Pablo Calzeroni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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La pillola rossa dell’alt-right – 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/10/la-pillola-rossa-dellalt-right-1/ Mon, 10 Jul 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77734 di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica [...]]]> di Gioacchino Toni

You take the blue pill, the story ends, you wake up in your bed and believe whatever you want to believe. You take the red pill, you stay in wonderland, and I show you how deep the rabbit hole goes (The Matrix, 1999)

L’assenza di un modello verticistico promessa da internet e l’insofferenza nei confronti dell’establishment e delle ipocrisie di certo politically correct non si sono rivelate, di per sé, prerogativa della sinistra libertaria. Tanti cyberutopisti di sinistra hanno dovuto ricredersi: la forma (reticolare-partecipativa) offerta dal web non si è rivelata garanzia di contenuto (libertario). Nemmeno la logica della “pillola rossa” della “rivelazione” (nientemeno) in alternativa all’anestetica e  tranquillizzante “pillola blu” dispensata dall’establishment si è rivelata metafora esclusiva di una sinistra che, piuttosto, in astinenza da piazze novecentesche, deve saper evitare di farsi trascinare da tale logica in un vortice di lacrimogeni complottismi maleodoranti a rischio di riflessi rossobrunastri.

Sebbene sia ormai passato molto tempo da quando, sugli sgoccioli del vecchio millennio, ha fatto la sua uscita nelle sale, The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski si rivela ancora un prodotto culturale influente soltanto che, come afferma Mattia Salvia, «è come se il senso del film originale fosse stato ribaltato»; quella che alla sua uscita poteva essere colta come «l’epica lotta di un individuo per uscire dalla gabbia omologante della società dei consumi risulta inattuale»1.

Se in chiusura di Novecento lo spirito di Matrix sembrava prolungare la critica all’omologazione, al consumismo e allo sfruttamento proposta da They Live (1988) di John Carpenter, oggi il film di Lana e Lilly Wachowski solletica l’immaginario di chi, in balia di un frustrante senso di impotenza, nell’incapacità di decifrare la realtà che lo circonda e privo di una prospettiva futura a cui guardare, è pronto a dare credito a qualsiasi visione altra rispetto a quella a cui si sente costretto, ma da cui, nei fatti, continua a non sottrarsi evitando di mettere davvero in discussione la logica profonda che struttura la realtà che lo opprime. È indubbiamente più semplice prospettare visioni semplicemente, e spesso apparentemente, altre della realtà e individuare carpi espiatori su cui poter scaricare la frustrazione accumulata che non prospettare un mondo altro per cui valga la pena abbandonare la realtà attuale.

«La stessa metafora della pillola blu/pillola rossa», scrive Salvia, «è sopravvissuta solo al prezzo di cambiare completamente di segno»2; la metafora della pillola è entrata far parte dell’immaginario dell’alternative right, la tana del Bianconiglio sembra ormai rinviare direttamente al processo di radicalizzazione che conduce dentro QAnon e Morpheus, anziché presentarsi in impermeabile di pelle e occhiali scuri come la sua epidermide, ha il viso dipinto con colori patriottici e indossa un costume da sciamano.

Possiamo dire che il senso di Matrix ha cambiato di segno allo stesso modo in cui la globalizzazione ha finito per trasformarsi in un processo di ridefinizione dei rapporti d forza globali: la “matrice” indica ancora la realtà nascosta dietro l’alienazione dell’esperienza di vita occidentale, ma adesso quella realtà non è più percepita come spaventosa, bensì denunciata come insufficiente. Uscire dalla matrice non vuol dire più rifiutare di far parte di un mondo che si regge su terribili fondamenta, bensì rifiutare di far parte di un mondo le cui terribili fondamenta vanno così poco a fondo. Oggi Neo non esce dalla simulazione perché vuole la verità: ne esce perché la simulazione non lo soddisfa. Non combatte più per la futura sconfitta delle macchine da parte dl genere umano, ma per ritornare a una passato migliore – reale o simulato, poco importa»3.

Il web ha indubbiamente favorito idee e movimenti marginali, permettendone e incentivandone la crescita, e fino a quando la cultura da essi veicolata è stata – o sembrata – in linea con l’immaginario di sinistra, molti militanti e analisti con tali simpatie politiche hanno guardato all’universo online come a una miracolosa scorciatoia utile a superare l’immobilismo cresciuto insieme al mantra della “fine della storia”.

Il fatto che la reticolarità dell’infosfera potesse esprimere qualsiasi tipo di ideologia, compresa quella che ha poi preso il nome di alternative right, da molti è stato compreso quando questa, un passo alla volta, si è insinuata persino tra le pieghe dell’odiato establishment contribuendo a riplasmarlo.

La battaglia culturale che, negli Stati Uniti, si dispiega in internet da ormai qualche decennio viene a darsi in un contesto in cui, sin dalla metà degli anni Novanta, secondo Jonathan Crary4, vengono neutralizzate le energie ribelli dei giovani – negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali – trasformati in target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi. Online «vediamo quello che succede come viene visto. E in questo mondo di vita virtuale, anche noi appariamo sugli schermi ancora più di prima. Dobbiamo salire sul nostro piccolo palco virtuale e presentare la nostra immagine, i nostri profili»5.

Impugnane uno smartphone per condividere sulle piattaforme social il proprio desiderio di libertà tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden digitali di cui si continua, nei fatti, a essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dalla possibilità di trasmetterne a propria volta in un contesto però profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi6.

Sin dagli ultimi decenni del Novecento, come sottolinea Éric Sadin, si è andato progressivamente ad affermare il primato sistematico di sé sull’ordine comune in ossequio al progetto politico dell’individualismo liberale richiedente «una ricerca sfrenata della singolarizzazione di sé all’unico scopo di differenziarsi»7. La pretesa di indipendenza e sovranità che serpeggiava in individui delusi e traditi dalle promesse a cui avevano a lungo desiderato credere è stata amplificata dall’avvento di internet le cui lusinghe di partecipazione e autonomia hanno celato, di fatto, l’introduzione di sistemi valutativi e di procedimenti disciplinari sempre più sofisticati sugli individui attraverso la cessione alle grandi corporation del web di dati comportamentali e predittivi.

In molti, la sensazione di essere stati a lungo ingannati, l’aver assistito allo sgretolarsi di quel patto sociale che si voleva votato al solidarismo, l’incrementarsi dello scarto tra edulcorata “narrazione ufficiale” ed amara realtà delle cose, hanno generato l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “doppia realtà” parallela e incomunicante. Alla narrazione manistream si sono andate a contrapporre narrazioni di soggettività costruite soprattutto su particolarismi che trovano nei social i canali privilegiati in cui incanalare il rancore accumulato spesso accontentandosi di ricorrere a visioni semplicemente altre rispetto a quella ufficiale esponendosi così, non di rado, a complottismi di ogni risma8.

È a tale stato d’animo, a tale malessere esistenziale, oltre che materiale, che sono sembrate venire in soccorso tante salvifiche “pillole rosse” capaci, come per incanto, di smascherare lo storytelling dell’establishment rivelando “tutto ciò che era stato sempre nascosto” a un’opinione pubblica “tradita” in messianica attesa di “verità alternative”. È in tale desiderio di “visioni rivelatrici”, una volta passati di moda gli occhiali di They Live di Carpenter, che ha prosperato l’alternative right costruendo un nuovo regime dell’opinione edificato su asserzioni grossolane o infondate e mirabolanti teorie complottiste capaci di proporsi come risposte altre, rispetto a quelle ufficiali, sufficientemente plausibili a spiegare accadimenti inattesi e spiazzanti.

