Ovidio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il mito e il cielo https://www.carmillaonline.com/2024/12/17/il-mito-e-il-cielo/ Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85825 di Neil Novello

Giulio Guidorizzi, I miti delle stelle, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 219, 24,00 euro.

L’uomo non si accontenta di ammirare il cielo stellato. Desidera anche leggerlo. Così le costellazioni rilucenti nella volta celeste, dalle origini della cultura occidentale identificano, oltre che un luogo di contemplazione, uno di interrogazione. Domandare il nome e cercare una via di comprensione nell’infinito libro delle stelle è una prerogativa dell’astronomia greca, e ancora prima della tradizione babilonese e di quella mesopotamica. Ma quando osserva il cielo, l’uomo greco anzitutto precisa la sinopia immaginaria delle costellazioni. Perché la linea che lega stella a [...]]]> di Neil Novello

Giulio Guidorizzi, I miti delle stelle, Milano, Raffaello Cortina, 2023, pp. 219, 24,00 euro.

L’uomo non si accontenta di ammirare il cielo stellato. Desidera anche leggerlo. Così le costellazioni rilucenti nella volta celeste, dalle origini della cultura occidentale identificano, oltre che un luogo di contemplazione, uno di interrogazione. Domandare il nome e cercare una via di comprensione nell’infinito libro delle stelle è una prerogativa dell’astronomia greca, e ancora prima della tradizione babilonese e di quella mesopotamica. Ma quando osserva il cielo, l’uomo greco anzitutto precisa la sinopia immaginaria delle costellazioni. Perché la linea che lega stella a stella forma un’immagine gravida di significato culturale. La sua astrazione però è solo apparente. Essa non reca nulla che possa veramente definirsi astratto. L’immagine stellare fissa un mito e attraverso esso afferma il fondamento di una cultura originaria. Anzi l’immagine stellare identifica un μυθος, un racconto mitologico, una sorta di Urphänomen. I miti delle stelle di Giulio Guidorizzi (Raffaello Cortina, 2023) contiene dunque due libri, uno sul mito e uno sulle costellazioni, un libro sul mito che si fa costellazione, un libro sull’immaginario dell’antica Grecia.

Leggere le stelle è anzitutto un’opera di riconoscimento della costellazione. Essa testimonia l’immagine, l’emanazione immaginaria di un racconto. Così I miti delle stelle può essere letto come una colta mitografia oppure come un trattatello di astronomia. Ma anche qualcos’altro. Può essere letto pure come un viaggio nella storia della pittura. Ripercorrere la traccia mitologica guardando il cielo è una linea dell’impianto ideato da Guidorizzi, un’altra guarda per così dire alla terra, all’opera d’arte come luogo figurale del mito. Così per spiegare l’Orsa Maggiore, proprio in apertura di libro, seguiamo le tradizioni e le relative «varianti» del mito attraverso le opere pittoriche di Baldassarre Peruzzi, Ignaz Stern e Jean-Honoré Fragonard. L’Orsa Maggiore (e l’Orsa Minore) sono le protrettrici astralmente effigiate di Zeus, il neonato padre degli dei. Nel mito greco, per merito di un ingegnoso sotterfugio escogitato dalla madre Rea, Zeus bambino scampa alla pulsione cannibalica del padre Crono. Pertanto Rea affida il neonato a due orse. E così la loro trasfigurazione astrale occupa la sommità, l’alto del cielo, perché la coppia animale è onorata dal loro figlio putativo, Zeus appunto. Tra le due Orse, troviamo il «dragone» che protegge il giardino delle Esperidi, il luogo divino in cui un melo, dono di Gea, la Terra, alla sposa di Zeus, Era, genera frutti d’oro. Interdetto all’umanità, il giardino con le mele auree è violato da Eracle, che uccide il dragone. Le scaglie corporee del mostro diventano la costellazione, come testimonia, nel volume, l’illlustrazione di un ovale del cinquecentesco Lorenzo della Sciorina.

Così di costellazione in costellazione, il libro appare uno spartito musicale sul cui pentagramma il mito è spiegato anche dalla pittura. E la pittura, a esempio nel caso del Bacco di Annibale Carracci, illustra così il mito di Arianna come la sua ghirlanda alla base della costellazione della Corona. E come inoltre la pioggia d’oro attraverso cui Zeus ingravida Danae che dà alla luce Perseo, l’assassino della Gorgone, figurata in un dipinto di Tiziano. Le tradizioni del mito e le sue varianti concorrono dunque a organizzare le linee del cielo sia nel caso di narrazioni per così dire creaturali sia nel caso di oggetti come la Lira. Esiste infatti una costellazione legata allo strumento musicale greco per antonomasia, lo strumento inventato da Ermes, transitato poi nelle mani di Apollo e finalmente giunto a Orfeo. La sua storia luttuosa il mito la associa alla riconquista infernale di Euridice. La scelta pittorica qui cade su Orfeo e Euridice di Rubens.

