pacifismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

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di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

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O tutto o nulla. I vecchi, i giovani, la guerra e la rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2020/02/19/o-tutto-o-nulla-i-vecchi-i-giovani-la-guerra-e-la-rivoluzione/ Wed, 19 Feb 2020 20:46:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58053 di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 290, 22,00 euro

“O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico “ (Vecchiezze in «Avanti», 13 luglio 1916 )

Il testo di Luca Gorgolini, nel ricostruire le vicende della gioventù socialista italiana dall’inizio del XX secolo fino alla fondazione del Partito Comunista d’Italia, ha certamente più di un merito.
E non soltanto nell’ambito della storiografia politica.
Riesce infatti a ricostruire il clima sociale e politico di un ventennio in cui, all’interno di uno stesso ceppo socialista o socialisteggiante, si vennero a creare le condizioni sia per la formazione di una nuova formazione politica rivoluzionaria che di un movimento politico e sociale di estrema destra.
Entrambe le esperienze infatti, sia dal punto di vista organizzativo che ideologico, rappresentavano sicuramente un approccio alla politica di massa impensabile soltanto qualche decennio prima.

Entrambe le correnti, sia quella destinata a dar vita nel 1921 al Pcd’I che quella destinata ad animare le origini del fascismo mussoliniano, presero vita in un contesto in cui le contraddizioni sociali ed economiche, oltre che imperialistiche, sviluppatesi a partire dal tumultuoso sviluppo del moderno capitalismo industriale e finanziario in Europa e in America, sarebbero sfociate da un lato in forme di lotta di classe e reazioni politiche di parte proletaria difficilmente esperite in precedenza (anche solo per il crescente numero di lavoratori coinvolti) e dall’altro nella prima e violentissima carneficina mondiale, definita poi, in seguito e disgraziatamente, come Grande Guerra.

Ma un elemento di importanza capitale che l’autore sottolinea e risottolinea continuamente, a ragione, è sicuramente quello dello scontro generazionale che si sviluppò all’interno della compagine socialista, non solo a livello nazionale.
Elemento fondamentale di uno scontro che vide protagonisti, all’interno del movimento socialista internazionale e nel Partito Socialista nato in Italia nel 1892, da una parte i fondatori di tali esperienze, rinchiusi sempre più all’interno di un’azione parlamentare che, spesso, non rispettava certo il mandato della base sociale che avrebbero dovuto rappresentare e che faceva del riformismo l’orizzonte ultimo della propria azione, e dall’altra una generazione più giovane e sensibile dal punto di vista politico e sociale che chiedeva un radicale stravolgimento di quell’impostazione, ormai destinata a rinviare all’infinito qualsiasi reale mutamento all’interno dell’ordina sociale ed economico esistente.

Giovani contro adulti e rivoluzione contro riformismo e parlamentarismo: questi furono i due binari lungo cui si svilupparono le battaglie interne alla compagine socialista. Battaglie cui lo sviluppo delle politiche imperialistiche e coloniali avrebbero poi aggiunto un fattore determinante: quello dell’antimilitarismo di classe contrapposto ad un più blando pacifismo, destinato sempre e solo a sfociare nell’appoggio alle politiche dei governi liberali e nella comune difesa (tra forze borghesi e pretese proletarie) dell’interesse della Nazione e della Patria.

Per quanto riguarda le vicende italiane, che sono al centro della ricerca di Gorgolini ma senza dimenticare le dinamiche internazionali sugli stessi temi, certamente sia la guerra di Libia che la susseguente partecipazione, o meno, al primo conflitto mondiale furono determinati e dirimenti per definire i soggetti impegnati nella lotta e i programmi che questi avrebbero portato nell’agone politico.

Non c’è certo da stupirsi se a lottare contro il servizio militare, le compagnie di disciplina, le condizioni di vita in caserma e il massacro prevedibile, e poi di fatto avvenuto, sui campi di battaglia fossero di fatto i militanti più giovani, i proletari, i contadini e le donne: erano infatti questi soggetti a cogliere con certezza il fatto di essere destinati in prima persona, sia al fronte che a casa, ad essere toccati pesantemente dalle politiche e dalle scelte militariste e imperialiste messe in atto dalla borghesia italiana.

I parlamentari socialisti non nutrivano eccessivi timori personali in questi termini e potevano quindi crogiolarsi in un’insipida posizione neutralista che, nel corso del primo conflitto mondiale, sarebbe poi sfociato in quel né aderire né sabotare che li avrebbe condotti in seguito a bloccare l’azione rivoluzionaria messa in atto dai proletari e dai soldati italiani nell’anno più buio della guerra, il 1917, sia nelle città che al fronte (Torino, agosto 1917 – Caporetto nell’autunno dello stesso anno) e richiesta a gran voce dai rappresentanti più attivi della Federazione Giovanile Socialista.

Una contrapposizione generazionale che, nei fatti, diventava autentica contrapposizione di classe e che vide la formazione di una frazione intransigente, anche all’interno del Partito, che da un lato avrebbe dato vita, in nome dell’unità dello stesso, alla corrente poi detta massimalista e dall’altro a quella frazione che avrebbe poi dato vita alla scissione di Livorno nel 1921. Anche in questo caso, il testo affronta la questione della differenza di età tra le due frazioni e sottolinea come fossero i giovani e i giovanissimi, tranne quelli appartenenti sostanzialmente alla federazione di Reggio Emilia, a spingere in direzione di un’azione autonoma e rivoluzionaria, libera da qualsiasi fardello parlamentare e da alleanze con le forze moderate, sia che si definissero queste ultime repubblicane o radicali quando non addirittura liberali.

Il testo ha grandi meriti: quello di chiarire come inevitabilmente il Partito nato dalla scissione livornese non avrebbe potuto essere altro che astensionista in campo parlamentare e per questo fosse destinato a scontrarsi, nel 1922 (anche se quella data non rientra nel periodo preso in esame) con le indicazioni dell’Internazionale Comunista. Il percorso parlamentare era stato esperito del tutto nella storia del socialismo italiano e si era rivelato per quell’enorme bugia e bagno di opportunismo panciafichista (termine coniato dagli interventisti mussoliniani e nazionalisti, ma ben adatto a cogliere l’essenza dei comportamenti dei parlamentari socialisti) che avrebbero soltanto continuato ad illudere una parte del proletariato italiano (specialmente quello operaio del Nord) e a rimandare all’infinito qualsiasi ipotesi di trasformazione radicale della società, anzi opponendosi a quest’ultima come ad un nemico mortale.

L’altro è quello di cogliere nella svolta mussoliniana, dall’opposizione anti-militarista all’interventismo, non la causa agita da un deus ex-machina (lo stesso Mussolini) in grado di determinare, quasi da solo, una grave frattura nel movimento socialista e un tradimento “sicuramente” maturato all’esterno del Partito Socialista, ma la conseguenza di un’incoerenza politica, nata all’interno degli stessi partiti socialisti aderenti alla Seconda Internazionale, che aveva portato quelli più importanti (ad esempio quello tedesco e quello francese) a votare per i crediti di guerra fin dal 1914.

Confusione e tradimento che nel non avere abbandonato i concetti di Patria e Nazione in nome di un più severo e radicale internazionalismo fece sì che nell’ora dell’intervento anche numerosi “giovani”, non ultimi Gramsci e Togliatti, sposassero per un più che lungo momento la causa dell’azione militare a favore o in difesa della Patria. E’ proprio in tale contesto che l’autore sa dipingere la figura di Amadeo Bordiga come strenuo difensore di un’intransigenza non fine a se stessa, come troppo spesso è stata dipinta dai successivi e stalinizzati detrattori, ma assolutamente necessaria per salvare l’azione politica antagonista al capitale e rivoluzionaria dalla palude del nazionalismo e del collaborazionismo interclassista. Spesso travestito, come capita ancora oggi, da missione di soccorso o da raccolta di fondi per i presunti aiuti umanitari (all’epoca messi in atto nei confronti dei profughi che avevano dovuto lasciare i territori italian dopo Caporetto e che la frazione dei giovani intransigenti si rifiutò di appoggiare e sostenere).

L’azione repressiva del governo, soprattutto dopo Caporetto, che colpì duramente i rappresentanti della frazione intransigente e soprattutto della sua ala giovanile (carcere, compagnie di disciplina o della morte, ripetuti richiami alle armi, morte al fronte), non fu sufficiente a vincerne la spinta rivoluzionaria, così come i precedenti tentativi di eliminare la Federazione giovanile come se si trattasse di una serpe in seno non servì al gruppo parlamentare socialista per distruggere la corrente rivoluzionaria che in essa si rifocillava ed animava.

Certamente l’azione del gruppo parlamentare e l’inanità “unionista” della corrente massimalista impedirono, nel biennio rosso, una più radicale azione politica a guida degli operai, dei reduci, dei contadini e di giovani in rivolta, ma non impedì che alla fondazione del Partito Comunista d’Italia l’età media dei cinque membri dell’Esecutivo del nuovo partito, nato dalle basi poste dalla nuova Internazionale, fosse di 31 anni: Bordiga (n.1889), Fortichiari (1892), Terracini (1895), Grieco (1893) e Repossi (1882).

Un libro importante, pur nella sua sintesi, quello di Gorgolini; utile non soltanto dal punto di vista storiografico, ma anche da quello di chi oggi si interroghi seriamente sulle prospettive di un movimento estremamente variegato come quello che, sia a livello internazionale che nazionale, oggi si va riformando e agitando ad ogni latitudine. In vista di una guerra civile già messa in atto dai differenti governi dell’esistente, ma tutti uniti dall’istanza repressiva anti-popolare e anti-proletaria, che molti ancora non vedono appellandosi ad inutili istanze umanitarie, riformistiche, parlamentari e nazionali.
Che, oggi come allora, appannano lo sguardo antagonista e l’azione di contrasto alle politiche del capitale, finanziario e non. Purtroppo, anche tra i giovani.

