Paolo Sorrentino – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Film che avrei voluto non finissero mai https://www.carmillaonline.com/2025/01/27/film-che-avrei-voluto-non-finissero-mai/ Mon, 27 Jan 2025 06:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86517 di Roberta Cospito

Ci sono film che avrei voluto non finissero mai, almeno tre.

In un ordine non sentimentale perché non sarei in grado di esprimere una preferenza, ma in ordine cronologico, si tratta di Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. e nello specifico il primo episodio intitolato In Vespa, poi È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) e infine Perfect days di Wim Wenders (2023).

Nanni Moretti, all’epoca uno splendido quarantenne, in sella alla sua amata Vespa 125 blu ci porta in giro per una Roma semideserta in una giornata d’estate e, attraversando i quartieri romani – dalla Garbatella a Spinaceto, [...]]]> di Roberta Cospito

Ci sono film che avrei voluto non finissero mai, almeno tre.

In un ordine non sentimentale perché non sarei in grado di esprimere una preferenza, ma in ordine cronologico, si tratta di Caro Diario (1993) di Nanni Moretti. e nello specifico il primo episodio intitolato In Vespa, poi È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino (2021) e infine Perfect days di Wim Wenders (2023).

Nanni Moretti, all’epoca uno splendido quarantenne, in sella alla sua amata Vespa 125 blu ci porta in giro per una Roma semideserta in una giornata d’estate e, attraversando i quartieri romani – dalla Garbatella a Spinaceto, concludendo a Ostia, nei pressi del luogo in cui fu ucciso Pier Paolo Pasolini –, ci offre una serie di riflessioni che hanno il tono delle confidenze di un vecchio amico.

Questo episodio è conosciuto anche per il sorprendente cameo dell’attrice Jennifer Beals – nota principalmente per il ruolo di Alexandra “Alex” Owens nel film Flashdance, di cui Moretti tesse le lodi – mentre passeggia lungo le mura di Via di Porta Ardeatina; ricordo con affetto il film anche per un’altra sorprendente quanto divertente apparizione, quella del regista Carlo Mazzacurati che viene rappresentato nei panni di un critico cinematografico in preda a feroci rimorsi per aver scritto recensioni incomprensibili per alcuni film destinati a un pubblico “elitario” e altre lusinghiere per film che, in realtà, risulteranno lungometraggi di basso livello.

L’atmosfera che crea il regista col suo girovagare in sella alla Vespa, dichiarando ai pochi romani che incontra di essere impegnato in sopralluoghi per un suo futuro film, è di una quieta serenità e ci (di)mostra che avere tempo a disposizione serve anche per portare a spasso non solo il corpo, ma pure la mente potendo, così, meglio ragionare sui più disparati argomenti: quello che eravamo e quello che siamo diventati; i luoghi comuni nascosti nel linguaggio quotidiano; le scelte di vita fatte anche perché dettate dalla moda; l’inevitabile conclusione di trovarsi in accordo sempre e comunque, per pensiero e opere, con una minoranza di persone; la confortante bellezza della musica e della danza; la deriva del pensiero politico di alcuni esponenti della sinistra.

Paolo Sorrentino, all’epoca uno splendido cinquantenne, invece, mi ha incantato con le immagini della Napoli della sua gioventù, in cui un ragazzo – Fabietto, un probabile suo alter ego – cerca di confrontarsi con il vuoto lasciato dalla morte dei genitori e con la triste circostanza di non essere riuscito a vederne i corpi, cosa che rende ancora più difficile e doloroso il dire addio a chi ti ha messo al mondo.

Anche in questo film c’è, seppure solo nei minuti iniziali, una Vespa blu su cui – senza casco e oltre la portata di legge –, in un breve giro per Napoli, Fabietto si sposta con entrambi i genitori, ignari del poco tempo che avranno ancora a disposizione per stare insieme; l’immagine è di assoluta spensieratezza e gioia.

L’imperativo “non ti disunire” – l’essere coerenti con se stessi, immagino – che il regista Antonio Capuano (interpretato da Ciro Capano) urla più volte al protagonista, il dovere di raccontare qualcosa quando si mette in scena un film ma in generale quando ci si rivolge a qualcuno richiedendone l’attenzione, l’idea che ci si può ribellare a una realtà scadente creando qualcosa di bello e alternativo e il conservare memoria dei propri progetti anche se non andati in porto, mi sembrano interessanti spunti di riflessione cui porta la visione di questo film.

Ritengo molto suggestivo il titolo È stata la mano di Dio il cui riferimento calcistico colloca il racconto in un preciso momento della storia di Napoli e della vita di Fabietto; nel calcio indica la rete segnata di mano da Diego Armando Maradona nei quarti di finale del Mondiale del 1986, investendo il giocatore di un’aura di divinità che verrà accresciuta dal fatto che la presenza del “Pibe de oro” nella squadra partenopea, salverà la vita al “giovane Sorrentino” che deciderà di rimanere a casa a guardare la partita invece che condividere la sorte dei genitori che moriranno in un grave incidente domestico, nella loro casa di montagna. Questo film è una lettera d’amore del regista non solo ai suoi genitori, ma anche a Napoli e a Maradona.

E poi Perfect Days in cui Wim Wenders, uno splendido ottantenne, racconta la storia di Hirayama, un uomo tranquillo che, nella Tokio contemporanea, si guadagna da vivere pulendo i bagni pubblici e trascorre il suo tempo libero scattando fotografie agli alberi (con una macchina analogica), ascoltando musicassette e leggendo libri.

Questo film, con una colonna sonora indimenticabile – oltre al motivo di Lou Reed che dà il titolo al film, s’ascoltano brani di Patti Smith, The Animals e tanti altri –, mi ha ricordato come anche il lavoro più umile può essere svolto con grande dignità; come possa dare pace l’accettarsi per come si è; come sia gratificante il muoversi nella nostra quotidianità con gentilezza, amore e rispetto; come sia possibile prendere le distanze dal nostro passato senza provare rancore nei confronti di chi ci ha ferito o come sia più facile concentrarsi sugli altri quando si sono eliminate dalla propria vita le cose (e le persone) superflue. Insomma, Wim Wenders pare dirmi che un altro mondo (in questo mondo) è possibile o per lo meno un altro modo di vivere, e che godere appieno di quello che ci può regalare ogni singola giornata è alla nostra portata.

Non so identificare con certezza il motivo per cui avrei voluto che questi film non finissero mai, ma la sensazione è proprio stata questa, il desiderio che continuassero ancora: forse perché sono film lenti e sinceri che sono riusciti a farmi riflettere sul senso della vita e su quanto vissuto sinora.

O per aver raccontato per immagini città con una particolare loro storia e “grande bellezza”: Roma, Napoli e Tokio.

O forse perché sono storie di personaggi che, nonostante la loro semplicità, riescono a raccontare grandi storie. Ritengo ognuno di noi abbia questa possibilità: vivere semplicemente così d’avere grandi storie da raccontare.

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Divine Divane Visioni (Novissime) – 81 https://www.carmillaonline.com/2022/01/21/le-novissime-divine-divane-visioni-2021-22/ Fri, 21 Jan 2022 00:25:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70126 di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI! Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io? (Nanni Moretti, Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021 La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo [...]]]> di Dziga Cacace

Tutti si sentono in diritto, in dovere, di parlare di cinema.
Tutti parlate di cinema.Tutti parlate di CINEMA! TUTTI!
Parlo mai di astrofisica io? Parlo mai di biologia io?
(Nanni Moretti,
Sogni d’oro)

1888 – Giochiamo all’inesorabile Squid Game di Hwang Dong Hyuk, Corea del Sud, 2021
La conta sui social è cominciata non appena Netflix ha messo a disposizione la serie: qualcuno ha timidamente ammesso “m’è piaciuta”, ma perlopiù nella mia bolla ho letto tanti “m’ha fatto schifo, i coreani hanno rotto, è copiata, è infantile, è troppo violenta, non sono capaci” etc. etc. La tentazione di rispondere FALLO TU ALLORA e infilarmi in discussioni insensate è stata molto forte ma avessi trovato uno che mi citava il Battle Royale di Kinji Fukasaku come nobile ascendenza di Squid Game per combattere almeno ad armi pari… macché. Ma in fondo, è importante? Saltavano più agli occhi le ambientazioni alla Mai dire Banzai (che, di nuovo, pochi sanno essere una creatura di Kitano: Takeshi’s Castle), con colori esasperati alla Teletubbies e architetture assurde alla Escher. Ma esaurito il citazionismo in cui mi sono anch’io appena esibito, arrivava la stroncatura irritata. Perché Squid Game mette così in crisi? Perché è una distopia brutale (che poi tanto distopia non è), crudele nella messa in scena e con una stilizzazione iperreale, contraltare pop/gameficato della realtà altrettanto violenta che viviamo ogni giorno, solo che della seconda non ce ne rendiamo mai conto abbastanza e vederla in scena innesca il rifiuto. È la stessa conclusione della serie a dirci che non c’è grande differenza tra la nostra vita e la rappresentazione ludica e mortale che si tiene su un’isola, dove si gioca volontariamente e l’eventuale eliminazione è totale e comporta la morte. L’annullamento dell’individuo nel lavoro, stritolato dai meccanismi del Capitale e sommerso di debiti più o meno occulti, e consolato dall’ossessione per il gioco in tutte le sue forme, è il tema evidente, un tema perlopiù rifuggito dal cinema occidentale mainstream, non so se per acquiescenza, calcolo o proprio obnubilamento. Ad ogni modo, com’è questo Squid Game? Merita di stare al gioco? Beh, fatta la tara alla recitazione talvolta esasperata dei coreani (con una curiosissima cadenza vocalica che assomiglia a dei miagolii) e ad alcune lungaggini, a degli sviluppi e dei meccanismi talvolta prevedibili, a diversi luoghi comuni emotivi e tutto quello che volete… si fa vedere molto piacevolmente, altroché. Possiede un rigore formale ineccepibile, un uso straniante e sinistro della musica e una buona dinamica che alterna azione (su almeno due piani) e intreccio psicologico. E se ci sono dei difetti – come detto sopra – comincio anche a credere che siano semplicemente i sintomi del nuovo linguaggio seriale, come una convenzione a cui ci stiamo sempre più abituando. Ah, solo in Italia si poteva far polemica sulla visione della serie da parte dei bambini: è esplicitamente indicata per un pubblico sopra i 14 anni e mi pare incredibile che nel 2021 si sposti ancora sull’apparecchio televisivo l’onere dell’educazione e non sui genitori. E vabbeh: siamo un paese dove si cerca sempre un colpevole altro per non guardarci allo specchio e riconoscerci. (Netflix, ottobre 2021)

1893 – Evitabili Imprevisti digitali di due cialtroni, Francia/Belgio 2020
Orso d’argento a Berlino a Benoît Delépine e Gustave Kervern, due registi considerati arguti e provocatori, una trafila di riconoscimenti e recensioni entusiastiche (si veda l’imbarazzante pagina francese di Wiki), voti medio alti su tutti i siti specializzati. Dove però evidentemente scrivono dei ventenni brufolosi che non sanno di cosa cazzo stiano parlando. Perché questo film è una porcata come non credevo fosse possibile realizzare, uno dei peggiori film che io abbia mai visto in sala (e ne ho visti diversi che facevano cacare a spruzzo). Insomma: peggio non potevo scegliere per il mio ritorno al cinema un anno e mezzo dopo la peste, in una sala parrocchiale con non poche persone tutte immote e silenti (salvo che per l’unica trovata del film, con un tizio che si appiccica un telefono sborrato alla guancia). Per il resto la commedia che non fa ridere MAI vorrebbe raccontarci la dittatura della tecnologia digitale e lo fa attraverso le disavventure di tre coglioni che dimostrano che in mano a degli imbecilli la tecnologia è effettivamente pericolosa. Ma perché si tratta di imbecilli. Tutte le tre vicende che li riguardano banalizzano in modo atroce veri problemi (cyberbullismo, ricatti sessuali, gig economy sfrenata) ma non c’è mai uno sguardo acuto, anzi, siamo dalle parti di un boomerismo ottuso e conservatore che canta le lodi della vecchia antica vita col telefono senza fili. Non c’è grazia, intelligenza, simpatia: i protagonisti hanno tre facce da cazzo che è raro trovare assieme in una pellicola. Lo sviluppo narrativo è irricevibile e offensivo, il copione satirizza la Rete e la vita digitale ma le battute sono al livello del Bagaglino ma con in più la spocchia di chi la sa lunga. C’è inoltre un vago accenno ai gilet arancioni e alle mode ecologiste ma tutta la critica sociale è fasulla e reazionaria, così come l’affetto per questi deficienti patentati per i quali non puoi provare neanche un po’ di pena o compassione. Mettiamoci inoltre che la fotografia sembra quella di un Super8 conservato male senza neanche il beneficio della messa a fuoco, in un mondo che ormai della qualità fotografica ha fatto un primo discrimine, e il quadro è completo: un disastro totale, un film disgraziato come intenzioni e come esiti. Dopo 5 minuti di visione ha cominciato a crescermi il terzo coglione perché è dalla prima scena che si capisce di aver pestato una merda grossa come l’Australia. L’Orso d’argento a Berlino suggella la morte del buon senso e del buon gusto cinematografico. Amen, andate in pace. (Cinema Orizzonte, Milano; 22/10/21)