Non solo gli astronomi Arato di Soli, Eratostene, Igino, Conone di Samo, Cleostrato di Tenedo, Manilio, l’intera cultura greca è chiamata a dialogo sul mito e le costellazioni: Omero, Esiodo, Pindaro, Alceo, Eschilo, Euripide, Erodoto, Apollonio Rodio. Così la cultura latina con le Metamorfosi di Ovidio, fino alla cultura astronomica moderna con Galileo. Ogni fonte, specie tra le antiche, partecipa di un discorso tra il mito e le stelle, il mito che si proietta nella costellazione e la costellazione che espone la sinopia astrale del mito. Così il caso della «più poetica delle costellazioni», le sette stelle che formano le Pleiadi. Nel mito greco, Zeus le colloca in cielo per salvarle, perché sfuggano alle mire seduttive di Orione. Attraverso Merope, tra le Pleiadi la stella meno brillante, è fornita anche l’occasione per introdurre la figura del marito, il celebre Sisifo, rappresentato da un altrettanto celebre dipinto di Tiziano. Attraverso le costellazioni dell’Inginocchiato, dell’Auriga, del Cavallo, del Deflino e del Serpentario, la narrazione approda a una costellazione più famosa di altre: Orione. Questa dell’«URU-ANNA» di origine mesopotamica identifica la scena-madre del cielo. E non solo perché accanto a Orione vi è il Cane. Esso insegue la Lepre, non lontano si intravede lo Scorpione e dinanzi a Orione sta il Toro contro cui quel potentissimo combatte. Nella quadreria a corredo del libro, il dipinto che evoca Orione è di Nicolas Poussin. Riguarda però un frammento del mito, il momento in cui il figlio di Poseidone, accecato per vendetta da Enopione, brancola alla ricerca del sole nascente.

Tra la costellazione del Cigno e il Cane Maggiore, la costellazione che fissa un brano del mito di Minosse, Teseo, Arianna e il Minotauro, la costellazione di Argo, in cui è raffigurata la nave degli Argonauti e il mito di Giasone, Medea e il vello d’oro, il racconto del mito e delle stelle tocca la costellazione di Eridano. E il «triste mito» di Fetonte: un «ragazzo che volle assumersi un compito troppo più grande di lui e morì a causa della sua ingenuità» cadendo dall’alto del cielo – come raffigura un disegno di Michelangelo – nel fiume Po. Con la Chioma di Berenice, la costellazione dedicata alla regina, sposa di Tolomeo III d’Egitto, e la costellazione del Centauro, il pedagogo Chirone, educatore di Giasone e Achille, l’origine mitologica delle costellazioni non esprime più una mera legge di cultura, ma richiama per così dire il fondamento narrativo della civiltà greca. Essa fissa nel cielo un formidabile immaginario cristallizzando nella mitografia astrale un’esigenza di durata, qualcosa che venendo da un immaginario prova a fondarne uno nuovo: una concezione del mondo.

Così I miti delle stelle, se su Chirone chiude un sipario, ne apre un altro sul dialogo tra il mito e il segno zodiacale. Si snoda pertanto una narrazione tra l’Ariete opaco, poiché l’«animale divino aveva lasciato sulla terra il suo mantello», il vello d’oro, il Toro, il cui occhio è nientemeno che «Aldebaran», i Gemelli quale emblema della perfezione nell’amore tra le creature, e il Cancro con il suo temerario granchio che sfida nientemeno che Eracle alle prese con l’Idra di Lerna. La lotta dunque tra l’eroe mitologico e l’animale, nella formazione zodiacale occupa uno spazio esemplare. Un caso, immortalato in un dipinto di Zurbaràn, riguarda l’episodio della vittoria, ancora di Eracle, sul leone di Nemea, la sinopia stellare della belva che campeggia sopra l’Idra e il Cancro. Diverso è invece il caso mitologico di Erigone-Vergine, la fanciulla suicida presso il sepolcro paterno.

A proposito di animali ed eroi, lo Scorpione, secondo una tradizione mitologica, è l’assassino di Orione. Anzi la morte del «gigante violento» racconta una storia di hubrys, la storia di un essere persuaso di poter «uccidere qualunque creatura nata sulla Terra» ma egli stesso rimasto vittima di un letale agguato. Animali assassini, creature non invincibili, e oggetti. L’unico dello Zodiaco è la Bilancia. Anche però creature ancipiti, figure come il Sagittario, potente, spaventosamente energico, insignito di un premio esemplare, essere collocato al centro della Via Lattea. Così gli ultimi tre segni zodiacali, dalla «divinità dai confini incerti» del Capricorno, il cui incontro indurrebbe a uno «smarrimento dell’anima», alla «figura strana» di un «uomo che versa acqua da una giara» dell’Aquario fino ai Pesci, esauriscono la nomenclatura della volta celeste.

Dotare poi di un nome non mitologico il «latte» divino di cui è screziata la Via Lattea, per gli «astronomi greci» che osservano il cielo equivale a un «mistero profondo», insondabile. La cultura occidentale, che pure ritrae la Via Lattea nella maniera sublime e profondamente umana del Somniun Scipionis nella Repubblica ciceroniana, doveva ancora avanzare, svilupparsi scientificamente almeno fino al Sidereus nuncius di Galileo. Per capire finalmente la Via Lattea capendo qualcosa di sconcertante, la verità più profonda sulla condizione dell’uomo. Ammirare e perdersi nella sua sterminata immensità, nella sua infinità, alla modernità rivela il più inquietante segreto, poter vivere culturalmente l’infinito. Per l’uomo, è un monito, un’abbacinante presa di coscienza. Non più la tolemaica idea della propria centralità nell’universo ma la sua abissale solitudine ontologica, quella di una creatura che abita la più estrema lontananza, la periferia dell’intero creato.

