ozio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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Pagine di indolenza e di rifiuto del lavoro https://www.carmillaonline.com/2017/10/31/41194/ Mon, 30 Oct 2017 23:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41194 di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati [...]]]> di Gioacchino Toni

Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 204, € 18,00

«Colui che non agisce, in mezzo al mondo di coloro che invece fanno dell’azione il senso della loro vita, diventa l’oggetto estraneo, il negativo assoluto che deve essere rigettato, colui per il quale non c’è posto: allo stesso tempo, egli è colui con il quale tutti hanno a che fare in quanto testimonianza di quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati a tornare» (p. 176).

Federico Bellini nel suo saggio analizza pagine di resistenza all’egemonia dell’azione scritte da autori come Herman Melville (Bartleby, 1853), Joseph Conrad (The Nigger of the “Narcissus”, 1897) e Samuel Beckett (Murphy, 1938). Ad accomunare i personaggi attorno ai quali i tre grandi scrittori costruiscono le loro opere – Bartleby, James Wait e Murphy – è, seppure in modalità differenti, il non lavoro. Il mite impiegato Bartleby di cui racconta Melville inizia improvvisamente a rifiutarsi di assolvere alle mansioni d’ufficio: di punto in bianco “preferirei di no” diviene la sua risposta automatica alle richieste che gli vengono fatte. Il marinaio James Wait, originario delle Indie Occidentali, di cui ci racconta Conrad, è reso pigro dalla malattia che lo condurrà alla morte prima di sbarcare dopo un lungo viaggio in cui l’intera ciurma si prodiga per sostenerlo. Il giovane perdigiorno Murphy di origini irlandesi che vive nel sud ovest londinese narrato da Beckett, è alle prese con una serie di nevrosi che gli impediscono l’azione e lo isolano dal resto della società. Attraverso tali personaggi letterari che si rifiutano di lavorare i tre scrittori riescono a dare corpo a uno sguardo alternativo sulla loro epoca, su quella fetta di modernità, che grossomodo copre la seconda metà dell’Ottocento, costruita sull’egemonia dell’azione, del fare e del trasformare.

Scrive Giovanna Borradori nella Prefazione del volume che intrecciando l’analisi dei personaggi creati dai tre grandi scrittori, La saggezza dei pigri invita il lettore a «immaginare tre distinte possibilità di quello che potrebbe succedere se ci lasciassimo alle spalle l’ansia di plasmare il nostro circostante, per usarlo e trasformarlo» (p. 14). Bellini «ci fa scoprire […] come il livello simbolico che innerva e accomuna le narrazioni di Melville, Conrad e Beckett catapulti ciascuno dei loro eroi fuori dal solco della modernità: ovvero fuori dallo spazio in cui l’umano, attraverso quell’azione orientata alla produzione che è il lavoro, non solo stabilisce la propria funzionalità sociale ed economica, ma afferma il proprio senso della vita» (p. 14). Dunque, Borradori invita a leggere La saggezza dei pigri «a partire da una riflessione su almeno tre domande chiave dell’orizzonte neoliberalista che ci forza a interrogarci sul senso del fare anche al di là del lavoro, almeno come l’abbiamo concepito a partire dalle rivoluzioni industriali che hanno contraddistinto la modernità: in che senso l’essere umano è capitalizzabile? Che cosa sta dietro all’incessante esortazione di investire su noi stessi? E da ultimo, è possibile disinvestire nel capitale umano, soprattutto quando si tratta del proprio? » (p. 17). In effetti, a ben guardare, le pagine passate in rassegna da Bellini sembrano esplorare «un aspetto importante della condizione contemporanea della precarietà, che è il non-lavoro» (p. 17).

Seppure, per dirla con le parole di Marcel Mauss, il lavoro è il «fatto sociale totale» della civiltà moderna occidentale, l’idea di lavoro ed il suo statuto, ricorda Bellini, sono variati nel corso della storia. Ricostruendo sommariamente le tappe principali di tali trasformazioni, l’autore riprende quanto sostenuto da Dominique Méda (Le travail: une valeur en voie de desparition?, 2010) circa il far coincidere l’inizio del concetto moderno di lavoro con la pubblicazione nel 1776 di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations di Adam Smith, in cui il lavoro viene pensato come astratto e come unità di misura del valore economico. Al secolo successivo spetta il compito di elevare il lavoro a valore etico rendendolo criterio di giudizio dell’umanità dell’uomo. In Georg Wilhelm Friedrich Hegel il lavoro viene inteso come processo attraverso cui l’essere umano si appropria della natura e realizza la propria essenza. «Lavoro, Arbeit, diventa allora il nome dell’attività dello Spirito stesso, il processo attraverso il quale esso si esplica nel reale e nella storia. Il lavoro trapassa dunque dall’essere unità di misura del valore a essere valore in sé, forma essenziale e generica di sviluppo della coscienza» (p. 20).