1898 – L’evasione (evasiva?) di Freaks Out di Gabriele Mainetti, Italia/Belgio 2021
Film curioso per tanti motivi, pieno di invenzioni visive e di rimandi a grandi classici pop USA (Il mago di Oz, Guerre stellari, le saghe dei supereroi) e non solo (Roma città aperta). Ho sofferto un po’ il frenone con la lunghissima scena della battaglia finale e anche la complicazione del secondo tempo ma soprattutto ho avvertito una mancanza di vero senso finale. Ma ci arriviamo. Qual è il nucleo centrale del film? Un banale scontro tra Bene e Male, teatralizzato nella rappresentazione dei nazisti? Non lo so, anche perché l’avventura di questi freak si conclude in gloria, mentre c’è un conflitto mondiale che va avanti e mica si capisce cosa abbiano conquistato i nostri eroi, se non aver salvato la pellaccia. Hanno ottenuto dignità nella loro diversità? Un ruolo futuro? Boh, è tutto sfumato e un po’ buttato lì, con il sospetto che si sia voluto giocare con dei supereroi in un’epoca diversa dal presente/futuro e per vederli alle prese col male assoluto. Che poi la cosa valga anche come inno all’inclusività può anche sembrare un accessorio: tutti i supereroi hanno sempre avuto – più o meno sfumati – degli handicap. Qui siamo tra il Tarantino che riscrive la storia di Inglourious Basterds e il Garrone che vola di fantasia nel Racconto dei racconti ma ho un po’ il sospetto che ci si accontenti del piacere della vicenda messa in scena. Che poi è un traguardo mica da poco, eh? Perché Freaks Out è divertente e coraggioso e per fortuna è un film post ideologico che evita l’impantanarsi in schematismi politici. Il fascismo è quasi un fantasma (ricordato solo da due frasi e qualche scritta dipinta sui muri) e la rappresentazione stilizzata ed eroica dei partigiani è efficace: qui sono brutti, sporchi, cattivi e pressoché tutti mutilati. È azzeccato anche il fascino ambiguo del nazismo e della abilità scenica del personaggio Franz e funziona far convivere fianco a fianco la tragedia immane (il bombardamento o le uccisioni sempre crude, per nulla cartoonesche) a momenti di clownerie e comicità. Ma tornando alla perplessità iniziale forse alla fine quello che mi manca è proprio un senso leggibile più alto (che peraltro sarebbe stato a forte rischio moralistico) ma sono anche un vecchio novecentesco che deve trovare una lezione in ogni creazione artistica e forse qui la lezione non la intravedo io per miopia: l’immaginazione del regista ci regala una storia sorprendente e un mondo inaspettato e tanto può e deve bastare. Forse. (Anteo CityLife, Milano, 13/11/21)

1901 – Il Minculpop di Spy Game di Tony Scott, Usa 2001
Spy Game uscì un mese dopo l’11 settembre e fa impressione vedere oggi un film così spiccatamente di propaganda (tanto quanto Black Hawk Down del fratello Ridley, uscito a fine dicembre). Film tecnicamente clamorosi, ben costruiti e molto godibili, con un sottofondo politico oggi evidentissimo e concepiti ben prima delle Torri e poi perfettamente funzionali a quello che accadde con l’attacco all’Afghanistan e poi con la guerra in Iraq, dicendo al mondo la solita tiritera: the greater good, la democrazia più grande della terra, esportiamo libertà e bla bla bla. E niente, ho ripensato a come prima del 1991 vedevamo chiaramente dov’era la propaganda (anche facilona e smaccata, vedi Rocky IV, Rambo II, Top Gun, Il sole a mezzanotte etc. per dire i primi casi che mi vengono in mente). Dopo è diventato tutto più sottile, subliminale e accettabile, quasi naturale: sconfitti i sovietici, il mondo è diventato un posto minacciato da cinesi infidi e arabi straccioni e vigliacchi (come in Spy Game) e gli USA sono gli unici che possono portare libertà e prosperità al mondo derelitto. I nemici non hanno nome e i loro volti spesso si confondono, non sono importanti, sono l’Avversario, il Male. Che potrebbe anche essere una rappresentazione archetipica se non fosse che dietro ci sono nazioni vere con cui si è in conflitto latente: qui la Cina (con cui si era già in guerra, senza che lo sapessimo noi o un Rampini qualunque) è rappresentata solo attraverso un carcere, non c’è altro, e tanto sembra che basti. Redford, da sempre volto dell’America democratica, interpreta un agente della CIA che in nome della realpolitik ha accettato in carriera qualunque guerra sporca. L’unica cosa che il buon Robert non accetta è – l’ultimo giorno di lavoro – di lasciare in mano ai musi gialli il suo allievo Brad Pitt. Qui la fedeltà alla bandiera vacilla perché Redford vede nel giovane una purezza che lui ha perso da quel dì: tutto l’inghippo nasce da Pitt andato da solo a liberare una idealista bombarola di cui era infatuato e che Redford aveva consegnato ai cinesi. Ovviamente lo pigliano e Langley decide di far finta di nulla e qui la nostra amata faccia di cuoio non ci sta. La ricostruzione storica, l’intreccio e tutto l’apparato tecnico sono clamorosi e si vede che il film trasuda fantastilioni. Certo, nei flashback Pitt e Redford sono poco credibili, per quanto i truccatori facciano miracoli, ma in generale il ritmo e la dinamica della vicenda funzionano e Spy Game è oltremodo sollazzevole. Peccato che sia un po’ fascistone. (12/9/21)

1903 – È stata la mano di Dio, più o meno, di Paolo Sorrentino, Italia 2021
È come se Sorrentino si aprisse e ci raccontasse non solo cosa ha vissuto ma anche come è diventato il regista che conosciamo. Il desiderio di fuggire la realtà scadente e deludente (che proviene da Fellini e si conferma davanti al regista Capuano) l’abbiamo visto in scena nei suoi film precedenti, in quella visionarietà fuori dal comune. Qui invece, la realtà la si mette in scena per superarla e ne viene fuori il film più intimo e diretto del regista. Napoli è bella e terribile, una città dove convivono con naturalezza alto e basso, delinquenza e legalità, civiltà e disagio, splendore e miseria. C’è una prima parte con la Napoli degli anni Ottanta, gli interni borghesi, le strade affollate, piazza del Plebiscito invasa (proprio come in un film di Fellini). E c’è il ritratto umano e tenerissimo dell’amore dei genitori di Fabietto, alter ego del regista: un amore con qualche spigolosità ma anche sincero, tra pranzi, scherzi e scorribande in Vespa. E c’è la famiglia di contorno, iperbolica, com’è tutto a Napoli (e come l’ho conosciuta e amata io): i colori degli abiti, le unghie delle donne, i cortili fatiscenti, i sentimenti espressi, l’esibita fisicità prorompente. Quando arriva la frattura del film – la morte dei genitori di Fabietto a causa di un incidente – comincia la vera venuta al mondo del protagonista. Capisce cosa vorrà fare grazie a diversi maestri (Maradona, la baronessa Focale, la zia zinnona Patrizia, l’amico contrabbandiere, Capuano). Il mondo di prima, quello reale, viene superato e il passaggio finale vedendo il monacello – col treno diretto a Roma verso il Cinema – è l’abbraccio finale al mondo della fantasia (quello della sorella fantasmatica chiusa in bagno, quello di San Gennaro che si aggira per la città come un gagà): un mondo (più) felice. Perlomeno io la leggo così. Poi c’è l’amico caro che mi dice, come tanti: “La liasion con la zia sembra venir fuori da una commedia scollacciata anni Settanta. Ci sono troppo finali. Macché poesia”. Eh, e chi sono io per contraddirvi tutti? Io prendo volentieri questo Sorrentino, compresi eventuali ipotetici errori o scivoloni, perché qui leggo un sapore di verità: m’è piaciuto che il regista abbia rielaborato tutti i suoi cliché per risultare invece più personale anche a costo di risultare un po’ slabbrato com’è in fondo Napoli, sporca e viva, lietamente imperfetta. Il fellinismo poi… mah, a me è sempre sembrata una scorciatoia critica. È vero, e Sorrentino l’ha dichiarato pure, ma sotto c’è un immaginario completamente diverso e nelle svisate strambe che anche qui non mancano leggi altro: la loro origine partenopea, l’esasperazione di tutto in un abbraccio passionale all’esistenza. La musica è praticamente assente: è rinchiusa in quelle cuffiette del walkman che accompagnano sempre Fabietto. Nell’ultima scena scopriamo anche noi cosa ascoltava: una liberatoria Napule è, scelta apparentemente banale ma che qui, in questo contesto e con questo significato, diventa in qualche maniera assolutamente imprescindibile, perché c’è tutto quello che abbiamo visto. Buon film, non facile, non compiacente ma molto intenso. (Cinema Ducale, Milano, 3/12/21)

1904 – Rich and Famous di George Cukor, USA 1981
Ricche e famose è uno straordinario puzzapiedone (© di non ricordo chi!) del grande George Cukor. È la storia di un’amicizia conflittuale tra due donne, scrittrici di diverso successo e che si palleggiano alcuni amori. Il costante confronto passa attraverso epocali scazzi e poi, per magia, la volta dopo, stima e amore incondizionati, perdoni, abbracci, pianti e bicchierate alcoliche che stroncherebbero un vichingo. Si sente l’ascendenza teatrale del film e ogni scena vuole essere un apice drammatico ma con un gusto molto démodé e se la storia ogni tanto intriga, più spesso imbarazza, ma di quell’imbarazzo di cui godi tipo le sensazioni che provo per Ufficiale e gentiluomo, film che ho amato odiare e che ora odio amare e al quale, non c’è nulla da fare, torno sempre con l’affetto che si prova per il parente picchiatello. Ricche e famose è un inno al kitsch, con una volontà artistica che risulta clamorosamente datata, una supposta profondità che invece suona superficialissima e una ricchezza visiva che si vorrebbe artistica e invece è accumulo di cattivo gusto. Non siamo dalle parti del camp che presupporrebbe una consapevolezza ma a 40 anni di distanza dal film forse l’effetto è più questo (ma dovrei ristudiarmi tutto dalla Susan Sontag in giù, confesso). Ad ogni modo il rapporto fondante la vicenda è schematico, per frasi che vorrebbero dire tutto e sono in realtà molto generiche e ti becchi questa amicizia femminile che fin dall’inizio non ti sembra credibile per nulla. Ma stai al gioco. Loro sono due bellone straordinarie chiamate a fare gli straordinari drammatici, talvolta con esiti discutibili se non proprio drammatici ma in diversa accezione. Mi sembra più misurata Jacqueline Bissett (che ha un capoccione incredibile: se non l’aiuta l’acconciatura rischia di sembrare un’aliena di Mars Attacks, seppure con gli occhi più belli del cinema di sempre). Candice Bergen invece pare sull’orlo dell’ictus: bellissima ma costantemente con gli occhi sgranati e la bocca e il collo tesi. M’è passato piacevolmente: è un inevitabile guilty pleasure, c’è poco da fare. (5/12/21)