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Liberarsi dal “giogo dei ruoli” https://www.carmillaonline.com/2022/12/19/liberarsi-dal-giogo-dei-ruoli/ Mon, 19 Dec 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75218 di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese [...]]]> di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese e cattolica ancora dure a morire nell’Italia di oggi, dove è stato creato addirittura un ministero “della famiglia, della natalità e delle pari opportunità”. Ma il “giogo dei ruoli” può trasformarsi anche in un vero e proprio gioco nel quale, per mezzo di una sottile ironia, si cerca di prendere a staffilate quelle antiquate e rigide convenzioni imposte dal potere. È ciò che si propongono di fare Saveria Chemotti e Mario Coglitore nel loro bel libro intitolato, appunto, “Il giogo dei ruoli”, in cui i due autori mettono in scena dei dialoghi fra personaggi letterari o reali che appartengono a coppie famose di innamorati o di amanti, cristallizzati dal tempo e dall’immaginario comune. All’interno di una struttura articolata in tre tempi, incontriamo, fra gli altri, Paolo e Francesca, Dulcinea e Don Chisciotte, Orfeo ed Euridice, Marianna e Sandokan ma anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Mileva Marić e Albert Einstein, Sibilla Aleramo e Dino Campana. La scrittura si trasforma quindi anche in un gioco in cui la rigidità del giogo si rompe perché, come affermano gli stessi autori in una nota finale, “i momenti più divertenti di questa scrittura senza affanni sono consistiti nella stesura di quelli che abbiamo chiamato «ordini inversi», quando cioè ci siamo scambiati i ruoli, affidando al maschio di questa inusuale coppia di sorella e fratello per «elezione» il personaggio femminile e viceversa alla femmina il personaggio maschile. Un rovesciamento del «gioco delle parti» che ci è piaciuto particolarmente”.

I personaggi messi in gioco non dialogano soltanto fra di loro ma anche, metaletterariamente, con il lettore e con la sua epoca, con avvenimenti storici ancora di là da venire. Il “giogo” viene rotto anche in questo modo: le figure reali e letterarie messe in scena da Chemotti e Coglitore escono dal loro imprigionante contesto e si inseriscono all’interno di un immaginario comune non statico ma avvolto da un movimento continuo. Altre volte, come nel caso di Paolo e Francesca o di Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio non si instaura un vero e proprio dialogo ma una narrazione commentata attraverso la quale gli autori discutono sui personaggi, sul loro tempo e sul loro ambiente sociale, intervallando la narrazione con un andamento più riflessivo e saggistico. Ad esempio, come scrive Saveria Chemotti giocando sul significato del verbo “scambiare” e “scambiarsi”, “la colpa di Paolo e Francesca non è stata solo quella di scambiarsi di nascosto un tenero bacio, ma quella di aver scambiato la letteratura con la vita, cadendo nel più pacchiano degli errori”. Perché la stessa letteratura può trasformarsi in gabbia, in schema, in rigido meccanismo che consegna all’immaginario comune figure stereotipate. Gli stessi personaggi letterari (e mitici, come in questo caso) lottano per scrollarsi di dosso quegli stereotipi, quei gioghi arbitrariamente imposti, come Euridice (la cui voce è mediata da Chemotti) che, dopo essersi dichiarata una “preda del destino a cui mi hanno assoggettata gli dei”, afferma perentoria: “A nessuno viene in mente che io ero in grado di resuscitarmi da sola? Che potevo fare affidamento sulla mia sensibilità, sulla mia stessa natura per vincere le ombre e risalire al sole? Che potevo liberare la mia anima prigioniera dei gioghi di un potere che mi avrebbe incatenata a una ventura tragica e senza soluzione di continuità, secolo dopo secolo? Un giorno, nella primavera di molte ragazze io avrò finalmente consolazione e riscatto. Sarò una di loro e non mi volterò mai indietro”. Euridice, esprimendo la sua autoaffermazione di donna contro un potere invisibile che la vorrebbe sempre assoggettata, viaggia, se così si può dire, nel tempo fino a prefigurare le lotte femministe che verranno.