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Argentina-Germania: l’esilio di Osvaldo Bayer https://www.carmillaonline.com/2016/11/30/argentina-germania-lesilio-osvaldo-bayer/ Tue, 29 Nov 2016 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34787 di Osvaldo Bayer

bayer-2014[Segnaliamo l’uscita italiana di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio dello scrittore argentino Osvaldo Bayer. Si tratta di parole scritte al di qua dell’oceano, in Germania, la terra che lo ha accolto e salvato da morte certa. Quella stessa morte che i sanguinari regimi militari argentini degli anni ’70 hanno scagliato contro altri celebri scrittori dissidenti, Rodolfo Walsh, Haroldo Conti, Paco Urondo, Hector Oesterheld, solo per citarne alcuni. Osvaldo Bayer dalla Germania racconta l’esilio e fa esplodere le contraddizioni delle democrazie europee, complici storiche e [...]]]> di Osvaldo Bayer

bayer-2014[Segnaliamo l’uscita italiana di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio dello scrittore argentino Osvaldo Bayer. Si tratta di parole scritte al di qua dell’oceano, in Germania, la terra che lo ha accolto e salvato da morte certa. Quella stessa morte che i sanguinari regimi militari argentini degli anni ’70 hanno scagliato contro altri celebri scrittori dissidenti, Rodolfo Walsh, Haroldo Conti, Paco Urondo, Hector Oesterheld, solo per citarne alcuni. Osvaldo Bayer dalla Germania racconta l’esilio e fa esplodere le contraddizioni delle democrazie europee, complici storiche e finanziatrici indefesse dei peggiori regimi militari latinoamericani, ieri, come negli anni ’70, come oggigiorno. Perché le democrazie occidentali stanno dalla parte dei regimi militari latinoamericani? Bayer prova a rispondere a questa domanda, e lo fa con quella commistione di Storia e storie che emoziona e accompagna il lettore. Vi proponiamo di seguito due estratti dal libro, curato e tradotto da Alberto Prunetti. s.s.]

O. Bayer, Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, trad. A. Prunetti, Ouverture, 2016, pp. 128, € 12.50

«“Sicurezza per gli anni Ottanta”: il cartello della socialdemocrazia tedesca mi accompagna in ogni stazione della regione del Reno settentrionale e della Westfalia. La parola “sicurezza” caratterizza le elezioni nella Repubblica Federale Tedesca. Chi offre più sicurezza, vince. Anche se i candidati sono favorevoli all’energia atomica. Si tratta della sicurezza per la propria Mercedes, per le vacanze a Tenerife, perché nessuna utopia venga a mettere in discussione il soddisfatto presente della Germania occidentale. I cartelli di Videla a Buenos Aires e quelli dei socialdemocratici in Westfalia hanno lo stesso denominatore comune: la sicurezza. Da esule, ho il privilegio di leggere la stessa parola in due paesi, in due diverse lingue: Seguridad, Sicherheit. E mi sento profondamente insicuro. Ma non ho il diritto di comparare le due realtà, il crimine con il timore, l’aperta caccia all’uomo con la paura di perdere la libertà. Anche se sulla spalla percepisco il fremito di un presagio. Se i popoli cominciano a votare “sicurezza”, cosa accadrà? In dieci anni, voteranno con entusiasmo per la parola “repressione” e, in due decenni, saranno ancora più galvanizzati dalla parola “tortura”. Tutto in forma democratica. Quando si comincia a insufflare la parola “sicurezza” nel cittadino, l’inquisizione può vincere le elezioni.

Che sarà della democrazia tedesca se i disoccupati arrivano a sei milioni? La democratica Associazione Federale dell’Industria Tedesca non sceglierà allora per la Germania quello che oggi applaude per l’Argentina dei militari? “L’indispensabile sicurezza per un ordinato sviluppo economico”?» [p.48]

9788897157489b«3. Quale immagine mi si chiede della Germania? Forse la mia immagine della Germania è quella dei suoi esuli, perché in tutta umiltà mi identifico con loro e così mi sento più forte. O l’immagine della Germania va cercata nel volto dell’addetto culturale dell’ambasciata tedesca a Buenos Aires e di sua moglie, che rischiarono la vita per farmi passare attraverso i posti di blocco dell’esercito e della polizia, riuscendo a imbarcarmi in un aereo? O quest’immagine devo sovrapporla in un processo di consustanziazione con quella di un militare tedesco che in un “party”, senza sospettare la mia qualità di invitato inconveniente, si felicitò con grandi effusioni dei buoni affari che i militari argentini avevano fatto acquistando la tecnologia bellica tedesca. Un’immagine da non dimenticare, un volto rosso, soddisfatto, che con gusto mormorava infiniti dati tecnici sulla trazione dei cingoli, sui piani metallici di Thyssen-Henschel, sui motori Mercedes Benz e Man, sui tubi dei cannoni automatici da 20 mm di Rheinmetall… Una voce sana, forte. Un soldato diverso da quello della Germania nazista? La mia immagine della Germania non può essere altro che quella della mia esperienza, con la confusione di vivere qui e di pensare come se fossi là, di mescolare tutto, di applicare all’esperienza tedesca quello che accade nel mio paese. Non posso avere un’immagine asettica e impersonale della Germania, perché percepisco la realtà come se fosse rovesciata, come se gli scenari fossero trasformati, cambiando di latitudine e retrocedendo nel tempo.

Sul quotidiano argentino La Opinión leggo un articolo sulla conferenza dell’ammiraglio Massera, membro della giunta militare, all’Universidad del Salvador di Buenos Aires. Con un vocabolario filosofico arcaico che non ti aspetteresti in un moderno specialista di aerei Torpedo (capace però di far scomparire i nemici politici), l’ammiraglio argentino denuncia come responsabili per la crisi dell’umanità tre uomini: Marx, Freud e Einstein. Cito alla lettera: “Verso la fine del XIX secolo Marx pubblicò tre tomi de Il Capitale e mise in dubbio l’intangibilità della proprietà privata. A principio del XX secolo, viene attaccata da Freud la sacra sfera intima dell’essere umano, col suo libro L’Interpretazione dei sogni. Come se tutto questo non bastasse a rendere problematico il sistema dei valori positivi della società, Einstein nel 1905 elabora la teoria della Relatività, mettendo in crisi la struttura statica e morta della materia”.

Che strano, penso. Secondo i militari argentini, i tre grandi sovversivi della storia dell’umanità sono usciti dalle università tedesche. E tutti e tre hanno dovuto esiliarsi dalla Germania, due per fuggire da Hitler mentre l’altro, Karl Marx, era scappato un secolo prima, ma i suoi libri furono i primi a finire sui roghi alla Opernplatz di Berlino nel 1933. E in Germania la maledizione continua, sebbene un poco attenuata: tutti gli sforzi degli studenti di intitolare a Marx l’università di Treviri sono andati a rotoli dal 1945. Le autorità non vogliono complicarsi la vita con un cognome tanto compromettente qual è quello del figlio di questa città e applicano la “Berufsverbot”. Sono i piccoli boia, i tiranni di sempre che, come diceva Thomas Mann, si nascondono dietro le romantiche finestre e le pareti medievali delle idilliache città tedesche.

4. Durante una passeggiata tengo sotto il braccio il quotidiano La Opinión di Buenos Aires. A pagina 9 c’è un riquadro col titolo: “Bruciano testi sovversivi a Cordoba”. “Il comando del Terzo corpo dell’esercito informa di aver proceduto a bruciare la documentazione perniciosa che danneggia l’intelletto e la nostra tradizione cristiana. La decisione è stata presa affinché nulla rimanga di certi libri, pieghevoli e riviste. Materiali che finiranno di ingannare la nostra gioventù sul vero bene che rappresentano i nostri simboli nazionali, la nostra famiglia, la nostra chiesa e, infine, il nostro più tradizionale patrimonio spirituale sintetizzato da Dio, Patria e Famiglia”. Firma il comunicato il tenente colonnello Corleri, che ha lasciato detto ai giornalisti che tra i libri bruciati non figuravano “opere di eminenti pensatori nazionali”.
Tutto questo a Cordoba, città definita “la dotta”.
Leggo un dispaccio di Deutsche Presse Agentur. L’ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca in Argentina, dott. Joachim Jaenicke, sostiene che il governo del generale Videla non sarebbe una dittatura militare.

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Berlino, OpernPlatz, 1933. Cordoba la dotta, 1976. L’olocausto della cultura, il rituale del fuoco. I libri sono le prime vittime, subito dopo tocca agli uomini di pensiero sovversivo, antitedesco, antiargentino. Latitudine sud, quarantatre anni dopo Freud, Marx, Einstein. Quella notte il generale di fanteria Jorge Rafael Videla nel suo discorso pronunciò dieci volte la parola “libertà”, otto volte la parola “dio”, cinque volte la parola “democrazia” e tre volte l’espressione “modo di vita argentino”.

Cammino per un bosco nero in Westfalia e penso: mi trovo in Germania. Quali parallelismi nei cammini dei popoli. Quant’è simile il destino dei suoi intellettuali. Le stesse reazioni, nonostante le differenze di cultura e di latitudine. I martiri. Karl Von Ossietzky e Rodolfo Walsh, Erich Mühsam e Haroldo Conti. La diaspora e il crepuscolo nonostante l’esilio. La morte civile e il carcere. E gli altri, sempre presenti e ben disposti, quelli che vincono i premi negli anni della dittatura, quelli che procurano un alibi ai dittatori, che hanno sempre a disposizione i giornali e le radio, che si permettono di fare delle critiche al regime (ma non troppe). Sono quelli che si presentano al pranzo col dittatore di turno. E quando il dittatore cade, raspano disperatamente nei propri scritti alla ricerca di qualche passo che dimostri che “erano nella resistenza”.