1905 – Il reality migliore di sempre: The Beatles: Get Back di Peter Jackson, USA/UK/New Zealand 2021
S’è cominciato a parlare di questa serie l’estate scorsa, quando hanno cominciato a circolare i primi trailer. I soliti cialtroni che devono subito dire la loro avevano gridato alla mistificazione: stava arrivando un documentario mistificatorio, dove tutte le tensioni della band erano state nascoste in nome di un falso ritrovato entusiasmo marchiato Disney. Beh, nulla di più lontano dal vero: Get Back non è per niente revisionistico rispetto al Let It Be originale: la sofferenza è ancora tutta lì, leggibilissima, solo ammorbidita dalla completezza del racconto e dalla parabola che porta a un finale in qualche maniera provvisoriamente lieto. Questo documentario su un documentario (il Let It Be di Michael Lindsay-Hogg) è il tentativo di raccontare un gruppo che lotta strenuamente per provare a divertirsi di nuovo, è la cronaca di un divorzio che aleggia, è uno scontro di ego e di aspirazione all’ombra di quel mostro ingombrante che erano stati – ed erano ancora – i Beatles, quattro ragazzi che tra il 1963 e il 1969 sono stati tra le personalità più importanti del pianeta, senza una vita privata, sempre assieme, riveriti e perseguitati, a ragione o meno. La serie documentaria è interessantissima e non solo per motivi musicali: potrebbe essere un saggio di psicologia per osservare azioni e reazioni di quattro individui in un luogo chiuso, in una situazione di stress emotivo e con un compito creativo da portare a termine. Tutto ci racconta questo processo: la prossemica, l’entusiasmo reale o esibito, l’evidente fatica fisica e mentale. Certo: con oltre 60 ore di girato a disposizione bisogna essere ingenui a pensare che questa non sia che una delle letture possibili scelta da Jackson, che avrebbe potuto montare altri documentari, tutti con piena dignità, ma forse con storie diverse e altri sentimenti prevalenti. Io credo che il regista neozelandese abbia scelto la strada più autentica, quella della complessità, senza una visione prestabilita. Ma chissà. Da spettatore osservo che Jackson riesce dove Lindsay-Hogg ha fallito (se avete mai visto il film Let It Be originale, parecchio depressing) e ci riesce con gli stessi materiali a disposizione perché capisce che ha davanti una storia universale, con un arco narrativo perfetto (e il tempo per poterla sviluppare): quattro eroi e una missione da compiere che inizia con mille difficoltà in un posto inospitale, il teatro di posa di Twickenham. Inoltre uno dei protagonisti, George Harrison, è riluttante. Poi si arriva a un chiarimento e a uno spostamento di location e nello studio approntato a Savile Row (sede allora della Apple beatlesiana) la band comincia a funzionare, a trovare una chimica condivisa e il piacere antico del fare musica assieme. Infine arriva l’organista Billy Preston, una sorta di catalizzatore musicale che stempera le tensioni: si ha un ulteriore mutamento d’atmosfera in positivo. E diventa anche evidente che uno dei problemi è stato proprio il regista: quando non c’è Lindsay-Hogg e si pensa solo a suonare e non a produrre uno special per la Tv, allora le cose filano lisce, non si perde tempo a fare filosofia o a porre questioni in quel momento irrisolvibili. Nella sala di Savile Row ci sono solo due cineprese, gli operatori e il direttore della fotografia. Lindsay Hogg si limita solo a qualche comparsata in cabina di registrazione, con l’immancabile sigaro (come Orson Welles, di cui pretendeva di essere figlio illegittimo). Alla fine ha l’intuizione di fare un concerto sul tetto e, anche se si tratta di un furto con scasso di quanto aveva fatto Jean-Luc Godard con i Jefferson Airplane a New York due mesi prima, l’idea è buona e lo tiene ancora per un po’ lontano dalle prove. Fino al giorno prima dell’esibizione prevista, quando torna e riemergono i dubbi dei quattro Beatles: siamo qui per fare un concerto, un TV show, un album o cosa? E il film c’è? E Lindsay-Hogg riesce a dire che non c’è la storia, quando ce l’ha esattamente tra le mani da ormai 20 giorni. Dichiara che manca il finale che invece è precisamente quello che sta organizzando, ma è troppo miope per rendersene conto. McCartney palesa tutti i suoi dubbi, forse perché ha perso il controllo delle cose, forse perché il manager Allen Klein è il pericolo che incombe sulla band, forse perché è semplicemente insoddisfatto di quanto hanno prodotto (e Let It Be sarà un grande album disordinato, con pietre preziose e qualche pataccone). Harrison torna alla cocciutaggine iniziale: ribadisce la volontà di incidere un suo album solista e preferirebbe non far nulla dal vivo. Ma è in minoranza e accetta la decisione comune. Alla fine la soluzione per arrivare musicalmente a un risultato è disinteressarsi del benedetto concerto e del maledetto film: che ci pensi il regista. C’è del nervosismo ma per il gran finale sembra che tutto s’incastri al posto giusto e si trovi ancora una scintilla d’entusiasmo. Lindsay-Hogg piazza dieci cineprese (l’importanza di avere i soldi quando non hai le idee chiare…) e le divide tra il tetto del palazzo in Savile Row e la strada e poi, seppure nel caos, si scrive la Storia con un finale che riesce a passare dal drammatico all’esaltante al comico, con i Bobbies che fanno interrompere l’esibizione che disturba la pubblica quiete. Alla fine la miniserie dura oltre 7 ore e abbiamo visto nascere alcuni capolavori (in modo banale, come nascono le canzoni, sia belle che brutte) e il momento del concepimento porta con sé qualcosa di emozionante e pornografico. Vediamo anche delle dinamiche interpersonali potenti e intuiamo cose significasse e quale peso comportasse essere un Beatles (e con quanta insofferenza ormai vivessero il ruolo sia John Lennon che George Harrison). Peter Jackson mette in esergo, nei primi 10 minuti del documentario, un riassuntone della storia della band e anche qualche indizio dei caratteri dei protagonisti. John è quello estremo, McCartney quello mediano, Ringo il jolly, George quello in disparte, meditativo. Poi si racconta semplicemente quale fosse il piano di quel gennaio del 1969: realizzare un ipotetico speciale TV, con un’agenda che prevedeva prove per 3 settimane e poi la registrazione di un live show il 19 e il 20 gennaio. Dal 2 gennaio comincia il circo nello studio cinematografico di Twickenham, in una situazione oggettivamente respingente, con il quartetto al centro di uno spazio bianco, asettico, con intorno i cameramen a riprendere tutto, senza alcuna privacy. Inoltre tra le balle c’è Lindsay-Hogg che blandisce i nostri eroi in modo infantile e continua a proporre cose irrealizzabili. In tanti, oggi, ancora preda del retaggio vagamente razzistico di allora, sono rimasti inquietati dalla presenza di Yoko Ono che però è tranquilla e silente e funziona come ammortizzatore sociale per John. Al terzo giorno c’è il famoso scazzo tra George e Paul, col primo indisponente nella sua passività aggressiva e il secondo disperatamente impegnato a tenere a galla una band sull’orlo del divorzio. Sotto l’occhio delle cineprese non parte neanche un vaffanculo, è tutto trattenuto. La cosa paradossale è che sei il re del mondo, puoi fare il cazzo che vuoi e finisci in questa situazione assurda da reality con le camere accese e il compito impossibile di tirare giù 14 canzoni in 12 giorni, impararle, inciderle e poi fare un concerto. Da qualche parte. Lindsay-Hogg insiste: facciamolo in Libia, nel teatro romano di Sabratha. Oppure in crociera. O in un orfanotrofio. Diventa una macchietta cui nessuno dà retta. Negli anni Novanta ho visto un suo film, Guy, ed era una cosa di una povertà intellettuale drammatica (vedi qui). Voleva essere un’opera altissima sui concetti di visione, libertà e controllo e franava clamorosamente. Più o meno come rischia di accadere qui: in fondo questo Get Back c’è grazie a lui ma per me soprattutto nonostante lui. La ricostruzione di Jackson non ci nega nulla e, per scelta di tempi narrativi e visione d’insieme, assistiamo a nervosismo, momenti di serenità improvvisa, scintille creative, fastidio, noia. Quando si parla di allestimento dello studio Tv, lo scenografo propone dei bozzetti a Paul che lo manda via e aggiunge con feroce ironia: “Parlane a John e Yoko. Loro sono artisti”. Scopriamo anche che la versione iniziale della canzone Get Back era interpretata come se la stesse cantando un seguace razzista di Enoch Powell, un Salvini senza bidet dell’epoca, per capirci, tentativo per fortuna presto accantonato. Al settimo giorno avviene la frattura più grave: mentre c’è grande chimica tra John e Paul, George è estraniato e distante e al termine della sessione mattutina abbandona laconicamente il gruppo. Dopo pranzo la situazione è strana. I tre rimasti si scatenano in tante prove confuse e Yoko urla nel microfono, come a coprire il momento di imbarazzo. Servono tre giorni per suturare la ferita e quando si riparte il feeling è finalmente diverso e sarà tutto un crescendo fino al 31 gennaio, guadagnando una settimana, in un’atmosfera agrodolce, con la soddisfazione di aver portato a termine la missione, l’entusiasmo dell’esibizione e l’evidente sensazione liberatoria di fine lavori. In definitiva, cosa posso dire? Jackson ha realizzato una serie incredibile, che sfida ogni convenzione e fa anche tesoro degli ultimi vent’anni di reality show. Esibisce l’attesa, qualcosa che 50 anni fa era troppo distante dal gusto del pubblico. E c’è di mezzo anche l’ulteriore mitizzazione del gruppo, la nostalgia divenuta valore così come la distanza critica per comprendere meglio cosa stesse accadendo. Non so quanti realmente abbiano visto tutte le puntate ma la costruzione narrativa funziona egregiamente e immagini e musica sono realmente eccezionali. Alla fine, bravi tutti, anche quel cialtrone di Lindsay-Hogg. (Disney+, dicembre 2021)

1918 – Problematico, Don’t Look Up di Adam McKay, USA 2021
Di questo film ho letto pressoché solo commenti entusiastici e, no, non riesco a essere d’accordo: Don’t Look Up è sicuramente un film interessante e con un senso. Ma capolavoro no, non ci sto, come uno Scalfaro qualunque. L’ho trovato un po’ velleitario e soffocato dal suo gigantismo. E compiacente con lo spettatore. Il film satirizza comunicazione, media, potere, interessi etc. e mi sembra l’esatto frutto di questo clima dove tutto è buttato in burla. Ma veramente vi è piaciuto? O ha soltanto solleticato i brandelli rimasti della vostra coscienza? Adam McKay è un ottimo regista e direi che sappia anche come si fa ridere ma ho sempre il sospetto che quando sceglie storie edificanti pensi troppo a montarci su il baraccone, a fare sciato, come diciamo a Genova. Ma la partecipazione e la passione è come se non venissero fuori. Sia La grande scommessa (dei suoi film che ho visto, il migliore) che Vice mi sono sembrati tecnicamente e attorialmente ineccepibili ma alla fine freddi, senza coinvolgimento palpabile. Oh, sto leggendo con piacere Contro l’impegno di Walter Siti e assolutamente non voglio l’indignazione a tutti i costi o il funesto cinema didattico – da lui, poi! – ma se mi fai il pippotto apocalittico devo pur sentire un po’ più di tensione civile sotto, eh, se no è solo pura messa in scena e strizzarsi l’occhio e darsi di gomito. Inoltre qui in Don’t Look Up ho trovato confusione, troppi registri, troppa carne al fuoco, troppi colpevoli. E questo mondo è lo stesso che produce un film così, che accusa e allo stesso tempo si autoassolve dando anche la patente di bontà a chi lo apprezza. Ora, è evidente che sono un cacacazzo ottuso e se non riesco a vivere serenamente il film il problema probabilmente attiene più al gusto mio che all’effettiva bontà del lavoro di McKay. Però, detto questo, qui ci sono attori bravissimi, ma sulla carta, perché sprecati in macchiette e caricature con dialoghi implausibili. Poi non sento grande finezza o una coerenza formale. La metafora della catastrofe climatica in atto è leggibile ma è anche travisata e persa nella confusione: uno dei pochi momenti di verità è quando DiCaprio dice “per soldi ci portate all’autodistruzione”. Però questa cosa fondamentale mi sembra la sparata per avere l’apice drammatico, non per significare veramente che il capitalismo è il tumore del mondo e ci sta portando all’olocausto. Mi sembra tutto pura rappresentazione, così come la citazione di Zabriskie Point in coda. Molti hanno fatto paragoni con Il dottor Stranamore (peraltro nuovamente citato) ma quello era uno stracazzo di capolavoro inarrivabile, qui io non vedo la classe, coglionazzo, ecco. È una grande idea realizzata con troppa fiducia nella propria abilità e non avverto mai un cambio di passo autentico. McKay satirizza tutto: Trump, i movimenti, l’attivismo da poltrona, i social, il linguaggio giovanile e l’apatia ottusa della società, ma lo fa appoggiando tutto lì e facendo carta carbone della realtà, senza nessuno scatto che non sia la deformazione grottesca che banalizza al posto di problematizzare. Questo è un film timballo, con ingredienti ottimi ma poco equilibrati: si riscatta nel finale salvo poi metterci la scena del nuovo pianeta che aspetta le élite che il nostro lo hanno distrutto. Ed è subito cinepanettone, Vacanze su Marte. Non so. C’è un altro momento in cui DiCaprio – il migliore di tutto il cast, il più controllato – scazza in diretta tivù e dice: “La volete smettere con tutte queste battutine?”. Ecco, troppe battutine. Il magnate guru della Bash è un pagliaccetto, Meryl Streep è senza freni, come del resto l’altrimenti adorabile Jonah Hill. Timothée Chamelet poi è uno di quegli incomprensibili misteri gaudiosi (e non dimentico come ha trattato Woody Allen, il pezzente). Quella con un registro drammatico più congruente potrebbe essere Jennifer Lawrence ma anche lì si alterna la rabbia incontrollata (poco credibile nei contesti in cui esce) a gag deprimenti (che il generale faccia pagare gli snack alla Casa Bianca vuole dirci che è tutto per denaro? Ma davvero ce la passi così questa grande rivelazione?). Vabbeh. Qualcosa mi sarà pure piaciuto, no? Ma certo. L’ho detto: sono io il problema. Perché la fotografia è notevole, diverse singole scene funzionano, i brevi inserti documentari sono poetici, i titoli di testa e coda pop risultano elegantissimi. Ma se tiro le somme alla fin fine ho trovato più onesto e coerente di Don’t Look Up quel fetecchione di Armageddon. No dài, scherzo. Anche perché la verità è che quell’asteroide ce lo meritiamo veramente. (Netflix, 14/1/22)

(Continua – 81)

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La moda fra senso e cambiamento identitario https://www.carmillaonline.com/2021/01/28/la-moda-fra-senso-e-cambiamento-identitario/ Thu, 28 Jan 2021 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64682 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e con la scrittura di Charles Baudelaire, derivino premesse utili a comprendere le trasformazioni subite dalla moda nei tempi recenti. Come intuito dall’intellettuale tedesco, il termine moda manifesta una certa ambiguità denotando tanto una valenza negativa, per così dire “istituzionale”, riferita allo spettacolo consumistico, che una “meno convenzionale” che si manifesta attorno ai più recenti concetti di look, stili, e anti-mode. Muovendo dalla lettura politica operata da Hannah Arendt del rapporto tra gusto e senso comune in Kant e passando dal problema del contrasto tra il carattere di élite e quello di massa della moda posto da Jurij Michajlovič Lotman, Calefato ragiona su come la moda possa essere considerata un sistema capace di garantire una mediazione tra gusto, senso comune e comunità.