Successivamente Karl Marx riporta il lavoro al piano concreto della struttura economica del suo tempo. «Così facendo Marx distingue l’essenza del lavoro come essa si configurava nel pensiero hegeliano […] dallo stato reale del lavoro come si offriva storicamente. La conformazione del lavoro sotto il dominio del capitale conduce infatti agli occhi di Marx a uno stato antitetico rispetto a quello del lavoro considerato secondo la propria verità: al posto di consegnare all’uomo la sua essenza esso gliela nasconde. Nello spazio che si apre fra l’essere e il dover essere del lavoro si colloca la dimensione dell’azione politica cui Marx affida la possibilità di condurre il lavoro verso la propria essenza. Così facendo, anche nella critica alle forme storiche e concrete del lavoro, diventa ancora più cogente l’identificazione che si afferma fra lavoro ed essenza dell’uomo» (pp. 20-21). Michel Foucaut spiega invece come la concezione moderna della malattia mentale sia legata all’etica del lavoro dalle sue origini. Nel corso dell’Ottocento il lavoro finisce per identificarsi con la normalità, dunque con la salute, tanto che esso diventa la cura privilegiata di parecchie malattie. Dunque, «il lavoro nel corso dell’Ottocento viene a identificarsi anche come più alto valore morale, principio antropologico, garante della norma sociale e della salute individuale e fonte di ispirazione estetica» (p. 23).

A fianco di tutto ciò, tuttavia, scrive Bellini, si sviluppa un’altra storia che vede nel lavoro un valore negativo. «Come l’etimo della parola esprime in tutte le principali lingue indoeuropee una dimensione di fatica e sofferenza, così i miti sulla sua origine – dalla cacciata dal Paradiso Terrestre ai vari racconti dell’Età dell’Oro – mostrano il lavoro come una caduta da un primitivo e perduto stato di beatitudine» (p. 23). Si tratta di una lettura negativa del lavoro radicata e diffusa quanto quella positiva e, anche in questo caso, si tratta di un’ostilità storicamente variabile; al variare delle forme, del ruolo e del senso del lavoro, variano altrettanto le forme e i significati del suo rifiuto. «La passività di Diogene il cinico non coincide con l’otium della latinità classica; l’isolamento dell’eremita medievale non ha molto da spartire con il ritiro finalizzato allo studio del De Vita Solitaria del Petrarca; i malinconici rinascimentali hanno poco in comune con i flâneurs che passeggiano per la Parigi “capitale del XIX secolo”» (p. 23).

Se la storia dell’affermazione del lavoro come valore egemonico della cultura occidentale ha una qualche unità, sottolinea Bellini, le voci letterarie, artistiche e filosofiche che hanno reagito ad esso risultano frammentate e disparate. «Diverse e anche opposte intenzioni possono infatti supportare il rifiuto del lavoro: la rivendicazione di privilegi aristocratici, l’edonismo individualistico romantico, l’esaltazione utopica della tecnologia come liberatrice dell’umanità dalla fatica, la nostalgia per la società preindustriale compongono una varietà che non si lascia includere sotto un solo indice o in un’unica genealogia» (pp. 23-24).

Il “diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue è ben altra cosa rispetto, ad esempio, dall’esaltazione del rien faire del dandismo; se nel primo caso si auspica un proletariato emancipato dalla logica borghese capitalista nell’indirizzarsi al rifiuto e non al “diritto al lavoro”, nel secondo caso il rifiuto del lavoro ha a che fare con «un altezzoso atteggiamento individualista e nichilista, alieno alle dinamiche di classe e privo di ogni rivendicazione progressista» (p. 24). Altrettanto diverse sono le argomentazioni espresse da Giuseppe Rensi (L’irrazionale. Il lavoro. L’amore, 1923) volte a «dimostrare l’impossibilità di superare il lavoro sebbene “in una vita degna del nome di umana […] non c’è tempo e posto per esso”» da quelle espresse, ad esempio, da Guy Debord e Raoul Vaneigem che si scagliano contro il lavoro considerandolo «un valore borghese e funereo». Se nel caso di Rensi non vi è traccia di un possibile superamento del lavoro, ciò è invece centrale nel «discorso dei situazionisti, i quali ritenevano che una volta liberatisi dalla perversione del lavoro, “l’inversione della creatività”, si sarebbe infine prodotta la rivoluzione che avrebbe condotto la créativité au pouvoir» (p. 25).