Bisogna infatti notare che tutti i personaggi femminili del libro possiedono in sé una forte carica di ribellione dalle connotazioni di genere, in quanto si oppongono costantemente al potere patriarcale rivestito e simboleggiato dalla controparte maschile della coppia. Penelope, sempre con le parole di Chemotti (che non a caso è una studiosa di letteratura di genere e delle donne), rivendica il suo diritto a raccontare la sua versione dei fatti perché ormai “stanca di essere additata a eroina del matrimonio consacrato”. Ebbene, secondo Penelope, Odisseo è tornato “per attuare la sua vendetta, non per raggiungere me”. E, sicuramente, nella rivisitazione del Giogo dei ruoli, l’eroina omerica avrebbe ceduto alla corte serrata dei pretendenti se avesse capito che l’intenzione di Odisseo era quella “di restare per una toccata e fuga capace di mettermi di nuovo incinta, cioè di imprimermi le stimmate del padrone”. L’eroe se n’è andato senza neanche salutarla: “egocentrico e avido di conoscenza se n’è andato alla ricerca dei confini del mondo”. Naturalmente, adesso non si tratta più del personaggio omerico ma di quello dantesco e, infatti, con spirito metaletterario, Penelope conclude che “si merita di finire all’inferno”. Ma non sono soltanto i personaggi femminili a rimproverare e, quasi, a maledire i propri uomini, in una sorta di libera rivisitazione delle Heroides di Ovidio; anche alcuni personaggi maschili sottolineano la condizione subalterna delle donne nella loro epoca. È il caso, ad esempio, di Alexandre Dumas figlio (non un personaggio letterario, quindi, ma uno reale, anche se legato all’immaginario della letteratura), a cui presta la voce Mario Coglitore. Quest’ultimo, attingendo alla sua vocazione di storico e studioso di dinamiche storico-sociali, dopo una digressione in cui descrive gli effetti nefasti della rivoluzione industriale (“L’età delle ciminiere. Che da giovane ho visto spuntare a una a una, sentinelle implacabili dell’economia di mercato e per converso dello sfruttamento indecente di uomini, donne e persino bambini”), pone l’accento su alcune dinamiche della “sessualità «vittoriana»”, in un periodo in cui le donne dovevano rivestire il ruolo di procreatrici “meglio se di maschi e non di femmine, naturalmente, specie nel caso dei primogeniti cui verrà affidato il patrimonio familiare”. Parlando di Alphonsine Plessis, la cortigiana divenuta amante dello scrittore al quale ha ispirato il personaggio di Marguerite Gautier per il suo romanzo La signora delle camelie, così Coglitore-Dumas figlio si esprime: “Lei, considerata né più né meno che una prostituta, ha preso tutto ciò che ha potuto dalla vita senza risparmiarsi, assaggiandone i frutti più dolci e soprattutto quelli più amari. Fino a che la malattia non ha spezzato l’insopportabile giogo che la teneva prigioniera di questi uomini dall’animo violento e dalla insaziabile bramosia. Gli stessi che la domenica frequentano la chiesa del quartiere o le grandi cattedrali, inginocchiandosi davanti agli altari e prendendo la comunione”.

Un altro personaggio letterario inchiodato al suo ruolo dalla tradizione è l’Angelica dell’Orlando furioso (la cui voce è quella di Chemotti) che giustifica la sua fuga continua dalla guerra (“Io scappo. Anche da questo scempio, ma lo tengo per me”) e da Orlando con il suo diritto ad innamorarsi: il cavaliere “non contempla neppure l’ipotesi che io mi sia finalmente innamorata, che in me sia sorto un sentimento sconosciuto e raro che mi spinge ad abbandonarmi senza l’aiuto di sortilegi”. Ciò che rifugge è, ancora una volta, il ruolo stereotipato: “Certo: alcuni dicono che io non ho davvero una vita mia propria, che sono un «sorridente fantasma» perché configuro un modello che è fin troppo facile convertire in stereotipo e destabilizzarlo”. Perché una donna non può essere un “soggetto del desiderio”. D’altra parte, Angelica conclude la sua ‘tirata’ appassionata con un appello alle donne musulmane, parole che valicano i confini del tempo per giungere fino ai giorni nostri, dense di significato politico e sociale se pensiamo ai tragici fatti che avvengono in Iran: “Perché allora noi, cristiane e mussulmane, non stringiamo un patto che ci sveli nella nostra essenza, con la pretesa di esser guardate oltre la pelle liscia o a rughe, i capelli al vento o sotto un velo, comunque sia?”. Una rivendicazione di sé e dei propri diritti che suona anche come una contestazione alla società tout court è anche quella che Mario Coglitore, dando la voce a Jane (nel ‘dialogo’, costruito dagli autori in un “ordine inverso”, dedicato a Tarzan e Jane, i personaggi inventati da Edgar Rice Burroughs nel suo romanzo Tarzan delle scimmie del 1914), fa risuonare con echi politici e sociali. La giovane, infatti, afferma che la società europea e occidentale ha da sempre avuto pregiudizi non solo nei confronti degli africani ma dell’Africa intera, vista come “il Continente Nero pieno di misteri, giungle soffocanti e umidità insopportabile, screpolata in alcune latitudini da un sole impietoso e da sabbie smosse dal Ghibli tormentoso”. E allora, l’inglese Jane, innamorandosi del misterioso “Tarzan delle scimmie”, riesce a spezzare “i vincoli opprimenti della società del mio tempo, ben poco seducente” e, finalmente, non sarà più costretta a “respirare i miasmi del carbone delle industrie della capitale che sbuffavano a pieno ritmo, nebbia puzzolente dentro alla nebbia che già saliva dal Tamigi”.