Tra i primi studiosi ad affrontare la moda attraverso un approccio semiotico, Algirdas Julien Greimas si interessa al vocabolario di questa per la sua peculiarità di prestarsi sia a una funzione tecnica di strumento di comunicazione interno a un gruppo specifico, che di risultare applicabile a tutti quei fenomeni sociali che hanno un carattere di attualità. Il “privilegio del verbale” di Greimas, sostiene Isabella Pezzini, non sembra discostarsi granché dalla convinzione di Lotman che vede nella lingua il “sistema modellizzante primario” di una cultura e che include la moda e l’abbigliamento nel suo progetto di semiotica della cultura.

A proposito dello studio della moda secondo una prospettiva semiologica, Pezzini si sofferma sul passaggio di testimone fra Algirdas Julien Greimas e Roland Barthes preoccupandosi di mettere in luce lo scarto che separa i lavori dei due. Mentre il primo sviluppa la sua analisi come studio storico-sociale del vocabolario francese orientato su uno strutturalismo storicista, il secondo esplora i parallelismi esistenti tra il linguaggio nel suo complesso e l’abbigliamento. La moda è vista dal francese come una lingua su cui mettere alla prova l’ipotesi saussuriana di una teoria generale dei segni contemplante al suo interno la linguistica. Se nello studiare il rapporto tra linguaggio e moda tanto Barthes che Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora, suggerisce Terraciano nell’introduzione al volume, è piuttosto all’ambito dei social network che occorre far riferimento.

Per la formulazione di una teoria semiotica della moda, sostiene Ugo Volli nel suo intervento, è necessario partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale nella consapevolezza di come già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, sia organizzato in vista della produzione di senso. Nel ricavare un elenco di unità morfologiche di base della cultura vestimentaria occidentale moderna è possibile notare come, nonostante alcuni momenti di rottura, in genere il cambiamento proceda lentamente e senza grandi mutazioni. Tratteggiate le differenze principali che caratterizzano l’analisi degli indumenti in un approccio di tipo interpretativo e in uno di tipo generativo, si tratta, secondo Volli, di verificare se la semiotica, formatasi a partire dall’ipotesi sincronica della linguistica, sia applicabile alla moda che è caratterizzata da una natura diacronica.

Nel parlare di moda ci si riferisce a qualcosa di ben più complesso rispetto all’analisi dell’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda, scrive Giulia Ceriani nel suo contributo, significa confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione e occorre considerare la sua peculiarità testuale in funzione dell’intenzionalità espressa dal fruitore effettivo che spazia dall’adesione emulativa, all’indifferenza sino al rifiuto di quanto di normativo ancora il sistema contiene. Attraverso l’iconizzazione e la condivisione sul web, la creatività della moda riesce in diversi casi a rappresentare fenomeni di cambiamento configurando identità che non riescono ad esprimersi agevolmente in altro modo

La seconda sezione del volume, dedicata agli oggetti, dopo essersi aperta con il contributo di Paolo Fabbri, che struttura attorno a una dettagliata analisi del cappello un sistema semiotico applicabile a ogni altro oggetto del sistema moda, lascia spazio alla disamina di Jorge Lozano del termine “lusso” a partire dalla pluralità di valorizzazioni che vi si possono attribuire e che, in una girandola di contraddizioni e opposizioni, come per certi versi già aveva compreso Benjamin, contempla tanto un’idea di superfluo che di necessario, di ostentato che di raffinato. Lo studioso, derivata la definizione di lusso dalla congiunzione su un quadrato semiotico della categoria semantica di /esclusivo/ con quella del suo opposto /eccezionale/, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui si è storicamente guardato al lusso, giunge a individuarne il suo particolare carattere contemporaneo a partire dal legame che manifesta con la pratica dei selfie e la personificazione degli oggetti.

Ora, in piena simulazione generalizzata, sotto il dominio dei big data, in cui il futuro non tramonta e regna il presentismo, l’autentico emerge come tendenza, che, sebbene non possa sostituire l’unico, l’unicità, la caratteristica fondamentale dell’esclusivo, funge da consolazione. Da parte sua, l’eccezionale dell’originale e genuino, di ciò che ha l’aura e appartiene alla patria del lusso, attualmente adotta altre manifestazioni pregne di soggettività, espresse nel cyberspazio, configurate con nuovi materiali. Questa nuova eccezionalità può coesistere perfettamente con il non esclusivo, promuovendo quello che considero il nuovo lusso. (p. 137)

Riprendendo le riflessioni di Barthes, Floch e Greimas a proposito di passioni e prossemica, Gianfranco Marrone, propone un’interessante analisi semiotica degli occhiali a partire da come l’esigenza sociale estetica abbia per certi versi finito per scalzare tanto la funzione dei modelli da vista, con il suo presupporre un movimento del soggetto verso il mondo, quanto quella dei modelli da sole, che presuppone il movimento inverso del mondo verso il soggetto. «Il corpo-meccanismo e il corpo-rifugio cedono il passo al corpo desiderato e desiderante, soggetto di seduzione e oggetto di piacere» (p. 140). Ad esemplificare la trasformazione avvenuta si pensi a come dai modelli di occhiali con lenti da vista capaci al tempo stesso di riparare dalla luce solare si sia passati al caso, per certi versi opposto, dei modelli con lenti trasparenti non correttive: un ribaltamento epocale che ha trasformato gli occhiali da strumento per vedere in oggetto per essere visti.

Maria Pia Pozzato, prendendo in esame la tematica della modest fashion riguardante l’abbigliamento rapportato ai codici della religione islamica, ricostruisce come dal punto di vista semantico, in tale contesto, si sia data negli ultimi tempi una riformulazione del concetto di /modestia/, non più riconducibile alla rinuncia alla seduttività, all’anonimato, alla povertà di ornamento, all’astoricità: la modestia della modest fashion, sostiene Pozzato, sembra mantenere soltanto un sema di /pudicizia/ implicante la non visibilità di alcune zone del corpo lasciate invece maggiormente scoperte dalla moda occidentale. Il risultato che ne deriva si indirizza verso una moda “a doppia versione”, anziché di contrapposizione.

Paolo Sorrentino, chiudendo la sezione del volume dedicata agli oggetti, ricorrendo a una prospettiva lotmaniana, analizza la risemantizzazione operata dalla moda contemporanea di un capospalla appartenente alla tradizione sarda rapportandolo al sistema vestimentario dell’isola che lo ha via via escluso dalle pratiche quotidiane marginalizzandolo all’ambito dei rituali carnevaleschi.

Nella terza e ultima sezione di La moda fra senso e cambiamento, dedicata agli spazi, avvalendosi del lavoro che Denis Bertrand dedica all’importanza della raffigurazione spaziale nel discorso del romanzo, Isabella Pezzini approfondisce la nascita e l’attestarsi del grande magazzino francese nella seconda metà dell’Ottocento così come traspare dal romanzo Au bonheur des dames (1883) di Émile Zola. Venendo invece a spazi commerciali più recenti, Bianca Terraciano si concentra sulle modalità con cui alcuni negozi di moda, nell’era dell’e-commerce e dei social network, vadano alla ricerca di elementi distintivi che ne giustifichino la presenza e da questo punto di vista risulta di un certo interesse il rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Sempre restando a tendenze contemporanee, Claudia Torrini e Tiziana Barone indagano la propensione della moda contemporanea a ricorrere sempre più frequentemente all’arte come medium e su come l’intrecciarsi dei due ambiti comporti la condivisione di un linguaggio che permette al brand di proporre il suo sistema valoriale in quanto marca e al tempo stesso curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

Al rapporto tra moda e costruzione identitaria sono invece dedicati gli ultimi interventi del volume. Nella semiotica Ana Claudia Mei Alves de Oliveira ricerca gli strumenti utili allo studio delle diverse maniere in cui la moda propone di vestire il corpo influendo sul soggetto e sulla costituzione della sua identità sociale. Preso atto di come, almeno a partire da metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si sia sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, Luca Marchetti passa in rassegna alcune opere che riguardano appunto la costruzione identitaria.

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Loro 2, di Paolo Sorrentino https://www.carmillaonline.com/2018/05/19/loro-2-di-paolo-sorrentino/ Fri, 18 May 2018 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45585 di Mauro Baldrati

Loro 2 è migliore di Loro 1. Il furore festaiolo all’insegna del binomio coca-figa si è attenuato. Ci sono alcune scene doverose di “cene eleganti”, con tanto di esibizioni di Silvio canterino di fronte a un pubblico in estasi, ma ci sono più storie, più personaggi, più dinamiche. Però è un film in bilico, che si presta a due visioni diverse. La sua qualità varia secondo la visione che uno sceglie, o che deve scegliere, in base alla sua sensibilità e formazione.

1) Visione con psico-decontestualizzazione. Guardiamo il [...]]]> di Mauro Baldrati

Loro 2 è migliore di Loro 1. Il furore festaiolo all’insegna del binomio coca-figa si è attenuato. Ci sono alcune scene doverose di “cene eleganti”, con tanto di esibizioni di Silvio canterino di fronte a un pubblico in estasi, ma ci sono più storie, più personaggi, più dinamiche. Però è un film in bilico, che si presta a due visioni diverse. La sua qualità varia secondo la visione che uno sceglie, o che deve scegliere, in base alla sua sensibilità e formazione.

1) Visione con psico-decontestualizzazione. Guardiamo il film e separiamo il personaggio dall’originale. Lo consideriamo in sé, con quella maschera di rughe e impenetrabilità che gli fornisce Toni Servillo. E’ Silvio Berlusconi, ma potrebbe essere chiunque altro, un riccone di un tempo folle e decadente caduto nella nostra epoca. Questa non è una procedura facile, richiede una buona dose di curiosità e fantasia, e anche un po’ di cinismo. Con questo tipo di visione, per esempio, riusciamo a divertirci con certi thriller avvincenti dove i buoni sono gli agenti della CIA, anche se sappiamo che nella realtà sono sempre i cattivi, spargitori di ogni male e violenza. Ce li godiamo purché siano di buona qualità, nella scrittura, nella trama, nei dialoghi (la parte più difficile).

E Loro 2 è di buona qualità, anzi ottima. La fotografia, come sempre in Sorrentino, è raffinata, pittorica con la patina decadence, la sua forma personale di estetismo nel quale è un maestro. E i dialoghi sono perfetti, efficaci e inverosimili quanto basta, nel filtro teatrale di alcune scene, per essere verosimili. Per esempio il faccia-faccia con Ennio Doris (nella realtà il presidente di Banca Mediolanum) è straordinario, per la gestalt di Servillo che interpreta entrambi i ruoli. Una scena di alto teatro velata di grottesco e di ironia, quasi un cartone animato, o un fumetto.

Oppure lo scontro con Veronica, sullo sfondo di un arazzo fiorito, dove lei gli sbatte in faccia tutto il suo disprezzo: sei malato, hai bisogno di uno psichiatra, hai settant’anni e vai con le minorenni, ti circondi di puttane e di ruffiani, sei solo un bambino che ha paura di morire. E la famosa fortuna che avresti creato al nulla, in realtà la devi a Craxi; in quanto ai miliardi degli investimenti edilizi… come te li sei procurati, eh? E Silvio: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Ma non fa una piega, le accuse rimbalzano sulla superficie della maschera dell’eroe del nichilismo: “Nulla esiste, tutto è permesso”. Nulla, neanche le accuse. E infatti ripete più volte: “Io non mi offendo mai.” E perché dovrebbe? Sarebbe solo una inutile perdita di tempo.

Il nostro personaggio è lo zar totalitario, circondato e seguito da una folla di persone adoranti, ansiosi di compiacerlo, terrorizzate di irritarlo. Certe scene, certi dialoghi assumono toni surreali, da opera del grotesque alla Monty Python, o certe esagerazioni dei Coen, ma più raffinati, con una componente di follia che serpeggia sul fondo di un enorme stagno colmo di acqua malsana.

Di nuovo abbiamo la sensazione di essere scesi dall’Enterprise e sbarcati in un mondo alieno. Gli abitanti nell’aspetto sono simili a noi terrestri, ma così esagerati.

Esagerati? E quindi inverosimili? Mi prendo la libertà di una incursione personale nella estroversione oggettiva della nota e della fiction per raccontare un episodio significativo. Circa nel 1990-91 fui inviato a Milanello per fotografare Fabio Capello. Mentre lo aspettavo a bordo campo, scattando foto di Gullit e Van Basten in allenamento, arrivò Berlusconi con un gigantesco elicottero. Avanzava spavaldo, sorridente, seguito da una segretaria sempre con un telefono all’orecchio, Cesare Previti e un drappello di quei giovani yuppies che erano esplosi come bombe a frammentazione con la sua entrata in campo. Il gruppo passò accanto alla mia postazione, e a un certo punto Berlusconi chiese se qualcuno aveva una penna. Due yuppies scattarono immediatamente e il più svelto gliela porse. Berlusconi scrisse qualcosa su un taccuino e poi gliela restituì dicendo “grazie”. Ero vicinissimo, sentivo le voci, capivo le parole. Il fortunato disse, a uno che gli era vicino: “Mi ha detto grazie. Grazie! Ti rendi conto?” Era euforico, la sua faccia era ispirata, proprio come quella dei personaggi del film, la sua voce tesa per l’emozione.

No, nessuna esagerazione. Sorrentino ha semplicemente lavorato sulla recitazione e sulla fotografia, e Loro 2 è un magnifico film iperrealista.

