Palestina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il tempo del genocidio https://www.carmillaonline.com/2024/11/15/il-tempo-del-genocidio/ Fri, 15 Nov 2024 22:40:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85392 di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente [...]]]> di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente giusto. 

Allo stesso tempo leggere il contributo di Samah ci rende ancor di più consapevoli del fatto che la solidarietà internazionale verso i palestinesi è quanto mai necessaria ed indispensabile; che la solidarietà verso il popolo palestinese è terapeutica  per tutti noi, è un imperativo morale ed etico, che la loro resistenza  è sostegno ed aiuto anche per noi, e coniugare questi due aspetti può essere un percorso proficuo per mettere fine alla più lunga e sanguinosa occupazione attualmente in corso, la solidarietà rende i palestinesi consapevoli del non sentirsi soli.

La solidarietà ha un potere curativo reciproco.  L’essere impegnata nel campo della psichiatria, Samah dirige l’unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese, fa sì che quanto descritto sia inserito in un contesto storico di quanto avviene. Se vi è ancora bisogno di capire che quanto ci viene raccontato dalla propaganda di guerra: “tutto è iniziato il 7 ottobre” è pura demagogia utile solo a far schierare l’opinione pubblica a sostegno dell’entità sionista delle complicità occidentali, leggere “Il tempo del genocidio” ci permette, con una descrizione lucida, di valorizzare ulteriormente il perché ci schieriamo da una parte, quella di chi non accetta di vivere da schiavi e si ribella, nonostante che Gaza venga lasciata morire. Poco sopra dicevo della sua descrizione lucida, ma mi sento di aggiungere che niente concede. Lei, del ministero della sanità palestinese, non si sottrae, con un notevole pensiero critico, al criticare quanto di negativo si annidi all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, dall’illusione degli accordi di Oslo alla conseguente delusione,  e del vivere quotidiano in Palestina, con il patriarcato, il sessismo, andando al di là dell’occupazione. Un popolo, quello palestinese, che è stretto tra il sopravvivere e la resa all’oppressore. Samah è ben cosciente del suo contributo alla lotta di liberazione e del volerne dare mano.

Samah ci rende chiaro, in tutto e per tutto, cosa significhi Gaza: una prigione a cielo aperto con le sue infrastrutture deteriorate, le strade distrutte, gli spazi abitativi sovraffollati, la povertà, l’anemia, l’insicurezza alimentare, l’assenza di carburante, di elettricità, di assistenza sanitaria, dove dire: “non ci sono luoghi sicuri” è la normalità e nei volti di chi sta sopravvivendo è fotografata la schiavitù moderna, dove si va accentuando il consumo di droghe e l’abbandono scolastico con tutto ciò che comporta, i suicidi in aumento e la perdita di un positivo desiderio tra i giovani. Samah usa la lente della psichiatria per leggere lo stato d’animo degli oppressi, mette mano a Fanon, entra dentro i meandri della salute fisica e mentale dei palestinesi, quello che i palestinesi vivono è un trauma psicologico e collettivo che è il risultato di decenni di oppressione, di violenza, umiliazione, ingiustizia. Detto questo, ovviamente  Samah non può non riconoscersi nel diritto di un popolo occupato a resistere. Un diritto sia legale dal punto di vista della legge internazionale e sia un diritto umano basilare, perché dove c’è oppressione ci sarà sempre resistenza. A proposito di resistenza, Samah evidenzia il significato dello sciopero della fame portato avanti dai prigionieri politici palestinesi come ultimo tentativo di opporsi alla sopraffazione.

L’aspetto che più dobbiamo far emergere dalla lettura di queste pagine, e lo vediamo in questi lunghissimi mesi, è che i palestinesi non si considerano assolutamente vittime ma soggetti attivi e combattenti per la libertà, terminologia che piacerà sicuramente agli statunitensi come il passato ci insegna. Quanto avviene in Palestina non è la «guerra» che ci viene propinata, ma bensì la guerra alla storia palestinese, è parte della guerra alle menti, la continua, e per certi versi silenziosa pulizia etnica per riscrivere la storia. Non è un caso che l’occupazione scelga di distruggere i simboli  che sono psicologicamente importanti per la resistenza e la memoria collettiva, in un odioso tentativo di memoricidio.

Ma l’occupazione non fa uso solo di questo; la fame come arma di guerra; la distruzione delle infrastrutture essenziali, del sistema sanitario, la carestia per compromettere lo sviluppo mentale e fisico dei bambini, le sepolture negate come arma psicologica per immettere una sensazione di impotenza in coloro i quali la subiscono, il sopravvivere che se può sembrare un qualcosa di positivo, in realtà è un qualcosa che trasmette profondo disagio psicologico; la tortura, attraverso le finte fucilazioni, la detenzione in condizioni umilianti e degradanti, la privazione del sonno ecc … con i traumi fisici e psicologici che trasmette per spezzare la resistenza  e creare impotenza,  far perdere la stima di sé e creare un clima di diffidenza all’interno della comunità di appartenenza, il bendare gli occhi non solo per non identificare i torturatori ma come deprivazione sensoriale creando, così, gravi problemi di salute mentale e conseguenze traumatiche de umanizzando la vittima; le punizioni collettive privando la popolazione dei beni di prima necessità.

Quanti immagini abbiamo visto in questi mesi che ritraggono gli occupanti in modalità festeggiante dopo aver compiuto molteplici nefandezze, ebbene non siamo in presenza di killer psicopatici ma bensì di chi prova piacere e/o gratificazione psicologica nel dare ad altri dolore e/o sofferenza. All’inizio abbiamo parlato del 7 ottobre, non potevamo non farlo visto il continuo, assillante martellante, propinare la narrazione di quel fatto; ma se vogliamo dare una corretta lettura di quei fatti, perché non dire che si è passati dall’umiliazione alla vendetta contro tutto ciò che è palestinese. Certo l’esempio è palestinese, ma la lezione non può che essere globale. Quanto avviene in Palestina è una lotta che non potrà che proseguire fino a quando la Palestina non sarà libera ed arrivare a far sì che le tendenze sadiche dell’occupante siano rimosse e trionfi l’umanità di coloro che lottano per la liberazione.

 

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Laboratorio Palestina https://www.carmillaonline.com/2024/09/30/laboratorio-palestina/ Mon, 30 Sep 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84660 di Nico Maccentelli

Laboratorio Palestina di Antony Loewenstein, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo

Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi [...]]]> di Nico Maccentelli

Laboratorio Palestina di Antony Loewenstein, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo

Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.

E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a dominanza USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.

Fatte queste premesse, ora posso iniziare a parlare di questo libro fondamentale per chi voglia non solo comprendere cosa sia diventato lungo tutti questi decenni Israele, ma anche la forte correlazione con il militarismo bellicista occidentale e le sue tecnologie di guerra, come di controllo e sorveglianza sulle popolazioni in funzione di prevenzione controrivoluzionaria.

Di quest’opera, scrive su Haaretz Gideon Levy (e che abbiamo a commento in retrocopertina), giornalista e massimo oppositore della politica d’apartheid dei governi sionisti di estrema destra del suo stesso paese:
“Un libro ammirevole, documentato e basato su prove sul lato meno conosciuto dell’occupazione. Fornisce un ritratto di Israele, uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo, che commercia in morte e sofferenza e le vende a chiunque le voglia comprarle.” Qui le specifiche del libro e una spiegazine sintetica data dalla casa editrice.

La prefazione è di Moni Ovadia, nella quale osserva:
“Oggi l’opera di Antony Loewenstein (…) illumina un aspetto parallelo consustanziale della pratica sionista: la ripulsa dei grandi valori etici, spirituali e universalistici dell’ebraismo, per imboccare il cammino idolatrico della forza, della prepotenza, di un nazionalismo fanatico, dell’idolatria della terra.” E definisce il sionismo: “ … un progetto colonialista di impianto etnonazionalista che ha sempre mirato a cancellare l’identità palestinese.”
E tornando alla prima premessa della mia recensione, chi si batte per il popolo palestinese è ben conscio che ci sono nel mondo associazioni ebraiche e intellettuali ebrei che si oppongono in vari modi al sionismo razzista delle classi dirigenti estremiste israeliane. E questo ci porta a iniziare inquadrando l’autore, che sicuramente appartiene a questa opposizione ebraica.

Antony Loewenstein è un ebreo cresciuto a Melbourne, in Australia, “… dove il sostegno a Israele”, scrive, “ senza essere una religione imposta, era dato per scontato” (1). I suoi nonni erano arrivati in Australia fuggendo dalla Germania e Austria naziste nel 1939.
Ha preso coscienza di cosa fosse Israele andando in Palestina. E la sua ricerca ha preso corpo con analisi e dovizia di dettagli sulla macchina bellica e tecnologica sulle armi e i dispositivi repressivi dell’entità sionista. Ne fa anzitutto la storia, partendo dall’ideologia sionista che non va confusa con l’ebraismo, anche se la prima falsifica la seconda in modo strumentale. È lo stesso padre del sionismo, Theodore Hertzl, menzionato dal Loewenstein, a dare la spiegazione più esauriente della funzione politica di Israele: “… scrisse ne Lo Stato ebraico, il suo influente pamphlet del 1896:«Lì [in Palestina] saremo un settore del muro dell’Europa contro l’Asia, fungeremo da avamposto della civiltà contro la barbarie» (2)
Non ricorda forse, a distanza di 130 anni la definizione data da Borrell sul giardino europeo e la giungla tutto il resto? La logica è la medesima ed è esattamente il suprematismo di cui si nutrono le élite dominanti in Occidente e spiega in parte la mia seconda premessa sul piano ideologico.

La tecnologia militare israeliana ha supportato e supporta con la vendita di armi e istruttori militari i peggiori regimi totalitari: il Guatemala di Rios Montt, El Salvador, Colombia, Haiti dei Doc padre e figlio, Birmania dei militari, Paraguay (che aveva dato per altro rifugio a Mengele! pecunia non olet), il Cile di Pinochet, il Nicaragua di Somoza e altri, la lista è lunga, tanto che Loewenstein scrive: “Il “Sud globale” è stato e controllato e pacificato con le armi (principalmente) israeliane e statunitensi. Né che l’antisemitismo né l’estremismo hanno impedito la collaborazione con Stati che depredano le risorse o le persone. A distanza di decenni dalla sua creazione, questo sistema di collusione è ancora in piedi e opera senza problemi. Niente ha mai ostacolato seriamente lo sviluppo, né durante la guerra fredda né nel contesto dopo l’11 settembre 2001.” (3)

Scrive Loewenstein: “Chiaramente Israele desiderava essere un complice compiacente negli obiettivi di dominio di Washington nell’America Centrale degli anni Ottanta. Un ministro israeliano dell’Economia, Yaakov Meridor, nei primi anni del decennio disse che Israele voleva essere un mandatario degli interessi statunitensi laddove la superpotenza globale non poteva o era restia a vendere armi direttamente. «Noi diremo agli americani : non fateci concorrenza nei Caraibi o in altri posti dove non potete vendere armi direttamente. Lasciate che lo facciamo noi. […] Israele sarà il vostro intermediario.” (4)

L’attività di ricerca e produzione riguarda le armi in senso classico, sempre più sofisticate, ma anche la cybersicurezza e tutte quelle tecniche del controllo sociale e sulle persone. Lascio ai lettori la copiosa documentazione di quest’opera. Mi limito a fare un paio di considerazioni che non possono sfuggire o essere sottovalutate in chi intende contrastare la guerra interna ed esterna che USA-UE-NATO-Israele stanno conducendo nei vari quadranti e al proprio interno.

Israele si vanta in campo pubblicitario vero e proprio dell’efficacia dei suoi prodotti, avendoli sperimentati sui campi di battaglia, come sosteneva David Ivri, che è stato direttore generale del ministero della difesa israeliano (5) Questo aspetto non è secondario: la migliore promozione delle tecnologie belliche e cyber israeliane è la sperimentazione sul campo sulle popolazioni, le persone in genere, in una sorta di mengelismo a fini di profitto e di sostegno al dominio Occidentale.

Foto tratta da Infopal: www.infopal.it

La prima considerazione è nella “sorveglianza di massa israeliana”, ossia nel trattare in particolare e con un certo piglio scientifico da laboratorio-lager il popolo palestinese in Cisgiordania. Infatti lo spezzettamento del territorio che dovrebbe essere secondo risoluzioni ONU di pertinenza dell’Autorità Palestinese, non è solo al servizio di un’inarrestabile colonizzazione da insediamento, ma è funzionale alla sperimentazione e applicazione di tecnologie del controllo e della sorveglianza, molte delle quali in modalità soft e molto meno invasiva, ci ritroviamo anche nei nostri territori. Colonizzazione, controllo in loco ed export di metodologie, applicativi cyber, dispositivi d’ogni tipo integrati tra loro trasudano sangue e sofferenza palestinesi.