Nella retorica dell’alt-right, sostiene Luke Munn (Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti, a cura di, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, 2023 [su Carmilla]), “scegliere la pillola rossa” indica la volontà di guardare la realtà con “occhi nuovi” prendendo coscienza dell’ingannevolezza della narrazione dominante, sostituendo a essa contronarrazioni complottiste imperniate sul disprezzo nei confronti di tutti coloro che promuovono «opinioni socialmente progressiste e liberali, tra cui il femminismo, i diritti civili, i diritti dei gay e dei soggetti transgender e il multiculturalismo»9.

Agli individui in balia di umiliazioni quotidiane e del senso di impotenza, i social network hanno offerto narrazioni compensatorie  capaci di fornire illusorie magnificazioni (manistream) delle esistenze a esseri umani frustrati e/o la possibilità (alt-right) di scaricare l’ira accumulata prendendosela, spesso protetti dall’anonimato, con qualcuno o qualcosa.

È questa “l’era dell’individuo tiranno”: l’avvento di una condizione di civilizzazionale inedita, che vede l’abolizione progressiva di qualsiasi base comune e la comparsa di una moltitudine di individui sparsi, convinti di rappresentare l’unica fonte normativa di riferimento e di occupare una posizione preponderante che gli spetta di diritto. È come se in una ventina d’anni, l’intreccio tra la presunta orizzontalizzazione delle reti e l’esplosione delle logiche liberali, sostenitrici della “responsabilizzazione” individuale, fosse approdato a un’atomizzazione dei soggetti, incapaci di instaurare legami costruttivi e duraturi e intenzionati a far prevalere rivendicazioni basate principalmente sulle loro biografie e sulle loro condizioni10.

Negli Stati Uniti, tanto la cultura mainstream (e non certo da oggi), quanto quella dell’alt-right si dimostrano imperniate attorno a un analogo individualismo antisociale; solo che nel secondo caso questo assume forme anticonformiste e trasgressive per mascherare come ribellione la sostanziale non messa in discussione di un modello giunto al capolinea sommerso dalle sue tante contraddizioni.

Secondo Pablo Calzeroni, lʼelaborazione simbolica della realtà contemporanea è

progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione11.

Nel malessere che si agita online è possibile vedere un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web. «Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza». Dietro alla propagandistica lettura patinata del presente, offerta dalla tranquillizzante “pillola blu” manistream, si celano «sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto»12.

Se è pur verso che non è possibile addebitare al processo di digitalizzazione la colpa di tutti i mali, è innegabile il ruolo che ha avuto, e ha, nell’esplicitare e amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui contemporanei.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche [è] innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale13.

Analizzando l’ascesa dell’alt-right, Luke Munn ha evidenziato come la sua diffusione online si sia fondata su un processo di ricalibrazione del sistema di credenze attuato attraverso una «lenta, ma sistematica colonizzazione del sé, una progressiva infiltrazione che agisce sulla razionalità e sull’emotività»14.

Nell’analizzare le testimonianze di giovani statunitensi che si sono radicalizzati online, Munn individua alcune costanti nelle modalità con cui ciò è avvenuto. In molti racconti emerge, ad esempio, come l’algoritmo del motore di ricerca di Google, dopo aver elaborato le tracce delle ricerche più personali, si sia prodigato nel suggerire nella barra laterale di YouTube link rimandanti a video in cui vengono denigrate le opinioni socialmente progressiste e che invitano ad approfondire le tesi esposte in specifiche piattaforme. «Si comincia con l’umorismo di Steven Crowder, si passa a sostenitori dei diritti dei bianchi più espliciti come Lauren Southern, si procede con figure apertamente suprematiste come Jared Taylor per culminare con il verbo neonazista. Il processo è scalare, incrementale: non prevede stacchi bruschi»15.

L’escalation avviene lentamente, senza salti evidenti, in modo da rendere il tutto “naturale”. Rebecca Lewis16 ha descritto dettagliatamente il funzionamento di questo Alternative Influence Network, vera e propria ragnatela che compare su YouTube attravero narrazioni retoriche, celebrità di internet, studiosi, comici, influencer, opinionisti accomunati da un feroce disprezzo per tutto ciò che ritengono progressista. Gli utenti vengono dunque rimpallati tra una sessantina di influencer politici distribuiti su un’ottantina di diversi canali che man mano alzano il livello di radicalità così da rendere meglio accettabili le proposte politiche via via sempre più estreme.

Nulla è lasciato al caso. In base a una disamina di centinaia di segnali, agli utenti vengono presentati contenuti dal design attraente, che si innestano sui loro interessi, obiettivi e convinzioni dichiarate (attraverso specifiche scelte di consumo) o implicite (dedotte/ipotizzate dall’algoritmo). I motori di raccomandazione non sono entità statiche, che non operano in base a un presunto “io autentico”, stabile e riconoscibile. Sono, piuttosto, fenomeni dinamici, organici e aggiornati in tempo reale. Il profilo di un utente incorpora la sua cronologia di consumo, ma anche le sue esperienze di fruizione più recenti. […] Il consumo culturale non è mai neutrale e il consumo di video non è un processo astratto. La fruizione dei video, specie se ripetuta e prolungata, finisce per modellare la sfera cognitiva del soggetto, generando nuovi desideri, nuovi interessi e nuove concezioni della realtà. In questo senso, YouTube non è solo una piattaforma bensì un percorso, un iter, un condotto, un imbuto […]. Lentamente, progressivamente, il sistema di credenze di un utente viene ricalibrato. Si tratta cioè di un processo mediale metodico accompagnato da un cambiamento psicologico incrementale17.

Pur senza scivolare nel determinismo tecnologico, occorre prendere atto, sostiene Munn, di quanto siano metodiche ed efficaci le strategie messe in atto all’universo dell’alt-right. La logica di funzionamento delle maggiori piattaforme incentivano tale strategia in quanto garantisce importanti guadagni. Pur non essendo collegate tra loro in modo chiaro e intelligibile, le diverse questioni discusse dall’alt-right offrono agli utenti molteplici soglie d’ingresso e opportunità di immedesimazione. La retorica di fondo è ideologicamente coesa. «L’algoritmo suggerisce contenuti familiari, ma al tempo stesso propongono un barlume di novità. Quest’ultima, tuttavia, non può essere estrema, per non destabilizzare il fruitore. Per quanto il percorso non sia identico per ogni utente – può biforcarsi e divergere – in tutti i casi lo spinge sempre più in profondità [verso] un’unica direzione»18.

L’ingresso nell’alt-right, sostiene Munn, è pertanto il punto di arrivo di un graduale processo di radicalizzazione solitamente costruito attraverso una fase di normalizzazione (in cui l’umorismo e l’ironia giocano un ruolo fondamentale nel normalizzare anche le affermazioni più riprovevoli), dunque una di acclimatazione (sfruttando la ripetizione incessante per produrre familiarità, assuefazione e desensibilizzazione), infine una fase di disumanizzazione dell’alterità nemica, da intendersi come «un processo che pian piano logora, annienta e cancella l’altro, fino a trasformarlo in una non-persona, un personaggio di un videogioco, come uno zombie o un demone, da abbattere senza rimorsi»19.

Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream (Luiss, 2018), ha ricostruito puntualmente i conflitti culturali online che negli ultimi decenni – dapprima in contesti di nicchia, poi in ambiti decisamente più allargati di vita pubblica e politica –, hanno contribuito a costruire l’immaginario di una generazione di statunitensi appassionati di videogiochi, di anime giapponesi e dell’irriverenza al politically correct persino di serie come South Park (dal 1997 – in corso) di Matt Stone e Trey Parker, trasformatisi frequentemente in cyber-molestatori produttori di meme dal cinico umorismo nero, spesso contraddistinti da becere battute antifemministe o razziste che, in un’apoteosi di sguaiata trasgressione fine a sé stessa, hanno così trovato modo di sfogare i loro giovanili impulsi ribellistici e antisistemici.