2) Visione senza psico-decontestualizzazione. Questo tipo di approccio all’opera è più materialista del primo, punta direttamente al cuore della questione senza smancerie né edonismi. Sì, le immagini sono belle, gli attori bravissimi, ma perdio, scollegati dal contesto sono dei dettagli inutili e un po’ noiosi. Che senso ha una simile spettacolarizzazione dell’amoralità, dell’egoismo, dell’adulazione? Non c’è narrazione come veicolo di denuncia come nel noir per esempio. Questo personaggio – questo eroe – è Silvio Berlusconi: noi siamo qui a seguire le vicende personali di un simpatico “ganasa” che ha catalizzato su di sé tutti i sentimenti bassi di noi italiani (ma non solo, gli americani, gli inglesi, tutti) e ce li ha rivenduti come sogni di successo. Furbo è bello, fregare è bello, corrompere è bello, tradire è bello, egoista è bello, bugiardo è bello.

Non si tratta di una visione moralista, ma coerente. Non ci divertiamo granché, perché divertirsi significa accettare tutto, sdoganare tutto. E non possiamo accettarlo. Questo lungo spot non fa che ingigantire quell’eroe pop che Berlusconi è diventato.

E’ un tipo di visione che pone una questione antica, ma quanto mai attuale: L’opera deve avere un’etica? La risposta è sì. Un’etica interna, non esibita, non didascalica, ma esistono delle regole non scritte che l’autore deve rispettare, per essere tale. Ne La caduta sarebbe inconcepibile assistere a esibizioni accattivanti sulle beghe di Hitler con Eva Braun e Bruno Ganz lo interpreta per quel demone scoppiato che era. Anche la serie su Escobar ci mostra un mafioso stragista nel suo mondo da incubo. L’orgia delle SA ne La caduta degli dei termina in una infernale catarsi che ci toglie il respiro. Non sono opere di denuncia, eppure lo sono, nello stile, nel ritmo, nei contenuti.

Qui invece tutto finisce per essere celebrazione, perché quando vediamo apparire Berlusconi in televisione non pensiamo alle accuse di Veronica, ma alla grandeur di Silvio del film, e pensiamo “però! Che tipo!”

Loro 2 è una celebrazione del male, attraverso la sua rappresentazione attraente ed emotiva.
E’ solo una fotografia ad alta risoluzione di un pezzo di realtà negativa scollegata dal resto del mondo.

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Loro 1 di Paolo Sorrentino https://www.carmillaonline.com/2018/05/04/loro-1-di-paolo-sorrentino/ Thu, 03 May 2018 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45417 di Mauro Baldrati

C’è una novità: Paolo Sorrentino ha rinunciato al tabagismo. Non è una notizia da poco, considerando la pignoleria con la quale rappresentava continuamente il rito della sigaretta.

Ma non l’ha eliminato e basta. C’è stata una vera e propria sostituzione dell’oggetto transizionale: via le paglie e avanti la figa e la coca. Autotreni di ragazze, naturalmente tutte giovani, tutte danzanti, illuminate da luci calde, potenziate da una colonna sonora eroica. Costituiscono lo sfondo animato della scena nella quale si muovono i personaggi, “Loro” appunto, individui abbastanza macchiettizzati che [...]]]> di Mauro Baldrati

C’è una novità: Paolo Sorrentino ha rinunciato al tabagismo. Non è una notizia da poco, considerando la pignoleria con la quale rappresentava continuamente il rito della sigaretta.

Ma non l’ha eliminato e basta. C’è stata una vera e propria sostituzione dell’oggetto transizionale: via le paglie e avanti la figa e la coca. Autotreni di ragazze, naturalmente tutte giovani, tutte danzanti, illuminate da luci calde, potenziate da una colonna sonora eroica. Costituiscono lo sfondo animato della scena nella quale si muovono i personaggi, “Loro” appunto, individui abbastanza macchiettizzati che sniffano quasi in ogni scena. Badilate di coca, la forza motrice indispensabile per tenere alto il ritmo.

Per una buona metà del film non si fa altro. I personaggi sfilano, si presentano, sullo skyline dinamico della figa. C’è il mezzo imprenditore ruffiano, col faccione del bravo Scamarcio (che tuttavia non riesce a scrollarsi di dosso una certa aria da ragazzo per bene), figlio di un imprenditore “onesto” (disdicevole, si confida una notte con la capa delle escort, perché onesto = sfigato), forse l’ultimo della specie; traffica coi contratti truccati, la cui forma di pagamento è costituita dalle escort; si agita, briga, trama, con l’unico scopo di entrare nel giro che conta e conoscere finalmente “Lui”, il principe, l’inarrivabile.

C’è poi il reclutatore personale di “Lui”, una specie di rettile linfatico polimorfo, che gli esperti hanno identificato con Lele Mora. Esamina le ragazze, ne valuta la temperatura puttanesca, le giudica idonee o le scaccia con un gesto della mano morta.

E il ministro poeta, innamorato dalla moglie-compagna di Scamarcio, che si atteggia a super escort ma non la dà via, soprattutto a lui (a meno che non ci scappi un bel ricatto). Qualcuno, nella sovralimentazione di eccessività, chiasso cialtrone, sbracamento, sciatteria, ha giudicato i personaggi e gli eventi del film improbabili. Beh, è sbagliato. Forse è una speranza inconscia, il desiderio intimo che il mondo possa non essere così. Ma chi ha letto le poesie di Sandro Bondi dedicate a Berlusconi sa che non esiste limite, e tutto è permesso.

L’andamento ripetitivo di questo recital del leccaculismo e della corruzione, che a un certo punto trasuderebbe noia e disagio – sentimenti temibili tenuti a bada dal virtuosismo estetico di Sorrentino – subisce finalmente una svolta con l’entrata in scena di “Lui”: un Jep Gambardella all’ennesima potenza, dove lo spleen decandentistico dissipatorio è stato fagogitato dalla ferocia del principe che tutto può, tutto possiede, tutto può schiacciare con un’alzata di spalle. Ovviamente non è possibile riprodurre la maschera pietrificata dell’androide coi capelli di plastica, ma l’icona Toni Servillo riesce comunque a creare un personaggio credibile, impenetrabile, scafato, cinico. Pure simpatico, e questo è uno dei problemi. E’ un Berlusconi per niente sciatto, per niente volgare, è persino raffinato nella sua freddezza. Cita addirittura Natalia Ginsburg (non dimentichiamo che la matrice originaria si vantò di non leggere mai un libro).

“Lui” sta cercando di recuperare il rapporto con la moglie Veronica (interpretata da una perfetta Elena Sofia Ricci), una donna infelice, piena di rancore verso il marito anaffettivo e puttaniere compulsivo. Per la verità questa prima parte del film (la seconda uscirà il 10 maggio) non si sofferma su questo aspetto del principe, ma lancia dei segnali: il suo sguardo malinconico quando finalmente nota l’enorme motoscafo oceanico stracarico di ragazze in festa che Scamarcio ha noleggiato (caricandosi di debiti) apposta per attirare la sua attenzione mentre è a bordo del gigantesco jacht spettrale in compagnia di Veronica. Oppure l’incursione alla festa di Naomi Letizia, la ragazzina minorenne che il principe “frequenta” con l’approvazione dei genitori, proprio come un ayatollah settantenne che può sposare una bambina.

A questo punto il martellamento parossistico della follia edonista si attenua. Ci facciamo coinvolgere dalle due vicende portanti, che procedono con la scansione della telenovela: i traffici di Scamarcio e le beghe matrimoniali del principe (che verranno espanse nella seconda parte, dove “Lui” viene “riscaldato”).

C’è anche un personaggio posticcio, che non c’entra nulla con la storia, un certo “Dio” che nessuno conosce, uno che riceve le escort con un asciugamano sulla testa e chiede una masturbazione di 4 secondi esatti. Compare solo in una scena, quasi un errore di montaggio, per cui vedremo se nella famosa seconda parte avrà un seguito.

Insomma, sembra di essere in un film di fantascienza, tipo Star Trek quando gli eroi sbarcano su pianeti sconosciuti popolati da creature non umane. Perché esistono solo “loro”, nient’altro, nessun altro. E questo è il suo limite, che fa di Loro 1 un film egoista, desideroso solo di essere scritto, di essere girato e guardato. Offre il fianco alla stessa ambiguità di Gomorra, un’empatia obbligata con quei personaggi negativi da ogni punto di vista. Come quelli di Loro 1, che sono gaudenti, felici di essere quello che sono, di fare quello che fanno. Non esiste un contraltare, nessun mutamento del paesaggio. Non c’è l’astronave di Star Trek, pronta a riprendere il viaggio. Siamo bloccati, non sappiamo perché siamo capitati qui né come possiamo uscirne. E’ un Pensiero Unico, a suo modo.

Ma è anche un prodotto certificato made in Italy da esportazione, di grande potenzialità. Gli americani puritani, i tedeschi sassoni impazziranno ammirando gli eccessi, l’amoralità, la vita viziosa degli “italiani”, ultimi eredi dei principi e dei papi del Rinascimento: feste sfarzose, veleni, tradimenti, concubine; e se ci mettiamo anche Gomorra abbiamo pure mafia, violenza, guerra, strage. Se facciamo addirittura cappotto con la politica… chi può fermarci? Chi può competere? Chi può osare?

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Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

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The young pope, di Paolo Sorrentino: The End https://www.carmillaonline.com/2016/11/18/the-young-pope-paolo-sorrentino-the-end/ Thu, 17 Nov 2016 23:03:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34704 di Mauro Baldrati

sorrentino_pope1Controverso. Ha suscitato reazioni opposte, capolavoro, un mattone inguardabile. Potrebbe essere un segnale significativo di qualità: le opere “forti” richiamano spesso valutazioni contrapposte, perché provocano entusiasmi o resistenze, che dipendono dalle risposte psicologiche dei singoli: rimozioni, ilarità, repulsione, noia. Succede quando si toccano corde complesse. Per esempio, Sorrentino potrebbe avere un titolo secondario per le sue opere: “La grande lentezza”. Molti non sopportano la lentezza. Forse perché si oppone alla velocità nevrotica del nostro tempo? Eppure sarebbe importante riuscire a sintonizzarsi su un rallentamento, per meglio contemplare la natura, coltivare [...]]]> di Mauro Baldrati

sorrentino_pope1Controverso. Ha suscitato reazioni opposte, capolavoro, un mattone inguardabile. Potrebbe essere un segnale significativo di qualità: le opere “forti” richiamano spesso valutazioni contrapposte, perché provocano entusiasmi o resistenze, che dipendono dalle risposte psicologiche dei singoli: rimozioni, ilarità, repulsione, noia. Succede quando si toccano corde complesse. Per esempio, Sorrentino potrebbe avere un titolo secondario per le sue opere: “La grande lentezza”. Molti non sopportano la lentezza. Forse perché si oppone alla velocità nevrotica del nostro tempo? Eppure sarebbe importante riuscire a sintonizzarsi su un rallentamento, per meglio contemplare la natura, coltivare l’amicizia e l’amore. Per sottrarsi alla spinta violenta dell’omologazione.

Potrebbe essere una chiave di lettura del Papa Giovane, una delle tante possibili di questo personaggio dalle molte sfaccettature e, dicono, contraddizioni. Una costruzione mutevole, anche sfuggente, pur nell’affermazione drastica di tanti enunciati che escono non solo dalla sua bocca, ma dall’olismo della sua persona spigolosa; enunciati qua e là incomprensibili, addirittura inaccettabili. Per dire: Pio XIII vuole bonificare la Chiesa dai gay, vuole lanciare anatemi contro i matrimoni misti, la libertà di cura e di coscienza, vuole spazzare via ogni istanza libertaria, ogni “democrazia” ecumenica. Esiste l’assoluto, esiste il dogma, l’obbedienza. Nient’altro. Oltre, c’è solo il vuoto, e il buio.

Dunque un integralista? Sì e no. E’ uno degli aspetti più multiformi di The Young Pope. Non è possibile una lettura certa, perché il nostro eroe non finisce mai di stupire, con le sue durezze, le sue apparenti superbie. Al diavolo la finta Chiesa povera. Al diavolo la Chiesa mediatica, quella che va verso i fedeli a braccia aperte, che dice loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire. Al diavolo la morbidezza, la tolleranza e la fratellanza mainstream. Esiste solo Dio e la sua adorazione.

Sembrerebbe l’esatto contrario di Papa Francesco. Niente padre spirituale, niente sorrisi e abbracci. Secondo il Papa Giovane la Chiesa deve chiudere tutte le porte, abbattere i ponti e ritirarsi nelle sue cattedrali per contemplare e adorare dio. Tutti i cardinali, dopo averlo eletto papa, sono sconvolti, terrorizzati. Soprattutto il segretario di Stato, interpretato da un pragmatico, scaltro, surrealistico Silvio Orlando, che guarda le partite del Napoli vestito da calciatore, che briga dietro le quinte, che veglia sugli interessi economici del clero, atterrito dalle nuove politiche isolazioniste del nuovo papa che fanno fuggire i fedeli e quindi sottraggono risorse a quel mondo separato di alieni in costume che vivono nei saloni vaticani.

Eppure: Papa Francesco non teorizza forse la Chiesa povera, come povero era Cristo? Bene, Papa Pio XIII non la teorizza, agisce. La Chiesa deve risalire alle origini, e i fedeli, se vogliono, torneranno tra le sue braccia. Perché senza la Chiesa, che rappresenta la parola di Dio, l’uomo non è niente. Bisogna solo avere pazienza. Dopo la mondanità ci sarà la verità.