La cyber “sicurezza” israeliana, di cui Pegasus della NSO Group, società di cybersorveglianza è emblematica di come le aziende high tech israeliane siano alla base sia della sorveglianza nell’apartheid in Palestina, ma anche nell’export verso altri stati alleati di queste tecnologie del controllo a fini di spionaggio, e terrorismo, come si è visto nell’attacco ai dispositivi cerca persone in Libano a metà settembre. Uno stato canaglia come Israele che disprezza ogni risoluzione ONU, che compie massacri indiscriminati sui civili, da Gaza al sud del Libano, ha in mano e su questo collabora con gli USA, con MOSSAD e CIA insieme (6), ha il potere di condizionare le politiche per esempio di stati africani che acquistano i sistemi di sorveglianza israeliani e in cambio assicurano il loro voto in sede ONU (7).

Lowenstein scrive (8): “Il whistleblower dell’NSA Edward Snowden definisce NSO e altre aziende simili «l’industria dell’insicurezza». Ci v giù duro:
«Il telefono nelle vostre mani esiste in uno stato di perpetua insicurezza, aperto a infezioni a opera di chiunque sia disposto a investire in questa nuova “industria dell’insicurezza”. I suoi affari consistono nell’inventare nuovi tipi di infezioni capaci di aggirare i più recenti vaccini digitali – noti anche come aggiornamenti di sicurezza – per poi venderli paesi che occupano l’intersezione incandescente di un diagramma di Venn tra «desidera disperatamente gli strumenti dell’oppressione» e «Gli manca totalmente la capacità avanzata di produrli al proprio interno». Un’industria così , il cui unico obiettivo è la produzione di vulnerabilità andrebbe smantellata.»

E infatti Pegasus, scrive Lowenstein lo ritroviamo anche nell’intreccio tra stato messicano e organizzazioni criminali, come accaduto a Griselda Triana, giornalista, attivista dei diritti umani e moglie di Javier Valdes Cardenas, assassinato dal cartello di Sinaloa per l’attività del suo settimanale ch indagava su corruzione e criminalità legata al traffico di droga (9). Triana dopo la morte del marito è stata spiata attraverso Pegasus e lo stato messicano non ha mai voluto dare spiegazioni in merito, del perché queste attenzioni nei confronti di una cittadina non certo pericolosa per le autorità messicane. O forse sì…

Nel capitolo 7. “le società dei social media non amano i palestinesi”, diviene chiaro come Meta (Facebook, ecc.) censurino tutto ciò che proviene dalla Palestina e che sia critico verso Israele, emerge la collaborazione tra colossi social e l’Unità Cyber sionista, che ha carta bianca dalla Corte Suprema israeliana per operare dietro le quinte e di tenere dietro le quinte rapporti segreti con società come Meta (10). La scusa “di prevenire atti di violenza” suona piuttosto ironica, se consideriamo la sproporzione in termini di violenza tra uno stato genocida e avvezzo alla pulizia etnica e una Resistenza esistenziale da parte di un popolo. Dunque non solo gli stati in capo al dominio USA, ma anche le multinazionali dei vari settori (in questo caso i tecnologici della comunicazione) cooperano attivamente con Israele, secondo il fine posto nella mia seconda premessa.

Sappiamo benissimo come la censura su Facebook operi in modo sistematico anche sui nostri account. Su questo tema non sono riuscito a spiegare a un “compagno”, tra l’altro con la professione legata alla comunicazione (illustratore, ma tant’è…), che infestando la mia bacheca sosteneva che se non voglio essere censurato basta solo che non usi Facebook (sic!), che il fatto di censurare e filtrare a milioni di persone le notizie spacciando le critiche per fake news, significa che dei grandi privati per conto dei governi imperialisti controllano l’opinione pubblica mondiale. A questo punto è arrivata certa inconsapevolezza.

Ma possiamo dire con una certa e documentata da Loewenstein ragione, che gli apparati scientifici e di ricerca (quelli che vedono la collaborazione delle nostre università con quelle israeliane), quelli militari e industriali sono parte di una enorme e ramificata rete di controllo e gestione nel mondo di ogni ambito con cui la sovrastruttura di potere dell’imperialismo si regge: delle tecnologie di guerra alla produzione di armi, alla produzione di sistemi di sorveglianza e spionaggio, alle comunicazioni e al controllo selettivo della rete, in una sorta di marketing totalizzante e goebbelsiano sulla pubblica opinione occidentale.
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E qui arriviamo alla questione finale, che dà il sottotitolo di questo libro: Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo. Non mi soffermerò sulla parte che riguarda il controllo e la sorveglianza sionista sul popolo palestinese: dai tornelli alla biometria, dalle banche dati alle attività di spionaggio elettronico, alla selettività discriminatoria su milioni di cittadini che ogni giorno devo attraversare i check point israeliani per andare a lavorare o all’ospedale, con restrizioni nei movimenti nel territorio. Un incubo. Tanto che lo stesso Ovadia, sempre nella sua prefazione inquadra questo aspetto ben documentato da Loewenstein:
“I governi sionisti scelgono la cultura delle armi più distruttive, delle più sofisticate tecnologie militari e di spionaggio sperimentate nel laboratorio Palestina per dominare, opprimere e terrorizzare il popolo più solo del mondo e sterminare migliaia di donne e bambini…”

Voglio solo osservare come queste tecnologie si estendono anche nei nostri territori. Il periodo pandemico ha ben dimostrato di essere terreno di sperimentazione sul controllo e la sorveglianza di un’intera popolazione. L’Italia è stato forse il laboratorio più avanzato di queste tecniche.
Premialità e discriminazione anche solo per verificare la virtù in un condominio o nel fare la differenziata, sono solo un piccolo assaggio delle potenzialità che il sistema di potere capitalistico, i suoi apparati possono mettere in opera quando e come vogliono, oltre ogni immaginazione distopica. Gran parte di queste metodologie e tecnologie portano il simbolo della Stella di David e sono state sperimentate sulla pelle del popolo palestinese.

Qualcuno per esempio può vedere l’agenda 2030 “per lo sviluppo sostenibile” messo in cantiere dall’ONU(11) come un programma virtuoso, così come la città dei 15 minuti. Ma se ben lo guardiamo, il 1984 di Orwell è dietro l’angolo. Le limitazioni di movimento nello spazio urbano, l’obbligatorietà di azioni da compiere nella vita quotidiana sono l’ultima frontiera di un capitalismo che ci riduce a palestinesi che devono solo lavorare, consumare e crepare.

Il saggio di Loewenstein aggiunge un importante tassello nel darci il quadro di questa proiezione autoritaria globale, perché il tassello sionista è parte integrante e imprescindibile di tutte le pratiche totalitarie che l’Occidente (e non solo) sta mettendo in opera per contrastare l’altra parte del mondo, quella dell’80% che si sta affermando con il multipolarismo. Ma i rischi non sono solo in Occidente unipolare: ogni classe dominante, anche nel nome di nobili ideali collettivistici nasconde sul piano della più neutra tecnologia una volontà di dominio sulla popolazione. E questo potrà accadere finché esisteranno classi al potere (che siano composte da grandi privati, o burocrazie di stato, o un loro mix) e classi subalterne nel sistema mondo della riproduzione sociale capitalistica.

NOTE:

1. Laboratorio Palestina, pag. 7

2. Ibidem pag. 44

3. Ibidem pag. 43

4. Ibidem pag. 54

5. Ibidem pag. 40

6. Ibidem pag. 185

7. Ibidem pag. 186

8. Ibidem pag. 187

9. Ibidem pag. 184

10. Ibidem pag 234

11. Qui e qui .

Inoltre:

Per approfondire l’Agenda 2030, due contributi di Enzo Pennetta, docente di scienze naturali:
https://www.youtube.com/watch?v=LL3e6vHbLxI
https://www.youtube.com/watch?v=eSD3tc5UGyc

Infine, qui un’analisi di Manlio Dinucci sulla strategia del terrore israeliano, dove la copiosa documentazione di Loewenstein trova riscontro a partire dal prima citato episodio dell’attacco esplosivo a Hezbollah per mezzo dei cercapersone: una preparazione di anni (che quindi nulla c’entra con l’attuale escalation, ma molto con la vocazione terroristica dell’entità sionista) con sofisticate tecnologie, con l’uso di aziende fittizie create apposta e di prestanome, con un lavoro dei servizi di intelligence che facciamo fatica a pensare che siano limitati al solo Mossad.

(Apprendo in questo momento, in cui sto predisponendo questo articolo alla pubblicazione, dell’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah insieme a svariati comandanti della resistenza libanese in riunione nel quartier generale a seguito di un attacco terroristico di Israele che, neanche a dirlo, ancora una volta viola ogni regola riconosciuta a livello internazionale.)

Sergej Lavrov, ministro degli affari esteri della Federazione Russa ha definito “disumano l’attacco di Israele al Libano mediante l’uso di dispositivi mobili esplosivi” e ha sollecitato un’indagine. Inoltre ha dichiarato che “Gli Stati Uniti erano a conoscenza dei preparativi di Israele per l’attacco con dispositivi mobili esplosivi in ​​Libano” (fonte: l’Antidiplomatico).

Israele, con il suo governo di terroristi assassini e genocidi, e con il pieno appoggio degli USA e dei suoi ignobili vassalli, tra cui il protettorato, come definirlo, il bantustan italiano, ci sta portando dritti alla terza guerra mondiale.

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Palestina. Le verità confortevoli https://www.carmillaonline.com/2024/09/14/palestina-le-verita-confortevoli/ Fri, 13 Sep 2024 22:07:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84341 di Marco Sommariva

In questo periodo in cui si parla molto di Palestina e Israele, più volte mi sono chiesto cos’ho capito di questo conflitto. La prima risposta che mi son dato è stata “scrivine”, e questo perché non riesco a capire esattamente cos’ho in testa finché non la scrivo. La seconda risposta è stata più che altro una raccomandazione: fai attenzione a non essere l’eco di cose già dette, magari già echi a loro volta di qualcos’altro. In poche parole, ho ragionato sull’argomento con la stessa logica con cui ragiono su tutto, non in base a cosa mi si sta raccontando [...]]]> di Marco Sommariva

In questo periodo in cui si parla molto di Palestina e Israele, più volte mi sono chiesto cos’ho capito di questo conflitto. La prima risposta che mi son dato è stata “scrivine”, e questo perché non riesco a capire esattamente cos’ho in testa finché non la scrivo. La seconda risposta è stata più che altro una raccomandazione: fai attenzione a non essere l’eco di cose già dette, magari già echi a loro volta di qualcos’altro. In poche parole, ho ragionato sull’argomento con la stessa logica con cui ragiono su tutto, non in base a cosa mi si sta raccontando nel momento in cui i riflettori sono puntati sugli avvenimenti, ma in funzione di cosa mi hanno trasmesso e insegnato le mie letture passate, i miei libri; questo, anche perché sono convinto che, come ho letto da qualche parte, i libri sono in grado di tirarci fuori dai nostri bunker di verità confortevoli, da quel pozzo di fortuna che ogni tanto risaliamo e che ci permette di sbirciare nell’inferno degli altri senza mai sentire la puzza di morte, per poi tornare sul fondo da cui siamo emersi senza neppure uno schizzo di sangue sulla camicia perfettamente stirata. E questo sbirciare nell’inferno degli altri, per poi magari sentenziare sulla base di alcuni fotogrammi che da qualche parte s’è deciso di darci in pasto, è uno sport in cui si registrano sempre più partecipanti; forse perché, come ha scritto lo scrittore israeliano David Grossman in Caduto fuori dal tempo, “Che c’è di più eccitante dell’inferno degli altri, dimmi? E poi sarai d’accordo con me che un dolore di seconda mano è preferibile a uno di prima mano.”

E così, cercando di non farmi influenzare troppo da immagini, video e resoconti dove regnano dolore, sangue e lacrime, in cui s’incontrano solo cadaveri e mai un sorriso, faccio mente locale e cerco nella mia memoria un aiuto per fare un minimo di ordine su questo conflitto.

Non ci metto molto a raggranellare qualche titolo letto in passato che, in un modo o nell’altro, sia in grado di darmi elementi su cui soffermarmi un po’; per l’esattezza, sono tre i libri che mi sono venuti in mente. Ma prima di parlarne, ho bisogno d’inchiodare sulla pagina una frase che già mi ronza in testa, riportata in Giuda da un altro scrittore israeliano, Amoz Oz: “Chaim Weizmann ha detto una volta, per disperazione, che uno stato ebraico non sarebbe mai potuto sorgere perché sarebbe stata una contraddizione: se fosse sorto uno stato, non sarebbe stato ebraico, e se fosse stato ebraico non sarebbe potuto essere uno stato.”

Si tenga conto che, fra le altre cose, di Chaim Weizmann la Treccani riporta: “Partecipò attivamente al movimento sionistico: durante la prima guerra mondiale indusse il governo britannico a sostenere il programma del sionismo, ottenendo (1917) da A. J. Balfour […] la dichiarazione in favore dell’insediamento degli Ebrei in Palestina; fu poi presidente dell’organizzazione sionistica (1920) […]. È stato presidente dello Stato di Israele (1948-52).” (https://www.treccani.it/enciclopedia/chaim-weizmann/)

Fissato quanto sopra, procedo.

Il primo libro che mi viene in mente è del 1962, s’intitola Il giardino dei Finzi-Contini ed è un romanzo di Giorgio Bassani, da cui Vittorio De Sica trasse un film che nel 1972 vinse l’Oscar come miglior film straniero e alla cui sceneggiatura lavorò lo stesso Bassani.