Le battaglie culturali condotte in internet negli ultimi decenni, spesso condotte al riparo dell’anonimato, sostiene Nagle, hanno mostrato l’emergere di un’inedita sensibilità anti-establishment che ha trovato espressione in quella cultura fai-da-te fatta di meme e user-generated content, in una reticolarità partecipativa scardinante i vecchi modelli gerarchici su cui riponevano grandi aspettative tanti cyberutopisti libertari.

Sulle ceneri dei moralisti difensori dell’etichetta e della consapevolezza culturale, ad avere la meglio è però stata la galassia dell’alternative right, abile nel portare avanti il suo immaginario a suon di sberleffi “anti-politici” e “infrangi-tabù” tanto nei confronti dell’establishment che dell’attivismo liberal online focalizzato quasi esclusivamente sul gender-bender.

Se da una parte gli ambienti liberal online e dei campus, sostiene Nagle, hanno generato una tendenza a “problematizzare” ogni cosa, individuando ovunque tracce di misoginia e suprematismo bianco, dall’altra la galassia della destra online ha alzato il livello degli insulti e delle minacce ricorrendo frequentemente a forme di dileggio compiaciutamente volgari. «Un’intera generazione ha vissuto come formativi questi primi, oscuri approcci alla politica, che hanno così avuto un significativo impatto sulla sensibilità di massa e persino sul linguaggio». Numerosi esponenti di primo piano dell’alt-right hanno costruito la loro carriera «denunciando le assurdità delle politiche identitarie online»20 e la tendenza degli ambienti liberal a individuare ovunque forme di misoginia, razzismo, transfobia, discriminazione nei confronti dei disabili, body shaming ecc.

In apertura degli anni Dieci del nuovo millennio, sull’onda di una serie di manifestazioni di piazza, utopisti tecnologici, come i giornalisti Heather Brooke21 e Paul Mason22, si sono cullati nel sogno che i social network potessero garantire forme di “rivoluzione senza leader”. L’entusiasmo è stato di breve durata; presto si sarebbero palesati movimenti apparentemente “senza leader”, diffusi attraverso i social in maniera tutt’altro che spontanea, capaci di dare luogo a risvolti di estrema destra.

Negli Stati Uniti è attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio che, con la conquista della Casa Bianca da parte di un outsider incarnante la sempre più diffusa ostilità nei confronti dei media e dei partiti tradizionali, si è palesata la fine del dominio esclusivo dei vecchi media sulla politica ufficiale. Alla conquista del potere da parte di Donald Trump molti si sono tardivamente accorti del ruolo assunto dalla galassia dell’alternative right, nella cui orbita sono comparsi personaggi come Milo Yiannopoulos e spazi online come 4chan, oltre a svariati siti neonazisti, suprematisti, anti-egualitari, segregazionisti e nazionalisti bianchi ove si sono messi in luce individui come Richard Spencer.

Nonostante la varietà delle tematiche discusse all’interno di tale galassia – dal calo demografico al declino della civiltà occidentale, dalla decadenza culturale al processo di islamizzazione ecc. –, l’elemento accomunante è l’ambizione a creare un’alternativa all’establishment conservatore di destra, definito sprezzantemente con il neologismo cuckservative per la «passività cristiana e per aver offerto, metaforicamente, le loro “donne”, cioè la loro nazione e la loro razza agli invasori stranieri non di razza bianca»23. Il successo otteneuto soprattutto sui più giovani da parte della cultura veicolata da tale galassia è dovuto in buona parte al ricorso insistito alle immagini e all’umorismo irriverente e trasgressivo dei meme di 4chan, poi 8chan, e al ricorso a strategie da hacker.

[continua]

 


  1. Mattia Salvia, Interregno. Iconografie del XXI secolo, Nero, Roma, 2022, p. 234. 

  2. Ibidem

  3. Ivi, p. 235. 

  4. Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista, Meltemi, Milano, 2023 [su Carmilla]

  5. Hans Georg Moller, Paul J. D’Ambrosio, Il tuo profilo e te. L’identità dopo l’autenticità, Mimesis, Milano-Udine, 2022, p. 221 [su Carmilla]

  6. Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022, p. 31. 

  7. Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma, 2022, p. 17 [su Carmilla]

  8. Gioacchino Toni, Il nuovo disordine mondiale / 11: dispositivi digitali di secessione individuale generalizzata, in “Carmilla”, 3 aprile 2022. 

  9. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 138, nota 15. 

  10. Éric Sadin, Io tiranno, op. cit., pp. 26-27. 

  11. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, p. 124 [su Carmilla]

  12. Ivi, pp. 10-11. 

  13. Ivi, p. 11. 

  14. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 137. 

  15. Ivi, p. 141. 

  16. Rebecca Lewis, Alternative Influence: Broadcasting the Reactionary Right on YouTube, in “Data & Society”, 18 settembre 2018. 

  17. Ivi, pp. 143-144. 

  18. Ivi, p. 146. 

  19. Ivi, p. 154. 

  20. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 17. 

  21. Heather Brooke, The Revolution Will Be Digitised. Dispatches from the Information War, Windmill Books, London, 2011. 

  22. Paul Mason, Why It’s Kicking Off Everywhere. The New Global Revolutions, Verso Books, London, 2011. 

  23. Angela Nagle, Contro la vostra realtà, op. cit., p. 22 

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Culture e pratiche di sorveglianza. Internet in ogni cosa https://www.carmillaonline.com/2021/09/16/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-internet-in-ogni-cosa/ Thu, 16 Sep 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68144 di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla rete di oggetti e sistemi al di fuori dagli schermi come veicoli per la mobilità, dispositivi indossabili, droni, macchinari industriali, elettrodomestici, attrezzature mediche ecc… Oltre che con le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme di condivisione di contenuti in rete, ad introdursi nell’intimità degli individui concorrono sempre più oggetti di uso quotidiano in grado di raccogliere e condividere dati personali. Oltre a evidenziare come il cyberpazio premei ormai completamente – e non di rado impercettibilmente – l’universo offline dissolvendo sempre più il confine tra mondo materiale e mondo virtuale, tutto ciò induce a domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana o se invece si stia navigando a vele spiegate verso il superamento stesso del concetto di privacy.

Nel volume DeNardis espone alcuni esempi utili a comprendere come il contraltare del controllo esercitato sugli oggetti connessi ad Internet sia la loro vulnerabilità. Un esempio riguarda la possibilità che estranei da remoto possano accedere e manipolare dispositivi medici dotati di radiofrequenza impiantati nel corpo umano e connessi alla rete. Altro caso su cui si sofferma l’autrice concerne l’ambito dei “sabotaggi di Stato”2, come nel caso del virus Stuxnet individuato nel 2010 con buona probabilità progettato da statunitensi e israeliani esplicitamente per sabotare i sistemi di controllo dei sistemi nucleari iraniani, o del sabotaggio della rete elettrica ucraina presumibilmente per mano dei servizi segreti russi. Altro inquietante esempio riguarda la vicenda della “botnet” Mirai del 2016, probabilmente il più vasto cyberattacco dispiegato sino ad ora attuato attraverso il sabotaggio di semplici apparecchi casalinghi connessi a Internet che ha reso inaccessibili a vaste aree statunitensi oltre ottanta tra i siti più popolari (Netflix, Amazon, Twitter…). L’attacco è stato condotto prendendo il controllo di milioni di dispositivi domestici ricorrendo a una sessantina di username e password comuni o di default per impiantare malware attraverso cui inondare di richieste i siti e mandare in tilt il loro consueto traffico, dunque nei fatti rendendoli inaccessibili.

