Cina è primo partner commerciale, ne risente. Sono dunque sorti conflitti tra le nuovi classi medie, create dalle politiche dei governi di Lula e Dilma, e la classe media già stabilita e con la paralisi economico-politica è aumentata l’ostilità dei settori oligarchici tradizionali, anche se le basi dei loro interessi non sono stati realmente minate dia governi del PT.

Gli scandali legati al colosso Petrobras, impresa strategica per lo sfruttamento degli idrocarburi, per lo sviluppo industriale complessivo del Brasile e per la ricerca tecnologica, hanno dimensioni politiche e geopolitiche rilevanti. Il parlamento sta discutendo un progetto di legge per ritirare il monopolio dell’azienda pubblica sui giacimenti del Pre-Sal. Si tratta di riserve petrolifere a basso costo d’estrazione che equivalgono a 40 miliardi di barili accertati e 176 miliardi stimati, equivalenti a 5 anni di consumo mondiale, e che sono state scoperte di fronte alle coste degli stati di San Paolo, Rio e Spirito Santo. Nel 2010 è stato creato un Fondo Sociale del Pre-Sal per gestire parte delle risorse ottenute in quest’area preferenzialmente per problemi strutturali quali l’istruzione e la salute nel Paese.

La scarsa chiarezza informativa sugli scandali di corruzione e il gran calderone mediatico-istituzionale e giudiziario, attualmente in ebollizione, hanno un’influenza considerevole sul processo legislativo, specialmente in un parlamento così diviso e particolarista, e rispondono a una logica di certo distante da quella che aveva mosso il progetto economico e geopolitico brasiliano nei governi del PT. I nuovi giacimenti fanno gola evidentemente ai consorzi petroliferi euro-statunitensi, anche come contenzione al blocco dei BRICS (sigla che descrive l’articolazione tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Inoltre negli ultimi due anni e mezzo d’impasse politica e crisi economica Brasilia ha dovuto spostare il suo asse d’interesse strategico dall’estero (BRICS, Mercosur-Mercato Comune del Sud, e Unasur-Unione Nazioni Sudamericane) agli affari interni.

La fine o il rallentamento del ciclo politico progressista dei governi delle varie sinistre (parlamentari) latinoamericane è un altro fattore importante, insieme alla relativa frenata degli scambi commerciali e degli investimenti in Brasile. La piena autonomia di gestione delle riserve Pre-Sal da parte di Petrobras è contraria ai piani di altri attori globali, in primis gli Stati Uniti e le tradizionali “sette sorelle” del mercato petrolifero mondiale, mentre una condivisione negoziata delle riserve o addirittura una graduale privatizzazione della compagnia statale, preparate da pesanti denunce sulla corruzione e sugli sprechi, pur esistenti e palesi, risulterebbe essere uno scenario gradito a interessi transnazionali in alleanza, come in passato, con settori interni conservatori favorevoli al golpe soft.

Post Scriptum. Letture correlate in spagnolo: volume della rivista Nueva Sociedad dedicato alle destre in America Latina, “Los rostros de la derecha en América Latina” LINKe in particolare l’articolo “La derecha en América Latina y su lucha contra la adversidad” LINK + Bonus Track “10 cosas que todo Brasil necesita saber” LINK

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The Empty Box https://www.carmillaonline.com/2013/06/05/the-empty-box/ Tue, 04 Jun 2013 23:00:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6168 di Sandro Moiso

jack in the box

Urna. Urna cineraria. Urna elettorale. Urna vuota. Triste cimitero di speranza infrante e tradite, cadaverica rassegna di ideologie politiche morte e sepolte. Vuoto di idee e di proposte che si è trasformato in una significativa assenza di risposta da parte di un elettorato più toccato dalla crisi che dai discorsi dei leader  e/o dagli slogan “acchiappa-voti”. Questa la fotografia delle ultime competizioni elettorali, dal novembre del 2012 al maggio del 2013, in Italia.

Un autentico deserto dei Tartari, in cui presidenti di seggio e scrutatori   hanno atteso inutilmente [...]]]> di Sandro Moiso

jack in the box

Urna. Urna cineraria. Urna elettorale. Urna vuota. Triste cimitero di speranza infrante e tradite, cadaverica rassegna di ideologie politiche morte e sepolte. Vuoto di idee e di proposte che si è trasformato in una significativa assenza di risposta da parte di un elettorato più toccato dalla crisi che dai discorsi dei leader  e/o dagli slogan “acchiappa-voti”. Questa la fotografia delle ultime competizioni elettorali, dal novembre del 2012 al maggio del 2013, in Italia.