Da parte nostra ricordiamo come sull’onda della conflittualità di classe dispiegatasi nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento si siano sviluppate modalità di rifiuto del lavoro a partire dal suo esplicito e strategico alludere al diritto all’ozio, derivanti dal riconoscersi della forza-lavoro come variabile indipendente dalla logica del profitto e dai meccanismi del mercato capitalistico. In quella lunga stagione conflittuale il proletariato ha saputo collocarsi ed esprimersi in opposizione al capitale esercitando un ruolo attivo e autonomo nello scontro di classe nella consapevolezza che il conflitto andava giocato attorno al lavoro, sul terreno dei rapporti sociali di produzione e riproduzione.

Il lavoro è il fine stesso (ed è il fine a se stesso) del capitale: lavoro, dunque, in quanto lavoro astratto, valore e capitale, come imposizione illimitata di lavoro e lotta contro di essa […] In quanto lavoro astratto, in quanto lavoro senza qualità e limiti, l’imposizione capitalistica di lavoro abbraccia una dimensione sincronica ed una diacronica. Nel primo caso si parla di valorizzazione del capitale, movimento senza limiti intrinseci della triade denaro-merci-più denaro e, quindi, accumulazione del proletariato ed espansione del rapporto di classe. Nel secondo caso si parla di lavoro che tende a sussumere tutti gli aspetti della vita, sia di quella produttiva che di quella riproduttiva. È chiaro che queste dimensioni prendono forma con caratteri determinati, come risultato di strategie capitalistiche particolari […] L’antagonismo può esprimersi, dunque, sia fra i salariati che fra i non salariati, fra i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche high-tech del Nord, come fra quelli/e dei sweatshops delle zone di esportazione del Sud, fra le lavoratrici della riproduzione della forza-lavoro in un milione di condizioni lavorative diverse, nella fabbrica globale della forza-lavoro, così come fra gli indios od i contadini del Sud del mondo, forzati alla miseria per la produzione di prodotti per l’esportazione, ecc. Checché se ne dica, il lavoro in quanto lavoro capitalistico nelle sue molteplici forme è oggi tutt’altro che marginale. Esso è invece centrale al ciclo complessivo del capitale. Il problema teorico e politico non è tanto quello di optare per una delle due ipotesi sinora delineatesi in merito ad una presunzione di attuale centralità di uno specifico comparto di classe, l’operaio-massa dell’operaismo italiano degli anni ’60 od il lavoratore immateriale degli anni ’90 […] il problema è quello della pluralità dei soggetti antagonistici, è quello della loro reciprocità, all’interno della scala gerarchica sociale, e della/e forma/e della loro generale ricomposizione politica. Lo scontro di classe si gioca a livello mondiale ed investe tutti i rami del lavoro di produzione di merci e di riproduzione della forza-lavoro («Vis-à-vis», n. 1, 1993).

In tale impostazione la categoria del lavoro risulta pertanto centrale nella comprensione del capitalismo e nella formulazione di ipotesi di suo superamento ed è in tale contesto che deve essere intesa quella particolare stagione di rifiuto del lavoro diffuso che ha indubbiamente sue peculiarità che la differenziano da altri rifiuti del lavoro.

Detto di quanto il concetto di lavoro e il suo rifiuto siano storicamente variabili, venendo al campo letterario le rappresentazioni della negazione del lavoro risultano sicuramente assai variegate. «Tuttavia, al fine di proporre una tipologia a maglia larga all’interno della quale tracciare il territorio d’indagine, si può muovere da una generica definizione del lavoro per poi, negandola, definire il suo opposto. Il lavoro, nel senso più generico, è costituito da “ogni attività, manuale o spirituale, con cui l’uomo produce un risultato utile” e quindi dall’instaurarsi di una relazione fra un soggetto e una parte di realtà – fisica o meno – che viene, per mezzo di questa relazione, trasformata. Tale trasformazione, affinché sia prodotto di lavoro e non di un semplice sforzo (come quello compiuto giocando o facendo sport), deve venire riconosciuta dal soggetto stesso e dalla comunità come il frutto della volontà di accrescere di valore il segmento di realtà coinvolto» (pp. 27-28).