Cammino per questo bosco della Westfalia, più solo che mai, perché ormai non ci sono né uccelli né bambini. Tra le querce centenarie sbuca il Mercedes Benz giallo del guardaboschi. Passano anziani silenziosi con cani grassi. Ancora una volta mi colpisce la necessità di recuperare il tempo perduto, di chiedere loro che cosa hanno fatto nel 1933, nel 1939, nel 1945. Invitarli a bere un bicchiere di vino per farmi spiegare l’espressione tedesca Mitläufer9. Qualcuno, dotato di spirito amaro e ironico, potrebbe rispondermi che un Mitläufer è uno che nella Germania Federale può diventare presidente10. Un altro potrebbe rispondermi che la parola tedesca è intraducibile. Nel caso, replicherei: “Non si confonda, questa è anche una parola molto argentina, molto attuale. Un vocabolo che cambia di nazionalità, secondo le epoche”» [pp. 22-23-24-25].

 

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Un No forte alla guerra e alla NATO, domani 12 marzo in decine di città italiane https://www.carmillaonline.com/2016/03/11/un-no-forte-alla-guerra-alla-nato-domani-12-marzo-decine-citta-italiane/ Thu, 10 Mar 2016 23:01:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29110 di Nico Macce, con un intervento di Giorgio Cremaschi della Piattaforma Sociale Eurostop

12800212_1678862015713066_8949613786514909389_nIn questo 11 marzo mi scorre ancora davanti agli occhi la protervia di coloro che nelle giornate di scontri a Bologna per l’assassinio di Francesco Lorusso, ci appellavano, noi del Movimento, come violenti. In quel marzo ’77 erano insulti sibilati da chi mandava avanti i carri armati, da chi si faceva scudo con gli scudi delle forze di polizia. Le stesse forze che stroncavano la vita in via Mascarella a uno studente di Lotta Continua.

Erano argomentazioni strumentali. Il tempo ci [...]]]> di Nico Macce,
con un intervento di Giorgio Cremaschi della Piattaforma Sociale Eurostop

12800212_1678862015713066_8949613786514909389_nIn questo 11 marzo mi scorre ancora davanti agli occhi la protervia di coloro che nelle giornate di scontri a Bologna per l’assassinio di Francesco Lorusso, ci appellavano, noi del Movimento, come violenti. In quel marzo ’77 erano insulti sibilati da chi mandava avanti i carri armati, da chi si faceva scudo con gli scudi delle forze di polizia. Le stesse forze che stroncavano la vita in via Mascarella a uno studente di Lotta Continua.

Erano argomentazioni strumentali. Il tempo ci ha dato ragione.

Perché ora altre immagini si accavallano nella mente. Uomini d’apparato con il nome di partito cambiato con un lavaggio col DASH, nani tristi finalmente al governo, li vedo come fosse oggi discettare in tv di intervento umanitario mentre la Yugoslavia bruciava sotto le bombe NATO di Clinton e delle carogne europee occidentali. Il gran bel circolo di carogne di regime di cui finalmente questi burocrati facevano parte. Ma questa non era forse violenza? Era la fine degli anni novanta.

È di questi giorni la querelle se andare in Libia con le truppe oppure no. Un antico vizio che ha alle spalle diverse italiche spedizioni e l’odore stantìo di un elmetto coloniale.
Gli alleati, USA per primi, spingono perché l’Italia si metta alla testa del contingente NATO che sbarcherà in Libia. Ma Renzi, che già scaldava i motori dei carri armati, ha frenato nel leggere i sondaggi: più dell’80% degli italiani è contrario all’intervento in Libia.
In realtà è solo questione di tempo, breve tempo. Solo questione di come gestire l’operazione senza perdere troppo consenso. Il somaro va sempre legato dove vuole il padrone.

E poi, per dirla tutta, l’Italia con i suoi alleati NATO è in guerra già da 25 anni, sin dai tempi della prima guerra in Iraq. La presenza in Libia dei servizi di intelligence italiani è già un atto di guerra, come i droni statunitensi che partono dalle nostre basi. A Sigonella ci sono già quattro cacciabombardieri AMX pronti al decollo e già da tempo la parola “militare” ha sostituito la parola “umanitario” di fianco alla parola “intervento”. Le menzogne però restano. Oggi è il contrasto all’ISIS, quando ormai è chiaro che questo cancro terroristico è farina del nostro sacco, delle intelligence occidentali, USA in testa e in combutta con petromonarchie e Turchia: un grande esercito di zimbelli tagliagole catapultato nelle zone da predare, dove ci sono governi non compatibili, secondo il metodo NATO: guerra e caos. In palio sul terreno libico c’è tanto petrolio di prima scelta.

tripoli_bel_suol_damore_i_quattro_bersaglieri_alberto_sordi_ferruccio_cerio_022_jpg_nqhwSolo che c’è un problema: quell’80% e passa. La gente non ci casca più. Forse non avremo in piazza le masse oceaniche del primo attacco all’Iraq con tutto l’occidente a seguire quel petroliere corrotto di Bush padre nel primo attacco in grande stile, ma gli “italiani” quelli tanto sbandierati dalle sgodevoli Serracchiani, con le loro ciance: quelle  riforme che gli italiani vogliono e via col jobs act, con la “buona” scuola, eccetera, non ne voglio mezza e neanche l’altra mezza di una guerra sotto casa, di aumentare le probabilità di avere tanti Bataclan nelle loro città.
I sondaggi parlano chiaro.

Non ci saranno la folle oceaniche pacifiste, ma dal 16 gennaio scorso qualcosa di nuovo è successo. Un movimento contro la guerra e contro la NATO ha fatto il suo ingresso sulla scena politica: il Coordinamento contro la guerra, le leggi di guerra, la NATO. Un movimento fuori dalle tradizionali organizzazioni della pseudo-sinistra, composto da un vasto arco di organizzazioni politiche, sociali e sindacali della sinistra radicale e dell’antagonismo diffuso che si sta organizzando, che ha sfidato la censura dei media di regime, che ha forato la coltre di disinformazione.
È un movimento che non ci sta a vedere migliaia di migranti che scappano da una guerra creata dall’Occidente, essere respinti alle porte della fortezza Europa, deportati, lasciati al gelo invernale, depredati come fa la “civilissima” Danimarca, essere merce di scambio di un dittatore macellaio come Erdogan, a cui l’UE elargirà ben sei miliardi chiudendo un occhio sulla distruzione della stampa d’opposizione in Turchia, mente l’altro occhio dei tecnocrati di Bruxelles e dei governi occidentali era già chiuso sul genocidio dei curdi e sulla repressione sanguinaria di sindacati e forze d’opposizione.

Questo movimento è il risveglio di una coscienza sociale che va oltre il semplice pacifismo, che è consapevole dei rischi di un’escalation bellica. Una coscienza antimperialista alimentata dalle condizioni di precarietà e dalla nuova povertà diffusa perché da lì provengono i protagonisti del movimento che gridano il loro no alla guerra e alla NATO, no all’austerity, no al governo Renzi, che riaffermano la solidarietà sociale e di classe, che non ha confini ma solo muri da abbattere.

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12 Marzo, un’autoconvocazione contro la guerra.
di Giorgio Cremaschi della Piattaforma Sociale Eurostop

125milano6Saranno almeno 30 le manifestazioni che si svolgeranno sabato 12 marzo contro la guerra in tutta Italia. La data della mobilitazione era stata lanciata da un coordinamento di organizzazioni sindacali, pacifiste, ambientaliste, politiche e da militanti dei movimenti sociali. Alle manifestazioni inizialmente previste se ne sono progressivamente aggiunte molte altre, promosse da organizzazioni pacifiste di base, laiche e cattoliche.  Il 12 marzo è così diventata una sorta di appuntamento di autoconvocazione contro la guerra al di fuori delle tradizionali organizzazioni sindacali e politiche del centrosinistra,  totalmente assenti dalla mobilitazione, paralizzate come sono dai rapporti con il Partito Democratico.

Il 12 marzo è quindi la prima volta di una mobilitazione che sfugge alle  solite etichettature e che anche  per questo è stata ignorata dai mass media. Ma è una mobilitazione che si farà sentire, mostrando che al di fuori degli schieramenti politici e sociali che sono rappresentati nei talk show c’è tutto un  mondo che si sta organizzando e mobilitando.
Obama ha definito come un errore  la guerra in Libia del 2011, voluta da Cameron , Sarkozy e Napolitano. Lo stesso giudizio autocritico aveva espresso Blair sulla guerra in Iraq. Le guerre del passato vengono riconosciute come sbagliate, ma per rimediare ai loro disastri se ne progettano delle altre. E l’Italia è sempre più coinvolta in esse.

Anche se il presidente del consiglio ha frenato sull’invio di truppe in Libia, il nostro paese è sempre più coinvolto nelle avventure militari, nel commercio e nella installazione degli strumenti di morte. E i rischi per il nostro paese sono sempre più gravi, come dimostrano la recente vicenda degli ostaggi in Libia e l’assassinio di Regeni in Egitto.  Dopo 25 anni bisognerebbe  prima di tutto dire basta alla guerra e alla NATO che la diffonde.  L’Italia dovrebbe semplicemente ripristinare l’articolo 11 della Costituzione, sempre più impunemente e ripetutamente violato dai governi.  E si dovrebbero fermare, prima che facciano danni irreparabili, quelle politiche che in nome della guerra distruggono i diritti democratici e perseguitano profughi e migranti, che la stessa guerra ha fatto fuggire dai loro paesi. E si dovrebbe finirla di armare le peggiori dittature.