L’io narrante è un ebreo di famiglia borghese, che ci guida fra i suoi ricordi di quando incontrava i due figli dei Finzi-Contini – l’introverso Alberto e la sfuggente Micol – resi quasi irraggiungibili dal divario sociale: i ragazzi appartengono a una ricchissima famiglia ebrea che non si rapporta granché con gli altri israeliti della comunità di Ferrara. Saranno le leggi razziali fasciste emanate in Italia dal 1938 in poi, ad avvicinare i tre giovani che, spesso, s’incontreranno nei dieci ettari del magnifico giardino di casa Finzi-Contini. Di questo romanzo mi piace ricordare due passaggi in particolare: il primo, è quello dove si tirano le orecchie a governi europei un poco distratti, perché ritengo che una discreta voluta “distrazione”, se così si può chiamare, caratterizzi anche alcuni governi europei di oggi: “[…] soltanto la Russia aveva capito fin dall’inizio chi fossero il Duce e il Fuhrer, lei sola aveva previsto con chiarezza l’inevitabile intesa dei due, e agito per tempo di conseguenza. Le destre francesi e inglesi, al contrario, sovversive dell’ordine democratico come tutte le destre di tutti i paesi e di tutti i tempi, avevano sempre guardato all’Italia fascista e alla Germania nazista con malcelata simpatia. Ai reazionari di Francia e d’Inghilterra il Duce e il Fuhrer potevano sembrare dei tipi certo un po’ scomodi, un tantino maleducati e eccessivi, però da preferirsi sotto ogni aspetto a Stalin, giacché Stalin, si sa, era sempre stato il diavolo”; il secondo, è quello in cui si citano alcune misure pratiche applicate contro gli ebrei, fra cui l’esclusione di ogni giovane da tutte le scuole statali di qualsivoglia ordine e grado, perché mi sono venuti in mente tutti gli edifici scolastici rasi al suolo a Gaza in questi ultimi mesi, che impediranno a bambini e ragazzi palestinesi di frequentare la scuola, d’incontrarsi, relazionarsi, fare amicizia, che saranno esclusi dalla cultura, dalla crescita interiore, che saranno costretti a sopportare la disperazione come unica compagna di banco e l’esplosione delle bombe a scandire le ore di lezione al posto della consueta campanella: “lo scorso 22 settembre, dopo il primo annuncio ufficiale del 9, tutti i giornali avevano pubblicato quella tale circolare aggiuntiva del Segretario del Partito che parlava di varie ‘misure pratiche’ di cui le Federazioni provinciali avrebbero dovuto curare l’immediata applicazione nei nostri riguardi. In futuro, ‘fermi restando il divieto dei matrimoni misti, l’esclusione di ogni giovane, riconosciuto come appartenente alla razza ebraica, da tutte le scuole statali di qualsivoglia ordine e grado’, nonché la dispensa, per gli stessi, dall’obbligo ‘altamente onorifico’ del servizio militare, noi ‘giudei’ non avremmo potuto inserire necrologi nei quotidiani, figurare nel libro dei telefoni, tenere domestiche di razza ariana, frequentare ‘circoli ricreativi’ di nessun genere”.

Mi piace ricordare che Bassani nacque a Bologna nel 1916, da una benestante famiglia ebraica originaria di Ferrara e che è sepolto proprio a Ferrara, nel cimitero ebraico, per sua esplicita volontà testamentaria.

Il secondo libro che mi viene in mente è del 1971, s’intitola L’amico ritrovato ed è il romanzo di Fred Uhlman ambientato nel 1933 in Germania, in cui si narra di una bella amicizia fra due sedicenni – uno figlio di un medico ebreo, l’altro di una ricca famiglia aristocratica – che frequentano la stessa scuola esclusiva. Nonostante i numerosi passaggi interessanti, come per il romanzo di Bassani mi limito a riportarne soltanto due: il primo, è quello dove un ebreo ironizza sull’insensata idea che un italiano dell’epoca potesse rivendicare diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai Romani e, anche se so che rischio di offendere la vostra intelligenza, spiego che la scelta di questo stralcio è avvenuta ripensando a dove hanno origine certe pretese di alcuni israeliani: “Ricordo ancora un’accanita discussione tra mio padre e un sionista incaricato di raccogliere fondi per Israele. Mio padre detestava il sionismo, che giudicava pura follia. La pretesa di riprendersi la Palestina dopo duemila anni gli sembrava altrettanto insensata che se gli italiani avessero accampato dei diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai romani. Era un proposito che avrebbe provocato solo immani spargimenti di sangue, perché gli ebrei si sarebbero scontrati con tutto il mondo arabo”; il secondo, è quello in cui lo stesso personaggio idealista di prima afferma che il nazismo e i suoi orrori non sono altro che una malattia passeggera e che nessuno si lascerà abbindolare da certe sciocchezze, che è un po’ quello che mi è parso di capire in questi ultimi mesi quando, in certe esternazioni, non si negano totalmente orrori perpetrati da ottobre dell’anno scorso sui territori palestinesi aggiungendo che, al momento, non c’è altra scelta, ma che il tutto terminerà quando il governo del Signor Netanyahu avrà raggiunto il proprio obiettivo, insomma, che è una situazione passeggera, benché a me sia parso di cogliere una leggerissima differenza, quella che di abbindolati da certe sciocchezze, oggi, se ne vedano in giro un bel po’: “Quando il sionista accennò ad Hitler, chiedendogli se il nazismo non gli facesse paura, mio padre rispose: Per niente. Conosco la mia Germania. Non è che una malattia passeggera, qualcosa di simile al morbillo, che passerà non appena la situazione economica accennerà a migliorare. Lei crede che i compatrioti di Goethe e di Schiller, di Kant e di Beethoven si lasceranno abbindolare da queste sciocchezze? Come osa offendere la memoria dei dodicimila ebrei che hanno dato la vita per questo paese?”

Ancora una cosa, dall’introduzione di Arthur Koestler a L’amico ritrovato: “Centinaia di grossi volumi sono stati scritti sul tempo in cui i corpi venivano trasformati in sapone per mantenere pura la razza ariana, tuttavia credo sinceramente che questo smilzo volumetto troverà una sua collocazione duratura negli scaffali delle librerie”. Mi piace ricordare che Uhlman nacque a Stoccarda nel 1901, da una prospera famiglia ebrea.

Il terzo libro che mi viene in mente è del 2006, s’intitola Ogni mattina a Jenin ed è stato scritto da Susan Abulhawa; l’autrice ci racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”, a iniziare dall’abbandono delle case di ‘Ain Hod nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Come per i precedenti titoli, mi limito a riportare soltanto due passaggi: il primo, è quello dove si fa la conta di quante generazioni di palestinesi vengono spazzate via a partire dal 1948 – anno in cui ebbe inizio l’esodo forzato dei palestinesi, conosciuto come Nakba, letteralmente “catastrofe” – perché a quelle generazioni, bisognerà sommare quelle di oggi: “Fu così che, otto secoli dopo la sua fondazione ad opera di un generale dell’esercito del Saladino, nel 1189 d.C., a ‘Ain Hod non si videro più bambini palestinesi. Yehya cercò di calcolare il numero di generazioni che erano vissute e morte nel villaggio e arrivò a quaranta. […] quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbe proclamato – con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino – retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo”. Il secondo, è quello in cui si spiega che alcuni piatti tradizionali ebraici non sono ebraici, che alcune antiche dimore ebraiche non sono ebraiche, che antichi manufatti ebraici non sono ebraici, che persino alcuni frutti che hanno reso famosi gli ebrei, storicamente, non appartengono a loro, ma stavolta la vostra intelligenza non la offenderò perché mi pare si colga facilmente la volontà di riscrivere un po’ tutto, soprattutto la Storia: “Guardò in silenzio le prove di quello che gli israeliani sapevano già, e cioè che la loro storia era sorta sulle ossa e sulle tradizioni dei palestinesi. Quegli uomini arrivati dall’Europa non conoscevano né l’hummus né i falafel, ma li proclamarono ‘piatti tradizionali ebraici’. Rivendicarono le ville di Qatamon come ‘antiche dimore ebraiche’. Non avevano vecchie fotografie o disegni dei loro avi che vivevano su quella terra, amandola e coltivandola. Arrivarono da nazioni straniere e dissotterrarono dal suolo palestinese monete dei cananei, dei romani, degli ottomani che poi vendettero come se fossero ‘antichi manufatti ebraici’. Vennero a Giaffa e trovarono arance grosse come angurie, e dissero: ‘Guardate! Gli ebrei sono famosi per le loro arance’. Ma quelle arance erano il risultato di secoli e secoli durante i quali i contadini palestinesi avevano perfezionato l’arte di coltivare gli agrumi”. Chiedo scusa se non mantengo la parola data e aggiungo un terzo passaggio del libro, questo: “i palestinesi avevano pagato il prezzo dell’Olocausto ebreo”.

Mi piace ricordare che Abulhawa è nata nel 1970, da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967, e che è un’attivista per i diritti umani.

Chiuderei citando un altro estratto, secondo me molto toccante, del libro Caduto fuori dal tempo di David Grossman che, ricordando suo figlio ventenne ucciso in guerra da un missile anticarro, scrive: “mio figlio è morto, riconosco la verità di queste parole. È morto, è morto. Ma la sua morte, la sua morte non è morta.” Ma il pezzo non lo chiuderei esattamente qui; mi permetterei di dire che, prendendo spunto dalla frase di prima, riconosco la verità di numeri, immagini e notiziari che mi arrivano dalle fonti più diverse per informarmi che gli oltre quarantamila palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani, di cui oltre tredicimila bambini, sono senza dubbio morti, ma sottolineando il fatto che anche in questo caso la loro morte non è morta, e io temo che, a tanti, forse troppi, siano sfuggite le conseguenze che porterà, appunto, il ricordo di questa strage.

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Avanti barbari!/4 – Una precisazione necessaria https://www.carmillaonline.com/2024/08/28/avanti-barbari-4-addenda-1/ Wed, 28 Aug 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84073 di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento [...]]]> di Sandro Moiso

«Voi non sapete cos’è una rivoluzione, se lo sapeste non usereste questa parola. Una rivoluzione è sanguinosa. La rivoluzione è ostile. La rivoluzione non conosce compromessi. La rivoluzione rovescia e distrugge qualsiasi ostacolo trovi sul suo cammino. Chi ha mai sentito parlare di una rivoluzione in cui si incrociano le braccia per cantare We Shall Overcome? Non è quello che si fa durante una rivoluzione. Non avreste il tempo di cantare, poiché sareste troppo impegnati ad impiccare.» (Malcom X, discorso alla King Solomon Baptist Church di Detroit, 10 novembre 1963)

Alcune settimane or sono, nel primo intervento intitolato «Avanti barbari!» dedicato alla recensione di un testo di Louisa Yousfi, sono state fatte alcune affermazioni che, a giudizio di chi scrive, occorre ancora approfondire e chiarire, in tutta la loro reale portata, con una serie di precisazioni. A partire da quella, contenuta nel testo di Amadeo Bordiga del 1951, che «questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà.»

Motivo per cui non vi sarà nessuna continuità tra l’ordine sociale capitalistico e la novella società futura, se questa rifiuterà i fondamenti del primo. Il comunismo non potrà essere in continuità con il capitalismo, poiché, per essere definibile come tale dovrà costituirne la radicale negazione. Infatti, soltanto la rottura dell’ordine sociale, politico ed economico del modo di produzione capitalistico, a partire dalla sua macchina statale, potrà condurre ad un altro ordinamento sociale e produttivo. Destinato a negare radicalmente i valori ordinativi che una interessata interpretazione della Storia ha attribuito a ciò che si intende per civiltà.

Chi continua ad affermare il contrario dimostra soltanto di voler ancora illudere, e illudersi, che la transizione verso il nuovo mondo, non più basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta e accumulata e lo scambio mercantile e monetario, anche del lavoro prestato, possa avvenire senza scosse e senza abolire i pilastri, appena citati, che la fondano fin dalle sue origini.

Un’illusione che porta spesso a credere e sostenere che tale passaggio possa addirittura avvenire in virtù del voto di una maggioranza combattiva, ma anche ben educata e asservita alla mentalità liberale e democratica della partecipazione elettorale e parlamentare. Ma che ha anche giustificato la leggenda del socialismo di stato e del socialismo reale, a partire dall’URSS stalinizzata, in cui salari, moneta, mercato, appropriazione della ricchezza da parte dello Stato e dei suoi apparati politici ed economici avevano continuato a sopravvivere e a svilupparsi sulla pelle e lo sfruttamento di coloro che avrebbero dovuto essere, in teoria, i reali beneficiari della Rivoluzione d’ottobre e delle sue conseguenze: i lavoratori e il proletariato.