E i personaggi maschili? Anche loro, nonostante siano in alcuni casi staffilati ben bene dalla loro controparte femminile, riescono a liberarsi dal giogo che li vorrebbe imprigionati nel loro ruolo. Se, come abbiamo visto, Dumas figlio sottolinea la subalternità della condizione femminile, Tarzan, da parte sua, nelle parole di Saveria Chemotti, afferma che anche lui si sente un ‘diverso’ nella giungla e, alcune volte, è stato costretto a nascondersi perché cosciente della propria diversità rispetto alle scimmie. Forse, però, la figura maschile che viene presentata più slegata dal proprio ruolo è quella di Giacomo Casanova, irrigidito nello stereotipo del seduttore fino all’antonomasia. Mario Coglitore, da buon veneziano, ci presenta un Casanova vecchio e triste in una lontana Boemia, profondamente immalinconito dal ricordo della sua ormai irraggiungibile Venezia: “Venezia mi manca. Mi manca l’odore dell’acqua che ristagna, i rumori del remo che sciaborda, lo spettacolo della laguna in qualunque stagione”. In quest’immagine malinconica (che può ricordare il poetico finale del Casanova di Federico Fellini, in cui il personaggio sogna di danzare sulla laguna ghiacciata con una dama meccanica), Casanova si libera del suo ruolo, concedendosi finalmente un immaginario libero dagli stereotipi. Ed è lo stesso immaginario che ci regala Il giogo dei ruoli: un tentativo di resistenza – attuato per mezzo di una scrittura che valica i confini fra realtà e letteratura – ai gioghi imposti da qualsiasi potere.

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“The 100”, riusciranno gli adolescenti a salvare il mondo? https://www.carmillaonline.com/2022/03/23/the-100-riusciranno-gli-adolescenti-a-salvare-il-mondo/ Wed, 23 Mar 2022 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71142 di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione [...]]]> di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione spaziale sulla quale si sono rifugiati gli unici terrestri sopravvissuti a una guerra nucleare, avvenuta molti anni prima. I governanti dell’Arca decidono di inviare sulla Terra cento detenuti minorenni per testare le condizioni di vita sul pianeta e capire se è ritornato abitabile dopo le devastazioni atomiche. Come già accennato, le prime stagioni della serie, tratta dai romanzi di Kass Morgan, propongono alcune tematiche interessanti. Innanzitutto, l’idea che gli unici a poter salvare la Terra possano essere degli adolescenti. In uno scenario post-apocalittico e eco-distopico, i boschi e la natura selvaggia si sono riappropriati delle vecchie città umane, ridotte a cumuli di macerie o di edifici abbandonati. In tali spazi si muovono i cento adolescenti provenienti dall’Arca e dovranno vedersela, oltre che con una natura ostile a loro totalmente estranea (essendo nati e cresciuti nello spazio), con una popolazione terrestre che ha ricolonizzato il pianeta; scopriranno quindi di non essere gli unici sopravvissuti. Mentre gli adulti restano nello spazio, gli adolescenti si muovono e agiscono nell’ambientazione terrestre: ad essi è infatti demandata una speranza di salvezza e di sopravvivenza della specie umana. Non è un caso che, nella realtà, ad attuare le più significative lotte contro il cambiamento climatico, per una sopravvivenza futura, siano proprio i giovanissimi e gli adolescenti. Come scrive Carla Benedetti nel suo pamphlet La letteratura ci salverà dall’estinzione, “i giovanissimi, che rinnovano oggi la preoccupazione per la vita futura sulla Terra e ricominciano a lottare per una giustizia climatica, e per tutto ciò che può cambiare il corso delle cose, non hanno ancora sviluppato quella indifferenza che talvolta la frustrazione e il senso di impotenza inducono negli adulti, e che, come un analgesico, permette loro di accettare, magari con amaro realismo, quello che non si ritiene di poter cambiare”1. Gli adolescenti sono capaci, secondo la studiosa, di farsi “acrobati del tempo”, cioè di riuscire a immedesimarsi nella vita dei figli dei propri figli, senza pensare egoisticamente solo alla propria generazione.

Del resto, quello dell’egoismo è un altro dei temi problematizzati dalla serie. Nel corso della narrazione incontriamo diversi gruppi sociali che si fanno la guerra tra di loro. A questa dinamica non sfuggono neppure i “cento” provenienti dall’Arca e quelli che si configureranno come i loro leader, Clarke e Bellamy, dovranno più di una volta affrontare l’angosciosa decisione su ‘chi salvare’. Fare il bene solo della “propria gente” o riuscire a salvare tutti quanti, anche coloro che appartengono a tribù e gruppi diversi? È questo uno dei dilemmi lancinanti che attraversano soprattutto le prime due stagioni. E poi c’è il tema della guerra, del conflitto, dello scontro fra clan, un tema che percorre ossessivamente tutte le stagioni della serie. Clarke e Bellamy si battono per cercare di evitare la guerra fra la loro gente (nel frattempo anche gli adulti sono riusciti a raggiungere la Terra) e le altre popolazioni di terrestri. Ognuno, di fronte a una problematica e a una nuova catastrofe, cerca infatti di salvare se stesso o il proprio gruppo sociale. Mors tua, vita mea: è questo il refrain che percorre come un brivido l’intero impianto narrativo di The 100. Pur dilaniati dalle loro angosciose scelte, che spesso possono non essere quelle giuste, gli adolescenti sapranno però rimediare là dove gli adulti hanno fallito nel crudele governo dell’Arca, in cui per un crimine anche di poco conto gli abitanti potevano venire condannati ad essere eiettati nello spazio. La guerra appare come un gioco terribile al quale desiderano lasciarsi andare comandanti e sovrani cupi e assetati di vendetta, intenti soltanto a salvaguardare i propri loschi giochi di potere.