Il movimento che riparte il 12 marzo contro la guerra non ha ancora la forza delle mobilitazioni del passato e ne è consapevole. Però è anche consapevole che non siano più sufficienti  generici obiettivi pacifisti, perché bisogna mettere in discussione la guerra ed il sistema di potere che la sostiene, l’azione militare all’estero e le politiche autoritarie all’interno.
Le manifestazioni,  che percorreranno tutto il paese,  avranno quindi questo doppio segno di rifiuto della guerra vera e propria e delle politiche istituzionali ed economiche che l’accompagnano.

Si manifesterà dalla Valle Susa, ove da anni si sperimenta la militarizzazione del territorio per il devastante TAV,  alla Sicilia da dove partono i droni che vanno a bombardare in Libia ed in Siria. Dalla Sardegna delle infinite servitù militari a Ghedi, vicino a Brescia,  dove si installano ordigni nucleari in spregio al trattato di non proliferazione. Dalla base dei costosissimi F35 a Novara, a quella di Camp Derby a Pisa. Si manifesterà a Roma  davanti al  comando operativo NATO e  a Vicenza, Napoli, Ancona, Bologna, Bari, Faenza, Avellino, Perugia, Rimini e i tanti altri luoghi.
Senza nascondersi alcuna difficoltà, un movimento riparte anche nel paese che da qualche anno  è il più depresso e passivo d’Europa.

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Questo movimento domani 12 marzo sarà in piazza in decine di città italiane.
Ecco alcuni link per conoscere i contenuti politici e le singole iniziative:

http://www.rossa.red/sabato-12-marzo-e-mobilitazione-in-tutta-italia-contro-la-guerra-e-la-nato-partecipiamo-tutte-e-tutti/

http://www.peacelink.it/conflitti/a/42866.html

http://www.eurostop.info/comunicato-stampa-e-manifesto-per-manifestazioni-del-12-marzo-contro-lintervento-militare-in-libia/

http://contropiano.org/politica/item/35327-siamo-gia-in-guerra-il-12-marzo-occorre-scendere-in-piazza

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I mondi di Miyazaki https://www.carmillaonline.com/2016/02/22/i-mondi-di-miyazaki/ Mon, 22 Feb 2016 22:30:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28483 di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, [...]]]> di Gioacchino Toni

cover miyazakiMatteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00

Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, o non del tutto, esplorate dagli studi in lingua italiana. Il volume, che raccoglie scritti di Alberto Brodesco, Marcello Ghilardi, Andrea Fontana, Marco Casolino, Luigi Abiusi, Roberto Terrosi e Massimo Soumaré, affronta questioni che vanno dall’ucronia al pacifismo in Miyazaki, dalle presenze divine alle questioni filosofiche presenti nei suoi lavori come mangaka, da riflessioni sulla tecnica al rapporto tra natura e scienza.

Lo scritto di Alberto Brodesco (“La melanconia dell’ingegnere. Il sogno tecnoscientifico di Si alza il vento”) analizza l’ultimo lungometraggio del regista giapponese, ispirato a due diverse opere: il racconto autobiografico dell’ingegnere Horikoshi Jirō, progettista del celebre aereo Zero impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale, ed il romanzo Kaze Tachinu (The Wind Has Risen, 1938) di Hori Tatsuo, che narra le vicissitudini di una donna malata di tubercolosi.
Brodesco evidenzia l’importanza della comparsa in sogno al protagonista dell’ingegnere aeronautico italiano Giovanni Battista Caproni; comparsa che evidenzia una delle questioni centrali del film, ossia se i desideri meritino di essere conseguiti a prescindere dagli effetti che essi potranno generare sul resto del mondo. In questo caso la domanda che attraversa l’opera riguarda la legittimità dei sogni aeronautici “puri”, estetici, in rapporto ad una realtà che finirà per sfruttarli a fini bellici. Lo studioso evidenzia anche come il sogno che accomuna il protagonista giapponese e la figura di Caproni coincida con il sogno delle rispettive nazioni che, percependosi arretrate, vedono nell’innovazione tecnologica uno strumento di riscatto collettivo.
Le figure dei due scienziati messe in scena di Miyazaki rimandano a quel tipo di scienziato che lo studioso Roslynn D. Haynes definisce “lo stupido virtuoso”, ossia quell’uomo di scienza che vive fuori dalla realtà senza avere coscienza delle implicazioni sociali del suo operare scientifico, ed i due ingegneri possono essere ricondotti a tale categoria proprio «perché si interrogano sì sull’utilizzo dei loro aeroplani, sulle conseguenze dei loro progetti, ma risolvono la questione rifugiandosi nell’ambito dell’estetica: l’importante è fornire al mondo degli oggetti che lo rendano più bello» (p. 18).

LE VENT SE LEVE un film de Hayao Miyazaki au cinéma le 22 Janvier 2014All’uscita del film il regista è stato accusato di dare scarsa importanza all’utilizzo militare dell’aereo, rifugiandosi quasi esclusivamente in una lettura estetica della tecnologia, inoltre, a Miyazaki è stato rimproverato di non fare riferimento al ricorso agli operai cinesi e coreani schiavizzati nella costruzione dell’aereo e di insistere sulle tragedie subite dal Giappone piuttosto che su quelle da esso provocate. Altra critica mossagli riguarda le figure femminili che, mentre in opere precedenti apparivano dotate di una certa indipendenza e di protagonismo, in questo ultimo lavoro sembrano rivestire ruoli esclusivamente sacrificali. A fronte di tutte queste obiezioni Brodesco invita ad analizzare meglio il film ed a passare in rassegna la produzione precedente di Miyazaki, ove viene esplicitato il suo anti-militarismo.
Miyazaki oscilla più volte nel corso degli anni tra un’impostazione tecnofila, volta ad elogiare la modernità ed il progresso, ed un ambientalismo che, invece, presenta un conto salato allo sviluppo sconsiderato che si è dato nel corso del tempo. Venendo invece all’ultima opera, lo studioso sottolinea come questa non si limiti a narrare la biografia di un progettista di aerei militari, ma racconti anche le vicende di una malattia e l’aver voluto intrecciare due storie così diverse si deve, secondo l’analisi proposta, al fatto che «la storia di tubercolosi serve a Miyazaki per ricondurre la biografia dell’ingegner Horikoshi all’interno della cornice timica tracciata dal concetto di melancolia» (p. 21). Quest’ultima non ha a che fare soltanto con la coppia alle prese con la malattia ma anche con il racconto del percorso professionale del progettista dello Zero; «Lo studio che guida il suo progetto di macchina volante lo lascia esposto a questo vento serotino. Il carattere della melancolia non ha infatti a che fare solo con la sfera patemica ed estetica del romanticismo, ma anche con la ricerca di perfezione. […] L’utilizzo del tema della melancolia non vuole quindi solo o semplicemente portarci a ragionare sul topos della solitudine del genio isolato (artistico o scientifico cambia poco), ovvero sui tratti della personalità creatrice, ma ci aiuta a interpretare, nel quadro del rapporto tra “macchina” e “modernità”, anche la relazione tra Horikoshi e il suo tempo, tra coscienza individuale e Zeitgeist, tra tecnoscienza e ideologia» (pp. 21-22). Tutto ciò, secondo Brodesco, risulta in linea con le riflessioni sviluppate dallo studioso Pierangelo Schiera (Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, 1999): «È il dilemma della scienza moderna che s’incarna nella moderna melancolia, impregnando di sé interamente l’attitudine al progetto, vera e propria “ideologia” della modernità» (p. 22).
Nel saggio viene, inoltre, individuata ne La montagna incantata di Thomas Mann un’altra fonte di ispirazione per il film; in entrambi i casi si ritrova il sanatorio e l’ambientazione tra le due guerre, il nome del dissidente tedesco Castorp coincide con quello del protagonista del romanzo ed, inoltre, anche nell’opera di Mann si ritrova la figura di un mentore italiano, l’umanista Lodovico Settembrini, che non manca di citare con ammirazione Prometeo, «prototipo di umanista, uomo coraggioso, martire della religione della scoperta» (p. 24).