Non è questo il Significante del cattolicesimo? L’uomo è solo di fronte al mistero divino. Dio è inconoscibile, la Sua volontà non può essere compresa o discussa dall’uomo. Se l’uomo ha la pretesa di capire Dio pecca di superbia.

Il Papa Giovane sembra portare avanti questa missione. Non un’idea. Una missione. La Chiesa Totale. Per questo i media cattolici non l’hanno capito? Famiglia Cristiana, che non è un giornale bigotto, ha pubblicato una tesi per dimostrare che in The Young Pope tutto è banalizzato, falsificato. Ma si ferma alla superficie. I soliti intrighi vaticani, i vizi, le perversioni. Personaggi improbabili. Eventi inverosimili. Non ha capito, o forse non l’ha accettato, che la serie non è assolutamente contro la Chiesa. Instilla il dubbio dell’esistenza di Dio anche tra gli atei più coriacei, affascina con la fede granitica del Papa Giovane e dei cardinali, che credono, al di là di ogni dubbio, anche se sono dilaniati dalle miserie terrene, schiavi del lusso e del piacere, ma anche di una solitudine disarmante, con quei lettini singoli, quei saloni sfarzosi e al contempo desolati (il Segretario di Stato abita in un appartamento di 650 mq, tipo Bertone). Soli, perché il voto di celibato è giusto. Perché il papa, i cardinali, i preti, oltre ad essere dei “vigliacchi” sono dei figli. Per sempre. Figli della Chiesa, la Madre di tutto. Ogni cedimento ai cosiddetti tempi moderni deve essere severamente bandito. Dio non è moderno. Dio non transige. Dio è Dio.

Per questo Pio XIII, spietato, arrogante, spauracchio di tutti gli interlocutori, che disarticola con poche stilettate micidiali (memorabile il faccia a faccia col Premier Giovane renzoide, interpretato da Stefano Accorsi), potrebbe essere un ritorno sulla terra della voce di Dio. Una voce severa, grave, minacciosa, come tuona nell’Antico Testamento, e la sua boria apparente è il riverbero della sua insindacabilità, del suo potere indiscutibile. Il potere di Dio, l’Unico.

Potrebbe. Sarebbe. Forse. Il condizionale è d’obbligo. Una simile “tenuta”, così tranchant, è difficile. Anche perché questa lettura sembra sfilacciarsi, quando il Giovane Papa va in crisi di identità (nelle puntate n. 7 e 8); si confonde, si distrae, pensa di avere fallito. Pur essendo assolutamente virtuoso, incorruttibile (e questo è il maggior punto di forza del suo fascino), mostra quelle debolezze che un missionario di Dio (per dire, l’Arcangelo Michele) non può avere.

Come il complesso di abbandono. E’ devastato. I suoi genitori, hippies americani, l’hanno scaricato in un orfanatrofio a dieci anni, accolto da una suora che tornerà dopo l’elezione a papa (interpretata da una magnifica Diane Keaton, che dimostra come una donna anziana può essere bella). L’abbandono lo tormenta, lo perseguita. Umano troppo umano quindi? Un sintomo di debolezza? Forse. Ma… chi era che gridò, di fronte alla propria fine: “Padre, perché mi hai abbandonato?”.

sorrentino_pope3Insomma, The young Pope è un’opera originale, strana, che pone domande sulla sua genesi (Perché? Perché questi registi si appassionano ai papi? Perché si lanciano in simili avventure?); che ci stupisce con l’esibizione degli stili del suo regista (e dobbiamo essere grati a chi davvero ha uno stile personale, merce diventata rara): la fotografia di ottima qualità, quelle dissonanze pop che strappano sorrisi e meraviglia (le suore che giocano a calcio con le vesti bianche immacolate), una colonna sonora molto interessante, benché “tuttologa” oltre ogni limite (Da Murolo all’elettronica a una cover di All Along The Watchtower, passando per Nada, e un uso intensivo dei timpani), certe suggestioni felliniane-dechirichiane, paradossi estetici. E ovviamente l’ossessione sorrentiniana per il tabagismo. Fumano tutti con dovizia di accendini, nuvolette di fumo che si sprigionano controluce nella ripetizione autistica di quel gesto.

Questa sera verrà trasmessa l’ultima puntata. Come finirà? Non sappiamo. Non siamo a conoscenza di anticipazioni sul finale. Certo The Young Pope è una di quelle opere per le quali il finale è difficile. Qualunque soluzione rischia di essere insoddisfacente.

Per cui ci permettiamo di avanzare la nostra idea, sulla base di quanto abbiamo visto fino ad ora. Non una previsione, sia chiaro. Anzi, un simile epilogo sarebbe alquanto “duro”, e quindi in controtendenza con le esigenze televisive di una seconda stagione (già semi-annunciata peraltro).

Eppure, considerando tutti i fattori della storia, un finale coraggioso, scolpito nella pietra, sarebbe la morte di Pio XIII. Ucciso, giustiziato dal sistema, dal clero unito contro la sua spinta destabilizzatrice. Un clero che non vuole ascoltare. Che non può accettare. Né rinunciare. E’ già successo, no? Nell’antichità la voce di Dio è stata soffocata, inascoltata, assassinata. E se qualcuno obietta – perché questa è un’obiezione diffusa – che il Papa Giovane rappresenta una negazione del messaggio di fratellanza e compassione di Gesù Cristo, si può contro-obiettare che ciò è vero solo in apparenza. La voce si ripresenta con suoni e stili diversi, ma la natura è la stessa. Non avrai altro Dio all’infuori di me. Io sono il signore Dio tuo. Dopo la speranza e la carità, passati 2000 anni di guerre, di distruzione, di peccato mortale permanente, Dio torna alla severità della Genesi. E ancora una volta questo mondo lo respinge e lo uccide.

Pertanto il finale può rispettare fino in fondo la coerenza del personaggio, approdando nella verde vallata, misteriosa e inaccessibile, dell’epica; oppure imboccare, come consuetudine, come prevedibile (e come previsto?), il sentiero turistico e molto frequentato del fumetto. Magari con un colpo di scena inaspettato, una svolta che, mentre sembra sparigliare tutto, non fa che confermare ancora una volta la Regola.

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Dove la terra scotta: intervista a Mauro Gervasini https://www.carmillaonline.com/2016/03/24/29105/ Thu, 24 Mar 2016 21:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29105 di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto? Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel [...]]]> di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto?
Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel cinema col coltello tra i denti, fatto con budget risicati ma che era la palestra e il luogo della sperimentazione per un sacco di registi… ecco, quello oggi lo trovi nelle serie televisive, meno sul grande schermo.
Per il poliziesco il problema è cominciato negli anni Ottanta. Se penso a cos’è stato il poliziesco negli anni Settanta, c’è da mettersi le mani nei capelli. Vale anche per la fantascienza… forse l’unico genere cinematografico che può permettersi qualche sperimentazione è l’horror, che ha un andamento ciclico: l’horror estremo intanto non può andare in televisione. Poi in questi anni c’è stato un boom di certo horror francese, titoli come Martyrs, a Frontiere(s), tutti film abbastanza tosti… e devo dire che mi capita ogni anno – soprattutto grazie al festival di Torino – di vedere due o tre film horror che mi fanno alzare un sopracciglio… penso a Babadook o allo strepitoso It Follows, grandissimo.
Essendo un genere antitelevisivo, ecco, l’horror resiste. Certo, poi in tivù ci sono The Walking Dead o The Strain di Guillermo Del Toro, ma questo mi pare un genere che ha ancora cartucce da sparare e che non è stato ancora dissanguato. In crisi, invece, è – come dicevo – il poliziesco americano. Per fortuna che c’è ancora il noir francese, che ha una sua dignità e distinzione rispetto al genere televisivo. Un film come Le resistance de l’air è un ottimo polar, fatto e finito.
Il problema vero è che Hollywood lavora moltissimo sui brand consolidati. Adesso avremo un nuovo Alien. Una saga che ha 35 anni… cosa si può aggiungere di nuovo, a quel film?

Dicevi della tivù: ecco, possiamo considerare le serie televisive una nuova forma di racconto cinematografico?
Assolutamente no! Sono una cosa diversa, e vanno valutata per quel che sono: un campo da gioco differente con linguaggio e regole differenti. Ce ne sono di strepitose e anche di bruttissime ma insomma reputo fuorviante e anche un po’ pretestuoso questo dibattito sulle serie che stanno soppiantando il cinema.
C’è piuttosto un discorso da fare sul cinema americano che sta vivendo una profonda crisi identitaria, dovuta appunto al fatto che molti generi che erano tipicamente hollywoodiani sono stati demandati a una produzione di tipo televisivo, ma questo è ben diverso dal dire che le serie tv sono il nuovo cinema.

Presenza di ganci narrativi a profusione, trame orizzontali distese, ritmo continuo… la tivù sta cambiando comunque il linguaggio a cui siamo abituati? E cambierà anche come raccontare sul grande schermo?
I linguaggi sono diversi ma naturalmente si compenetrano e dal punto di vista narrativo ci sono stati sicuramente nuovi stimoli. Più che altro sono e saranno una componente sperimentale. Perché le serie hanno nella sceneggiatura il vero punto di forza.
Prendiamo i Soprano – la serie che io ho preferito: ricordo delle sequenze strepitose, ma è il testo la cosa più sconvolgente, l’elaborazione narrativa… Se vogliamo da questo punto di vista c’è un rapporto molto stretto tra cinema e tv, e penso al lavoro di Aaron Sorkin, però qual è la differenza? Nelle serie di David Chase ogni puntata viene diretta da un regista diverso, ma la serie rimane di David Chase.
The Social Network e Steve Jobs, sono due film interamente scritti da Aaron Sorkin ma il primo, girato da David Fincher, è un gran film, mentre il secondo asseconda in modo più fedele Sorkin e dal punto di vista cinematografico è molto meno interessante.

Anche dall’altra parte dello schermo sta cambiando la percezione: si vedono sempre più film in televisione, sul computer, sui tablet. Come crescono le nuove generazioni di spettatori?
Allora, bisogna stare attenti ai luoghi comuni: la maggior parte degli spettatori che si recano al cinema, in sala, ha meno di 25 anni. Il vero problema è la generazione dai 40 anni in su, che si è impigrita.
Il pubblico di massa più giovane comporta anche il successo di un cinema tagliato su quel gusto. Fa fatica il cinema più classico, più adulto e che magari ha una seconda vita in sale d’essai, nei cineforum… la filiera è lunga, per fortuna.
18655Il consumo su piccolo schermo ha certamente portato a una minore attenzione a quello su schermo grande ma è un problema antico. Da spettatore, io ricordo molto di più un film visto al cinema di uno in tivù, ed è raro che mi appassioni a un film visto in televisione – a meno che non sia un classico che magari non posso rivedere su grande schermo, con rammarico.
Ti faccio un esempio: Dove la terra scotta, è un cinemascope di Anthony Mann del 1958. L’ho visto su un 32” con un dvd che rispettava la ratio, un’ottima edizione. Ecco: è un capolavoro di cui mi rimarrà però il dispiacere di non averlo visto proiettato.
Prendi poi l’ultimo Tarantino: è un 70 mm – che non è un formato, attenzione – e se non lo vedi nelle condizioni giuste perdi tutto il lavoro sulla profondità che quella definizione consente…

Come ha reagito il cinema italiano in questi ultimi anni: la crisi ha attivato energie? O date mazzate finali?
Allora: nel 2013 ho fatto un gioco in cui ho chiamato i lettori di FilmTv a votare il loro film italiano preferito dal 2000 in poi. Poi ho ripetuto questo gioco negli anni successivi su altri temi, ma la partecipazione sul cinema italiano è stata veramente straordinaria. Attenzione: chiedevo non solo un voto, serviva anche un testo breve. Il film più votato dei primi 12 anni del secolo è stato Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, del 2004; il secondo più votato è stato Pane e tulipani di Soldini, del 2001, con uno scarto veramente minimo. Guarda caso film d’inizio millennio. Pochissimi i film recenti. Forse non rappresenta nulla ma credo che il cinema italiano abbia avuto una forte crisi nei primi anni del Duemila, crisi da cui credo stiamo uscendo solo adesso. C’è grande fermento e disordine. Si continua a fare cinema d’autore e negli ultimi 3, 4 anni, un documentario come Sacro GRA ha incassato più di un milione di euro. Ha vinto a Venezia, certo, ma non è così automatico che questo significhi incassi sicuri. E, ripeto, è un documentario.
Il giovane favoloso, su Leopardi, ha avuto un successo di pubblico inatteso per un film con quella difficoltà, se vuoi.
E secondo me c’è un fermento anche nel cinema più popolare. Penso a Smetto quando voglio, che è una commedia intelligente lontano dalla piattezza di altre commedie banali, piatte. Sono segnali disordinati, frammentati – quest’anno ci sono le sorprese di Lo chiamavano Jeeg Robot o Perfetti sconosciuti – ma, forse anche grazie al successo internazionale di film come La grande Bellezza, c’è finalmente un’attenzione diversa nei confronti del nostro cinema.

FilmTv 2013-39Senti, come sei arrivato alla direzione di FilmTV?
Io ho collaborato a FilmTV nelle sue varie fasi, dal 1998: ero un collaboratore con intensità variabile! Poi tre anni fa mi hanno fatto la proposta di diventare direttore e mi sono resettato nei confronti del giornale: ho dovuto reinventarmi perché la responsabilità e le mansioni sono chiaramente diverse.