E le guerre, nell’ambientazione post-apocalittica di The 100 (ma anche nella realtà) possono avere esiti terribili e fatali, come quelli di annientare gli unici spazi abitabili rimasti sul pianeta. Come scrive Susan Sontag, con un riferimento ad alcuni classici cinematografici, “i film di fantascienza sono intensamente moralistici. Il messaggio tipico concerne un’utilizzazione giusta, o umana, della scienza, contrapposta all’uso folle e ossessivo che di essa può farsi”2. Un messaggio che – continua la studiosa – i film di fantascienza “hanno in comune con i classici dell’orrore degli anni Trenta come Frankenstein, The Mummy, Island of Lost Souls, Dr. Jekyll and Mr. Hyde3. Diverse situazioni di The 100 mostrano un uso abnorme e ‘mostruoso’ della scienza: ad esempio, gli abitanti di Mount Weather, non potendosi esporre all’aria aperta a causa dell’ipersensibilità della loro pelle, all’interno del bunker nel quale sono condannati a vivere, appaiono intenti a utilizzare il midollo osseo di altri terrestri catturati nonché di alcuni del gruppo dei “cento” per curare le ferite da radiazioni che i loro corpi ricevono quando sono esposti. Anche questi terribili esperimenti, che possono far pensare a quelli attuati dai nazisti nei campi di sterminio, sono volti unicamente a preservare il proprio gruppo sociale.

La grande apocalisse, quella che ha spazzato via la vita sulla Terra un centinaio di anni prima delle vicende raccontate nella serie, è stata provocata da un computer che, per risolvere il problema del sovraffollamento terrestre, ha dato il via a un bombardamento nucleare. Il disastro atomico originario, perciò, non appare scatenato da una guerra umana ma da una realtà virtuale computerizzata che ha trasformato quella che era una semplice simulazione in una vera e propria guerra reale (con modalità simili, per certi aspetti, a quelle narrate in Wargames – Giochi di guerra, 1983, di John Badham, in cui una simulazione al computer è sull’orlo di scatenare una guerra nucleare fra Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni della Guerra Fredda). L’inconsistenza digitale, la virtualità, lo spettacolo fine a se stesso – elementi che nella nostra realtà caratterizzano i mezzi di informazione televisivi e della Rete, capaci anche di trasformare in una sorta di crudele videogioco il conflitto in corso in Ucraina – hanno provocato una vera e propria catastrofe atomica. La distruzione della Terra raccontata dalla serie sembra essere avvenuta come l’estrema conseguenza di una realtà virtuale, connotata da disinformazione o informazioni alterate, pervasivamente espansa fin negli interstizi della percezione umana.

La catastrofe ha lasciato dietro di sé panorami post-apocalittici nei quali, come dolorosi lasciti di un tempo che non esiste più, frammenti di un passato crudele, svettano le poche vestigia umane rimaste, come la torre della città di Polis, un grattacielo ormai semidistrutto. Dietro la rappresentazione di queste vestigia – non troppo diverse dai ruderi della Statua della Libertà che alla fine de Il Pianeta delle Scimmie (The Planet of the Apes, 1968) di Franklin J. Schaffner emergono dalla sabbia – c’è una vera e propria “estetica della distruzione” che, secondo Sontag, rappresenta le “particolari bellezze che si possono reperire nella catastrofe e nel caos”4. In mezzo alle lande devastate e ai boschi che si sono riappropriati della Terra dopo la catastrofe, l’umanità superstite è preda di una vera e propria regressione tecnologica. Non ci sono più i veloci mezzi di trasporto che permettevano spostamenti in breve tempo da una parte all’altra del globo. Nel futuro narrato da The 100, lo spazio si è rivestito nuovamente di tutta la sua distanza, ogni viaggio diventa un percorso lento e avventuroso. La contemporaneità è infatti sottoposta a un pervasivo “inquinamento delle distanze”, per utilizzare un’espressione di Paul Virilio. Secondo lo studioso francese, quella attuale è un’epoca in cui, al pari di certe “sostanze”, anche le stesse “distanze” sono inquinanti: queste ultime, tramite gli iperveloci mezzi di spostamento contemporanei, vengono sottoposte ad una drastica contrazione la quale degrada l’estensione del nostro habitat5. I mezzi che solcano gli scenari futuri delle narrazioni distopiche e post-apocalittiche, spesso, non sono caratterizzati da una ‘velocizzazione’ ulteriore rispetto a quelli attuali, ma da una maggiore lentezza, dovuta a inarrestabili processi di regressione tecnologica. La stessa discesa dei “cento” dall’Arca e, successivamente, degli adulti, viene effettuata su capsule e razzi allestiti come una sorta di mezzi di fortuna, lenti e disastrati: siamo ben lontani dal vedere le scintillanti e avveniristiche astronavi di molti film di fantascienza. La stessa Arca, costituita dall’unione di vecchie stazioni orbitanti, ha un aspetto dimesso, intriso di un’estetica riconducibile per certi aspetti allo steampunk. Altri spazi mostrano interessanti commistioni fra ‘arcaico’ e moderno, con rimandi non solo al genere fantasy ma anche al mondo classico (ad esempio, verrà ricreata un’arena per i giochi gladiatori di fronte al giudizio della crudele “Blodreina”, la quale appare spesso intenta a leggere le Metamorfosi di Ovidio). La stessa lingua parlata dai clan terrestri, costituita da parole a base inglese, appare come una curiosa via di mezzo fra un pidgin e un creolo.