Anche nell’intervento di Marcello Ghilardi (“Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki”) si parte dall’ultima opera del regista sottolineando come la dimensione del sogno abbia un ruolo centrale nel film; il protagonista però non sogna per fuggire dalla realtà ma per integrarla realizzando qualcosa in grado di incidere su di essa. La figura di Caproni che compare in sogno a Jirō svolge la funzione del Maestro che indica la strada al giovane allievo, è la figura dell’Altro, «il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri» (p. 28). Buona parte della produzione del giapponese è attraversata dalla contraddittorietà della tecnica, dai rapporti tra i suoi esiti positivi e quelli negativi, tra emancipazione umana e distruzione planetaria.
Jirō sfrutta un difetto fisico che non gli consente di volare (la miopia) nell’occasione che gli consente di trovare una nuova strada. «La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso» (pp. 28-29).
Altra questione chiave che compare nel film riguarda il rapporto tra infanzia ed età adulta; ponendosi a livello delle nuvole anche l’adulto riesce a ritrovare la semplicità e la profondità dello sguardo infantile coniugata però alla consapevolezza della maturità.

kaze-tachinu-2Anche in questo intervento viene sottolineato come il rapporto con la tecnica sia contraddittorio nel film; si alterna la consapevolezza che quelle realizzate saranno macchine di morte ma al tempo stesso viene ribadito che la filosofia che muove gli inventori intende gli aerei come sogni e non come macchine da guerra e mezzi di profitto commerciale; il progettista intende dare forma ai sogni così come chi disegna conferisce corpo all’immaginazione. Verrebbe allora da domandarsi, continua lo studioso, se la «visione interiore di Jirō coincide con la vocazione di chi ha dedicato la vita ad animare figure disegnate, intessendole di suoni e parole. In quella voce risuona anche un’urgenza, una necessità interiore da cui dipende tutto il senso dell’esistere, di ciò che in esso reclama attenzione» (p. 31).
È interessate constatare, continua Ghilardi, che tanto Jirō quanto la giovane Nahoko sono tratteggiati da Miyazaki al fine di esprimere «la dedizione sincera a un ideale, la purezza dell’intenzione. Quando tutto sembra crollare e non si trova nulla a cui appoggiarsi, nessuna stampella a cui aggrapparsi, è la capacità di mantenere intatta la propria purezza interiore a custodire una radura luminosa da cui ripartire, un fondo di energia e di sicurezza da cui attingere nuova linfa» (p. 32). Il saggio indugia anche sulle trasformazioni produttive, politiche e sociali che attraversano il Giappone nel corso del Novecento in parte determinate dall’influenza esercitata dalla cultura occidentale soprattutto scientifica e tecnologia. «L’illusione che al progresso tecnico corrisponda un cammino razionale in grado di far aderire tutti gli esseri umani a una capacità di coesistenza nella società inibisce spesso la lucidità essenziale per comprendere la necessità di un’educazione in senso lato politica, per fare i conti con l’ambiguità della tecnica stessa, con i movimenti e le sterzate che imprime alla Storia» (pp. 33-34).
«Può essere che al Giappone in cui vivono, sognano, desiderano Jirō e Nahoko mancasse in quegli anni un pensiero in grado di pensare la tecnica e di pensare la Storia […] La risposta indiretta di Jirō e Nahoko al militarismo e allo scientismo tecnocratico degli anni Trenta passa attraverso l’adesione matura al proprio progetto esistenziale. Si traduce nel tentativo di proteggere anche nel mezzo della frenesia pre-bellica alcune forme di vita, di abnegazione e di impegno sincero, con valori diversi da quelli nazionalistici per cui vivere – senza per questo rinunciare a farsi interpreti della realtà di quell’epoca, senza cioè ritrarsi in una sorta di cieco isolamento» (p. 34). Il difficile e contraddittorio tentativo di far convivere progresso e tradizione, umano e tecnologico, lo si ritrova in diverse opere di animazione nipponiche a partire dalla seconda metà del ‘900.
Nella cultura giapponese è stata sviluppata una sensibilità particolare indirizzata all’effimero, all’apparire e sparire di tutte le cose. Secondo Ghilardi, Jirō e Nahoko testimoniano il desiderio di vivere il presente pur senza identificarsi pienamente con esso. Non intendono resistere al tempo in cui vivono ma resistere nel tempo, imparando nella quotidianità a esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, a essere in comunione con ciò che accade.

In apertura del suo intervento, Andrea Fontana (“Il pacifismo utopico di Miyazaki”) tratteggia brevemente la storia recente del Giappone evidenziando come, a partire dal suo aprirsi al mondo esterno di metà Ottocento, si sia determinata una compattezza interna votata al nazionalismo ed a un’ideologia della sottomissione. Le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono restate impresse fisicamente e psicologicamente nella coscienza collettiva del Giappone, tanto da modificarne profondamente l’immaginario ed il pacifismo che si sviluppa a livello diffuso nel dopoguerra, culminante nei movimenti del ’68, si radica fortemente nell’immaginario collettivo nipponico divenendo un elemento portante delle produzioni di carattere poetico ed artistico.
In epoca recente il Giappone è venuto meno ai dettami pacifisti scritti sulla carta costituzionale ed il paese si è trovato a supportare gli interventi in Afghanistan ed Iraq, soprattutto, sottolinea l’autore, per far fronte all’ascesa economica e politica della Cina ed in risposta alle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dalla Russia.
In Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978, 26 episodi), serie ispirata a The Incredible Tide (1970) di Alexader Key, emergono i nuclei tematici che saranno poi ricorrenti nelle opere del regista: l’ambientalismo, l’antimilitarismo, il volo, l’amore portatore di serenità… La serie riflette sulle tragedie della Seconda guerra mondiale e ciò che viene raccontato in forma fantascientifica è il dopoguerra del Giappone in cui Conan e Lana si trovano a dover ricostruire il mondo.
Nell’ultimo lungometraggio realizzato dal giapponese si incrociano elementi onirici, ove tutto risulta possibile, con elementi di realtà, di una realtà che è anche dolore e tristezza. Il sogno consente al protagonista di superare i limiti ma questo sogno, nella realtà, finisce per essere strumentalizzato per fini militari. «Da Conan il ragazzo del futuro a Si alza il vento le convinzioni di Miyazaki sono rimaste le stesse: la pace deve necessariamente trionfare su tutto, poiché da essa dipende l’equilibrio del mondo. Ma da un’opera all’altra sono mutate le prospettive, l’amarezza e un pizzico di nostalgia hanno preso il sopravvento, divenendo così parti integranti di una visione che da utopica si è fatta leggermente più incrinata nella sua sublime ingenuità» (pp. 46-47). Proprio in un momento storico in cui il Giappone sta abbandonando quel pacifismo maturato dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, sostiene Fontana, occorre valorizzare l’impostazione pacifista di Miyazaki che con le sue opere immaginifiche è riuscito a trasmettere la visione del mondo di chi è stato testimone diretto degli orrori della guerra e non si è sottratto ad un’azione contestataria nei confronti di una società sempre meno propensa a far tesoro della storia e sempre più votata alla distruzione del pianeta. Tutto ciò viene dato a vedere, nei film, attraverso gli occhi innocenti dei bambini, attraverso il potere metaforico del linguaggio poetico che ribadisce la necessità di offrire ai bambini la possibilità di sognare e di essere ingenui.

miyazaki_piuttosto che...L’intervento di Marco Casolino (“Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki”) inizia dall’analisi della serie televisiva Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), ove gli scienziati vengono presentati come individui ingenui che, pur tentando di porre rimedio ai disastri compiuti precedentemente, non si accorgono dei soprusi su cui si regge la loro società fortemente gerarchica e divisa in caste. Come in altre opere di Miyazaki, il lungometraggio si interroga circa la possibilità o meno di concepire una ricerca pura senza interrogarsi sulle sue conseguenze reali.
La visione pessimista che emerge in diverse opere di Miyazaki, non riguarda tanto la tecnologia, quanto piuttosto l’incapacità dell’essere umano di gestire quei mutamenti sociali e culturali portati dal progresso.
Anche nello scritto di Casolino torna la riflessione sull’aeronautica così cara al regista nipponico. Nel film Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), ambientato in Italia nel 1929, il protagonista, segnato dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale, non intende rendersi complice del fascismo e lo dichiara esplicitamente: “Meglio maiale che fascista”. Tale affermazione, scrive lo studioso, «riassume non solo la posizione politica del Porco (e di Miyazaki), ma soprattutto ne ribadisce l’allontanamento dal mondo umano» (p. 62). Lo scritto si sofferma sulle diverse risposte che nel film Si alza il vento i progettisti Giovanni Caproni (1886–1957), Hugo Junkers (1859-1935) e Horikoshi Jirō (1903-1982), danno al dilemma se e come ci sia la possibilità di opporsi all’uso bellico degli amati aerei progettati.
Secondo lo studioso, nei film di Miyazaki, non è la tecnologia in sé a corrompere l’essere umano, ma questa contribuisce a mettere in luce la natura peggiore dell’uomo. Analogamente, in altre opere, come Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), la magia può provocare un pericoloso allontanamento dal mondo umano; da questo punto di vista tecnologia ed arti magiche hanno il medesimo ruolo.

Luigi Abiusi (“Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki”) contestualizza la natura postmoderna delle opere di Miyazaki facendo riferimento a quel radicamento della televisione negli anni ’70 caratterizzata da un «proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra […] si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti» (p. 71).
Abiusi, mantenendo sullo sfondo il confronto con le tesi proposte da Fredric Jameson, soprattutto nel suo celebre (Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, 1989), propone una riflessione su quella che definisce «offerta tardo capitalista di visioni» (p. 71) tipica di quel momento storico e, dopo essersi soffermato su alcune produzioni di animazione realizzate a cavallo tra anni ’70 ed ’80, focalizza il suo studio sulle ucronie presenti nelle opere di Miyazaki, .