Illusioni che giustificano la partecipazione elettorale agli occhi di chi immagina che soltanto piccoli spostamenti dell’asse parlamentare e governativo possano condurre al socialismo e che, sempre in nome di velleitarie democrazie popolari e antifascismo da operetta, possono invece soltanto condurre al rafforzamento del potere del grande capitale sulla società. Come hanno recentemente dimostrato le elezioni francesi, in cui una sinistra vociferantesi radicale ha aiutato il ritorno al centro della scena politica di Emmanuel Macron, sfiancato e sfinito dalle due precedenti tornate elettorali, in nome di un antifascismo istituzionale che non fa altro che rafforzare il fascismo stesso.

E non si tratta nemmeno di porre il proletariato e i suoi rappresentanti al posto della classe borghese, come invece una mal compresa idea di dittatura del proletariato sembra invece suggerire, riaffidando al proletariato la gestione degli “affari nazionali”, dei confini della nazione e dei suoi apparati senza nulla modificare nella sostanza e nella continuità della gestione capitalistica dell’ordine ereditato. Condannandolo a rimanere nei limiti definiti da una riduttiva interpretazione della sua funzione sociale. Mentre nella visione dei fondatori del comunismo moderno la classe oppressa, nel raggiungere i propri obiettivi, dovrà innanzi tutto negare se stessa.

Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità, nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile1.

Il proletariato negli scritti di Marx ed Engels è, prima di tutto, rivoluzionario contro se stesso, contro le proprie forme di esistenza e sopravvivenza impostegli dal Capitale e dai suoi funzionari. Il proletariato è estraneo per forza di cose all’ordine che sarà costretto a distruggere, perché la classe oppressa, che sempre secondo Marx «o lotta o non è», ne è esclusa e non troverebbe alcun vantaggio nel farsi definitivamente integrare nello stesso. Sforzo che tutte le forze opportuniste di sinistra e il fascismo hanno portato avanti nel tentativo di disarmarlo. Il proletariato è dunque barbaro per sua intima essenza, e solo questa barbarie, questa sua estraneità mantenuta e difesa, potrà liberarlo dal giogo dell’oppressione permettendogli di rimanere autenticamente umano.

Lo sforzo di integrazione del proletariato, bianco o internazionale che questo sia, rivendicato da socialdemocratici e liberali costituisce il tentativo di disarmarlo davanti al suo nemico per spingerlo ad accettare le regole del gioco decise dalla classe borghese e dai funzionari del capitale stesso. Un’integrazione in cui l’obiettivo finale è quello di uccidere ed eliminare definitivamente l’intrinseca tendenza alla ribellione compresa nelle condizioni di vita degli oppressi. Sia che si tratti di popoli oppressi e colonizzati, sia che si tratti dei lavoratori salariati, donne e uomini, delle metropoli colonialiste e imperialiste.

Coloro che non l’accettano devono essere per forza definiti “terroristi”, “banditi”, “delinquenti” e allontanati con la forza oppure eliminati fisicamente dal consesso civile. Questo diventa particolarmente visibile là dove popoli oppressi, e privati della possibilità di avere un propria organizzazione politica e militare riconosciuta, vedono definire come “terroristica” qualsiasi loro iniziativa o organizzazione in grado, pur tra mille difficoltà ed errori di valutazione, di mantenere l’iniziativa militare e politica nei confronti dell’oppressore.

Certo, l’ipocrisia borghese e liberale potrà sempre, in seguito, piangere sugli errori, le stragi e i macelli compiuti a danno degli oppressi. Che si tratti della Comune di Parigi oppure dello sterminio dei nativi americani oppure ancora del commercio degli schiavi africani e del mantenimento in condizioni di segregazione dei loro discendenti o ancora di mille altri casi, la commemorazione ex-post e il percuotersi istituzionalmente il petto per gli “errori commessi”, le giornate della memoria fasulle, non impediranno mai che, davanti all’aperta rivolta e azione armata degli oppressi, tutto possa ripetersi, con violenza sempre maggiore e sempre giustificata dalla necessità di difendere dagli estremisti e dai terroristi l’ordine costituito insieme alla libertà e alla democrazia che dovrebbe rappresentare.

Che si tratti di movimenti indipendentisti e anti-coloniali, di Black Panther oppure dell’American Indian Movementi degli anni Settanta o, ancora, dei movimenti di resistenza attuali in Palestina, poco cambia. La risposta sarà sempre la stessa: sangue e violenza senza limiti, giustificati dalla necessità di salvaguardare l’ordine occidentale e bianco, liberale e “democratico” del mondo.

Nel 1821, Nat Turner, che era nato in schiavitù nella contea di Southampton in Virginia, fuggì dalla schiavitù all’età di 21 anni. Circa un mese più tardi, ritornò alla piantagione del suo padrone dopo aver avuto una visione profetica che lo invitava a farlo. Le visioni continuarono mentre egli viveva in schiavitù ma, questa volta, Nat comprese che lo indirizzavano a guidare una rivolta di schiavi. Al fine di vendicarsi sui bianchi per la condizione di schiavitù in cui gli afro-americani erano tenuti. Così, nell’agosto del 1831, dieci anni dopo l’inizio delle sue visioni, Turner iniziò a pianificare la sua rivolta e, con altri schiavi – che raggiunsero al massimo il numero di quaranta – uccise il padrone, la sua famiglia e, nel giro di 48 ore, ogni altro bianco i rivoltosi trovassero sul loro cammino, giungendo ad ucciderne o ferirne circa sessanta. Turner fu catturato, imprigionato e condannato a morte per impiccagione, comprensiva di linciaggio e scorticamento del condannato. Come Randolph Scully ha annotato in Religion and the Making of Nat Turner’s Virginia Baptist Communty and Conflict 1740-1840, l’evento «scosse la confortevole illusione bianca del reciproco rispetto e affetto tra schiavi e proprietari.»2

Quella di Nat Turner è soltanto una delle prime ribellioni di schiavi sul territorio degli Stati Uniti, eppure sembra anticipare tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito e ancora avviene in ogni angolo di un mondo in cui la mannaia della supremazia bianca, travestita da giustizia, cade ancora su chiunque osi ribellarsi al suo sempre più frusto comando.

Che si tratti dei Mau Mau africani degli anni Sessanta del XX secolo, oppure dei piccoli gruppi di nativi che nell’Ottocento fuggivano dalle riserve indiane per portare, per poche ore o pochi giorni, la paura tra coloro che pensavano di averli definitivamente sconfitti o sottomessi, o della rivolta dei sepoy in India nel 1857, quando le truppe indiane della Compagnia delle Indie si ribellarono al dominio inglese, alzarono il vessillo della jihad prendendo il nome di mujahiddin e uccisero gran parte dei cristiani e degli europei di Delhi, la giustificazione per i successivi massacri è sempre stata la stessa: non nata sotto il fascismo, ma dalla stessa esigenza dell’imperialismo liberale di mantenere il proprio comando sugli oppressi in nome della civiltà e dei suoi diritti3, mai radicali e sempre inegualmente distribuiti, secondo linee in cui classe e colore si sovrappongono senza sosta.

Dedicato con affetto, stima e, allo stesso tempo, rabbia per la prematura scomparsa, alla memoria di Emilio Quadrelli, sempre e comunque schierato dalla parte della “zagaglia barbara”.


  1. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  2. Melissa A. Weber, Revolution Rebels: Nat Turner’s Rebellion, 2021.  

  3. Si vedano in proposito: Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Storia dell’Impero britannico, Einaudi editore, Torino 2024 (ed. originale 2022) e, sul tema della nascita del razzismo moderno con l’ordine coloniale imposto al mondo dall’Occidente a partire dal XIX secolo, Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Pratiche editrice, Parma 1992 (ed. originale Black Athena, 1987).  

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E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

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Il racconto di Suaad https://www.carmillaonline.com/2024/07/19/il-racconto-di-suaad/ Fri, 19 Jul 2024 21:55:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83331 di Edoardo Todaro

Suaad Genem; Edizioni Q, 2024, pp. 180; € 17

Scrivere qualcosa a proposito di “ Il racconto di Suaad “ vuol dire non solo ringraziare le Edizioni Q per aver dato alle stampe questa testimonianza, ma vuol dire prendere spunto da quanto la ex prigioniera palestinese descrive per dire qualcosa a proposito del genocidio in atto. Il genocidio portato avanti dall’entità sionista, con la complicità dell’occidente e dei paesi arabi, nei confronti del popolo palestinese. Suaad è stata incarcerata per ben tre volte: 1979; 1983; 1991. Suaad descrive quanto viene subìto da lei e dai tantissimi prigionieri politici palestinesi. [...]]]> di Edoardo Todaro

Suaad Genem; Edizioni Q, 2024, pp. 180; € 17

Scrivere qualcosa a proposito di “ Il racconto di Suaad “ vuol dire non solo ringraziare le Edizioni Q per aver dato alle stampe questa testimonianza, ma vuol dire prendere spunto da quanto la ex prigioniera palestinese descrive per dire qualcosa a proposito del genocidio in atto. Il genocidio portato avanti dall’entità sionista, con la complicità dell’occidente e dei paesi arabi, nei confronti del popolo palestinese. Suaad è stata incarcerata per ben tre volte: 1979; 1983; 1991. Suaad descrive quanto viene subìto da lei e dai tantissimi prigionieri politici palestinesi. Suaad ci mette di fronte a ciò che tantissimi rivoluzionari,da Ho Chi Min a Che Guevara, da George Jackson a Sante Notarnicola, in tutto il mondo, in tante esperienze di liberazione anticoloniale e di lotta per il potere, ci hanno insegnato: le carceri come scuola di formazione politica all’interno del percorso di liberazione nazionale.

Possiamo dire, senza smentita alcuna, che in Palestina non c’è famiglia che non abbia fatto i conti la repressione e con la prigionia e quindi, conseguenza logica, i prigionieri hanno avuto sempre, ed hanno anche ora, un ruolo centrale nella lotta di liberazione. Quanto sta accadendo è sotto gli occhi di tutti: da una parte ospedali bombardati, uomini torturati; deceduti mangiati da animali; la fame come strumento di guerra; dall’altra la resistenza di un popolo che soffre ma non è disperato, che si sostiene grazie allo spirito di resistenza , al senso di unità in difesa di una identità collettiva: politica, culturale, sociale. Un senso di unità che fa sì che non ci sia alcun tipo di vittimismo, ed il dolore verso ciò che sta succedendo diviene resistenza, una lotta di un popolo che ha assunto un carattere universale.

Resistenza che i palestinesi attuano, come, storicamente, hanno fatto tutti i popoli colonizzati. Ma quanto sta accadendo non è opera di un sicario psicopatico; c’è un’entità criminale che sta portando avanti un’opera di annientamento. La solidarietà che in tutto il mondo si esprime dalle facoltà occupate, al blocco dei porti, è un’arma fondamentale per i palestinesi ma anche per tutti coloro che si schierano apertamente contro l’entità sionista e per un vero e proprio boicottaggio dei rapporti diplomatici e commerciali tra questa ed i governi che la sostengono. Detto questo, appena inizi a leggere ti rendi conto di cosa hai tra le mani.” ….. a tutta la mia famiglia, ai combattenti, ai prigionieri ….. “. Suaad ci parla della seconda prigionia, il 1983. Oggi, nel 2024, assistiamo a quello che è già accaduto in passato, pulizia etnica,  città rase al suolo, date alle fiamme; incursioni dell’esercito nelle case. Ma di fronte a questo Suaad ci ricorda che la dignità non può essere comprata e che nella mente di tutti i palestinesi c’è un solo pensiero:  liberare la Palestina,  le sofferenze non potranno fermare il cammino verso la giustizia, non esistono alternative alla lotta, la liberazione della Palestina è solo una questione di tempo, il colonialismo, al di là di quanto potrà durare, è destinato a finire. Suaad ci racconta l’interrogatorio, le pressioni subìte, le molestie sessuali, i programmi sistematici di tortura psicologica; ci racconta la capacità di resistenza attraverso la consapevolezza che la propria resistenza appartiene alla resistenza di tutti, resistere al dolore e non cedere, non dargliela vinta, e che è meglio morire che essere umiliati, perché la morte è un qualcosa che i palestinesi mettono in conto.

Un imperativo categorico guida Suaad: “ tacere, pazientare, resistere “ perché i carcerieri li puoi sconfiggere con la calma e l’indifferenza ed evadere con l’immaginazione, perché “ la Palestina è nelle mie vene, più vicina dei battiti del cuore “. La resistenza di Suaad si concretizza nel non riconoscere i tribunali israeliani, perché la tragedia dei prigionieri politici è la tragedia di tutti i palestinesi; nell’evitare le contrapposizioni e divisioni, volute da israele con le detenute comuni. Vivere il carcere significa anche mantenersi in forma sia a livello fisico che mentale leggendo, discutendo, imparando; significa rapportarsi con la detenzione amministrativa, senza accuse, senza incontri con i familiari ecc …; significa costruire amicizie indimenticabili e lottare contro il lavoro svolto dalle detenute per aziende israelo/statunitensi o per cucire divise militari; le celle con letti di ferro che in realtà sono sbarre di ferro saldate tra loro;la privazione del sonno; il comitato di lotta con azioni che scaturiscono da un’analisi attenta e non da una emotività dovuta alle provocazioni, lo sciopero della fame. Suaad è l’esempio che sfata tanti pregiudizi a proposito del ruolo delle donne, con la loro, crescente, partecipazione alla lotta; donne che hanno assunto ruoli di responsabilità del movimento dei prigionieri; che hanno potuto strappare quanto rivendicato perché hanno lavorato tutte insieme, unite al di là dell’appartenere ad una fazione o ad un’altra. Una testimonianza , quella di Suaad, necessaria, oggi più di ieri, per far conoscere quanto sta avvenendo. In conclusione ritengo giusto citare proprio Suaad: “ Il sole del mio paese sorge all’alba di ogni giorno e la sua luce non verrà mai reclusa nelle celle dell’occupazione “ e consigliare a coloro che vogliono approfondire la questione della detenzione dei prigionieri politici palestinesi , di visitare il sito di ADDAMEER , realtà da sempre impegnata nel denunciare i soprusi dell’occupazione e per questo messa al bando dall’entità sionista.