The 100 è quindi interessante soprattutto perché, lungi dal proporre facili soluzioni venate di melensi buoni sentimenti, come fanno molti film o serie tv confezionati appositamente per il pubblico medio statunitense, sfodera sempre nuove problematiche, nuovi conflitti che lacerano le coscienze e le decisioni dei personaggi. Come già accennato, le scelte che questi ultimi devono affrontare non sono per niente facili ed entrano in gioco problemi e lacerazioni più ampie: come agire per evitare i conflitti e le guerre? Salvare solo la “propria gente” o anche tutti gli altri? E soluzioni facili non ce ne saranno: i fanatismi, l’esasperazione, la follia, nella fantascienza come nella nostra realtà, sono sempre dietro l’angolo.


  1. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, pp. 101-102. 

  2. S. Sontag, Immagini del disastro, in Ead., Contro l’interpretazione, trad. it. Mondadori, Milano, 1998, p. 325. 

  3. Ibid

  4. Ivi, p. 320. 

  5. Cfr. P. Virilio, Velocità di liberazione, trad. it. a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000, p. 81 e seguenti. 

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Contro il conformismo, la massificazione e l’economizzazione crescente: un dialogo sugli antichi e sui moderni https://www.carmillaonline.com/2016/09/18/conformismo-la-massificazione-leconomizzazione-crescente-un-dialogo-sugli-antichi-sui-moderni/ Sat, 17 Sep 2016 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33203 di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai [...]]]> di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai Dialoghi di Platone), letteraria o scientifica. Niente di meglio di un dialogo perciò, per disquisire e riflettere su cosa ancora possiamo assimilare del mondo antico in un’epoca ‘di angoscia’ come la nostra. Il libro è infatti costituito da un lungo dialogo che si dipana attraverso temi e problemi della società contemporanea messa a confronto con quella antica: i due dialoganti sono Carla Benedetti, studiosa di letteratura moderna e contemporanea e Maurizio Bettini, antropologo e studioso di letterature classiche, i quali hanno deciso di pubblicare i loro dialoghi svoltisi nell’autunno del 2013 all’Università di Berkeley, in California.

Durante una presentazione del libro assieme a Bettini, lo scorso luglio a Livorno nell’ambito di Eden. Parole e musica alla Terrazza Mascagni, Benedetti afferma che la nostra è un’epoca segnata dall’instabilità, dal terrorismo, dalle guerre, dalle migrazioni. Le sue parole, nella quiete della terrazza Mascagni affacciata sul mare e avvolta in quel momento da un magico, lunghissimo tramonto, risuonano come omina inquietanti: di fronte a noi, infatti, c’è lo spettro concreto di un pianeta che, a causa dello sfruttamento indiscriminato delle materie prime, diventerà inabitabile; viviamo in un’epoca storica molto particolare che ha superato la modernità e tutti i suoi presupposti di pseudo sicurezza. In questo nostro navigare a vista in mezzo alla nebbia si pretende di spiegare tutto il mondo attraverso l’economia.

Gli oracoli che sbagliano sono i nostri economisti che pretendono di interpretare il mondo esclusivamente attraverso la lente dell’economia. Come afferma Maurizio Bettini durante il dialogo «quello del mercato è diventato un modello cognitivo primario»: tutto è misurato attraverso un filtro economico e produttivo, perfino la cultura e il sapere. L’introduzione nelle università di termini come «prodotti», «crediti», «debiti», la stessa «valutazione» universitaria (che, non a caso, deriva da valuta) e, si potrebbe aggiungere, anche quella scolastica, divenuta tale per mezzo di una recente riforma ricalcata su un modello aziendale e manageriale: tutto è improntato a un modello economico. Come amaramente dice Benedetti, in ambito accademico non viene premiata l’originalità, ma solo la riproduzione dell’esistente, poiché «viviamo in una società che premia il conformismo» (p. 127). Del resto, l’ostentata ‘economizzazione’ del mondo era stata già rilevata da uno studioso del calibro di Serge Latouche, teorico della decrescita; infatti, durante un incontro con Anselm Jappe (recentemente tradotto in italiano per Mimesis: A. Jappe, S. Latouche, Uscire dall’economia), Latouche affermava che l’economia ha sostituito la religione come immaginario dominante nella nostra epoca: oggi sono le banche a dominare le città, non più certo le chiese. La stessa equiparazione dell’economia alla religione viene attuata da Benedetti e Bettini: come in epoca antica ci si affidava agli oracoli divini, così adesso ci si affida alle previsioni e alle analisi degli economisti («Il linguaggio dell’economia è oggi dilagante, ha invaso molti ambiti sociali e di lavoro, e ormai, come dicevamo, viene usato per descrivere molti fenomeni del mondo contemporaneo. E poiché tu non capisci bene i meccanismi dell’economia, tutte queste metafore infondono passività. Erano meglio gli dèi, davvero!», Benedetti, p. 129).