Un autentico deserto dei Tartari, in cui presidenti di seggio e scrutatori   hanno atteso inutilmente l’arrivo di elettori sempre più scarsi e poco motivati. Un’autentica catastrofe per il parlamentarismo di stampo borghese o anche solo populista. Il consenso non c’è più. Si sta esaurendo. Per tutti. Nonostante i recenti sforzi di “Piazza Pulita” per rilanciare Beppe Grillo.

Certo, i risultati delle amministrative non sono pienamente comparabili con quelli delle politiche, anche per il numero di elettori coinvolti. Certo, Pdl e 5 Stelle hanno subito un calo (comunque più che fisiologico) anche perché entrambi i partiti dipendono moltissimo (per quanto riguarda il risultato elettorale) dall’impegno profuso dai due rispettivi leader in termini di campagna elettorale.  Ma ciò non toglie che il trend astensionistico, iniziato in maniera vistosa con le elezioni siciliane di novembre e continuato con quelle politiche di febbraio, abbia subito un ulteriore salto in avanti, o in alto, alle ultime amministrative, con un astensione netta di quasi il 40% degli aventi diritto al voto. 

Così, mentre i media nazionali e i leader dei maggiori schieramenti cercano di giustificare la scarsa affluenza ai seggi cantando vittoria (per il PD o per la tenuta della maggioranza) oppure accusando gli Italiani “peggiori” (Grillo), pochi hanno tentato di puntare il riflettore sulle cause e conseguenze di tale nuova voragine elettorale.

 Primo, come al solito quando si tratta di fustigare PD e Pdl, Il Fatto Quotidiano che, in un articolo di Chiara Paolin, rammenta come ben poco ci sia da cantar vittoria anche per il PD: ”Vincere perdendo è la grande novità delle Amministrative 2013. Succede al PD, che rispetto alle Comunali del 2008 ha visto sparire 291mila voti (di cui 253mila soltanto a Roma, NdA), il 41%” (29 maggio 2013). Senza contare che si sono ridotti del 38% rispetto alle già disastrose elezioni politiche di febbraio.

 Secondo arriva il quotidiano Libero, sostanziale controparte di destra del giornale di Marco Travaglio e Antonio Padellaro, che nel rammentare la sostanziale catastrofe leghista nelle regioni del Nord, sottolinea, nelle parole di Maurizio Belpietro, come: ”Solo pochi giorni fa il presidente di Confindustria avvisava politici e opinionisti del rischio che incombe sull’economia delle regioni più sviluppate. Per Squinzi la crisi economica potrebbe far esplodere il Nord, con le conseguenze che si possono immaginare in termini di Prodotto interno lordo perso e – perché no – di conflitti sociali innescati. […] La rabbia e il disagio hanno provato a indirizzarsi verso Grillo e ora potrebbero imboccare altre strade. E non è detto che siano migliori delle precedenti” (29/05/2013).

 Meno legata al risultato elettorale immediato e più attenta alle “cause profonde” dello stesso appare Barbara Spinelli che, sulle pagine di Repubblica, scrive: ”Lo Stato, la politica, i cittadini:il triangolo resta malato, corrotto, e se c’è chi si rallegra per la tenuta del PD (non tenendo conto del fatto che in queste elezioni lo stesso partito si è ridotto, a Roma, ad una quota del 20%, NdA) e la caduta di 5Stelle vuol dire che ha un rapporto storto con la verità. Il triangolo suscita non solo disgusto, ma voglia di altra politica. Nello Stato e nella politica gli elettori credono sempre di meno. Sono anche delusi da Grillo, dall’assenza di leader locali forti, ma non smettono il desiderio di partecipare, anche usando la lama dell’astensione. Sono impolitici? Sì, se la politica si esaurisce tutta nei partiti.[…]

  Se guardiamo le tre cose insieme (elezioni, referendum di Bologna, processo di Palermo), il Partito Democratico ha poco da festeggiare, e molto da rimproverarsi.[…] Localmente il PD ha apparati ferrei: ma apparati benpensanti più che pensanti, timorosi di apparire di sinistra. A Bologna non ha saputo ascoltare chi difende la scuola pubblica, minacciata mortalmente in tempi di penuria.[…] Un numero crescente di cittadini si associa dissociandosi, impegnandosi civilmente in modi diversi e inediti; sfiduciando lo Stato come è fatto e rifugiandosi nell’astensione […] Non meno di 5 – 8 milioni di cittadini si associano così. Queste forme di opposizione vedono quel che sembra sfuggire a chi ci governa: il crescente baratro che si è aperto fra l’orizzonte delle nostre aspirazioni e dei nostri diritti e le pratiche di governo.” (29/05/2013)