E lo hai cambiato molto, FilmTV?
L’ho cambiato, sì. Il mandato era di non stravolgerlo: FilmTV vive di uno zoccolo duro molto fedele, affezionato e consolidato che non avrebbe apprezzato delle rivoluzioni strutturali esagerate, per cui l’ho cambiato un po’ secondo i miei gusti e la mia idea di giornale. Credo anche di averlo semplificato, spero nella migliore accezione del termine.
Noi purtroppo non riusciamo a fare abbonamenti fisici, solo digitali – in crescita, molto – comunque vendiamo tra le venti e le venticinquemila copie settimanali, certificate ADS.

Il web è pieno di appassionati che scrivono di cinema: questi contributi influiscono sul lavoro critico più ufficiale?
Io li chiamo – rubando la definizione a qualcuno che non ricordo! – i cosiddetti saccopelisti della critica, nel senso che purtroppo hanno contribuito a rendere meno autorevole chi scrive di cinema e non lo fa solo a scopo informativo ma anche per fare analisi e critica. Purtroppo è diventata dominante soltanto la cosiddetta “critica impressionista” con questa brevità imposta dai social network, magari con toni accesi, ed è la morte del ragionamento.
Dire se un film sembra bello o sembra brutto è veramente il campo della soggettività più assoluta. Più che critici si diventa tifosi: pensa a La grande bellezza, che sui social è stato visto – e commentato – come una partita di calcio…

Mi stai facendo venire grandi sensi di colpa per le cose che pubblico su Carmilla!
Ah ah! È colpa del Cacace!

Ultima cosa: per una serata ideale, cosa ti regali al cinema?
Ah, non si scappa: I cancelli del cielo… ma oggi voglio consigliare Dove la terra scotta di Mann: recuperatelo, è fantastico!

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Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 69 https://www.carmillaonline.com/2015/03/26/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-69/ Thu, 26 Mar 2015 22:00:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21380 di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988  Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per [...]]]> di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988 
Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per la regia di Anthony Ascot). Dunque: siamo a Santo Domingo e un pochissimo plausibile scienziato sudato che ogni tanto blatera di DNA si vanta di essere riuscito a fecondare una scimmia col seme di un topo. Ne è nato un ominide peloso come Lucio Dalla, alto come Pupo e simpatico come Povia (non so perché queste similitudini musicali, m’è venuta così) che squittisce e ha ansia di sangue, bastandogli un’unghiata per metterti fuori combattimento con leptospirosi fulminante. Il Nobel de noartri tiene l’essere bestiale (che è un nanetto vero, porello) in un tugurio zozzissimo, chiuso in una gabbia per canarini, ma dopo due minuti di film, con montaggio serrato di tre pose emblematiche, sappiamo che la gabbia è vuota e il mostrillo è on the hunt. Farà infatti strage di modelle e accompagnatori e il finale sospeso ci fa capire che la faccenda potrebbe interessarci da vicino, prima o poi. Cast di facce ridicole assortite, su cui spiccano le due bellone che dovrebbero dare qualche brivido osé. Ma Janet Agren è fisicamente in disarmo: inoltre scomposta nelle scene horror e partecipe come un gesso pompeiano nelle altre. Eva Grimaldi, con due sopracciglia nere tipo Elio, si distingue invece per l’interpretazione di 5 minuti di doccia insaponata con mugolamenti insensati (va bene il caldo e l’umidità di Santo Domingo, ma mugolare?) e poi per l’epico confronto con Rat Man stesso, campionario di urla, strepiti e pianti che paradossalmente sono una delle cose migliori di questo supposta pellicola, “supposta” nel senso che lo spettatore capisce subito dove la prenderà. Non conosco classifiche di sorta ma Quella villa in fondo al parco (titolo coerente con la trama e tutto il resto: non significa niente!) è per conto mio imbattibile nella categoria delle cagate: qui siamo oltre l’evacuazione diarroica o a spruzzo, qui siamo alla sublimazione della materia fecale, questo film fa cagare a vapore. (Dvd, marzo ‘10)

ddv6902768 – Glorioso, imperfetto e sincero Inglourious Basterds di Quentin Tarantino, USA 2009
Che film sublime e bizzarro! Non saprei che altro dire di una vicenda che riscrive la Storia senza pudori, mescola dramma e divertimento e ha diversi momenti grandiosi e qualche inciampo (il capitolo 2) ma comunque, sempre, ti stupisce, nel bene come nel male. La cinematografia è di livello altissimo: gli attori, i colori saturi della fotografia, la generale ricostruzione d’epoca o il clamoroso film nel film. Ed è un’opera, questa, che dice dell’amore per il cinema che ha Tarantino: è uno col vizio di fare il coglione vantando ammirazione per fetecchie astronomiche ma che poi, mettendo in scena, fa capire che è sì un cazzone, ma di gusto estremo e raffinatissimo, che fotografa la splendida Mélanie Laurent come se fosse Marlene Dietrich e che non ha imbarazzi a mettere a fianco Cenerentola e la Riefenstahl, navigando nel kitsch con estrema consapevolezza. E che sa parlare al cinéphile come allo spettatore cane e che questo spettatore cane lo costringe a ritmi e dialoghi che nei blockbuster di oggi sarebbe difficile trovare. Nel cinema di Quentin ci sono anche le parti che fan prudere le mani, ovviamente: discorsi che non portano a nulla, strizzate d’occhio irritanti, comparsate di cinematografari stazzi, citazioni a go-gò per darsi un tono, ma c’è anche l’impresa che ormai osano in pochissimi di fare un cinema diverso, inaspettato, ma inclusivo, che non esclude per censo e cultura, ma abbraccia il pubblico. Magari in quella maniera un po’ fastidiosa che ha il cagacazzi pazzerello della compagnia. Ma che comunque, alla fine, trasmette un calore. Oh, a me ‘sto film è piaciuto. (Dvd; 1/3/10)

ddv6903769 – L’inferno di Gomorra di Matteo Garrone, Italia 2008
Ad un mese dall’ultimo film, interrompiamo il black out con un altro Dvd. Nel frattempo – devo rendervene conto – mi son concesso un Inter – Genoa epico come un film di John Ford. Non andavo allo stadio a vedere una partita di calcio dal 1987 e l’occasione s’è rivelata eroica come la difesa di Alamo: il Genoa rinchiuso nel fortino, a resistere agli attacchi abbastanza stracchi dell’Inter. Solo che NOI non abbiamo capitolato. Vista la temperatura siberiana, ero conciato così, con l’abbigliamento rossoblù opportunamente occultato per timore dei tifosi interisti: mutandoni da Gino Bramieri, calzamaglia della North Pole da missione artica, maglietta genoana ufficiale da trasferta in puro acrilico a scintillante contatto pelle (i calciatori le portano attillatissime, figuratevi come sta addosso a me), calzettoni ufficiali sintetici a traspirazione impedita, magliettone in cotone a maniche lunghe di merchandising non ufficiale, camicione di velluto, sciarpa grigia, guanti esquimesi, pantaloni cargo. A fine vestizione ero già in un bagno di sudore e avevo oggettivi problemi di deambulazione, plastico come l’omino della Michelin. Però in tribuna son stato benissimo, seppur attento a non proferire parole che tradissero la mia fede calcistica. E dopo questo epico film, ho visto qualcos’altro, in questo mese? Ho perso Shutter Island all’Orfeo, perché le proiezioni sono tutte in contemporanea alle 20 e non esiste lo spettacolo delle 21 (poi dici la crisi… dei cervelli, sì). Comunque ci son girate le balle (anche perché da stupidi non avevamo controllato prima la programmazione) e siam tornati a casa. Lì abbiamo provato ad affrontare il celeberrimo steampunk nipponico a cartoni animati Steamboy, vagamente infantile, e all’ennesimo sbuffo di Barbara e alla provocazione “…e perché non ci guardiamo Belle e Sebastien?”, abbiamo mollato il colpo. E abbiamo optato per l’impegno: Gomorra, colpevolmente perso in sala. Dal testo di Saviano sono prese cinque storie (non ne sono sicurissimo, dovrei ricontrollare), adattate per poter dipingere l’affresco su cosa sia la Campania in mano alla camorra: un inferno in terra. Garrone ha saputo mettere in scena una vitalità disperata, che sogna la libertà. Da quella autentica, pulita e sincera, a quella di chi non vuole più obbedire a nessuno e sceglie di diventare prepotente a sua volta. E le aspirazioni si mescolano al culto di Scarface o a quello, esasperato, del corpo (la manicure, il piercing, l’abbronzatura); e ancora il cibo, l’abbigliamento, l’esibizionismo, le armi (gli AK 47), le moto… parziali ricompense o illusori compiacimenti per chi sa di essere condannato a non avere altro. Attori presi dalla strada diretti benissimo: il solo che finge – e che non è quello che fa credere di essere – è Servillo, l’unico attore con una faccia riconoscibile. Stile da cinema-verità, tanta camera a spalla (del regista), luci naturali, facce antiche o freschissime, montaggio nervoso e un gusto iconico che rende tragiche e belle anche le Vele di Scampia. Forse c’è un po’ di freddezza: le didascalie finali servono da monito, ma allontanano anche dal pathos del racconto. Però, nulla da dire: bel film, importante, direi riuscito. (Dvd; 28/3/10)

ddv6904770 – Il divo di un fiammeggiante Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2008
Niente male, questo Sorrentino, sai? E cresce film dopo film. Qui individua un modo originale per raccontare il divo Andreotti: in chiave onirico-fantastica, con ampie porzioni di reale ma trasfigurate dall’invenzione plastica. Non si scade così né nel film di denuncia para-televisivo, né nel documentario e ne viene fuori un’opera che sembra un sogno, o un incubo, quello del sonno che l’Italia sta ancora dormendo e, immagino, mai smetterà di dormire. Il film si apre con un Andreotti/Hellraiser, che prova a combattere il mal di testa con l’agopuntura. Non è un caso, così come la caratterizzazione di Servillo – al limite della macchietta – dei movimenti del Gobbo, che più di una volta sembra il Nosferatu di Murnau: spalle strette e passo fluido come se lo stessero trascinando su un carrellino. La messa in scena è elegantissima, la fotografia predilige le atmosfere buie (Bigazzi, molto bravo), le grafiche danno un tocco inventivo. I protagonisti sono tutti notevoli nell’assecondare questo clima esasperato, teatrale, gelido, dove i pochi momenti di calore sono affidati ai rapporti con le donne, come l’umanissima moglie di Andreotti. Il film finisce all’improvviso e potrebbe continuare a lungo, ma Sorrentino è così: ti spiazza continuamente. Scegliendo punti di vista originali, tagliando le scene quando meno te l’aspetti o musicandole con temi razionalmente incongrui ma perfetti (i Trio con Da Da Da o la Pavane di Fauré). Film premiato a Cannes e ben accolto all’estero. Ecco: ma un’opera così, a cosa serve? Glorifica il soggetto? Insegna, a chi non la conosce, la sua storia? Fornisce nuove chiavi di interpretazione? Boh, so solo che Andreotti, vedendosi così raccontato, s’è molto molto offeso e voleva querelare: povera stellassa dall’animo sensibile. (Dvd; 1/4/10)

ddv6905771 – Oooh, finalmente La prima cosa bella in sala, da tanto, di Paolo Virzì, Italia 2010
Dopo non so quanti mesi torno finalmente al cinema assieme a Barbara. Tra tanta offerta spingo per una commedia che mi faccia frignare a dovere, m’aggia a sfuga’. Tutti m’han detto della qualità lacrimatoria dell’ultimo Virzì e la scelta è presto fatta, anche perché al cinema Ariosto c’è il geniale spettacolo delle 21, che consente di mangiare prima della visione, a orari decenti (nella fattispecie compio un attentato al mio colesterolo in un ristorante cinese lì vicino). Stefania Sandrelli oggi e Micaela Ramazzotti ieri sono la stessa bella ragazza, Anna Michelucci, che ha fatto girare la testa a tanti e tanto ha amato, punita e trattata male dalla vita perché ai ricatti maschili invece non ha ceduto. Trattata quindi da zoccola perché zoccola non era realmente (o perlomeno così l’ho vissuta io, ma il dibattito è aperto col pubblico maschilista che se hai la minigonna, allora, un po’ mignotta lo sei) e il figlio Bruno deve fare i conti con quanto ha creduto per tutta la sua esistenza, ora che mamma sta morendo. La prima cosa bella ha un bel narrare, con alcune astuzie e alcuni difetti (la scena finale che viene anticipato troppe volte, l’intreccio iniziale un po’ farraginoso). Però funzionano il passaggio dal passato al presente, con continui tranelli allo spettatore, ed è riuscito l’affresco familiare, grazie anche ad attori ben diretti e in parte. Certo, Mastandrea fa un po’ sempre la stessa parte, in minore, sottraendo, però è intenso e credibile ed è brava anche Claudia Pandolfi e tutto il cast di contorno. Inoltre il ricatto sentimentale della vicenda è punteggiato da battute azzeccate, cosa che amplifica il groppo emozionale: io praticamente piangevo a calde lacrime già da metà primo tempo. Per me un buon film, sniff sniff. (Cinema Ariosto, Milano; 3/4/10)