Oggi esistono più oggetti connessi digitalmente che persone e si tratta di un fenomeno in rapida espansione tanto da prospettare significative implicazioni, oltre che economiche, nell’ambito della governance e dei diritti dell’individuo.

Nel gergo dei sistemi cyberfisici, le cose connesse sono oggetti del mondo reale che integrano direttamente elementi digitali. Esse interagiscono simultaneamente con il mondo reale e con quello virtuale. Il loro scopo principale [è orientato a] mantenere i sistemi in funzione rilevando e analizzando i dati, e controllando automaticamente i dispositivi. […] Già oggi milioni di sensori monitorano le condizioni ambientali, i sistemi industriali, i punti di controllo e il movimento degli oggetti. Questi sistemi inoltre fanno direttamente funzionare i dispositivi […] I sistemi digitali sono oggi sistemi di controllo delle cose e dei corpi del mondo reale. I sistemi biologici fanno parte dell’ambiente degli oggetti digitali. L’internet delle cose è anche l’Internet del sé. Le “cose” dell’Internet delle cose comprendono anche i sistemi biologici delle persone, attraverso tecnologie indossabili, dispositivi di identificazione biometrica e sistemi di monitoraggio digitale medico3.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline si sta facendo sempre più labile; Internet si è esteso dal solo campo cognitivo degli utenti fino a divenire lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità momentanea tramite schermi ad una modalità costante attraverso oggetti di uso quotidiano. L’essere o meno online non dipende più da una scelta dell’individuo di operare o meno con un dispositivo con uno schermo.

Le sfere ibride online-offline penetrano nel corpo, nella mente, negli oggetti e nei sistemi che collettivamente compongono il mondo materiale. Internet non ha più solo a che fare con le comunicazioni e non è nemmeno più un semplice spazio virtuale. La concezione aprioristica della rete come un sistema di comunicazione tra le persone deve essere superata. L’impennata di sistemi che integrano simultaneamente componenti digitali e del mondo reale crea condizioni che mettono profondamente in discussione le nozioni tradizionali della governance di Internet. Non ha più senso vedere gli spazi online come sfere distinte, tecnicamente o politicamente, all’interno di un mondo virtuale separato in qualche modo dal mondo reale. Online e offline sono intrecciati4.

Tale intreccio tra oggetti del mondo reale e ambito della rete richiede un ripensamento della categoria di “utenti Internet”; sarebbe riduttivo limitarsi a conteggiare gli esseri umani connessi alla rete – passati dall’1% (in buona parte concentrati negli Stati Uniti) di metà anni Novanta a circa il 50% della popolazione mondiale nel 2017 –, visto inoltre che il computo non discerne facilmente tra le persone reali e i “bot”, sistemi automatici come i web crawlers che passano in rassegna i contenuti di Internet per indicizzarli, o i “chatbot”, in grado di sostenere conversazioni con gli utenti. Si stima che una percentuale compressa tra il 9% e il 15% degli account Twitter sia composta da “bot” non di rado utilizzati per marketing, propaganda politica, attivismo e campagne di influenza. Al di là del fenomeno degli account automatici, gli oggetti connessi risultano oggi più numerosi rispetto alle persone e si tratta di oggetti che non hanno relazione formale con gli utenti umani, non sono dotati di schermo né interfaccia utente.

Anche individui mai stati online risultano coinvolti da ciò che avviene in rete; tutto è connesso e dirsi “non presenti in Internet” non ha più molto senso. Un attacco hacker nel 2013 ha colpito una importante catena commerciale statunitense ottenendo accesso ai dati personali (carte di credito, indirizzo di abitazione, numero di telefono ecc…) di circa 70 milioni di clienti sfruttando il sistema climatico del network aziendale. Ad essere violati non sono stati soltanto i dati dei clienti che hanno effettuato acquisti sul web ma anche quelli di chi si è recato esclusivamente nei negozi fisici della catena commerciale. Non è dunque indispensabile, sottolinea DeNardis, “essere su Internet” affinché la vita di un individuo possa dirsi in parte dipendente dalla rete. Maggiore è la diffusione delle tecnologie e meno queste si fanno visibili; più sono integrate nei sistemi materiali e meno necessitano di consensi espliciti.

L’integrazione di queste reti di sensori e attuatori nel mondo fisico ha reso la progettazione e la governance dell’infrastruttura cibernetica una delle questioni geopolitiche più significative del Ventunesimo secolo. Ha messo in discussione le nozioni di libertà e le strutture di potere della governance di Internet, e indebolito ancora di più la capacità degli Stati Uniti di affrontare sul piano politico queste strutture tecniche intrinsecamente transnazionali5.

DeNardis evidenzia le strutture di potere integrate nell’ambito infrastrutturale fisico-digitale insistendo sulla rilevanza che l’ibrido fisico-virtuale viene ad assumere a livello economico, sociale e politico. Facendo attenzione a non cadere nel “determinismo tecnologico”, l’autrice si dice convinta che la composizione dell’architettura tecnica sia anche composizione del potere. «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici son concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione»6. Per comprendere le politiche tecnologiche è indispensabile riconoscere tanto le realtà materiali ingegneristiche quanto le costruzioni sociali di queste.

Le leve del controllo della governance di Internet non si limitano affatto alle azioni dei governi tradizionali, ma includono anche: 1. le politiche inscritte nel design dell’architettura tecnica; 2. la privatizzazione della governance, com’è il caso delle politiche pubbliche messe in atto tramite moderazione dei contenuti, termini di servizio sulla privacy; modelli di business e struttura tecnologica; 3. il ruolo delle nove istituzioni globali multi-stakeholder nel coordinare le risorse critiche di Internet oltre confine; e qualche volta 4. l’azione collettiva dei cittadini. Per esempio, la progettazione degli standard tecnici è una faccenda politica. Sono i modelli, o le specifiche, che permettono l’interoperabilità tra prodotti creati da aziende differenti. […] Se i punti di controllo dell’infrastruttura distribuita danno forma, vincolano e abilitano il flusso delle comunicazioni (email, social media, messaggi) e dei contenuti (per esempio, Twitter, Netflix, Reddit), l’infrastruttura connessa con il mondo fisico (corpi, oggetti, dispositivi medici, sistemi di controllo industriale) è in grado di sortire effetti politici ed economici molto superiori7.

Nel rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso il web possa comportare un miglioramento della vita umana viene però spesso omesso come tali miglioramenti si riferiscano ai tempi e ai fini imposti agli individui dalla “società della prestazione”8 che, nella sua finalità disciplinare si preoccupa di «Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile9. Scrive a tal proposito Salvo Vaccaro:

Alle istituzioni disciplinari con i suoi innumerevoli regolamenti minuziosi e dettagliati, tipici di un apparato amministrativo in via di burocratizzazione e centralizzazione statale nel XVIII e XIX secolo, oggi le nuove tecnologie mediatiche consentono una verticalità abissale della potenza regolativa in grado di controllare persone e cose – basti pensare all’Internet of Things e alla regolazione remota della connessione di funzionamento reciproco umano-macchina specifico alla domotica. Come sempre in ottica foucaultiana, tale potere non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife. Una vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato […] e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia. La mercatizzazione della società in via di digitalizzazione automatizza la gestione manageriale degli individui sia come corpi fisici che come corpi virtuali, assegnando loro funzioni, standard, obiettivi, distribuendo loro incentivi e disincentivi, integrandoli o espellendoli secondo necessità, su scala mondiale, come ci insegnano i processi di delocalizzazione repentina. Questa nuova biopolitica digitale configura inediti assetti di potere ridisegnando le relazioni che ne tessono la trama e ne delineano forme plastiche, fluide, mobili, e tendenze dinamiche, vorticose, al limite caotiche. La velocità di evoluzione e trasformazione repentine delle innovazioni tecnologiche ne sono l’emblema, la cifra, sarebbe proprio il caso di dire, che si tratta di individuare al fine di cogliere il terreno su cui attualmente ci muoviamo, di intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere che la nuova tecnologia politica scatena, infine di sperimentare inedite forme di conflitto all’altezza con il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite10.