 Pur meno epifenomenica delle due precedenti, l’analisi della Spinelli resta ancorata alla superficie degli avvenimenti attuali che, però, affondano le radici in una più vasta crisi delle relazioni, sociali, economiche e politiche che caratterizzano l’attuale modo di produzione capitalistico. Crisi che non può essere letta soltanto dal punto di vista economico: con 3528 imprese fallite, soprattutto al Nord e in particolare nel Nord-Est, nel primo trimestre di quest’anno, con i 19 cali mensili consecutivi per la produzione industriale  e con i 56 miliardi di euro di ricavi in meno persi dalla manifattura italiana nel biennio 2012-2013 (dati tratti da Il Sole 24 ore del 30/05/2013).

 No, non si tratta solo di questo. Scrivevano Giorgio Cesarano e Gianni Collu, nel 1973: “Il capitale, come modo sociale di produzione, realizza il proprio dominio reale quando perviene a rimpiazzare tutti i presupposti sociali o naturali che gli preesistono, con forme di organizzazione specificamente sue, che mediano la sottomissione di tutta la vita fisica e sociale ai propri bisogni di valorizzazione […] Nella fase del dominio reale la politica, come strumento di mediazione  del dispotismo del capitale, scompare. Dopo averla ampiamente utilizzata nella fase di dominio formale, esso può liquidarla quando perviene, in quanto essere totale a organizzare rigidamente la vita e l’esperienza dei propri subordinati”(Apocalisse e rivoluzione, Dedalo Libri 1973, pag. 9).

 Privato, quindi, di una reale funzione di mediazione, lo strumento politico parlamentare  non ha più altra funzione, e non soltanto da oggi, che quella di organizzare la vita sociale secondo le esigenze dell’accumulazione capitalistica. Infatti là dove le leggi dell’accumulazione  regnano assolute nella loro forma più matura, manifestandosi attraverso il predominio del denaro e del profitto come unico fine e presupposto di ogni attività umana, la mediazione politica non ha più ragione di esistere e la forma politica non può più esprimersi che nella forma della dominazione e/o dello scontro di classe.

 Ora, nonostante i sussurri ammaglianti delle sirene parlamentari e i miti mediatici posti in essere dal bue borghese, la crisi è giunta a far saltare le apparenze sulle quali si reggeva lo spettacolino della rappresentanza politica, ad ugual livello, delle diverse classi sociali. Ovvero a rivelare che ciò che funziona per l’una delle parti in causa, non può assolutamente funzionare per l’altra. Semplificando: o si seguono le leggi dell’accumulazione e del profitto o si seguono le leggi e le necessità della vita e della specie. Tertium non datur.

 Non è la prima volta che tale questione si pone nel corso degli ultimi centocinquant’anni: dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione Russa, dalle insurrezioni degli operai tedeschi successive alla prima catastrofe mondiale al 1968 e, ancor di più, al ’77, le lotte sociali e le rivolte destinate a cambiare la storia dei rapporti di forza hanno dovuto, saputo e potuto fare a meno della mediazione parlamentare. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che mai nessuna grande conquista  politica e sociale sia passata “realmente” attraverso l’azione elettorale e parlamentare. Al massimo, nel teatrino dell’emiciclo di Montecitorio ( o nei suoi surrogati), tali conquiste sono state sempre ratificate “al ribasso”. Per forza verrebbe da dire. Anche da quei partiti che si arrogavano il diritto  di rappresentare i lavoratori e le classi meno abbienti. I cui voti servivano, e servirebbero tutt’ora, soprattutto ad ingrassare le casse di quei partiti grazie ad un finanziamento pubblico basato  sulla percentuale di voti ottenuti.

 Per fare un esempio, basterebbe ricordare che i due principali referendum degli anni settanta (Divorzio e Aborto) vinsero non grazie alla propaganda del PCI (inesistente per non ferire l’anima cristiana del paese) o del Partito Radicale, ma soprattutto per la spinta che proveniva dalle lotte dal basso e che , pur riguardando salari, orari e scuole, finirono col trascinare anche la modernizzazione di un paese ancora imbalsamato dai Patti Lateranensi. Così come lo Statuto dei lavoratori e i Decreti Delegati (entrambi frutto dell’azione parlamentare) non costituirono che il pallido riflesso delle lotte operaie e studentesche di quegli anni.

 Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Russa il dibattito sul parlamentarismo animò vivacemente il dibattito interno alla nuova, e non ancora stalinizzata, Internazionale Comunista. Opponendo i fautori della partecipazione elettorale, e quindi parlamentare, ai fautori dell’astensionismo rivoluzionario. Da un lato il partito russo ( con Lenin e Zinov’ev in testa) e dall’altra i comunisti “di sinistra” occidentali (Gorter, Lukács, Bordiga).

 In entrambi i casi, però, al parlamentarismo e all’elettoralismo non era concessa alcuna validità, se non quella, per coloro che erano favorevoli, di essere occasione per pubblicizzare più ampiamente le posizioni politiche dei partiti rivoluzionari. Basti, per ora, qui leggere poche righe di uno dei difensori della partecipazione elettorale e  parlamentare, Gregorij Zinov’ev, a proposito della comparabilità tra l’esperienza della  lotta di classe e dei  consigli operai con il parlamento borghese.

 “ No, tre volte no. Essa è assolutamente incomparabile con i parlamenti esistenti, perché la macchina parlamentare incarna il potere concentrato della borghesia. I deputati, le camere, i loro giornali, il sistema di corruzione, i legami che dietro le quinte i parlamentari intrattengono con i capi delle banche, i loro rapporti con tutti gli apparati dello Stato borghese, sono altrettante catene ai piedi della classe operaia.[…] Solo i traditori della classe operaia possono cullare i proletari nella speranza di un sovvertimento sociale pacifico, mediante riforme parlamentari.[…] Siamo per la conservazione dei parlamenti democratici borghesi come forma di amministrazione statale? No, in nessun caso[…]  Siamo per l’utilizzazione di questi parlamenti per il nostro lavoro comunista? Sì, ma […] è necessario: 1) che il centro di gravità della lotta sia fuori del parlamento (scioperi, insurrezioni ed altre forme di lotta di massa); 2) che gli interventi in parlamento siano collegati a queste lotte; 3) che i deputati svolgano anche un lavoro illegale; 4) che agiscano su mandato del comitato centrale del partito e subordinandosi ad esso; 5) che nei loro interventi non si preoccupino delle forme parlamentari. […] Quello che vogliamo sottolineare è che la vera soluzione del problema si trova, in tutti i casi, fuori dal parlamento, nella strada” (G. Zinov’ev, Il parlamentarismo e la lotta per i soviet, Internationale Communiste n° 5, 1919).

 E se questo era uno degli “strenui” difensori della partecipazione alle elezioni e al parlamento… è fin troppo facile immaginare ciò che avevano da dire gli altri! Certo nessuno di loro si illudeva, come nessuno potrebbe oggi illudersi, che fosse o sia possibile raggiungere una maggioranza parlamentare difendendo e diffondendo posizioni antagoniste o rivoluzionarie. Infatti il cambiamento sociale non è dovuto ad un graduale accumulo di convinzioni politiche nuove nella mentalità della maggioranza dei cittadini, ma procede per balzi, per catastrofi improvvise, come avrebbe potuto dire René Thom, padre della moderna teoria matematica della morfogenesi.

 Questo è proprio ciò che inizia a succedere oggi. Magari non con i consigli operai o i Soviet, ma sicuramente nelle associazioni di cittadini e lavoratori che lottano per i diritti dei lavoratori e per il miglioramento delle condizioni di lavoro; per la difesa del  territorio e della salute, contro l’inquinamento, le ingiustizie e gli sprechi delle grandi opere inutili. Nei centri sociali e nelle associazioni studentesche che rivendicano più spazi e investimenti per la crescita culturale e politica dei giovani.

Saranno queste le forme di organizzazione sociale e politica del futuro? Forse, ma intanto stanno già facendo tremare i polsi di chi ancora ci governa. Anche soltanto con il diffondersi dell’astensionismo cosciente di chi non è più disposto a farsi beffare da imbonitori e saltimbanchi di ogni  tipo e colore. Disvelando così come il Parlamento, come l’urna elettorale, non sia più nient’altro che un’enorme scatola vuota. Con o senza le riforme istituzionali tanto demagogicamente auspicate e mai realmente avviate.

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