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Tutto il mondo è Palestina. Un’intervista su resistenza, Asia Occidentale e dintorni. https://www.carmillaonline.com/2024/04/22/82221/ Sun, 21 Apr 2024 22:20:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82221 di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee. Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi. [...]]]> di Jack Orlando

A sei mesi dal 7 ottobre, tra resistenza, genocidio ed escalation internazionali, la Palestina si conferma non solo uno dei più importanti nodi strategici della questione mediorientale, ma un prisma attraverso cui è possibile vedere un mondo che va delineandosi. Un mondo dove sempre meno contano le parole e le intuizioni europee.
Ci sembra necessario quindi provare ad assumere punti di vista altri, in grado di superare schemi arrugginiti, e per farlo crediamo che il metodo migliore sia confrontarsi con chi, da fuori ed oltre noi, si trova ad affrontare gli stessi temi con occhi diversi.
Quella che segue è una lunga chiacchierata con Silvano Falessi, militante di lungo corso e partecipante della Global Campaign To Return To Palestine (qui).
Una lega internazionale animata sia da singoli che organizzazioni, partecipata da oltre ottanta paesi nel mondo, il cui obbiettivo è quello di fornire supporto alla causa palestinese, seguirne e divulgarne gli sviluppi ma, soprattutto, è uno spazio di confronto e approfondimento tra soggetti estremamente eterogenei in grado di sviluppare posizioni condivise pur nelle differenze specifiche.
L’ultima conferenza internazionale della Campagna si è tenuta a Pretoria, Sudafrica, nello scorso dicembre, poche settimane prima che la diplomazia sudafricana accusasse pubblicamente Israele di genocidio, portandolo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia.

Per cominciare vorrei chiederti, dal punto di vista di un’organizzazione internazionale, come valuti lo scenario in atto in Palestina e soprattutto le sue implicazioni a livello internazionale?

Anzitutto vorrei partire dalla “Giornata della Terra” del 30 marzo che, nel suo quarantottesimo anniversario, si è intitolata “Tutto il mondo è Palestina”. Questo già un po’ risponde alla domanda: quello che sta avvenendo a Gaza non è solo un fatto relativo alla Palestina e ai palestinesi ma un evento che riguarda tutto il mondo.
Gli avanzamenti e gli arretramenti che si determineranno in questo momento saranno degli sviluppi di portata globale; non è semplicemente uno scontro tra colonizzati e colonizzatori. Dentro c’è un simbolismo in cui tutti ormai, data l’ampiezza la durata dello scontro, si identificano in un modo o nell’altro.
E tutti in questo scontro, non identificano soltanto il sionismo di insediamento israeliano come nemico, ma il sionismo internazionale, ossia quello che è la sua forma generale, il suo retroterra strategico, ossia il mondo occidentale e in particolar modo le sue istituzioni.
In primis la NATO e l’Unione Europea, che costituiscono la base materiale oltre che culturale e politica della dell’azione sionista anche oltre la Palestina.
Non a caso lo scontro con il sionismo, inteso come politica d’occupazione coloniale e apartheid, non riguarda solo la Palestina ma tutte quelle parti del mondo in cui un meccanismo del genere si è determinato.
Basti solo pensare che nell’Asia Occidentale, quello che noi attualmente chiamiamo in maniera eurocentrica Medio Oriente, l’entità sionista non occupa solo la Palestina ma anche parti del Libano e della Siria; la NATO a sua volta controlla militarmente porzioni di Siria e Iraq.
Per cui è evidente come sia in atto una dinamica di ampia portata in cui si identifica un po’ tutta la quella parte del pianeta che, in un modo nell’altro, noi potremmo definire extra occidentale; ma in particolar modo per quello che oggi viene definito come il Sud Globale, quell’umanità che ha subito secoli di colonizzazione da parte delle potenze occidentali. Il simbolismo e la rilevanza politica dello scontro in atto sono racchiusi in questo elemento comune.

Credo infatti che sia molto importante evidenziare un aspetto di ciò che dici, ossia la proiezione del sionismo, il fatto che non si limiti semplicemente al colonialismo di insediamento nella Palestina Storica ma si estende agendo su tutto il territorio circostante; c’è quindi una politica di aggressione imperiale rispetto a tutti i paesi della regione…

Se ci pensiamo bene, questa proiezione è congenita nel sionismo perché è nato nelle cancellerie europee, in particolar modo nell’Impero britannico (ad esempio con la Dichiarazione di Balfour e le promesse a Rothschild) a cui serviva sul momento come testa di ponte nella regione.
Poi è diventato effettivamente operativo nel momento in cui, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione formale è iniziato a procedere velocemente; di fronte alla quale si è pensato di sostituire il colonialismo formale con quello sostanziale della Palestina, ma anche con una proiezione “informale” del neocolonialismo sul territorio mediorientale.
Non a caso “Israele” è un partner della NATO, anche se non ufficialmente per non disturbare una parte di interlocutori internazionali, ma “Israele” in quanto tale è inserita nel dispositivo politico unitario della NATO a tutti gli effetti; ne è anzi uno degli attori principali di questa proiezione.
In questo senso è interessante analizzare i concetti di avanzamento e arretramento in termini generali: alla fine di quest’ultimo scontro le idee di vittoria e di sconfitta non potranno essere valutate per come le intendiamo classicamente, piuttosto dovranno essere intese come un processo di arretramento o avanzamento a livello non solo specifico, ma internazionale.
In questo senso se perde l’entità sionista sarà un’avanzata non solo della Resistenza arabo-palestinese ma di tutto il Sud globale.
Se invece si avrà un prevalere delle istanze sioniste, questo in realtà non sarà neanche percepito come un arretramento; perché di fatto dal 7 ottobre si è dato un passaggio che già ha determinato un avanzamento assoluto non più negabile, che significa innanzitutto che la proiezione imperial-sionista sull’area non è più un fatto ineludibile, non c’è più quella invincibilità, quell’impossibilità di scontrarsi con la sua forza.
Questo non è un dato tattico ma strategico a cui bisogna aggiungere che, dopo oltre sei mesi, la Resistenza palestinese sia ancora in grado di reggere l’onda d’urto fenomenale dell’entità sionista.
Noi oggi parliamo di genocidio e non c’è onda d’urto più potente di un di genocidio. Il fatto che la Resistenza ancora sia in piedi significa che gode dell’appoggio della maggior parte della popolazione palestinese, questo anche è un risultato strategico che nessuno può negare.
L’altro aspetto di avanzamento collettivo è che si è ristabilita, dal 7 Ottobre in poi, la questione palestinese non più come una questione “identitaria” ma una questione internazionalista.
Perché nello scontro con l’entità sionista non sono coinvolti direttamente solo i palestinesi ma molti altri attori: la Resistenza libanese, quella irachena, gli yemeniti, che erano i paria del mondo nel paese più povero dell’Asia occidentale, che tuttora tengono testa a una coalizione internazionale e hanno interrotto uno dei canali di transito commerciale più importanti del mondo. In questo senso si dimostra una composizione di quella parte di mondo arabo e islamico che prima non era così evidente. Quello che alcuni definiscono l’Asse della Resistenza e che emerge rafforzato.

A livello macroscopico, nello scacchiere che definiamo Sud globale ci sono tutta una serie di attori estremamente attivi, anche se non interessati direttamente dalle dinamiche regionali in senso stretto; penso ad esempio al Sudafrica, al Brasile di Lula, l’Irlanda o anche l’Indonesia. Possiamo dire che si stiano schierando al fianco della Palestina anche per ridefinire proprio questo quadro di rapporti tra Sud e Nord globale?
Il fatto che l’ONU sia uno dei terreni di scontro di questa contesa sembra significativo perché da un lato abbiamo chi ha costruito quest’ordine, cioè il mondo occidentale, che ora cerca di svincolarsene sentendolo troppo stretto, mentre dall’altro troviamo invece tutti gli altri paesi che sono entrati in seconda battuta, spesso in posizione subalterna anche dentro le Nazioni Unite, ma che usano proprio quell’organismo per far valere le proprie ragioni, rendendolo un terreno di contesa.

Sì, in questo senso forse sarebbe più corretto dire che quello che sta avvenendo in particolare in Palestina, ma in realtà su tutta l’Asia Occidentale, è un’occasione per il Sud del mondo per riequilibrare il proprio rapporto con una buona parte del mondo occidentale, quello a cui è legata una matrice storica di sopraffazione e colonialismo.
Si potrebbe parlare anche della Cina e dei BRICS, ma il problema non è quello. Piuttosto c’è da chiedersi com’è che la parte più povera del mondo vive le contraddizioni internazionali di una fase storica che dura dalle colonie: cinque secoli in cui il Sud del mondo ha sempre subita questa sopraffazione da parte occidentale; ecco che questa è vista come l’occasione per riequilibrare i rapporti.
C’è tutta una parte del mondo africano che sta sfruttando l’occasione per regolare i suoi conti in sospeso con la secolare sopraffazione europea, non solo il Sudafrica con la sua proattività, con il ruolo di paese più forte del continente, sia economicamente e politicamente sia storicamente, essendo la nazione dell’Apartheid e della vittoria su un meccanismo segregazionista che è molto assimilabile ai dispositivi di governo (sionista) della Palestina.
Ma se parliamo di tutto quello che sta avvenendo nell’Africa occidentale francofona, dal Mali al Niger fino alle elezioni in Senegal, vediamo una spinta a estromettere l’ingerenza e l’egemonia europea incarnata dalla Francia, che per secoli è stata il tallone di ferro che ha schiacciato le possibilità d’emancipazione di quelle aree.
Qualcosa di simile vale anche per l’America Latina; basti vedere le posizioni espresse dalla Colombia che solo qualche tempo fa erano impensabili, essendo stata per decenni una pedina controrivoluzionaria in mano all’imperialismo statunitense, molto foraggiata dalla macchina bellica sionista; il fatto che oggi si interrompano le relazioni con l’entità sionista è un’ulteriore dimostrazione che questa è vista come un’occasione storica per regolare i conti e tentare di riequilibrare le relazioni internazionali.
In questo senso è giusto parlare di avanzamento e arretramento: perché non ci sarà né una vittoria assoluta né una sconfitta assoluta.
Non è immaginabile che chiunque avanzi o arretri si dia per vincitore o sconfitto definitivo. Non sarà così perché ogni risultato è legato alle dinamiche internazionali complessive.
Però oggi come oggi, comunque vada a finire, a più di sei mesi dal 7 Ottobre si può dire che comunque la causa palestinese e indirettamente la causa del Sud del mondo, è sicuramente avanzata perché quello che è successo e che sta succedendo anche ora, che non ha precedenti in questo secolo.

Tornando invece al Sudafrica e quindi alla questione dell’ONU, qual è il rilievo effettivo del fatto che il Sudafrica abbia portato Israele, accusandolo di genocidio, alla Corte Internazionale di Giustizia? Quanto quel processo effettivamente pesa su Israele e sulla sua percezione anche a livello mondiale, considerando che una buona metà della partita si gioca sul piano dell’opinione pubblica? Inoltre, dato che l’ultima conferenza della Campagna Globale per il Ritorno in Palestina si è tenuta proprio in Sudafrica, che ruolo ha giocato in questo passaggio?