Al di là dell’auto-propaganda degli artefici della manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet, è impossibile non vedervi una potente forma di controllo, una «forma di manipolazione che può essere talmente prossima al corpo umano da arrivare fin dentro esso e tanto lontana quando lo sono dei sistemi di controllo industriale dall’altra parte de mondo»11.

DeNardis pone l’accento su come la capacità di influenza tra digitale e mondo fisico si dia in entrambe le direzioni: se è ovviamene possibile manipolare il mondo fisco connesso attraverso la rete, altrettanto, agendo sulla realtà fisica collegata a Internet è possibile agire sulla realtà digitale. L’autrice si sofferma sulla questione della governance in un tale contesto a proposito di privacy, sicurezza e interoperabilità. In ambito di privacy vengono, ad esempio, analizzati non solo quegli ambiti – industriali, abitativi, sociali e persino relativi al corpo umano – un tempo nettamente sperati dalla sfera digitale, ma anche gli aspetti discriminatori, come nel caso del ricorso ai dati accumulati online ai fini lavorativi, assicurativi e polizieschi.

Nel volume viene evidenziata «la dissonanza cognitiva tra come la tecnologia si stia rapidamente spostando nel mondo fisico e come le concezioni di libertà e governance globale siano invece ancora legate al mondo della governance e della comunicazione»12. A lungo si è insistito sul ruolo dell’autonomia umana e dei diritti digitali nel contesto della web pensandolo come «una sfera pubblica online per la comunicazione e l’accesso alla conoscenza. L’obiettivo delle società democratiche è stato preservare “una rete aperta e libera”: un concetto acritico che è diventato più che altro un’ideale feticizzato»13. La questione della “libertà di Internet” ha certamente un suo sviluppo storico ma ha sempre teso a concentrarsi sulla libera trasmissione dei contenuti sottostimando tanto la questione dei diritti umani alla luce del contesto cyberfisico quanto il controllo dell’informazione esercitato non solo da parte del potere autoritario ma anche del settore privato14.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Dal Lago Alessandro, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Vaccaro Salvo, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Su Carmilla – Serie completa: Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021, p. 17. 

  2. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla

  3. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., pp. 23-24. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, pp. 32-33. 

  6. Ivi, p. 32. 

  7. Ivi, pp. 33-34. 

  8. Cfr.: Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012; Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  9. Michel Foucault, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998, p. 162. 

  10. Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020, pp. 141-143. Su Carmilla

  11. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., p. 35. 

  12. Ivi, p. 38. 

  13. Ibidem. 

  14. Cfr.: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017; Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

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Cultura della sorveglianza https://www.carmillaonline.com/2021/09/09/cultura-della-sorveglianza/ Thu, 09 Sep 2021 20:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67967 di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare [...]]]> di Gioacchino Toni

Pensare alla cultura della sorveglianza contemporanea facendo riferimento all’immaginario della distopia orwelliana rischia di far perdere di vista quanto sta accadendo nella realtà. Se ultimamente si guarda con preoccupazione all’incremento del livello di controllo sugli individui e sulla collettività dispiegato dagli apparati statali, decisamente meno allarme sembra destare quanto in termini di sorveglianza e indirizzo individuale e sociale l’ambito economico sta già, e da tempo, mettendo in atto. È stato detto che il ricorso alla digitalizzazione dell’esperienza umana a scopo di profitto ha potuto prosperare grazie a una certa propensione alla “servitù volontaria” che gli individui sembrano scambiare volentieri con qualche “servizio” offerto dal web o qualche piattaforma social attraverso cui supplire a una sempre più marcata carenza di rapporti sociali e di azione fuori dagli schermi, ma tale propensione più che riconducibile alle debolezze umane sembra piuttosto essere il risultato di alcune importanti trasformazioni – non solo tecnologiche – che hanno segnato gli ultimi decenni.

Se la digitalizzazione di numerosi servizi ha praticamente imposto il costante ricorso a Internet – tanto da discriminare nettamente la componente più anziana della popolazione, meno capace di ricorrere alla tecnologia digitale, e quella più svantaggiata economicamente, inevitabilmente meno dotata delle risorse necessarie – non di meno è oggettivamente difficile sottrarsi da quelle piattaforme digitali che sembrano offrire gratuitamente una sensazione di partecipazione, di relazione sociale, di identità e di protagonismo, tanto che vi viene fatto ricorso anche per protestare contro quel controllo sociale a cui si sta contribuendo immettendo dati in rete. Gli utenti delle tecnologie digitali sono «materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare […]. Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente»1. Poco importa cosa le persone si scambiano on line, vanno benone anche le proteste più accese e radicali; ciò che conta è che si producano dati in grande quantità.

Quello che è stato chiamato “capitalismo della sorveglianza”2 fuoriesce dagli schermi ed entra nel reale non solo attraverso le applicazioni e le piattaforme che si utilizzano quotidianamente ma anche grazie all'”Intenret delle cose”3, agli oggetti connessi digitalmente con la rete, e lo fa sfruttando: i tempi ristretti imposti agli individui dalla “società della prestazione”4; la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso percepiti come neutri5; la parcellizzazione dell’apprendimento6; l’accesso selettivo alle informazioni utili a immediate esigenze di relazione7; il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali a partire dalle informazioni sui comportamenti degli individui8; le politiche progettuali e amministrative che strutturano e finalizzano le tecnologie9; il primato dell’appropriazione temporanea dell’utente sul contenuto nell’ambito di un contesto in cui è la tecnica a delineare i confini delle nuove modalità di una conoscenza sempre più orientata al conformismo10. Si è di fronte al più sofisticato strumento di monitoraggio e predizione comportamentale mai visto all’opera nella storia e buona parte di tali pratiche di controllo e manipolazione sociale non sono in possesso degli Stati, ma di aziende private, le nuove superpotenze11.

Sarebbe importante approfondire il sempre più marcato passaggio di mano della tradizionale funzione censoria, di indirizzo etico, un tempo prerogativa degli Stati, alle grandi piattaforme private di comunicazione e commercio; la partecipazione in rete è sempre più sottoposta alla regolamentazione aziendale piuttosto che alla legislazione degli Stati, tanto che, come si è visto, gli stessi leader politici, se vogliono usufruire delle piazze virtuali per comunicare, devono adeguarsi ai parametri censori decretati dalle corporation. Anche questo è sintomo di un passaggio di consegne divenuto inevitabile nel momento in cui si è incrementata la propensione all’abdicazione della politica all’economia.

È ormai chiaro che il concetto di superpotenza non può essere applicato esclusivamente a uno Stato dotato di un forte apparato militare ma deve contemplare anche l’ambito cibernetico. Se una superpotenza cibernetica per dirsi tale deve poter avere ampio accesso alla rete esercitando un certo controllo dei flussi di dati, allora tale definizione risulta oggi riferibile a colossi come Google, Microsoft, Apple, Amazon e le più importanti aziende fornitrici di tecnologie infrastrutturali e produttrici di microprocessori. Nella riunione sulla sicurezza informatica del G7 del 2017, tenuta ad Ischia sotto la presidenza italiana, accanto ai leader dei sette paesi più potenti del mondo hanno preso posto i rappresentati dei colossi del web e dell’informatica sancendo, ancora una volta, il ruolo sempre più importante di queste grandi corporation sul panorama politico mondiale.