A partire da tali presupposti basilari, sostiene Bellini, si possono individuare tre elementi in gioco: «una realtà che viene trasformata; una soggettività cosciente che vi interviene; un’altra soggettività collettiva che riconosce la trasformazione. Nel lavoro il soggetto si rivolge contemporaneamente in due direzioni: verso il reale su cui interviene e verso la collettività alla quale richiede il riconoscimento dell’attività medesima. Ridotto a questi minimi termini, il lavoro si dimostra simile al linguaggio: il luogo in cui l’individuo è messo in relazione contemporaneamente con il mondo e con gli altri uomini per mezzo di segni che attivano una relazione triplice fra realtà, società e soggetto. A ciascuno di questi aspetti corrisponde una funzione della significazione: quella di indicare il mondo e gli oggetti che lo costituiscono; quella di sviluppare un’interazione con gli altri soggetti; quella di permettere al soggetto di esprimersi. Ugualmente il lavoro articola l’esistenza del singolo da un lato in rapporto con il mondo che viene modificato, da un altro in rapporto alla società cui prende parte e in ultimo con se stesso. Eliminando a turno gli elementi che compongono il lavoro sarà ora possibile ottenere una tipologia del non-lavoro» (p. 28).

Interrompendo la relazione con il mondo sociale si ha un soggetto che vuole e può agire sul mondo ma che rifiuta di mettere il proprio sforzo al servizio della società. In tal caso il conflitto si esercita nei confronti della realtà sociale come nel caso dello sciopero. Se ad interrompersi è il lato del mondo condiviso, allora viene meno la necessità di intervenire sulla realtà e si entra in un modello di non lavoro proprio di una supposta “Età dell’Oro” ove si vive senza necessità di faticare. Quando invece è il soggetto a sottrarsi dalla relazione col mondo e la società, continua Bellini, «questo rimane come sospeso al di sopra dei flussi delle forze sociali e materiali» (p. 29). Ed è proprio di questa modalità che si occupa La saggezza dei pigri, dunque di «forme di rifiuto del lavoro che hanno la loro origine non in una protesta nei confronti della società o in una negazione del bisogno di trasformare la realtà, ma nel gesto di un soggetto che si sottrae a entrambe queste dimensioni» (p. 29).

Bartleby di Melville, Il Negro del “Narciso” di Conrad e Murphy di Beckett ruotano attorno a figure che, seppure in modi diversi, rifiutano il lavoro in un momento storico ben preciso, il secondo Ottocento, in cui «come reazione all’affermarsi del lavoro come valore e alle trasformazioni prodotte dalla seconda rivoluzione industriale, le rappresentazioni letterarie di rifiuto del lavoro si moltiplicano e assumono un ruolo sempre più importante e non più limitato a esempio morale negativo o macchietta comica». Ed allora Bartleby di Melville diviene lo specchio di quel mondo caratterizzato dalle grandi e repentine trasformazioni che conducono all’inurbamento e al diffondersi del lavoro burocratico impiegatizio, trasformazioni che «catalizzano l’evoluzione di un ethos nel quale si combinano laboriosità e parsimonia con un atteggiamento di compiaciuto sentimentalismo caritatevole» (p. 30). Nell’opera di Conrad, invece, si ritrovano «le ansie di un’epoca nella quale le rivendicazioni dei lavoratori, l’affermarsi di stili di vita considerati decadenti e i primi segni della crisi del discorso imperialista producono da un lato il vagheggiamento per un ipotetico passato in cui la società era unita nella comunione del lavoro, dall’altro il tentativo di rilanciare per una nuova epoca l’etica vittoriana» (p. 30). In Murphy di Beckett si rintraccia «la moderna scissione della soggettività, lacerata fra un’ingiunzione alla socialità e alla produttività e l’attrazione per gli abissi dell’interiorità» (p. 30). Le tre opere prese in esame da Bellini presentano al contempo «un punto di vista radicalmente individuale e la testimonianza dell’esperienza di un’epoca che, in certa misura, è la nostra» (p. 32).

Questi personaggi non lavoratori si pongono nei confronti della loro epoca come figure enigmatiche irriducibili all’ordine della grande macchina produttiva, come “oggetti inutilizzabili”, per dirla heideggerianamente, e soltanto l’abilità dei grandi scrittori permette di costruire una narrazione ruotante attorno all’inerzia dei personaggi ma, sottolinea lo studioso, occorre anche il contributo del lettore a cui è richiesto un lavoro di interpretazione, tanto che si potrebbe dire che la fatica evitata dal protagonista dell’opera finisce per essere addossata al lettore.