Posso dire con orgoglio che l’idea di portare a processo l’entità sionista in un tribunale internazionale è nata proprio in quell’occasione. Nello scorso dicembre la Campagna si è riunita in Sudafrica in occasione del Decimo Anniversario della morte di Nelson Mandela, per cui si è pensato che proprio il Sudafrica fosse in quel momento la tappa giusta per il suo sviluppo a livello internazionale, soprattutto perché i simbolismi erano molto evidenti; quindi all’interno della conferenza si è creato un gruppo di lavoro specifico per approfondire e studiare quali potessero essere gli elementi in grado di mettere all’angolo internazionalmente lo stato israeliano.
Va precisato che ha un senso politico aver portato a processo “Israele” alla Corte Internazionale dell’Aia non tanto per il valore di per sé della Corte Internazionale o per il responso di processabilità. Più semplicemente è stato un passaggio in cui politicamente è stato sancito per la prima volta che “Israele” potrebbe essere uno Stato genocida ed è questo che ha effettivamente un valore politico in sé.
All’atto pratico non è cambiato niente sul campo di battaglia in terra di Palestina, anzi se possibile le cose sono anche peggiorate; ma lo scopo era mettere in risalto un dato politico con la convinzione che, qualsiasi fosse stato il responso, sarebbe stata una vittoria.
Poteva darsi che il Tribunale, come poi è avvenuto, decidesse di esporsi solo a metà, riconoscendo la processabilità ma non formalizzando una sentenza di colpevolezza di genocidio. Però ha anche dimostrato che non poteva non riconoscere ciò che sta avvenendo e questa comunque è già una prima vittoria.
Ma se il Tribunale Internazionale non avesse riconosciuto nulla e rifiutando qualsiasi ipotesi di genocidio, che poi era la posizione soprattutto degli Stati Uniti e di tutto l’ambiente NATO, allora si sarebbe dimostrato che quell’istituzione non funziona in maniera imparziale.
Se invece avesse avuto più coraggio e avesse sanzionato direttamente, con provvedimenti concreti, sarebbe stata una vittoria completa.
Per cui la valutazione è stata di tipo politico generale: facciamola, perché qualsiasi sarà responso sarà una vittoria. È stata pensata in questi termini, non perché ci si affida a una dubbia istituzione internazionale per risolvere qualcosa che solo la Resistenza sul campo potrà risolvere, su questo c’è grande consapevolezza.
L’altro aspetto del riferirsi al Tribunale Internazionale è il concepire lo scontro in atto come conflitto su più livelli, non solo uno scontro con mezzi militari ma anche con mezzi pacifici, tutti questi metodi possono concorrere a ottenere il risultato voluto.
Oggi opporsi a “Israele”, uno Stato che è comunque sotto processo per genocidio, è più semplice e dirlo pubblicamente non può più passare per antisemitismo, questo anche è un risvolto ideologico importante. Insomma, c’era poco da perdere ma tutto da guadagnare; era un megafono che ha fatto sì che oggi tutte le piazze del mondo parlino di genocidio.

In questo avanzamento, come tu dici, è centrale la dimensione simbolica che ha permesso di sdoganare il termine genocidio e farlo assumere a livello di massa. Però forse era relativamente facile far passare questo concetto all’opinione pubblica davanti a quello sta che succedendo.
Molto più difficile invece è riuscire a superare un preconcetto islamofobo molto diffuso. Nel 7 ottobre, ad esempio, alcuni hanno riconosciuto immediatamente un’azione di Resistenza, molti ci hanno visto esclusivamente un’azione violenta e deplorevole, secondo un classico registro democratico-umanitario, ma soprattutto trovano scandaloso il solo associare l’idea di Resistenza al fatto che a portarne la bandiera fosse Hamas, una formazione islamista.
Questa cosa a un certo punto si è arginata, più nelle piazze che nei discorsi mediatico-politici ovviamente.
Un po’ perché le piazze filo-palestinesi hanno rifiutato qualsiasi distinzione tra una Resistenza buona ed una cattiva, ma anche dal fatto che la mobilitazione internazionale fuori dall’Occidente ha sgito molto sul campo di una “solidarietà di fede”, una solidarietà del mondo islamico di cui gli Houti possono essere un esempio, anche se non esaustivo, di come si sia messa in moto non solo un’azione di vicinanza ma una vera e propria pratica antiimperialista. Ci troviamo quindi in un corto circuito in cui bisogna riconoscere legittimità per la prima volta ad una Liberazione i cui valori restano alieni ai nostri, in cui non c’è il socialismo come bandiera unificatrice. Per la prima volta ci si confronta esplicitamente con una pratica di autodeterminazione che esce completamente dai nostri schemi di ragionamento, perché non gioca più su un discorso di matrice europea come poteva essere per la fase della “decolonizzazione”. Siamo quindi immersi in un paradigma inedito…

È una delle ricadute che rientrano in quella logica di avanzamento irreversibile che si è determinata dal 7 Ottobre e dai suoi effetti ancora in corso, che hanno messo in discussione una visione dell’Arena Internazionale fondamentalmente eurocentrica, che vedeva tutto ciò che si muoveva a livello internazionale con le lenti di un movimento di chiara matrice Europea, nelle cui categorie esisteva semplicemente il meccanismo del Socialismo, che però non è più elemento preponderante dentro la dinamica internazionale ormai da un trentennio buono. Ma anche perché questo protagonismo estraneo alla concezione “occidentale” effettivamente mette in discussione l’assunto per cui tutto il mondo non ruota più intorno ad una logica eurocentrica.
Lo stesso fatto di non chiamare l’area Medio Oriente ma Asia Occidentale è già una messa in discussione tutto ciò che finora siamo stati abituati a leggere come realtà.
Oltretutto avanzamento ha significato anche aver un po’ disintossicato gli ambienti politici e sociali qui da noi, perché tutto sommato il problema dell’islamofobia non mai è stato centrale se non nei paesi occidentali, che hanno condotto per un quarto di secolo la “Guerra al Terrore”, di cui l’islamofobia è stata un meccanismo primario di coesione ideologica e culturale.
Oggi tutto questo è messo in discussione perché, se all’indomani del 7 ottobre era difficile affrontare la discussione sulla Resistenza, in sei mesi si è riusciti a scalfire e modificare anche insospettabili “eurocentrici”, che oggi sono costretti a riconoscere che il problema di ciò che sta avvenendo in Palestina e dintorni non è un fatto dell’islam, ma è un fatto anticoloniale.
Questo è un dato di fatto oggi inoppugnabile. Che la Resistenza arabo-palestinese venga presentata nei termini di uno scontro tra Hamas e Israele è una costruzione tutta occidentale e sionista; in realtà per qualunque palestinese o arabo è uno scontro contro il sionismo non di Hamas ma della Resistenza palestinese.
Su questo i palestinesi fanno molta attenzione e un risultato in tal senso è dovuto proprio alla loro determinazione sin dall’inizio a configurare la questione come uno scontro tra la Resistenza palestinese contro l’entità Sionista e non come uno scontro frontale tra due fazioni, pur consapevoli che i rapporti di forza all’interno della Resistenza palestinese sono determinati dalla potenza di fuoco della struttura militare messa sul campo. Di fatto togliendo ossigeno al collaborazionismo palestinese dell’ANP e quello arabo delle Petrolmonarchie.
È innegabile che oggi si facciano operazioni congiunte di Hamas insieme al Fronte Popolare o insieme alla Jihad Islamica piuttosto che al Fronte Democratico.
In questo senso la stessa Campagna Globale per il Ritorno in Palestina non è determinata solo dalle forze della Resistenza arabo-islamica, ci sono dentro componenti internazionali laiche o marxiste senza nessun problema e senza che nessuno sollevi il fatto che il Sudafrica, che sicuramente non può essere configurato come potenza islamica, si sia fatto carico di rappresentare le istanze arabo-palestinesi di fronte al Tribunale di Giustizia Internazionale.
Questo smottamento della narrazione eurocentrica è confermato ad esempio dal confronto nello stesso Tribunale Internazionale tra Nicaragua e Germania. Perché il Nicaragua si è presentato come parte accusatoria rispetto alla complicità tedesche nel genocidio, la stessa Irlanda oggi sta dalla parte dell’accusa al sionismo. L’avanzamento è palpabile.
Si aggiunga che la presenza nei paesi occidentali di grandi componenti immigrate ha fatto sì che oggi la narrazione di ciò che avviene in Palestina si sia anche adeguata alla composizione sociale di chi si è mobilitato e che, a differenza di venti anni fa, è composta non sono solo di indigeni ma di seconde e terze generazioni figlie di immigrati; soprattutto la componente araba e palestinese ha stabilito su cosa muoversi e su cosa tacere, anche scontrandosi con quelle istanze indigene che sentenziavano “Né con uno né con l’altro”, a cui hanno risposto chiaramente “con la Resistenza, contro l’entità sonista”.
E questo è anche il frutto di una battaglia politica latente ma comunque condotta, dove le parti più coscienti del Movimento indigeno si sono schierate apertamente su questa linea nelle manifestazioni per la Palestina, dove oggi non c’è più spazio per una posizione equidistante o che in qualche modo ricalca le istanze istituzionali.
Sono le istituzioni italiane che oggi sono schierate apertamente col sionismo mentre le piazze, le università, non hanno più una posizione equidistante ma sono chiaramente dalla parte della Resistenza dal momento in cui il concetto di “Potenza genocida” ha rotto l’indugio e il pudore verso quella narrazione dell’unica democrazia in Medio Oriente e del valore morale dell’esercito sionista è stato spazzato via dagli eventi. Spazzato via sia per le capacità della Resistenza sia dall’opera di macelleria che sta facendo l’entità Sionista sotto gli occhi di tutti.
Quando si ammazzano quasi 40.000 persone e di queste il 70%, se non di più, è costituito da bambini e donne non regge più una narrazione vittimista, sono talmente evidenti il torto e la ragione, che è assolutamente indifendibile qualsiasi equidistanza.
Per cui torniamo al concetto di avanzamento e arretramento: questo enorme sacrificio fatto dai palestinesi ha ristabilito le categorie di giustizia, di torto e ragione, di colono e colonizzato e così via. È un merito che va riconosciuto a prescindere ed è di valore universale.

Questo momento di scontro in Palestina si inserisce dentro una tendenza alla guerra che è un acceleratore esploso già due anni fa in Ucraina e sembra ormai un processo irreversibile molto chiaro e determinato. Ancora un anno fa gli attori istituzionali più democratici o più ottimisti, potevano dirsi coinvolti nell’aiuto all’Ucraina poiché paese aggredito; a un certo punto non solo sono scivolati verso un registro sempre più sciovinista, ma hanno dovuto adottare un doppio registro, estremamente ipocrita e difficile da mantenere, rispetto alla Palestina dove le condanne verso i crimini israeliani sono estremamente reticenti.
Prova ne è la reazione generale alla rappresaglia iraniana dopo che l’aviazione israeliana ne ha bombardato l’ambasciata a Damasco, in una provocazione senza precedenti.
Si sono insomma iniziate a creare le condizioni per cui parlare tranquillamente del fatto che la guerra è una realtà tornata concretamente e che di qui a un paio d’anni si assisterà probabilmente a un conflitto di proporzioni molto più grandi e devastanti.
In questa fase però il bellicismo è ancora una volontà politica delle classi dirigenti sostanzialmente autoreferenziale, senza alcuna partecipazione o condivisione popolare, c’è uno scollamento netto tra quello che è il sentire della popolazione e ciò che sono la narrazione mediatica e la volontà istituzionale. Un abisso evidente anche da tutte le statistiche in merito.
In mezzo in questa tendenza alla guerra, che spazi di mobilitazione si aprono a partire dalla questione palestinese e dalla sua capacità di mobilitare globalmente?

Quando si dice “tendenza alla guerra”, dal mio punto di vista, non credo che rispetto al passato ci sia stata un’accelerazione, perché basta pensare alla “guerra al terrore” che ha contraddistinto già tutto questo secolo, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, eventi che hanno coinvolto enormi masse di forza materiale e umana dall’Occidente. Per dire: a un certo punto in Iraq era presente mezzo milione di occidentali legati alle operazioni militari.
Il problema è che questa tendenza alla guerra è insita al capitalismo in quanto tale, ne è una componente essenziale, anche perché nell’assetto del capitalismo, soprattutto occidentale, la sezione di capitale collegata al comparto militare-industriale ha preso il sopravvento.
In questo senso, dalle “nostre” parti, ciò che c’è di economicamente produttivo è più legato alla dinamica della guerra che non in altre latitudini.
Ma la novità è il fatto che oggi l’imperialismo è diventato più aggressivo perché sembra stia perdendo terreno; la presenza italiana nel Mar Rosso è sintomatica di quella proiezione delle classi dirigenti capitaliste privo un riscontro sociale né materiale o economico; questo lo dimostrano anche gli eventi in Ucraina dove la base produttiva occidentale, tanto terziarizzata da aver scelto di esternalizzare anche le risorse umane piuttosto che costruirle, non è in grado di garantire una base materiale per uno scontro generalizzato.
In questo senso, paradossalmente, più si allargherà e protrarrà il conflitto, più la tigre si dimostrerà di carta.
Non a caso si parla della re-immissione della coscrizione obbligatoria: per fare una guerra come loro vorrebbero bisogna avere il personale; questo è uno dei limiti che si sta palesando in Ucraina, dove non solo si necessita del “capitale umano” da sacrificare, ma la narrazione bellica deve reggere e questo è un punto debole perché, per quanto si veda lo sforzo bellicista fatto attraverso il mainstream mediatico, il consenso sociale è minimo.
Oggi non si può dire certo che la popolazione italiana si voglia lanciare nell’avventura. Non regge perché sono masse nella maggior parte dei casi politicamente amorfe o passive, ma che non scalpitano certo per andare a farsi massacrare per garantire i profitti alle multinazionali o la gloria alla nazione.
È certo che rispetto al pericolo sono ancora troppo passive, ma la realtà è che non c’è proprio culturalmente e psicologicamente una popolazione in Occidente disposta a fare la guerra.
Questo è un fatto di cui va tenuto conto, nonostante un quarto di secolo di narrazione bellicista molto improntata sulla proiezione all’esterno del capitalismo occidentale, non è stata amalgamata una base sociale disponibile da mandare “al macello”. Quelle europee non sono società “pronte” ad affrontare questi scenari, sono le classi dominanti che vorrebbero affrontarle anche senza esserne in grado. Questo è, da punto di vista storico, un fatto positivo – nel rifiuto della guerra imperialista -, è evidente che anche qui si è scollata la società, che è polarizzata al suo interno: le élite vogliono andare a fare guerra ma non ci vanno direttamente, servono le classi sottomesse per farla, che però attualmente non sembrano disponibili a farsi ammazzare, come poteva essere durante la Prima Guerra Mondiale, o per altri versi nella Seconda. Non c’è alcun entusiasmo bellicista all’interno delle società occidentali.
Questo non significa che l’animale ferito non diventi più aggressivo quando è stretto all’angolo, perché se la dinamica che è in corso di avanzamento di altre istanze internazionali avverse rispetto all’Occidente ne limita il campo d’agibilità, potremmo assistere a delle scelte isteriche e dissennate, che saranno però dei colpi di coda.
Ciò che probabilmente sta avvenendo in questo momento storico è il fatto che il processo di perdita della supremazia dell’Occidente rispetto al resto del mondo sia abbastanza irreversibile. Una sorta di “Crollo del Muro di Berlino” in salsa occidentale, per cui quella arabo-palestinese potrebbe essere una picconata decisiva.
Si può dire che tutto questo apra una finestra di solidarietà internazionale che potrà essere, in prospettiva, trasformata in una logica internazionalista e di classe.
Perché, oggi come oggi, da questa perdita di supremazia a guadagnarci non saranno solo i popoli oppressi, colonizzati o segregati, ma potranno essere gli stessi proletari dei paesi occidentali, cui spazzare via una classe dominante strategicamente indebolita è necessario più che mai. In questo senso vediamo un possibile punto di incontro tra le istanze del Sud globale e le possibili istanze di classe nell’occidente capitalista, e da questo punto di vista potrebbe essere un’occasione storica importante. Certo, come tutte occasioni, o le sfrutti o le perdi.
Se l’occasione si incontra con l’organizzazione diventa opportunità, se invece la si attraversa nella disorganizzazione e nella frammentazione allora passerà e basta.