Oggi il 90% delle ricerche su Internet avviene attraverso Google. La stessa Google, insieme a Facebook, controlla oltre il 90% della pubblicità on line. I sistemi operativi di Apple (iOS) e Google (Android) equipaggiano il 99% degli smartphone. Ancora Apple, ma questa volta con Microsoft, forniscono il 95% dei sistemi operativi nel mondo. Il 95% degli under trenta che usano Internet (cioè tutti) ha un profilo Facebook o Instagram (che è sempre di Facebook). Amazon controlla la metà delle vendite on line degli Stati Uniti. Nei paesi occidentali ormai una persona su tre utilizza un assistente vocale come Alexa (Amazon) o Siri (Apple). Un orecchio sempre attivo che ascolta, ascolta, ascolta e immagazzina informazioni. Numeri simili riguardano servizi come la classiche e-mail, le mappe, lo sviluppo di intelligenza artificiale o di auto a guida autonoma12.

A spartirsi gli spazi cloud, ove sono presenti informazioni di ogni tipo, sono Amazon, che controlla quasi la metà del mercato globale, Microsoft – che vanta un rapporto privilegiato con il Pentagono – e Google.

Insomma, “la più grande opera di digitalizzazione mai fatta” è stata in realtà realizzata da queste grandi corporation private che stanno ulteriormente rafforzando la loro capacità di dominio13.

Può pertanto risultare contraddittorio inveire in Internet contro le pratiche di sorveglianza o farlo in una piazza con uno smartphone in tasca, quando non impugnato per digitalizzare prontamente la realtà e diffonderla sui social quasi a volerla certificare all’interno di quel mondo vissuto sempre più come primario. Se è innegabile che la digitalizzazione ha allargato e intensificato la sorveglianza, più difficile è dire quanto questa stessa tecnologia, in un tale contesto, possa essere utilizzata con finalità davvero altre14.

Ad insistere su come siano cambiate negli ultimi decenni l’esperienza e la percezione della sorveglianza è il libro di David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori (Luiss University Press 2020), uscito originariamente in inglese nel 2018. Con l’espressione “cultura della sorveglianza”, Lyon si riferisce a tutti quegli ambiti di interesse propri solitamente dell’antropologia, come gli usi e i costumi, le abitudini e le modalità con cui si guarda e si interpreta il mondo. Piuttosto che sui centri di potere politico-economico interessati al controllo, l’autore preferisce soffermarsi sulle modalità con cui la sorveglianza viene immaginata e vissuta dagli individui, su come le più banali attività quotidiane siano influenzate dalla sorveglianza e come a loro volta la influenzino e su come si tenda a promuoverla o a prendervi parte rendendola parte del proprio stile di vita.

La sorveglianza non è più soltanto qualcosa di esterno che influisce sulle “nostre vite”. È anche qualcosa a cui i cittadini comuni si conformano – volutamente e consapevolmente o meno –, che negoziano, a cui oppongono resistenza, a cui prendono parte e, in modi nuovi, a cui danno inizio e che desiderano. Da aspetto istituzionalizzato della modernità o modalità tecnologica di disciplina sociale, ora la sorveglianza è stata interiorizzata in modi nuovi. Permea le riflessioni quotidiane sulla realtà e il repertorio delle pratiche quotidiane […] La cultura della sorveglianza è sfaccettata, complicata, fluida e piuttosto imprevedibile15.

La cultura della sorveglianza contemporanea parrebbe dunque caratterizzarsi, rispetto al passato, per una maggiore partecipazione attiva alla propria e all’altrui sorveglianza, in quest’ultimo caso occorre sottolineare che se si possono controllare agevolmente le vite altrui attraverso i social, ciò avviene anche perché i “controllati” fanno di tutto per permetterlo, ossessionati come sono dall’esibirsi sulla rete senza che ciò venga loro direttamente imposto, anche se è chiaro che i sistemi presenti sul mercato, come le piattaforme web, sono esplicitamente progettati per incoraggiare tutto ciò.

Da un parte, il coinvolgimento dell’utente nei confronti di dispositivi e piattaforme come smartphone e Twitter crea dati usati nella sorveglianza delle organizzazioni. E dall’altra gli utenti stessi agiscono come sorveglianti quando controllano, seguono e danno valutazioni ad altri con i loro “like”, le loro “raccomandazioni” e altri criteri di valutazione. Quando lo fanno, non interagiscono solo con i loro contatti online, ma anche con modi subdoli in cui le piattaforme sono create per favorire particolari tipologie di interscambio16.

Circa la consapevolizza della sorveglianza occorre dire che se l’intreccio tra gli ambiti militari, statali e aziendali nelle pratiche di controllo si è palesato nettamente negli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, successivamente il dilagare dei social network ha piuttosto evidenziato un tipo di sorveglianza aziendale volta a estrarre valore dai dati personali. A rafforzare tra la popolazione la percezione del controllo diffuso è stata poi la diffusione nel 2013 da parte di Edward Snowden di documenti relativi a pratiche di sorveglianza telefonica e Internet di massa tra Stati Uniti e Unione europea.

Nonostante l’essere tracciati dalle corporation risulti secondo diverse ricerche tra le maggiori preoccupazioni degli statunitensi, ciò non sembra aver modificato granché la loro partecipazione alla grande macchina di raccolta dati; le stesse rilevazioni Snowden hanno sì generato indignazione e preoccupazione ma non hanno modificato in maniera sostanziale le abitudini dello “stare in rete” e dell’autoprofilazione via social. Come qualsiasi altra cultura, anche quella della sorveglianza si sviluppa in modalità diverse e, soprattutto, tende a trasformarsi rapidamente a maggior ragione in contesti di crescente liquidità sociale.

Per tratteggiare lo sviluppo della cultura della sorveglianza nel libro vengono riportati alcuni esempi di profilazione dei clienti da parte di catene come Tesco e Canadian Tire da cui si apprende che persino l’acquisto di feltrini da collocare sotto le sedie potrebbe influire sulla concessione di un presito. Altro ambito indagato è quello degli aeroporti ove gli individui sapendo di essere osservati modificano il proprio comportamento partecipando così al “teatro della sicurezza”; nell’approssimarsi ai controlli i passeggeri si atteggiano al fine di fornire un’immagine di sé affidabile e trasparente a maggior ragione se appartengono a “categorie” considerate a “rischio” (in cui si può rientrare anche soltanto per avere una determinata tonalità di pelle o per portare la barba)17.

Dopo l’11 settembre negli Stati Uniti l’agenzia statale che sarebbe poi diventata la Homeland Security ha palesato tra le sue priorità quella di strutturare collaborazioni con le società private attive nella raccolta dati dei propri clienti per meglio individuare potenziali terroristi. Si potrebbe dunque essere fermati in aeroporto anche in base a qualche fantasiosa associazione prodotta da un algoritmo che riprende il monitoraggio relativo agli acquisti nei supermercati o ai termini inseriti in un motore di ricerca sul web.

Se non mancano atteggiamenti di resistenza o almeno di ritrosia alla sorveglianza, vi sono anche casi in cui questa viene adottata dai singoli ad esempio attraverso: la “condivisione” del tracciamento tramite GPS di “smartphone amici” (perlopiù in ambito famigliare); il controllo di conoscenti o vicini di casa attraverso le informazioni da loro caricate sui social; i baby monitor utilizzati per controllare la babysitter; i sistemi di telecamere degli allarmi anti-intrusione nelle abitazioni; il monitoraggio delle attività online dei figli attraverso software; più in generale tutti gli oggetti connessi a Internet. Secondo Lyon tutto ciò contribuisce a rafforzare la convinzione che la sorveglianza sia diventata parte di uno stile di vita, un modo con cui ci si rapporta al mondo.