Le figure del rifiuto del lavoro si contrappongono alla moderna visione del mondo per la quale il lavoro, o in senso più essenziale l’azione […], è alla radice del senso dell’esistenza. Contro tale visione esse presentano realtà umane ricondotte per mezzo della negazione dell’agire alla loro dimensione minimale, al loro grado zero […] Lo stato elementare che si annuncia nella passività del non lavoratore è una riduzione della soggettività moderna ai suoi minimi termini, in cui contemporaneamente si manifesta la forma essenziale di tale soggetto e un’istanza di resistenza a esso. Allontanandosi dal lavoro si crea una distanza da cui valutarlo e questo arretrare non è un’opposizione, ma l’apertura di uno spazio di possibilità, di un diverso modo di relazionarsi col mondo. Nel non lavoratore emerge una dimensione primitiva dell’essere umano che è la sua dimensione infantile, nella quale si coniugano strettamente l’essere “in potenza” e l’essere “im-potenza”, la più ampia possibilità e la più radicale fragilità: a partire da questo nodo paradossale si può valutare in che senso i nostri eroi realizzino il loro essere “soggetti rotti” (p. 167).

Con la passività di Bartleby saltano le certezze in favore di una “logica della preferenza” che si presenta come apertura a un indistinto possibile e che finisce col rovesciarsi in una statica impossibilità. «Così, il non preferire di Bartleby, puro conato di una possibilità che mai si realizza, si rovescia e finisce per coincidere con il suo contrario, con la possibilità consumata, col tentativo fallito, con l’occasione sprecata» (p. 168).
In Murphy il «silenzio della potenzialità corrisponde al rinchiudersi nello spazio autistico e mortifero dell’impossibilità, dell’incapacità, dell’inattività del corpo morto» (p. 168). In Wait «è l’impotenza esibita del marinaio la fonte del suo potere di seduzione nei confronti del resto della ciurma e il catalizzatore delle potenzialità di rivolta e messa in discussione dei rapporti di potere. Allo stesso tempo, questa esibizione di impotenza viene attratta in un doppio meccanismo di simulazione, di finzione della simulazione o di finzione al quadrato, nel quale la potenzialità inganna se stessa in un gioco di specchi» (pp. 168-169).
Pertanto, alle diverse modalità con cui questi personaggi del non lavoro «attraversano la dimensione del possibile, dunque – la logica della preferenza di Bartleby, la chiusura nel piccolo mondo di Murphy, la finzione al quadrato di Wait – corrispondono tre modi del suo decadere in impotenza: l’irrigidimento minerale, la dispersione magmatica, la dissoluzione in simulacri» (p. 169).

Dalle rappresentazioni di individui caratterizzati dal calo o dalla perdita delle loro funzionalità sembra emergere una dimensione dell’umano solitamente repressa nella cultura moderna «fondata sull’utilizzabilità e sull’utile», sulla «razionalità funzionale». Questi esseri umani non lavoratori, non funzionali, finiscono per essere trascinati all’interno di quel magma di oggetti dismessi nella letteratura moderna di cui si è occupato Francesco Orlando (Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura: Rovine, reliquie, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, 1993).

Se questo represso “antifunzionale” viene a galla attraverso l’infittirsi di riferimenti alle molteplici forme del decadimento e del disuso nella letteratura, altrettanto potrà dirsi delle rappresentazioni del non lavoro. Il non lavoratore infatti assorbe e soggettivizza quanto nell’oggetto desueto si dà in forma oggettiva e oggettuale; il gesto con il quale schiva il lavoro rende non funzionale tutto quanto lo circonda, spogliando ogni cosa del suo essere mezzo in vista di un fine e considerandola, per tornare al gergo heideggeriano, nella sua “semplice-presenza”. Lasciando così che gli oggetti si svuotino della loro funzionalità e si perdano in un’universale decrepitezza, il rifiuto del lavoro trascina fra essi il soggetto, che rinuncia a ravvivarli con la propria attività: è quindi il non lavoratore stesso che si configura come “oggetto desueto”, uomo che ha cessato di servire la grande macchina del lavoro e della sua ideologia (pp. 169-170).

Bellini si sofferma anche sul rapporto tra scrittura e non lavoro a partire dalle possibili analogie tra le modalità con cui gli scrittori si specchiano nei loro personaggi e la tendenza romantica di cui parla Jean Starobinski (Portrait de l’artiste en saltimbanque, 2004) di vedere l’artista come un saltimbanco. Seguendo la linea tracciata da Georges Bataille, che vuole lo scrivere come opposto del lavorare, emergerebbe fra scrittori e non lavoratori «un’affinità profonda, una solidarietà radicale, che consiste in uno stesso modo di venerare e celebrare la vita in ciò che ha di più umile e prezioso, nel suo esporsi come esistenza nuda al di fuori di ogni produzione e produttività» (p. 189).

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