ddv6906772 – Cla-mo-ro-so Soy Cuba del Genio Mikhail Kalatozov, URSS/Cuba 1964
Bimbe e Barbara via per le vacanze di Pasqua. Io rimango nella città vuota a lavorare, ma la sera festeggio con il cinema che mi è altrimenti precluso: un bel sovietico! Trattasi di un caso particolare: film commissionato dall’URSS per celebrare i nuovi alleati rivoluzionari cubani, realizzato da Kalatozov e poi nascosto al pubblico per trent’anni. Riscoperto – tra gli altri – da Coppola e Scorsese, infine distribuito su scala mondiale. Attraverso quattro storie individuali si ripercorre il cammino del popolo cubano verso la libertà, ma non è cinema di propaganda. È cinema di poesia, lirico, struggente, con un passo narrativo che è esattamente figlio di quegli anni Sessanta e che oggi provocherebbe gran moria di spettatori in sala. La fotografia, abbacinante, nitidissima e straniante per l’uso di un grandangolo estremo, ricorda quella del cinema-verità: Soy Cuba è girato con una Eclair che sta in mano all’operatore come oggi una handycam da due soldi e questa leggerezza produttiva consente l’impensabile: movimenti di camera vertiginosi, primi piani in faccia ai protagonisti, punti di vista impossibili, la camera che rasenta il terreno, poi si eleva per quattro piani di altezza nel centro dell’Avana, poi attraversa una casa e infine vola per le strade. Se uno non lo sa – come credo chiunque che non abbia guardato prima i contenuti speciali del film – si chiede: ma come cazzo avranno fatto? Kalatozov doveva avere degli operatori incredibili, inventivi e coraggiosi perché tutto il film è composto da scene dove la tensione è data non solo dalla storia, ma dal tuo esserci in mezzo, realmente: tra le fiamme, in una sparatoria, colpito dall’acqua degli idranti o in mezzo a chi festeggia la vittoria della Rivoluzione. Semplicemente incredibile. Certo: lo consiglio a una percentuale irrisoria della popolazione cinefila, ma è realmente un masterpiece, nascosto per anni proprio per la sua natura ostica. Volevano la Retorica, ebbero la Magia e la Poesia, qualcosa che il Potere non è mai in grado di capire. (Dvd; 4/4/10)

ddv6907773 – Anarchia, Godard e Tognazzi: La vita agra di Carlo Lizzani, Italia 1964
Luciano Bianchi viene a Milano con la ferma convinzione di fare il botto e vendicarsi della società che ha lasciato morire 43 minatori per risparmiare sui costi di sicurezza. Ma la metropoli lo ammalia, lo seduce, lo spegne. Luciano diventerà un affermato creativo pubblicitario e addio sogni dinamitardi. Cominciamo col dire che tantissimi – critici e supposti storici – non fanno altro che ripetere che vuole far brillare il Pirellone. Non è vero: il “torracchione” del romanzo qui è illustrato visivamente con la Torre Galfa. Tiè, pelandroni. Comunque il protagonista – con la faccia splendida di Tognazzi – si trascina tra tradimenti coniugali, licenziamenti, traduzioni e afasia. Nel film di Lizzani è tutto rimontato in modo narrativamente funzionale e c’è l’esito di cui ho già detto, invece nell’opera letteraria rimane tutto felicemente vago. Le due cose non sono in contraddizione e trovo che sia film che romanzo funzionino a modo loro. La vita agra su pellicola non è forse un capolavoro tout court come alcuni proclamano (ma l’entusiasmo giustifica rassegne, pubblicazioni, curatele etc.; dev’essere dura fare il critico di mestiere, eh?), ma è comunque una pellicola molto buona, col difetto forse di non decollare veramente mai, interpretando perfettamente, però, il senso d’attesa del testo di partenza. Tognazzi mi pare meno incazzato di Bianciardi, più malinconico e angosciato che sanguigno. E il film si trascina un po’ come lui, vittima degli eventi piuttosto che motore. Comunque qui ci sono cose che all’epoca dovevano essere veramente hard, come il rapporto extraconiugale con la splendida Giovanna Ralli. E anche la critica alla società dei consumi e alla persuasione occulta erano argomenti molto lontani dal pubblico. La vita agra – tra nouvelle vague, commedia all’italiana e aspirazioni politiche – allora scontentò tutti, chi voleva la ghignata feroce e chi l’urlata ribelle, ma è un film affascinante nella sua leggera imperfezione, nell’essere talmente avanti da non poter essere subito compreso, e non lo si dimentica facilmente. Bello! (Dvd; 5/4/10)

ddv6908774 – Mmh… sì, ma non esageriamo: Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009
“Capolavoro, capolavoro, capolavoro”. Ogni film che vedo, ormai, è accompagnato da questo ritornello degli amici o di mio padre, un mantra che viene recitato sgranando rosari e per dare un senso alle proprie visioni. Io invece faccio la volpe e l’uva e mi fa tutto schifo. Prima di vederlo, perché poi, dopo, assolvo sempre. Questo Profeta l’ho affrontato dopo il bombardamento psicologico di tantissimi entusiasti e l’ho trovato bello, sì, decisamente, ma capolavoro non direi. È un’analisi entomologica dell’ambiente carcerario, con le regole che fanno di te vittima o padrone, indifferentemente che tu stia dentro o fuori. Bravissimi attori, musiche inaspettate, qualche svisata surreale poco riuscita, fotografia un po’ anonima, pochi palpiti umani di vera compartecipazione, secondo me. Bella storia, insomma, ma il mio cuore è da un’altra parte. E poi mezz’ora di troppo, dài. (Cinema Ariosto, Milano; 10/4/10)

ddv6910775 – Attenzione, perché Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, Repubblica Federale Tedesca, 1970
I nani sono cattivi. Ce lo ha detto De André, lo ha ricordato Randy Newman, mostrato Freaks e confermato quello di Arcore, da una ventina di anni a questa parte. Ma prima di tutti è stato Herzog a fare un triplo carpiato regalandoci una visione dantesca della società, dove tutti sono nani. E cattivi, cattivi proprio. Perché tutti siamo nani. E probabilmente malefici, col “cuore troppo vicino al buco del culo”. Il film, fin da subito, ti spiazza: è in atto una rivolta, ma non si capisce bene dove: prima pensi che sia un istituto per nani, poi una colonia penale (ma solo per nani?!?) e poi ti rendi conto che – appunto – tutti sono nani, ma che vivono in un mondo fatto a misura d’uomo. Per cui non torna un cazzo! Ed è evidente che la “normalità”, la scala a cui vivono i non-nani, è il pericolo, è la difficoltà di vivere e basta. La rivolta degenera e il termine “degenera” non rende l’idea di cosa Werner riesca a mettere in scena, una sinfonia dell’orrore (e attenzione, non dell’horror, che è una metafora nel migliore dei casi, una pagliacciata negli altri e presuppone un patto con lo spettatore; no, qui c’è l’orrore della realtà, a cui lo spettatore non è pronto perché ci vive già in mezzo). Girato nella spettrale e vulcanica Lanzarote, tutto è ostile e tutti sono ostili, nel tentativo di ritagliarsi uno spazio di momentanea felicità o anche nella semplice illogicità della violenza: tutti contro tutti, anche contro la natura, tesi a sopraffare il più debole, uomo, pianta o animale che sia. La gioia della violenza non è più riservata solo ai “grandi”, altro che compassione, anzi: con la nostra umile statura abbiamo qualcosa in più da far pagare alla Vita tutta. Galline che si scannano o che si contendono un topo morto, sordociechi vessati crudelmente, alberi abbattuti per puro compiacimento distruttivo, una scimmia crocefissa, un maiale preso a bastonate (vere), un cammello che non riesce a sedersi, le uova rotta senza motivo, le piante bruciate, tra risate agghiaccianti e idiote e voci chiocce. Scene lunghe, poco montaggio, sguardi frequenti in macchina dove leggi il “…ma posso davvero?!?” degli attori, chiamati a sfasciare tutto o il “ma sei pazzo?” di chi rischia di pigliarsi un piatto in testa. Il film è una rivolta contro le istituzioni, il buon gusto, la buona creanza, la natura, la tecnica, la religione, la logica. Perché l’uomo è così e il regista tedesco non ha dubbi né speranze che si redima. Ti costringe a guardarti in faccia e ribalta le tue convinzioni e convenzioni, ipnotizzandoti con una macchina che gira a vuoto in un cortile, in un carosello folle dove nulla viene risparmiato. Girato con due lire, allucinante, blasfemo, illogico, brutale e inquietante, il film potrebbe anche durare la metà, ma la fatica fa parte del prezzo del biglietto. Insomma: esattamente divertente non direi, ma salutare sì. P.s.: dopo un film così ti piglia un’inspiegabile frenesia di vedere altro Herzog. Due anni fa ero alla Fnac con la stessa voglia. Cerco tra i Dvd: nulla, tutto esaurito all’improvviso. Chiedo spiegazioni, incredulo, a un commesso che mi dice: “Tre giorni fa Herzog era ospite da Fazio, il giorno dopo abbiamo venduto tutto. Tutto”. La televisione… (Vhs da RaiTre; 28/4/10)

ddv6911776 – The Boat That Rocked di un furbetto, Gran Bretagna 2009
Sarà che nell’ultimo mese ho assunto perlopiù puntate di Heidi a rullo continuo (e mica male, sai?), e una fetecchia come questo I Love Radio Rock (titolo ruffiano italiano) l’ho visto fin volentieri. Racconta in maniera pesantemente edulcorata l’odissea di una fittizia radio pirata che avrebbe trasmesso dalle acque del mare del Nord, rifacendosi all’esperienza delle varie emittenti che alla fine degli anni Sessanta contrastavano il monopolio della BBC. Qui ci si mette di mezzo anche il governo e tutto è swingin’ London, gonne a fiori, amore libero, lotta ai matusa che hanno paura dei capelli lunghi e altre piacevolezze e luoghi comuni. La musica è chiaramente bellissima, ma sarebbe stato difficile sbagliarsi. Gli attori sono discreti e la ricostruzione d’epoca è oleografica e dolciastra senza offendere granché. La regia sbrodola e da tre ore di montaggio (più che una saga, una sega) il film è stato portato a due, con ulteriori tagli per l’edizione nordamericana. Tutto ciò non ha evitato un bel flop, che il pubblico d’accordo che si beve tutto ma alla coprofagia c’è un limite: si parte decentemente per approdare ben presto alla commedia stupidina, ricca di episodi che divertono senza però lasciare niente di memorabile. Il team produttivo, del resto, è quello di Notting Hill e Quattro matrimoni e un funerale (e alla regia c’è tale Richard Curtis) filmetti scioccherelli per uditorio boccalone. Nel quale mi metto volentieri, anche se qui – dopo un po’ – non se ne può più di amori, liti, rappacificazioni, sfide e altre corbellerie, come se il tenore della commedia autorizzasse qualsiasi stronzata. L’unica cosa decente, tra le tante furbate a buon mercato, è il dubbio che rimane sulla reale identità del protagonista, un diciottenne cacciato da scuola e mandato per punizione dalla madre sulla nave pirata di Radio Rock, spunto narrativo che già mette in chiaro che siamo nell’irrealtà pura. Il film è ruffiano, abbastanza ritmato, colorato e nostalgico come sanno essere gli inglesi. E nella storia che diventa farsa, ognuno di noi può trovare una scintilla che gli faccia battere ancora il cuore per il rock. No, forse no… ma adesso – scusate – torno a vedermi Heidi. (Dvd; 26/5/2010)

ddv6912777 – Lo splendido Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, Italia 2005
Seratina dedicata al cine divanato, anche se stasera sarei pure uscito, ma avevo la spina dorsale ridotta come i pezzi del Jenga e il culo rotto, color dell’arcobaleno come quello dei babbuini: non posso negare che la bicicletta abbia effetti immediati sulla tua salute. A Barbara un po’ timorosa propongo un film che è diventato qualche anno fa un piccolo caso, grazie alla pervicacia del cinema Mexico di Milano che ha insistito a proiettarlo per mesi, finché il passaparola e qualche critico sveglio (ci sono) ne hanno sancito la consacrazione. Io rimandavo e per vederlo in sala ho fatto troppo tardi. Il Dvd è il giusto rimedio e confermo: Il vento fa il suo giro è realmente un piccolo capolavoro, umile, pulito, senza sbavature. Un film che se l’avesse fatto un macedone, i critici onanisti si sarebbero strappati le vesti. Mentre siccome lo dava una piccola sala indipendente: boh, roba da studenti pulciosi, troppo poco glamour. E invece questo apologo sull’egoismo e sulla morte della comunità umana è molto più politico (e al contempo poetico) di tanto cinema finto-impegnato, zeppo di proclami ma senza un’idea al di là degli slogan. Qui si racconta cosa sia il leghismo senza mai dire la parola Lega, come riemerga quel fascismo interiore sempre vigile nell’italiano medio, attaccato al denaro e alla paura che un diverso te lo porti via. Succede in due ore che vanno via come un siluro. Attori dalle facce interessanti, montaggio coerente e fotografia digitale ottima, con una propria qualità cromatica non da poco. La dignità produttiva è dovuta – oltre che all’intelligenza della regia – anche all’aiuto di tantissimi, debitamente ringraziati a fine pellicola (spicca un grazie “per la Kangoo bianca”). Ovviamente il film non ha vinto un David di Donatello perché al posto di vedere un’opera degna come questa, chi votava era in terrazza a spartirsi futuri finanziamenti e bersi un drink, ché i premi, tanto, erano già spartiti. Addavenì la Rivoluzione Culturale, quella cattiva, però. (Dvd; 31/5/10)

(Continua – 69)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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