Nel suo intervento, Roberto Terrosi (“Il dio della foresta – una lettura di Mononoke hime”), analizza il ruolo del buddismo nella cultura giapponese soffermandosi in particolare sul rapporto tra monaci buddisti e potere che, secondo lo studioso, avrebbe portato il buddismo ad essere visto in Giappone «come una religione del sistema in contrapposizione allo scintoismo, che è visto come religione popolare, anche se tra la fine dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale le parti sono state temporaneamente invertite. Questo fa sì che si possano trovare valutazioni molto difformi tra i giapponesi sul ruolo del buddismo e dello shintō, a seconda anche del periodo storico a cui si fa riferimento» (pp. 86-87). Terrosi sottolinea come recentemente vi sia stata una certa «rivalutazione dello shintō, percepito come religione spontanea della natura, contro le perversioni della civiltà incarnate qui in Giappone dal moralismo ipocrita del buddismo compromesso con il potere. Il buddismo era infatti la religione dei nobili e dei ricchi, di quelli che avevano studiato, anche perché ha un corpus teorico complicatissimo che esige l’accesso allo studio» (p. 87). Tutto ciò, secondo lo studioso, aiuta a comprendere l’immagine negativa che ha il monaco buddista nell’opera Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) di Miyazaki.
Il saggio, dopo essersi soffermato sulle diverse etnie che hanno dato vita al Giappone, ed aver passando in rassegna il loro rapporto con la natura ed alcune loro divinità, analizza diversi aspetti del film di Miyazaki alla luce di tali tradizioni. Il cervo è considerato in Giappone uno spirito messaggero e nell’opera di Miyazaki compare presentato come dio della foresta, cioè di un ecosistema in equilibrio che rischia, se ferito in profondità, di essere definitivamente compromesso a causa della perdita di quell’equilibrio su cui si basa. Terrosi invita a cogliere come, sul finire del film, l’autore mostri un’evidente contrapposizione: «Da una parte ci fa vedere un’umanità incattivita verso la natura che si rifugia nella tecnica per colmare le sue paure senza accorgersi della distruzione che porta. Dall’altra mostra, quando il bonzo con astuzia riesce ad attentare alla vita del Diocervo, il dio nella sua natura finalmente estrinseca di dio-foresta. Infatti l’anima della foresta che era concentrata e custodita nel corpo del cervo divino ora si libra e si manifesta come creatura a se stante prima di perdersi e svanire del tutto […] Ma fortunatamente questo avvio verso il disfacimento dello spirito della foresta e della sua riduzione a materia inerte viene avventurosamente fermato dal nostro eroe in combutta con la principessa Mononoke. Riusciremo anche noi a salvare il mondo dalla perdita della sua anima?» (pp. 92-93). La grande abilità di Miyazaki, secondo lo studioso, è quella di essere riuscito, attraverso il film, «a realizzare non solo una storia soggettivamente espressiva ma un “mito” universale per l’età della crisi ecologica» (p. 93).

Massimo Soumaré (“Il Principe Cane: elementi della filosofia e della poetica di Miyazaki Hayao in una fiaba tibetana”) affronta la poetica di Miyazaki a partire da Shuna no tabi (1983), manga che, secondo lo studioso, può essere visto come pietra fondante ove sono già presenti elementi da cui attingeranno diverse opere cinematografiche del maestro giapponese. Tale manga, che letteralmente può essere tradotto con “Il viaggio di Shuna”, è tratto da una fiaba popolare tibetana e narra le vicissitudini di un principe di un regno povero costretto ad assumere le fattezze di un cane come punizione per avere sottratto alcuni chicchi di grano al re drago. Come spesso accadrà nelle successive produzioni cinematografiche del giapponese, si tratta della storia di un eroe benefattore leggendario sullo sfondo del rapporto uomo-natura. Soumaré sottolinea come tale storia sia in linea «con le pulsioni animistiche e la credenza tipica dello shintoismo che in ogni essere vivente e oggetto dimorino degli spiriti» (p. 98). Le opere cinematografiche che maggiormente si avvicinano al manga Shuna no tabi, sono Nausicaä nella valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) e Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). Dall’analisi delle opere emerge come in entrambi i lungometraggi si palesi «una preferenza non per il racconto scritto, ma per quella tradizione orale che a lungo è stata l’elemento portante della trasmissione del sapere e che è molto più emozionale della semplice scrittura, perché le storie sono narrate con la partecipazione delle sensazioni del parlante» (pp. 102-103). Inoltre, secondo Soumaré, è possibile riscontrare analogie con H.P. Lovecraft e la sua mitologia pervasa da divinità aliene in grado di far perdere il senno agli uomini.
I protagonisti messi in scena da Miyazaki sono spesso adolescenti che si trovano ad attraversare il momento di passaggio verso l’età adulta; «Sono quasi la descrizione di un rito d’iniziazione per divenire esseri umani indipendenti, e Miyazaki non addolcisce per nulla questo processo. Si tratta di un momento lacerante sia fisicamente che spiritualmente per i protagonisti, ma necessario. Un momento con cui ogni uomo e donna ha dovuto confrontarsi nel corso della sua vita, indipendentemente dal risultato ottenuto. In ciò è definita quella differenza con altre storie di mangaka e registi d’animazione dove tutto spesso è più attenuato» (p. 104).
Miyazaki ha spesso criticato l’invadenza nella cultura giapponese di immaginari che mescolano ragazzine con personaggi dal carattere bambinesco che sembrano create appositamente per sostenere il desiderio dell’economia nipponica di mettere a profitto un certo tipo di subcultura fomentando l’acquisto di merci. Mentre nel paese proliferano tematiche, scenari ed immaginari utili al consumismo più sfrenato, tematiche come la solitudine e lo sfruttamento dell’essere umano faticano a trovare spazio nei manga contemporanei che, in molti casi, sembrano del tutto in linea con la deriva reazionaria della politica nazionale.

porco-rosso-Non resta che segnalare come, in chiusura del volume, si trovi una breve, ma interessante, analisi di alcuni cortometraggi di Miyazaki prodotti dallo Studio Ghibli: Il ragno d’acqua Monmon (Mizugumo Monmon, 2006), Il giorno in cui allevai una stella (Hoshi wo katta hi, 2006) ed In cerca di casa (Yadō sagashi, 2006). Terminata la lettura di I mondi di Miyazaki, non resta che riguardarsi l’intera produzione del grande animatore, mangaka e regista giapponese e, se fosse possibile, meglio farlo al cinema, di fronte ad un grande schermo.

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Il padre, di Leonhard Frank https://www.carmillaonline.com/2014/10/19/padre-leonhard-frank/ Sat, 18 Oct 2014 22:37:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18149 Frank

[Pubblichiamo un estratto del racconto di Leonhard Frank Il padre, che fa parte della raccolta L’uomo è buono, Del Vecchio Editore, Roma 2014, pagg 336 € 15. Uscito nel 1917 in Germania, ebbe un grande successo ma in seguito finì sui roghi nazisti e Frank fuggì in Svizzera. L’etica della pace, della non violenza, della denuncia degli orrori della guerra, e la fiducia incrollabile nell’Uomo, fanno dell’opera dell’autore tedesco, quasi sconosciuto in Italia, un punto di riferimento del pacifismo mondiale. MB]

Settecento paia d’occhi di settecento persone cupamente mute fissavano l’oratore. Alle donne, che avevano le pentole vuote, o quelle [...]]]> Frank

[Pubblichiamo un estratto del racconto di Leonhard Frank Il padre, che fa parte della raccolta L’uomo è buono, Del Vecchio Editore, Roma 2014, pagg 336 € 15. Uscito nel 1917 in Germania, ebbe un grande successo ma in seguito finì sui roghi nazisti e Frank fuggì in Svizzera. L’etica della pace, della non violenza, della denuncia degli orrori della guerra, e la fiducia incrollabile nell’Uomo, fanno dell’opera dell’autore tedesco, quasi sconosciuto in Italia, un punto di riferimento del pacifismo mondiale. MB]

Settecento paia d’occhi di settecento persone cupamente mute fissavano l’oratore. Alle donne, che avevano le pentole vuote, o quelle i cui mariti erano sul campo o già caduti, le guance si erano fatte rosse. La cappa di ferro che da due anni schiacciava tutta l’Europa, evidentemente schiacciava anche questi settecento animali da soma, rattrappiti da dolore e miseria. Un ragazzino aveva preso il piccolo fucile da dietro il pianoforte che stava sul palco, e appoggiandolo alla guancia grigia mirava verso il basso, verso le settecento persone immobili. Tutti guardavano il buco della canna di latta. E fuori, col fucile sulla guancia, stavano milioni di uomini contro milioni di uomini, nella colpa e nel peccato.