A conocorrere alla grande macchina della sorveglianza sono anche le “automobili senza guidatore” che non solo accumulano dati sugli itinerari e sulle abitudini dei passeggeri ma che, per interagire con essi, necessitano di conoscere numerosi dati che li riguardano, tenendo inoltre presente che tutte queste informazioni verranno sempre più messe in rete con quelle di altri utilizzatori al fine di gestire la viabilità urbana. Le stesse “smart cities” – sul modello che si sta sperimentando a Songdo, nei pressi di Seul in Corea del Sud – possono essere lette, suggerisce Lyon, come veri e propri incubatori della cultura della sorveglianza.

A partire dallo smartphone, con cui soprattutto i più giovani strutturano un rapporto di interazione strettissimo, basato sulla concessione dei dati personali18, le tecnologie di comunicazione digitale si configurano ormai come sensori nella routine quotidiana vissute come del tutto “naturali”. A permettere che quanto è divenuto familiare possa essere vissuto come normalità concorre una cultura che propaganda in maiera martellante l’individualismo e l’autopromozione.

La smania di trasparenza degli ambiti sia privati che pubblici, tanto fisici che digitali, fa leva sull’idea che non si ha “nulla da nascondere”, inoltre a incentivare l’esposizione è il bisogno di percepirsi parte di una comunità. Il desiderio di trasparenza insomma sembra indirizzare a una società di “schiavi della visibilità” in cui ci si sottopone volontariamente al controllo sociale, in un sistema di coercizione dell’individuo impegnato a fornire e a gestire un’immagine personale adeguata alle richieste sociali mercificate.19.

É soprattutto grazie alle tecnologie interattive digitali che avviene il passaggio da una sorveglianza fissa a una fluida.

I dati del contatore dell’elettricità smart mostrano se siete in casa o no. Il vostro smartphone registra la vostra posizione e i vostri “like” oltre alle persone che contattate Ma ciò avviene all’interno di un contesto culturale più ampio, in cui calcolare rischi e opportunità è centrale, precedere il futuro è un obiettivo fondamentale e ovviamente la prosperità economica e la sicurezza dello Stato sono strettamente collegate20.

Ne deriva l’inseparabilità della sorveglianza smart da ciò che lo studioso definisce “social sorting”, ossia lo smistamento sociale sulla base dei dati raccolti sulla rete con lo scopo di profilare gli individui e di sorvegliarli costantemente.

Le tecnologie integrate, indossabili e mobili si infilano facilmente nelle routine e nei regimi della vita quotidiana. Vengono acquistate da persone a cui offrono vantaggi seducenti e convenienti, tra cui miglioramenti personali. L’aspetto più ovvio, con i cellulari e poi con gli smartphone, è che il dispositivo diventa parte della vita, un oggetto personale, non solo uno strumento di comunicazione. Ma più in generale, con lo sviluppo dell’“ubiquitous computing” e dell’Internet delle cose, sia i programmatori che gli “utenti” sono maggiormente consapevoli della necessità di “interfacce” appropriate che diminuiscano la “distanza” tra gli utenti e le loro macchine. Da qui, per esempio, gli accessori di abbigliamento con sensori che troviamo anche in dispositivi di tracciamento personali come Fitbits21.

Se le forme di sorveglianza convenzionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, difficilmente sono associate a “piaceri estetici” e tendono a generare ansia, le nuove forme familiari e quotidiane che la sorveglianza sta adottando si rivelano non solo abili nell’evitare impatti ansiogeni ma riescono persino in diversi casi a rendersi desiderabili e tali tipi di sorveglianza percepita come soft comportano una maggior propensione alla complicità nella sorveglianza di se stessi e degli altri.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
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  • Del Corno Mauro, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021.
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  • Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018.
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  • Murri Serafino, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020.
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  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

  1. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  2. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  3. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma, 2021. 

  4. Cfr. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  5. Cfr. Ippolita, Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Milano, Ledizioni 2012; Id., Anime elettriche, Jaca Book, Milano 2016; Id., Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Milano, Meltemi 2017. Su Carmilla; Id., Il lato oscuro di Google, Milieu, Milano 2018. Su Carmilla

  6. Cfr. Angélique del Rey, La tirannia della valutazione, Elèuthera, Milano 2018. Su Carmilla

  7. Cfr. Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

  8. Oltre al volume citato di Shoshana Zuboff, si vedano: David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020 e i testi prodotti dal collettivo precedentemente citati. 

  9. Cfr. Laura DeNardis, Internet nelle cose. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit. 

  10. Cfr. Serafino Murri, Sign(s) of the times. Pensiero visuale ed estetiche della soggettività digitale, Meltemi, Milano 2020. 

  11. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla 

  12. Mauro Del Corno, Dalle riunioni online “obbligate” al caso Trump: così i 5 colossi del web hanno aumentato ricchezza e potere. “Ormai contano più degli Stati”. Ecco scenari ed effetti, il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2021. 

  13. Per le tematiche sin qua tratteggiate si rimanda a Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021

  14. Cfr. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, op. cit. Su Carmilla

  15. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 26. 

  16. Ivi, p. 35. 

  17. Cfr. Barbara Grespi, Il controllo dei corpi nel quadro dei conflitti contemporanei, in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee, Meltemi, Milano 2018. Su Carmilla

  18. Cfr. Michela Drusian, Paolo Magaudda e Cosimo Marco Scarcelli, Vite interconnesse. Pratiche digitali attraverso app, smartphone e piattaforme online, Meltemi, Milano 2019. Su Carmilla

  19. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  20. David Lyon, La cultura della sorveglianza, op. cit., p. 105. 

  21. Ivi, p. 106. 

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Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale https://www.carmillaonline.com/2020/01/20/nemico-e-immaginario-desoggettivazione-ed-immaginario-antisociale/ Mon, 20 Jan 2020 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57527 di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere [...]]]> di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere e contribuire.

Pablo Calzeroni, nel suo recente libro Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza (Mimesis, 2019), segnala come diversi di quegli studiosi – in particolare il “pioniere” Pierre Lévy1 –, isolando la questione dellʼinterazione uomo-macchina dalla complessità dei processi storici, abbiano finito per affrontare la nuova esperienza mediatica attraverso una prospettiva trascendentale e metastorica.

L’eccesso di astrazione che ha caratterizzato gli studi relativi alla nascente era informatica, avrebbe impedito a quegli studiosi ottimisti circa la portata liberatoria dei nuovi media, di cogliere i mutamenti realmente in atto, tanto da condurli disarmati di fronte all’esplosione della “Dot-com bubble” di inizio millennio. Il bagno di realtà, però, è sembrato durare poco e la fiducia nel progresso tecnologico e nella rivoluzione digitale ha prontamente riconquistato vigore con il diffondersi dei social network.

Le speranze riposte nella portata libertaria del web ed in particolare dei social, esaltati anche per la loro capacità nel chiamare a raccolta il dissenso nelle piazze (si pensi a quanto si è insistito su ciò a proposito delle “Primavere arabe”), hanno però dovuto fare i conti con il palesarsi della mercificazione di ogni attività in rete, con il loro prestarsi allo spionaggio e alla diffusione di fake news, oltre che con le tante ristrutturazioni aziendali, spesso risoltesi con licenziamenti, che hanno contraddistinto l’economia gravitante attorno al celebrato mondo del web.

Secondo Calzeroni è possibile leggere il malessere che si agita all’interno della rete come un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web.

Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza. Di fronte a queste miserie lʼintelligenza collettiva si mostra oggi per quel che è: non unʼutopia, ma pura propaganda. Propaganda di un ristretto numero di aziende informatiche che accumula ricchezze gigantesche attraverso il sostegno e il tornaconto politico di altri poteri. La lettura del presente attraverso la lente patinata del progresso tecnologico maschera una cruda realtà: sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto. (pp. 10-11)

L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune, sembra aver perso terreno a beneficio della convinzione che tale trasformazione, in fin dei conti, non faccia che esplicitare ed amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui. Occorre però evitare, avverte lo studioso, di semplificare il tutto accusando tale processo dei mali della contemporaneità.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche non deriva in origine dalle macchine. Appare innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale. (p. 11)

Il sistema tecnologico-mediatico attuale, oltre che esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, pare davvero, come sostenuto da Jonathan Crary2, intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo.

Il centro del problema, secondo Calzeroni, è da cercarsi nella crisi del soggetto inteso come prodotto sociale; una crisi che complica enormemente la possibilità di formare o riconoscere un legame collettivo capace di liberarsi dall’estrema singolarizzazione dell’essere umano contemporaneo.

Secondo lo studioso, i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo. Interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. «Se lo spettatore televisivo, completamente immerso nella simultaneità, tende a sciogliere la propria individualità in un rito-spettacolo collettivo, salvo poi ritrovarla come un perfetto signor nessuno nelle grandi maschere identitarie del conformismo, lʼutente delle tecnologie digitali la mantiene sempre» (p. 19). Pur esprimendosi spesso in maniera del tutto anonima, egli non è il nessuno delle grandi folle otto-novecentesche; è semmai un qualcuno anonimo desideroso di farsi notare, di “mettersi in vetrina”, come direbbe Vanni Codeluppi3.

L’individuo digitale lavora senza sosta alla costruzione della propria immagine passando da una tribù identitaria ad un’altra, prendendo parte a comunità rette da scambi interpersonali fragili in quanto sostenuti da investimenti a rapido esaurimento. In un contesto ove la socializzazione è ridotta ai minimi termini, lo svilupparsi di una progettualità politica appare secondo Calzeroni del tutto fuori portata: «sulla Rete si può accendere una rivolta, legata alla somma elementare di rivendicazioni e sofferenze comuni, ma non c’è modo (e tempo) di costruirvi una prospettiva strategica.» (p. 20)

La cyberpolitica si fonda sulla valorizzazione dell’estensione della partecipazione ai processi decisionali, ed il successo del cyberpopulismo deriva dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità. Il motore della Rete, però, avverte Clazeroni, «non è né il singolo utente né il contenuto, ma l’apparato tecnico che li cattura entrambi, trasformandoli in dati e metadati. Sono gli algoritmi a svolgere il compito più importante: la valorizzazione di tutto ciò che viene prodotto on line.» (p. 23) Altro che “intelligenza collettiva”, sostiene l’autore, occorre prendere atto che si è piuttosto di fronte ad un “sistema intelligente” efficiente nel creare valore e ricchezza ricorrendo ai dati prodotti dagli utenti e dalle macchine.

Gli utenti delle tecnologie digitali non sono affatto i membri di una comunità auto-organizzata che si muove verso il progresso. Sono piuttosto materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare (ad esempio in curve statistiche). Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente e inconsapevolmente. Ciò che è importante non è che cosa le persone si scambino on line. Ciò che è determinante è che la gente, per conto proprio o in gruppo, produca dati in grande quantità. (p. 23)

In sostanza, l’economia dei Big data si fonderebbe su un meccanismo interno al soggetto che l’ha trasformato in una macchina di consumo. Secondo lo studioso, la deriva relazionale che oggi caratterizza i media digitali dipende dall’intrecciarsi di svariati processi di disgregazione della società contemporanea.

Se si osserva questo cambiamento antropologico nella sua scena più intima, nelle dinamiche della soggettivazione, il problema centrale è il godimento consumistico o, per dirla in termini lacaniani, lo strapotere dellʼimmaginario, con i suoi specchi narcisistici e le sue trappole pulsionali. Nel passaggio storico dalla società industriale avanzata alla società dellʼinformatizzazione, la dissoluzione del soggetto sembra sbarrare la strada a qualsiasi negoziazione collettiva del senso dellʼesperienza. Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione. (p. 124)

La prospettiva dell’intelligenza collettiva fondata sul web sembra pertanto davvero infrangersi di fronte alla mancanza del soggetto. Nella società dellʼinformatizzazione l’individuo, sostiene Calzeroni, subisce

due principi prestazionali contrapposti e paradossalmente sovrapposti: un principio di prestazione sregolativo e un principio di prestazione repressivo di tipo francamente marcusiano. La loro combinazione è il riflesso psichico di quel variegato sistema post-disciplinare della tarda modernità che potremmo chiamare società del comando. Un sistema (o meglio, un non-sistema) sociale che ruota attorno al comando del godimento e che esprime un potere economico-sociale-politico, insieme, autoritario, in relazione alla sua carica oppressiva, e sfuggente, in relazione alla sua costitutiva incertezza: agendo in contesti sociali del tutto instabili e su individui dominati dal principio prestazionale sregolativo, il potere oggi si impone ma non può innescare soggettivazione.» (p. 90)

Oltre a contestare l’idea di intelligenza collettiva sostenuta a suo tempo da Lévy, presupponente l’esistenza di una razionalità immanente al divenire dell’esperienza, Calzeroni allarga la sua critica anche a più recenti proposte di liberazione digitale di ispirazione marxista. Gli stessi Michael Hardt ed Antonio Negri4 sono criticati dallo studioso in quanto nel loro ragionamento «lʼattualizzazione del potere costituente della soggettività antagonista» ha come precondizione «lʼesistenza di una dimensione sociale e affettiva già di per sé razionalmente orientata alla cooperazione intersoggettiva» (p. 125).

Secondo Calzeroni occorrerebbe invece prendere atto di come le tecnologie della connettività risultino inadeguate allo sviluppo di esperienze di antagonismo.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, la strada da seguire non potrà essere quella di anti-Edipo né quella di Eros e Civiltà. Qui non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento. Se il corpo è il nostro orizzonte di riferimento, non possiamo certo inseguire la ricerca di un nuovo ordine autoritario-repressivo. Non faremmo altro che restituire centralità a quel discorso del padrone che, come aveva chiarito Lacan nel periodo infuocato della contestazione sessantottina, è espressione di un legame sociale alienante fondato sulla legge della trascendenza e dellʼinterdizione. Quel legame, d’altra parte, solleva inevitabilmente un problema di ordine etico e politico che investe, prima ancora che il rapporto tra noi e il potere, la nostra relazione con il desiderio e con il reale del corpo (pp. 126-127).

Secondo l’auore di Narcisismo digitale, occorrerebbe pertanto rivitalizzare il senso di una comunità puntando sul recupero della dimensione orizzontale della socialità, dovrebbe essere  recuperata una socializzazione piena, capace di creare il senso di una soggettività collettiva al di là dei modelli tecnico-procedurali: «l’obiettivo non è la messa in moto e il funzionamento delle relazioni sociali, ma la qualità delle significazioni immaginarie che si possono innescare. E qui deve entrare in gioco l’affettività, perché solo la complicità solidaristica del legame affettivo può accompagnare il soggetto all’incontro fraterno con l’Altro, sottraendolo alla situazione angosciosa determinata dalla singolarizzazione o da una socializzazione distorta, fondata sull’abuso di sé e degli altri» (p. 132).


  1. P. Lévy, Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica, Mimesis, Milano-Udine, 2008. P. Lévy, Lʼintelligenza collettiva. Per unʼantropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. 

  2. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015. 

  3. V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine, 2015. 

  4. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Bur, Milano, 2001; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2010; M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano, 2012. 

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