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Essere palestinese non è uno slogan, né una professione https://www.carmillaonline.com/2024/04/06/essere-palestinese-non-e-uno-slogan-ne-una-professione/ Sat, 06 Apr 2024 20:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81924 di Mahmoud Darwish

M. Darwish (1941-2008) è stato autore di circa venti raccolte di poesie, pubblicate a partire dal 1964, e sette opere in prosa, di argomento narrativo o saggistico. È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. È stato giornalista e direttore della rivista letteraria “al-Karmel” (Il Carmelo), e dal 1994 era membro del Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese.

È considerato poeta nazionale della Palestina per cui scrisse nel 1988 la dichiarazione d’indipendenza, poi proclamata da Yasser Arafat.

I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della [...]]]> di Mahmoud Darwish

M. Darwish (1941-2008) è stato autore di circa venti raccolte di poesie, pubblicate a partire dal 1964, e sette opere in prosa, di argomento narrativo o saggistico. È considerato tra i maggiori poeti in lingua araba. È stato giornalista e direttore della rivista letteraria “al-Karmel” (Il Carmelo), e dal 1994 era membro del Parlamento dell’Autorità Nazionale Palestinese.

È considerato poeta nazionale della Palestina per cui scrisse nel 1988 la dichiarazione d’indipendenza, poi proclamata da Yasser Arafat.

I suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue e diffusi in tutto il mondo. Solo una minima parte della sua produzione letteraria è stata tradotta in italiano.

Il testo che qui si propone è la trad. italiana di Pina Piccolo della lettera indirizzata da Darwish al Palestine Festival of Literature fondato nel 2008 che si svolge in Cisgiordania e che lo aveva invitato ad intervenire alla propria inaugurazione pochi mesi prima di morire, invito che non aveva potuto accettare appunto per la salute già gravemente compromessa. È possibile reperire il testo inglese in rete al seguente link https://www.palfest.org/mahmoud-darwish-welcome

 

8 maggio 2008

Miei cari amici,

Mi dispiace di non poter essere qui con voi oggi per ricevervi personalmente.
Benvenuti in questa terra colpita dal dolore, la cui immagine letteraria è assai più bella della sua realtà odierna. La vostra coraggiosa visita di solidarietà è più che un semplice saluto a persone private della propria autonomia e del diritto di vivere una vita normale, è espressione di ciò che la Palestina viene ora a significare per la viva coscienza dell’essere umano che voi rappresentate.

È espressione della coscienza dello scrittore rispetto al proprio ruolo, ruolo che lo chiama ad un impegno diretto nelle questioni che riguardano la giustizia e la libertà. In questa terra, la ricerca della verità – uno dei doveri di chi scrive – assume la forma di uno scontro con le menzogne e le usurpazioni che assediano la storia contemporanea della Palestina; compresi i tentativi di cancellare il nostro popolo dalla memoria della storia e dalla mappa di questo luogo.

Ci troviamo ora nel sessantesimo anno della Nakba. C’è chi danza ora sulle tombe dei nostri morti e che considera la nostra Nakba la loro festa. Ma la Nakba non è un ricordo; è uno sradicamento continuo che  riempie di angoscia i palestinesi rispetto alla propria esistenza. La Nakba continua perché continua l’occupazione. Continuare l’occupazione significa continuare la guerra.

Questa guerra permanente condotta da Israele contro di noi non è una guerra per difendere la propria esistenza; è una guerra per distruggere la nostra esistenza. Il conflitto non è quindi un conflitto tra due esistenze, concetto promosso dalla narrazione israeliana. Gli arabi hanno presentato all’unanimità una proposta di pace collettiva a Israele in cambio del riconoscimento della presenza palestinese in uno Stato indipendente. Ma Israele la rifiuta.

Siete qui, cari amici, per vedere i fatti per come sono. Ieri abbiamo festeggiato insieme la fine dell’apartheid in Sudafrica. E oggi lo vedete prosperare qui in tutta la sua potenza. Ieri abbiamo festeggiato insieme la caduta del Muro di Berlino, e qui oggi lo vedete sorgere, quale gigantesco serpente attorcigliato al nostro collo. Un muro, non per separare i palestinesi dagli israeliani, ma per separare i palestinesi da se stessi e dalla vista dell’orizzonte. Non per separare la storia dal mito, bensì per unire con ingegnosità razzista storia e mito.

La vita qui, vedete, non è qualcosa di scontato, è un miracolo quotidiano. Le barriere militari separano ogni cosa da tutto il resto. E tutto, perfino il paesaggio, sembra temporaneo e vulnerabile perché viene modificato dalle ruspe. Qui la vita è meno che vita, è più che altro un arrivo imminente della morte. Ironia della sorte, l’escalation di repressione, i blocchi, le uccisioni quotidiane e l’espansione degli insediamenti avvengono nel contesto del cosiddetto processo di pace, in un circolo vizioso che minaccia di uccidere l’idea di pace nei nostri cuori tormentati.

La Pace ha due genitori: Libertà e Giustizia. L’occupazione è per sua natura padre della violenza. Qui, in questa fetta di Palestina storica, due generazioni di palestinesi sono nate e cresciute sotto l’occupazione. Non hanno mai conosciuto la normalità. I loro ricordi sono colmi di visioni infernali. Vedono il loro domani scivolare tra le dita. E benché tutto ciò che è si trova al di fuori di questa realtà possa sembrar loro un paradiso, rifiutano di partire per quel paradiso. Restano, perché sono afflitti dalla speranza.

È in questi tempi difficili della storia, che vivono gli scrittori palestinesi. Non c’è nulla che li distingua dai loro connazionali, tranne una cosa: gli scrittori cercano di raccogliere i frammenti di questa vita e di questo luogo in un testo letterario; testo che cercano di rendere intero.

Ho già parlato delle difficoltà dell’essere palestinese e di quanto sia difficile per un palestinese essere scrittore o poeta. Da un lato bisogna essere fedeli alla realtà, dall’altro bisogna essere fedeli alla professione letteraria. È in questa zona di tensione tra il prolungato “Stato di emergenza” e l’immaginazione letteraria dello scrittore che si muove il linguaggio del poeta. Il poeta deve usare le parole per resistere all’occupazione militare. E deve resistere – a nome della parola – al pericolo del banale e del ripetitivo. Come può il poeta raggiungere la libertà letteraria in queste condizioni di dominio? E come può il poeta conservare la letterarietà della letteratura in tempi così spietati?

Queste sono domande difficili. Ma ogni poeta o scrittore ha il proprio modo di esprimere se stesso e la propria realtà.  La stessa condizione storica non produce un’unica forma testuale e nemmeno testi simili, perché gli scrittori sono una moltitudine e tra di essi esistono differenze enormi. La letteratura palestinese non si adatta a stampi preconfezionati.

Essere palestinese non è uno slogan, né una professione. Il palestinese è un essere umano, un’anima tormentata in preda a interrogativi quotidiani, sia nazionali che esistenziali, può avere una storia d’amore, contemplare un fiore e una finestra aperta sull’ignoto. Il palestinese ha una paura metafisica e un mondo interiore assolutamente resistente all’occupazione.

Una letteratura che nasce da una realtà definita è in grado di creare una realtà che trascende la realtà – una realtà alternativa, immaginaria. Non la ricerca del mito della felicità come evasione dalla brutalità della storia bensì il tentativo di ridurre l’aspetto mitologico della storia, di riportare il mito al suo posto giusto, di metafora, e di trasformarci da vittime della storia, in soci attivi della sua umanizzazione.

Amici e colleghi, grazie per il vostro nobile atto di solidarietà. Grazie per la coraggiosa iniziativa che avete intrapreso  al fine di rompere l’assedio emotivo che ci è stato inflitto. Grazie per aver resistito all’invito a ballare sulle nostre tombe. Sappiate che siamo ancora qui, che siamo ancora vivi.

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Patrimonio. Una storia vera https://www.carmillaonline.com/2023/12/18/patrimonio-una-storia-vera/ Mon, 18 Dec 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80322 di Giovanni Iozzoli

Che cos’è un’eredità? E chi ha il titolo di rivendicarla? Me lo chiedo mentre i telegiornali diffondono a reti unificate una manifestazione romana “contro l’antisemitismo” e a sostegno di Israele, indetta dalle Comunità ebraiche italiane. La causale della convocazione dice già tutto: chi non sostiene Israele è un antisemita. L’evento è poco partecipato, rimpinguato solo dalla presenza di giornalisti e parlamentari, ovviamente accorsi in massa a favore delle telecamere. I rappresentanti delle comunità troneggiano in p.zza del Popolo, tra bandiere di Davide e vessilli di partito bipartisan. La domanda ingenua che mi sorge è: in nome di chi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Che cos’è un’eredità? E chi ha il titolo di rivendicarla? Me lo chiedo mentre i telegiornali diffondono a reti unificate una manifestazione romana “contro l’antisemitismo” e a sostegno di Israele, indetta dalle Comunità ebraiche italiane. La causale della convocazione dice già tutto: chi non sostiene Israele è un antisemita. L’evento è poco partecipato, rimpinguato solo dalla presenza di giornalisti e parlamentari, ovviamente accorsi in massa a favore delle telecamere. I rappresentanti delle comunità troneggiano in p.zza del Popolo, tra bandiere di Davide e vessilli di partito bipartisan. La domanda ingenua che mi sorge è: in nome di chi o di cosa, i dirigenti di quelle comunità sentono di poter assumere un ruolo così prominente, nell’agenda pubblica? Da dove viene l’autorità – benedicente o recriminante – che consente loro di esercitare una funzione così centrale, con tutti i partiti accorsi a porgere il saluto?

Sento in un’intervista la dott.ssa Di Segni – persona di solito assai misurata nei toni – affermare con calore che le cose non stanno come sembrano: non sono i palestinesi ad essere oggetto di genocidio; sono “gli ebrei”, piuttosto, nel mirino di un nuovo piano di sterminio condotto da Hamas, anche con evidenti implicazioni religiose. La signora sta enunciando una enormità storica – una specie di sfida al senso comune, a quello che miliardi di cittadini del mondo stanno vedendo in diretta sui loro telefonini. Come può essere che migliaia di bambini di Gaza, dilaniati a morte, possano essere ricondotti al campo malvagio di nuovo progetto di sterminio antiebraico? Come può la popolazione di Gaza, straziata e affamata, prefigurare la distruzione dell’ebraismo mondiale? E’ una pazzia, un esercizio di vittimismo sovra-umano e metastorico. La signora Di Segni però è serissima e forse anche convinta di ciò che sta dicendo. In nome di cosa può proclamare così impudentemente questa inversione della verità fattuale? Forse è perché si sente un’ereditiera.