Allora Robert spiccò il salto. Fu un salto lento. Si mosse con una sicurezza da sonnambulo verso il ragazzo, gli tolse il giocattolo dalla guancia e avanzò fino al palco. […] – Ecco, questo qui è un fucile. L’ho… l’ho comprato io stesso per il mio unico ragazzo. E con questo ha giocato. Con questo, senza accorgersene, ha estirpato l’amore dal suo cuore. Con questo ha imparato a sparare. Sono io che gli ho insegnato a sparare, che gli ho insegnato a uccidere. Mio figlio è caduto. È morto. Sono io il suo assassino… Orgoglio paterno, brama di gloria, superficialità dei pensieri e abitudine hanno fatto di me un assassino. E però ho solo fatto quello che avete fatto anche voi. Anche tra voi c’è chi ha perso un figlio.
Robert alzò il piccolo fucile sul ginocchio e lo spezzò, e posò con calma i due pezzi ai suoi piedi.
– Questo avrei dovuto farlo quindici anni fa… Lo avete fatto, voi…? Quindi siete anche voi assassini… I nostri uomini e i nostri figli stanno sparando a uomini e figli. E gli uomini e i figli dell’altra parte sparano ai nostri uomini e figli. E ciascuno di quelli rimasti a casa spera: il mio uomo, mio figlio, torneranno a casa. Che muoiano e cadano gli altri! Solo un pazzo può augurarsi qualcosa del genere. Vi chiedo: non è dunque un assassino anche quello che educa un innocente a che lui diventi un assassino, prima di essere ucciso lui stesso? E un innocente così educato, non diventa anche lui un assassino quando uccide un altro innocente ugualmente malconsigliato? Oggi in Europa non c’è più un solo essere umano che non sia anche un assassino…!
Goya2Siamo accecati e assassini, perché cerchiamo il nemico fuori di noi e crediamo di trovarlo lì. Ma non l’inglese, non il francese, il russo e per quelli non il tedesco, ma in noi stessi è il nemico. Per questo vediamo in altri uomini il nemico, perché il nemico effettivo è qualcosa che non è presente. La non presenza dell’amore è il nemico, e l’origine di questa guerra. L’Europa intera piange, perché l’Europa intera non sa più amare. L’Europa intera è folle, perché non sa più amare. Non è una follia se gioite alla notizia: «Duemila cadaveri francesi giacciono sul nostro fronte…»? Gli abitanti di Parigi non sono folli quando si rallegrano alla notizia: «Duemila cadaveri tedeschi giacciono sul nostro fronte…»?
Se nostro figlio cade, gridiamo di dolore o di dolore gli occhi si seccano. Ma finché non gridiamo dello stesso dolore quando cade un francese, non amiamo. Finché non sentiamo: un essere umano, che non ha fatto nulla, è caduto e morto, fino ad allora siamo folli. Perché questo uomo, che è caduto e morto, aveva una madre, un padre, una moglie, che gridavano di dolore. Era un essere umano. Voleva tanto vivere ed è morto. Per che cosa? Perché? Noi, i suoi assassini, l’abbiamo lasciato morire perché non amiamo.
Robert, durante il discorso, faceva piccoli gesti con la mano.
Goya1 – Basta solo amare e nessun colpo partirà più. Ecco allora la pace. Allora siamo bambini sulla nostra terra… Tutto il continente piange. E da questo si riconosce che tutta la terra è capace di amare. Sarebbe tutto senza speranza se l’Europa ridesse perché tutta l’Europa sanguina. Ma in Europa non c’è casa in cui non scorrano le lacrime. Ecco l’amore che piange dagli occhi perché è stato scacciato dal cuore degli esseri umani… Che fareste se in questo istante uno sconosciuto entrasse in questa sala e piantasse la baionetta nel ventre di uno di voi, che non ha mai visto prima? Voi quel folle non lo comprendereste. Ma i vostri uomini e i vostri figli fanno esattamente lo stesso. Anche loro piantano a uomini e figli mai visti prima la baionetta nel ventre, e il trafitto urla e si torce e cade. Che cosa ha fatto lui a vostro figlio? E che ha fatto vostro figlio a quello che gli ha piantato in corpo la baionetta? Avete mai immaginato in che modo il vostro giovane figlio, che anche lui avrebbe voluto tanto vivere, tanto, ha dovuto morire…?
Ragazza, pensa all’ultimo sguardo del tuo fidanzato, che ferito e assetato nella calura estiva penzolava dal filo spinato. Immagina il suo ultimo terrificante sguardo.
– Donna, – disse Robert a una che impallidiva, e i settecento lo sentirono, nel silenzio tombale, – che ha fatto tuo marito, che tu amavi, che ti ha dato il pane e i figli, a quello che gli ha piantato la baionetta nel ventre?
La donna emise un lamento e la sua testa si piegò sulla spalla della vicina.
– Gli uomini sono folli, davvero e veramente folli, perché hanno dimenticato l’amore. E poiché hanno dimenticato l’amore credono che tutto debba essere come è… Il nostro popolo, come vediamo, si compone solo di mutilati e bambini, donne e vecchi mal ridotti. Se si andassero a raccogliere sui campi di battaglia le braccia e le gambe amputate, le membra staccate, i milioni di corpi straziati tra i quali anche quelli dei vostri figli e mariti, e li si gettasse sulle vostre strade, davanti ai vostri occhi, direste ancora: «Adesso bisogna rassegnarsi?», o finalmente sareste pronti ad amare, qualunque cosa accada? Capireste finalmente che coloro che vi impediscono di amare sono i vostri nemici? Nemici dell’uomo! Nemici del popolo…!
Le parole di Robert si fusero con le parole ripetute da cento voci: – Tutto è perduto! Non abbiamo più nulla da perdere! Nulla! Nulla!
Goya3La notizia si era già diffusa, quando attraversarono le strade. Davanti a tutti il cameriere, senza cappello, nel suo smoking macchiato, il tovagliolo in mano. – Vogliono fare la pace. Quelli vogliono fare la pace! Le commercianti, orfane dello sposo, abbandonavano il banco e si univano al corteo. Due pulitori di vetrine, avanti negli anni, abbandonarono le scale sulle quali stavano lavorando, per unirsi anche loro. Il manovratore del tram elettrico sentì la parola “pace”, saltò giù dalla vettura e si unì. I viaggiatori si unirono. In pochi minuti la massa si era triplicata, e si decuplicò quando Robert, giunto alla piazza si arrampicò sulla fontana e parlò. La sua bocca stagliava contro il cielo le chiare lettere della sua ultima frase: – La scure è già stata piantata nella radice. Perciò l’albero che non dà buoni frutti viene abbattuto e gettato nel fuoco. C’era lì una giovane donna, che non faceva altro che sorridere e ripetere “pace”. Forestieri che giungevano dalla stazione dimenticavano tutto e si univano alla folla che avanzava, infiammati di certezza. Uno squadrone in licenza, in divisa da campo, il fucile di sbieco sulle spalle e negli occhi l’orrore del campo di battaglia, si unì. Vecchie nonnette riuscivano a malapena a tenere il passo. Ai bambini il viso si faceva affilato per la sorpresa e capivano che stava succedendo qualcosa di grosso. A un vecchio sergente di polizia col pizzetto grigio e al braccio destro il nastro a lutto, gli occhi brillarono di esaltazione e si unì. Gente che camminava nella direzione opposta, incontrato il corteo, si voltava infervorata. I ciclisti volavano per le strade gridando: – Quelli vogliono fare la pace. – Le osterie si svuotarono. Le officine e i cantieri si svuotarono. Cinghie e alberi di trasmissione si fermarono. Una compagnia di soldati in servizio armato fu trascinata via. Canti d’amore risuonavano a tempo di marcia. Gli ammalati scesero dai letti e si trascinarono alle finestre. File chilometriche di donne che si muovevano in obliquo si spinsero una sull’altra per entrare nel corteo. Un ventenne, spirito ed esaltazione sulla fronte, sbucò fuori da un vicolo pieno di gente, si gettò sul cameriere, lo baciò. E il suo sguardo di fuoco spalancò i cuori. La città intera era risorta e gridava una sola parola: Pace! La parola si fece un canto potente di migliaia di voci.

(Traduzione di Paola Dal Zoppo)
(Immagini: Goya, i Disastri della guerra)

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Chi vince e chi perde a Gaza https://www.carmillaonline.com/2014/08/01/vince-perde-gaza/ Fri, 01 Aug 2014 21:40:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16523 di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome. A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del [...]]]> di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome.
A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del sionismo più aggressivo.
A Gaza non si può guardare soltanto con gli occhi dell’umanitarismo becero del cattolicesimo e del generico pacifismo.
A Gaza si sta giocando una partita mondiale.

Partita che si è aperta ormai da molti anni e che, con buona pace di chi predicava circa vent’anni fa la fine della storia, vede venire al pettine tutti i nodi della storia del novecento e della crisi del dominio occidentale (economico, politico e militare) sul globo.
Gli Stati Uniti non sono più credibili e l’Europa Unita è un puro concetto filosofico di scarso valore ed entrambe questa realtà non hanno più la forza di risolvere le crisi internazionali. Né con la diplomazia, né e tanto meno con gli eserciti.

Su questo non c’è alcun motivo per versare lacrime, come alcuni infausti democratici ed intellettuali più sinistri che di sinistra, vorrebbero forse fare.
Il capitalismo e l’imperialismo occidentali stanno declinando rapidamente dopo essersi illusi di aver sconfitto la lotta di classe e dei popoli soltanto perché alcune sigle e definizioni sono scomparse essendo diventate obsolete e prive di significati reali.

Ma la lotta di classe, all’interno di un sistema diviso ed organizzato per trarre profitto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può scomparire. Così come non possono sparire a comando, e nemmeno in seguito alla più terribile repressione, le richieste dei popoli oppressi di veder riconosciuti i propri diritti inalienabili. Poiché, in ultima analisi, la lotta di classe e l’anti-imperialismo non sono soltanto patrimonio del marxismo, del comunismo o dell’anarchismo, ma delle contraddizioni reali, radicate nella storia e nell’economia del sistema mondo.

Allo stesso tempo le contraddizioni del dominio e della spartizione imperialistica del globo stanno venendo a galla. In maniera sempre più evidente e proprio grazie all’indebolimento, non solo di immagine, dell’imperialismo occidentale.
Costretto ormai a delegare, anche contro voglia, ad altri il proprio ruolo di controllore planetario.
Il falso trionfo del 1989 mostra ora le sue drammatiche conseguenze e la spartizione del mondo tra due sole superpotenze è stata sostituita da un intricatissimo gioco di grandi e medie potenze locali con aspirazioni planetarie.

Ma tagliamo subito la testa al toro: oggi a Gaza non sta vincendo Israele.
Come già non aveva vinto nella guerra libanese del 2006, condotta con lo stesso dispiegamento di forze, mezzi e violenza distruttiva. Anzi, l’immagine dello stato ebraico ha iniziato a sfaldarsi anche là dove, per esempio presso l’opinione pubblica americana, era sempre risultata più convincente e vincente.

Non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele.

Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi) e l’Arabia Saudita. Nemica di ogni emancipazione sociale, politica e nazionale in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa e, soprattutto, dell’Iran.

Ne abbiamo già parlato altre volte su Carmilla: non si può capire cosa è avvenuto in Nord Africa e Medio Oriente, dalla caduta del regime di Gheddafi alla guerra in Siria e fino all’attuale “califfato iracheno”, se non si considera l’azione lenta ed inesorabile dell’Arabia Saudita e di alcuni suoi concorrenti degli Emirati per accaparrarsi le riserve petrolifere dell’area e il controllo politico e militare delle aree geografiche interessate

Infatti tra i vincitori dell’attuale scontro a Gaza vanno annoverati, in primo luogo, i sauditi.
Dalla Libia alla Siria, giù forse fino al Mali e alla Nigeria, le milizie integraliste che si scontrano tra di loro e con i rimasugli del potere statale superstite, lo fanno in nome dell’Arabia Saudita e del Qatar ovvero del petrolio. Occorre dirlo: Al Qaeda di Osama Bin Laden era al confronto una sorta di internazionale progressista, con l’idea di rovesciare il regime saudita, nazionalizzarne le risorse e le ricchezze e non abbandonare, almeno a parole, i vari popoli in lotta al loro destino.

Il progetto visionario, e per molti versi reazionario di Bin Laden, era, nonostante tutto, altra cosa da quello che si sta realizzando tra Iraq e Siria. Da quest’ultimo e dalle milizie jihadiste presenti in Libia e Siria non è mai giunta nemmeno una voce a difesa dei palestinesi. Anzi nei primi giorni del dramma si è cercato di distrarre l’attenzione degli arabi da Gaza attraverso la distruzione della moschea e del mausoleo di Giona.

Certo se si segue con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti dal 2010 in avanti ci si accorge che lentamente ed inesorabilmente le milizie jihadiste si sono progressivamente impegnate, non solo nelle aree petrolifere del continente africano e del Medio Oriente, a coinvolgere in uno scontro militare senza fine tutte quelle forze che, in un conflitto locale o allargato, avrebbero potuto prestare il loro appoggio all’Iran: Hezbollah, Siria e Hamas.

L’obiettivo di indebolire i potenziali alleati del principale nemico comune di Israele e Arabia Saudita è stato infatti raggiunto con l’aggravante, se vogliamo così dire, di aver diviso tra di loro anche alcune di queste forze. Per esempio proprio Hamas e Fratelli musulmani che dopo aver preso le distanze, in maniera opportunistica e becera, dal regime di Assad, sperando in un riconoscimento occidentale, si sono trovati poi alla mercé del colpo di stato militare egiziano (di cui il principale sponsor è stata proprio il capitale saudita) e dell’attacco israeliano (con poco o nessun appoggio militare dai cugini di Hezbollah, già fin troppo impegnati sul fronte siriano).

Cosa quest’ultima che ha spinto e spinge i militanti di Hamas ad intensificare l’azione di “bombardamento” del territorio israeliano per dimostrare la propria esistenza in vita.
Certo la resistenza dei militanti del suo braccio militare ha dell’eroico e il fatto stesso che Israele abbia dovuto richiamare altri 16.000 riservisti, facendo arrivare a quasi 100.000 i militari impegnati nell’operazione di invasione e controllo territoriale della striscia di Gaza, lo dimostra.

D’altra parte fino ad ora le truppe di terra sono state maggiormente impegnate nelle aree agricole e più scoperte della Striscia. Le aree urbane possono essere devastate , distrutte e massacrate, ma difficilmente conquistate come dimostra tutta la storia del ‘900 da Leningrado a Varsavia fino a Grozny. Le vittime dell’esercito di Israele aumenterebbero in maniera sproporzionata e il costo potrebbe risultare troppo alto anche per i più famigerati sostenitori israeliani dell’operazione.

Ma, nonostante ciò e a differenza di Hezbollah nel 2006, molto probabilmente anche Hamas non risulterà nel novero dei vincitori di questo conflitto: troppi morti e troppi sacrifici costerà il tutto ai Palestinesi di Gaza e questo sicuramente significherà un indebolimento delle sue posizioni, politiche e militari.
Mentre l’ipocrisia pacifista ed umanitaria che finge ancora che si possano fare guerre senza coinvolgere i civili e le strutture pubbliche (scuole, ospedali, abitazioni civili, infrastrutture di vario genere) nella distruzione, raggiungerà sicuramente il risultato di confondere ulteriormente le idee sul conflitto e sulle sue cause.

ONU, Ban Ki Moon, Obama, democratici di sinistra e di vario genere, pacifisti cattolici e mille altri pensano che sia possibile limitare i danni, pur mantenendosi equidistanti e riconoscendo il diritto all’autodifesa di Israele. Stupidi, arroganti e ignoranti che pensano, con parole di cordoglio, di nascondere che ogni difesa non può essere che attacco e che, nel caso di Israele, tale difesa può usufruire di mezzi di offesa straordinariamente efficaci e distruttivi.

Dimenticano, tutti e senza distinzione, che già nel 1921 proprio un teorico italiano, Giulio Douhet, nel suo testo “Il dominio dell’aria” (poi divenuto a livello internazionale una vera bibbia della guerra aerea) teorizzava l’uso dell’arma aerea come strumento di distruzione totale delle infrastrutture economiche e civili e di vero e proprio terrorismo nei confronti della popolazione soggetta ai bombardamenti. Infatti l’aviazione militare, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale e dal Vietnam all’Iraq e a Gaza non è stata mai utilizzata per la guerra intelligente (che già di per sé costituisce un curioso ossimoro), ma solo e sempre in chiave terroristica.

Scoprirlo ogni volta, con pianti e strepiti istituzionali e privi di conseguenze, è assolutamente ridicolo e fuorviante. La guerra è la guerra ed è diritto degli oppressi denunciarlo ed opporsi ad essa con ogni mezzo necessario. Altrimenti si rischia di tornare ancora una volta a giustificarla sotto forma di “operazioni di polizia” oppure di “pacificazione” oppure, ancora, con le mille altre formule elaborate dall’opportunismo immarcescibile nel corso degli anni.

Israele, l’abbiamo già detto, anche se dovesse radere al suolo la striscia di Gaza e massacrare tutti i suoi abitanti non vincerà mai questa guerra. Non solo per l’immagine, ma anche perché attraverso di essa e, soprattutto, con una possibile futura guerra all’Iran si sarà totalmente messa nelle mani dei suoi peggiori nemici/amici. Prima di tutto l’Arabia Saudita che, quando avrà acquisito il controllo di quasi tutte le aree petrolifere più importanti dell’Africa e del Medio Oriente avrà buon gioco a ricattare gli USA e ad utilizzare i regimi jihadisti e califfati vari contro Israele stessa.

Nel disastro del Medio Oriente, dopo aver distrutto i movimenti classisti e laici e gli stati nazionali nati da moti anti-coloniali, gli occidentali non hanno più che una carta: la forza militare di Israele.
Dopo aver alimentato il mostro integralista pur di troncare qualsiasi appartenenza di classe e dichiaratamente anti-imperialista dei movimenti in Africa del Nord e Medio Oriente oggi scoprono che dal califfato islamico iracheno e siriano, giù fino alla Palestina, passando per il Libano, e fino a gran parte dell’Africa essi hanno coltivato, da un lato, forze incontrollabili legate agli interessi e agli investimenti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi e dall’altra, e questa la cosa più interessante per l’antagonismo sociale, dei momentanei contenitori per una rabbia che non può più essere ulteriormente compressa.

Una rabbia che affonda le sue radici nelle contraddizioni di classe e nella miseria, ma anche, e forse soprattutto, in quelle ridicole divisioni territoriali legate agli interessi, prima, europei e, poi, americani che, a partite dalla spartizione dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, e dalla dichiarazione Balfour del 1917 hanno riempito il Medio Oriente di linee di confine verticali ed orizzontali che non hanno mai tenuto conto delle reali esigenze dei popoli coinvolti. Come già il Congresso di Berlino del 1885 aveva fatto con il continente africano.

Lasciamo pure piangere i filistei, soprattutto di sinistra, sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.

Tutti i nodi stanno venendo al pettine e l’Occidente è debole come non mai. Mickey Mouse Obama ne è la migliore esemplificazione. E tutti, ma proprio tutti, corrono a mettersi al riparo delle bombe israeliane, sperando che queste li salvino un giorno da ben altri missili sparati contro di loro e da ben altri conflitti, militari e di classe.

Ma i calcoli degli “occidentalisti”, quelli che sventolano in questo contesto le bandiere della democrazia greca, del femminismo di facciata e del cristianesimo di papa Francesco, sono errati e nascondono solo il vuoto politico, esattamente come i discorsi del bulletto di Firenze, e la paura. Di perdere. Tutto.

Anni fa, quando cominciarono le guerre afgane, chi scrive ebbe modo di affermare che la potenza militare statunitense si sarebbe rivelata un colosso d’argilla nei confronti dei combattenti che portavano solo sandali ai piedi e un kalashnikov a tracolla. Mi sembra che nulla abbia contraddetto quella affermazione. Anzi.
Oggi a Gaza è lo stesso. Gli israeliani potranno uccidere migliaia di palestinesi: combattenti, donne e bambini. Ma non vinceranno mai.

La specie nel suo insieme vuole continuare a vivere e non potrà sopportare in eterno una suddivisione dei beni, dei territori e delle risorse che implica una condanna alla miseria e alla morte per miliardi di individui da Sud a Nord e da Est a Ovest.
Nelle sue sempre più spaventose convulsioni il modo di produzione capitalistico, soprattutto qui in Occidente, non ha più altre risposte che la repressione, lo strozzinaggio finanziario e i bombardamenti. Così oggi, non solo per scelta ma neanche solo per necessità, siamo tutti Palestinesi davanti alle forze del capitale.
Ma alla fine la risposta di “quei piccoli uomini e di quelle piccole donne”, di cui ha parlato recentemente Valerio Evangelisti in un articolo, “chiamati a compiti molto più grandi di loro e delle loro capacità”, sarà adeguata e giustificata e ne decreterà la fine insieme a quella di tutti i suoi servi.

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War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

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