Si, pensiamo ad una persona diventata ricchissima grazie ad una favolosa eredità. E pensiamo a come questa persona possa perdere il senso delle proporzioni, l’equilibrio, il senso della realtà: sono ricca, ho ereditato, posso persino sovvertire l’evidenza empirica delle cose, degli eventi. La ricchezza mi rende credibile, desiderabile e persuadente, al di là del senso delle mie opinioni o delle mie azioni. Ma di che tipo di eredità stiamo parlando? Materiale, economica, di prestigio sociale? No. L’eredità che consente alla signora Di Segni di costruire e rivendicare una contro-verità, è tutta di tipo morale: i dirigenti delle Comunità sanno di essere gli eredi “istituzionali” della memoria dell’Olocausto e di poterne rappresentare eternamente l’enorme carico di ragioni, maturate in secoli di sofferenza. E’ questa l’eredità che le Comunità sentono di incarnare. E’ questo che consente agli esponenti di queste comunità di porsi nel dibattito pubblico in modo così ardito e perentorio – fino a bacchettare Papa Francesco per “eccesso di equidistanza”…

E qui torniamo alla domanda iniziale? Come si può definire l’adeguatezza di un’eredità storica? In campo giuridico ci sono delle condizioni precise, che definiscono la condizione di erede. In mancanza di testamento, prevalgono i legami i sangue. Ma sul piano morale? Chi è erede di cosa? Raccolto il lascito, lo si può usare in qualsiasi modo, senza remore? L’eredità è sempre disponibile all’uso, anche a quello più spregiudicato? E’, ad esempio, possibile supporre che il patrimonio di dolore, trasmesso delle vicende terribili dell’ebraismo europeo, possa costituire la base morale di altro dolore e sofferenza inferta agli innocenti? Se i morti di Auschwitz potessero parlare, concorderebbero nel passare il testimone della loro storia a Bibi Netanyahu? Vedrebbero nei tunnel di Gaza la minaccia di un nuovo piano di sterminio antiebraico, come quello che si abbatté sulla loro generazione? Plaudirebbero ai bambini morti, ai corpi straziati, alle moschee e agli ospedali bombardati – loro, proprio, loro che passarono attraverso l’inferno in terra dei pogrom e della Shoah?

I morti non parlano. Nessuno potrà contestare, a nome loro, il costante, indefettibile allineamento delle comunità – in Italia e nel mondo – al fianco di uno Stato che si dichiara alfiere dell’ebraismo. Nessuna voce si alzerà dai campi di sterminio per gridare: non in nostro nome – se uccidete e torturate, non lo farete usando la nostra eredità di sangue, il nostro martirio, le nostre memorie circondate dal filo spinato. Ma anche se i morti sono costretti al silenzio, l’intelletto, la ragione, lo spirito della storia, continuano a parlare ai vivi: come le migliaia di ebrei americani che stanno manifestando contro le politiche criminali dello Stato d’Israele, che oggettivamente sembrano eredi dell’Olocausto moralmente più degni. Loro raccolgono il testimone, loro vanno in carcere a testa alta perché non vogliono essere accusati di complicità. Loro vogliono continuare a guardare i figli negli occhi: perché è chiaro che i bambini ci stanno guardando, non solo quelli impietriti e piangenti di Gaza, ma tutti i bambini del mondo ci stanno guardando; e quei bambini rappresentano la prossima generazione e chiederanno conto di questo dramma.

Non c’è musulmano al mondo a cui non sia stato chiesto almeno una volta nella vita di prendere le distanze dalle efferatezze dell’Isis. E tantissimi lo hanno fatto in piena coscienza, anche senza che qualcuno glielo chiedesse. Non c’è moschea o organizzazione islamica italiana che non abbia dovuto pronunciarsi con chiarezza in questa direzione. Perché le Comunità ebraiche sono invece impermeabili a qualsiasi ragionamento laico e critico, sul ruolo di Israele e sui suoi governi che ne hanno guidato la rotta sanguinosa e fallimentare, in questi anni? Ricordano un po’ certi gruppuscoli filosovietici che – sempre, in qualsiasi circostanza – appoggiavano il “paese guida” del proletariato, anche quando erano evidenti i suoi errori catastrofici. Una fedeltà cieca che non portò bene né all’Urss né ai suoi satelliti – altro esempio di eredità dilapidata.

I passaggi generazionali rappresentano spesso più una negazione dialettica, che una illusione di continuità. Il testimone da raccogliere è spinoso, insostenibile. Probabilmente lo Stato di Israele – grande rivendicatore e custode delle memorie giudaiche – conferma questa regola. I precursori di Israele fondavano moralmente le loro ragioni sulle inenarrabili sofferenze della generazione della Shoah, traendone legittimazione politica – il valore dell’eredità. Ma probabilmente nel loro spirito, gli elementi di rottura prevalevano di gran lunga su quelli di filiazione. I vecchi martiri erano visti come pedine imbelli della tragedia storica dell’ebraismo; il vittimismo dei vecchi andava bene per esigere risarcimenti ma la nuova Gerusalemme aveva bisogno della forza, della potenza, dell’aggressività. Da allora in poi, la Legge e la Profezia avrebbero acquistato senso solo se veicolate dai carri armati.

Non sappiamo quali conflitti tremendi – ce lo rivela parzialmente la letteratura israeliana – dovettero attraversare le prime generazioni, per assorbire questo nuovo imprinting e trasmetterlo alle generazioni successive. Oggi, sui nostri implacabili canali Telegram, vediamo giovanissimi soldati israeliani che ammazzano comuni cittadini palestinesi, minorenni e invalidi inclusi, senza pietà, per strada, lungo i chekpoint della West Bank, sotto gli occhi di tutti. E persino bambini che cantano su Tik Tok inni allo sterminio arabo; ragazze che irridono le giovani mamme di Gaza, coi loro fagottini insanguinati. Quanto sforzo, quanta determinazione, quanto sangue, quanta risalita controcorrente, deve essere costato allevare questi giovani mastini da guerra – e uscire da sé, dalla secolare cultura critica e tollerante, per trasformarsi in persecutori feroci? Ecco, la trasmissione della memoria: quei ragazzi non hanno assorbito nulla dell’eredità dei loro avi; il passaggio si è realizzato solo tra generazioni che hanno combattuto furiosamente, nella cecità e nella brutalità, segnati da odio e paranoia. E questo vale anche per le comunità ebraiche europee, che recitano un ingrato ruolo di apologia di ogni crimine di uno Stato estero al quale non devono nulla, ma a cui si sentono ineluttabilmente legate.

Gli israeliani di oggi non sono tanto portatori di una memoria, quanto di un presente ossessivo, in cui il passato ha poco da dire e il futuro è cupo e indecifrabile. La loro condizione è una coazione a ripetere tremenda: sentono di incarnare i destini di una stirpe elitaria che ha il diritto storico di guadagnare il suo spazio vitale – orrendo riflesso delle ideologie di espansione nazista verso est.  Tutto ciò che ostacola questa spinta all’autoaffermazione, va sepolto. Molte immagini che arrivano dalle città israeliane, testimoniano che se c’è qualcosa che fa infuriare la soldataglia israeliana,  sono i religiosi che non si riconoscono nel sionismo e manifestano a favore dei palestinesi. Quei pii ebrei vengono picchiati e dileggiati con particolare accanimento, dai ragazzi in divisa. Forse perché a vederli così, vestiti da rabbini eppure ostili allo sforzo bellico, creano un qualche cortocircuito mentale in quei giovani soldati; contraddicono la visione unilaterale delle cose, la dialettica amico/nemico, la solida complicità della Bibbia. Sono l’immagine dell’ebreo che fu, che loro odiano e rinnegano in nome dell’Uzi.

Israele sta morendo. Sepolta dalle sue bombe, dalla scia infinita di cadaveri e di bugie che sta lasciando dietro di sé. Israele sta morendo per un eccesso di forza, di protervia, di orgoglio. Non ha più grandi nemici, intorno a sé: Gheddafi e Saddam sono stati ammazzati, Assad è debolissimo, l’Iran è permanentemente nel mirino americano; i grandi paesi arabi sono tutti paralizzati dai ricatti in cui la realpolitik globale li ha ficcati. Eppure, proprio in questo momento storico di trionfale strapotere, subisce il più grave attacco interno della sua storia ed è costretto ad operare una atroce punizione collettiva contro gli innocenti – per allontanare da sé l’immagine di vulnerabilità e la mancanza di visione che esprime. I tempi e i modi del crollo israeliano sono imprevedibili. Ma una cosa è certa: la morte di Israele coincide con la consunzione della sua eredità, del suo inestimabile patrimonio, ormai dilapidato per manifesta indegnità.

Patrimonio. Una storia vera è un piccolo capolavoro di Philip Roth. Racconta una vicenda dimessa e privata – quella di un vecchio padre ebreo del New Jersey che sta morendo e di un figlio adulto che riflette sulla sua eredità morale. Cosa lascia una persona semplice, priva di mezzi, quando se ne va? Cosa lasciò un vecchio padre ebreo senza ricchezze, a un figlio scrittore un po’ scapestrato? Cosa lasciò quella generazione di ebrei che è stata la prima a crescere in sicurezza, fuori dall’infida Europa dell’eterno pogrom? Apparentemente niente che abbia a che fare con i cataclismi mediorientali. E invece, in quel privatissimo racconto autobiografico, molti elementi rimandano ai grandi drammi della storia contemporanea. Lo scrittore ha un rapporto controverso con Israele – come con tutta la sua complicata “ebraicità”; il suo primo protagonista di successo, il giovane Portnoy, quando si deciderà ad andare verso Israele per il suo primo viaggio nella terra promessa, davanti ad un avventura sessuale con una soldatessa in divisa, armata, grande e forte, subisce un crollo psicofisico e si scopre impotente. L’effetto che aveva su di lui la terra santa, non era il misticismo o l’ardore guerriero: solo “non farglielo venire duro”. Metafore su metafore di un intrigo esistenziale e antropologico. Forse Portnoy si portava ancora dentro troppa Europa, qualche retaggio di prudenza e sottomissione era trapassato nei suoi geni americani; mentre la soldatessa era la scoperta della forza: si, gli ebrei potevano imbracciare un fucile, sparare, macchiarsi di crimini come tutti gli altri esseri umani; potevano essere capaci di cose spaventose; e questa consapevolezza, questa verità, che produceva impotenza in Portnoy, era quanto di meno razzista e antisemita si potesse rivelare. La scoperta di non essere un popolo eletto, ma solo un popolo tra i tanti, nei flutti della storia, con le mani macchiate del sangue di Abele, come noi tutti. E questa rivelazione, ci consente di rifiutare con la stessa forza tanto l’ideologia sionista quanto il barbarico antisemitismo.

Il patrimonio di Auschwitz e delle sue schiere di martiri, non è passato nella mani delle attuali leadership israeliane; probabilmente neanche in quelle delle persone comuni di quel paese, avvelenate dalle retoriche di Stato. Il patrimonio morale della Shoa è tutto nelle mani di Fatima o di Mohamed – qualcuno a caso tra i tanti piccoli visi ritratti negli ospedali di Gaza, pieni di ustioni e bende precarie. Sono loro che stanno decretando la fine del ciclo israeliano. Sulla loro sofferenza, sul loro dolore senza morfina, sui loro arti amputati, sul loro destino di orfani senza patria, nascerà il nuovo medioriente. Se il giovane Stato di Israele si fondò sul sangue della Shoah, la sua fine sarà affogare nel sangue dei figli di Palestina. In terra di Abramo, Nemesi è diventata la regina furiosa della storia.

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Fermiamo il genocidio in Palestina! https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/fermiamo-il-genocidio-in-palestina/ Wed, 15 Nov 2023 16:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79979 [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese; e raccogliendo l’invito pressante dei Giovani palestinesi d’Italia a dare maggiore concretezza alla solidarietà con la resistenza del popolo palestinese; il SI Cobas ha deciso di indire per venerdì 17 novembre una giornata di sciopero nazionale nel settore privato, che si pone in continuità con le iniziative contro la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina del 21 ottobre scorso – in particolare con la manifestazione di impronta internazionalista e disfattista tenuta a Ghedi, davanti alla principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana.

Questa decisione di sciopero si ricollega alle prime iniziative contro il traffico di armi per Israele in corso a Oakland, in Belgio, in Australia e, da ultimo, a Genova, e soprattutto alle immense dimostrazioni per la liberazione della Palestina in corso in tutto il mondo. L’invito che essa esprime è a sostenere in pieno, senza tentennamenti di sorta, la resistenza dei palestinesi contro il colonialismo razzista e a pretendere l’immediata cessazione della carneficina portata avanti da Israele con la complicità degli Stati Uniti e delle potenze capitalistiche occidentali.

“I lavoratori e i proletari hanno il dovere di mobilitarsi ovunque possibile – si legge in una dichiarazione del SI Cobas – per fermare questa mattanza, bloccando i principali snodi della produzione, dei trasporti e del profitto, in particolare i traffici di armi e di merci dirette ad Israele.
Contro la guerra, l’economia di guerra e i governi della guerra! Contro il colonialismo sionista! Palestina libera!”.

Il giorno successivo allo sciopero, sabato 18 novembre, si terrà a Bologna (con partenza alle ore 15 da piazza XX settembre) un corteo indetto insieme dal SI Cobas e dai Giovani palestinesi d’Italia, dall’Unione democratica arabo-palestinese, dall’Associazione palestinesi in Italia, dal Movimento palestinesi in Italia, che ha già ricevuto molte adesioni.

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