Il dialogo fra i due studiosi procede attraverso temi e concetti che investono nel profondo la società contemporanea. Si comincia col concetto di metamorfosi: mentre per la società antica la metamorfosi era possibile, perché il divino e la magia le lasciavano uno spazio (basti pensare alle Metamorfosi di Ovidio ma anche ai numerosi sogni di metamorfosi raccolti nell’Oneirocritica di Artemidoro), per noi la metamorfosi è esclusa, abbiamo un’idea dell’umano molto più fissa e chiusa di quella degli antichi. Benedetti cita il pensiero dell’astrofisico Stephen Hawking, secondo il quale, «l’aggressività, che è inscritta nel DNA umano, ci porterà a guerre nucleari e a un’inevitabile distruzione dell’habitat. L’unica cosa che possiamo sperare è che nel frattempo – nel poco tempo che ancora ci resta prima della catastrofe – le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche progrediscano al punto da permetterci di scoprire e colonizzare altri pianeti» (p. 16); infatti, «l’idea che si possano cambiare certe strutture mentali, o quanto meno modificarle, correggerle, non sfiora neppure la mente. In questo crederci destinati alla fissità dell’umano così come noi lo conosciamo o crediamo di conoscerlo, la metamorfosi è esclusa» (p. 17).

Legato alla metamorfosi è lo stesso concetto di natura umana: come afferma Bettini, è assai importante quel processo «a cui ogni studioso dovrebbe sottoporre prima di tutto se stesso, e poi anche l’oggetto dei propri studi, che si chiama de-naturalizzazione dei pregiudizi. Mi correggo, non solo gli studiosi, ogni persona che crede nel pensiero critico dovrebbe farlo. Perché il meccanismo contrario, ossia la naturalizzazione del pregiudizio, è una delle componenti più attive nelle costruzioni culturali» (p. 17). Quelli che vengono definiti come naturali sono in realtà dei comportamenti derivati da costrutti culturali canonizzati dalla tradizione: perché, ad esempio, si dovrebbe pensare che l’Africa, perché più economicamente arretrata, sia più vicina alla «natura» rispetto all’Europa? Oppure che l’omosessualità sia contro natura?

Un altro concetto assai importante è quello di identità: nelle società moderne e contemporanee gli individui sono ‘schedati’ e controllati attraverso il meccanismo della carta d’identità; in latino classico, come ricorda Bettini, non esiste la parola identità: ci sono cognitio o notitia, ma sono termini che designano l’essere riconosciuti da altri (in quanto posseggono in sé la radice di nosco, «riconoscere»), non un qualcosa di proprio e personale che ci si porta dentro. Si pensi all’Amphitruo di Plauto, in cui il servo Sosia si ritrova di fronte a un suo doppio (in quanto Mercurio ne ha assunto le sembianze): il suo pensiero scivola subito nell’idea che qualcuno lo abbia trasformato, non che abbia perso la propria identità. Presso gli antichi, perciò, l’identità personale era più fluida rispetto alla modernità, in cui ogni individuo appare incasellato rigidamente all’interno di meccanismi identitari, come nella società disciplinare delineata da Michel Foucault. Addirittura, oggi le identità vengono costruite dall’esterno a uso e consumo del turista: Benedetti afferma infatti che i Dogon, come scrive Marco Aime nel suo saggio Diario Dogon, hanno assunto un’identità imposta loro da un antropologo francese, Marcel Griaule, che ne Il Dio d’acqua, li fa apparire come dei filosofi delle caverne, dediti all’osservazione del cielo e dell’universo. Vengono ripresi dei tratti che sono poi consegnati all’immaginario collettivo: sono proprio questi tratti caratteriali che il turista si aspetta quando si reca in Mali per visitarlo. Si tratta di stereotipi culturali, causati dalla massificazione che investe la contemporaneità: come quando il turista va a Venezia – aggiunge Bettini – e si aspetta di trovare il gondoliere vestito in un certo modo, il quale deve cantare un certo tipo di canzoni, canzoni che poi, molto spesso, sono napoletane. Lo stesso Bettini racconta di un suo viaggio in Arizona, a Tombstone, dove si svolse la famosa sfida all’O.K. Corral: «Vi si incontrano uomini che si aggirano indossando enormi cinturoni, pistole e cappelli altrettanto enormi, perché i turisti non hanno nessun interesse per Tombstone com’è, ovviamente, ma sono lì per visitare la città dove c’è stato l’O.K. Corral, vogliono quella città» (p. 45). La costruzione dell’identità dall’esterno, per fini turistici e di massa, molto si avvicina allora al fenomeno della gentrification: luoghi che un tempo erano autentici, poveri e magari anche degradati – valga per tutti l’esempio parigino di Montmartre (ma anche, nel suo piccolo, il Pigneto romano) – vengono trasformati in luoghi turistici e ‘finti’, specchio di cartapesta di ciò che furono un tempo, mentre gli immobili che li caratterizzano vengono acquistati a peso d’oro dalla nuova classe borghese imprenditoriale.

Un altro importante tema affrontato dal dialogo è «politeismi e monoteismi»: come afferma Bettini (tematica, tra l’altro, già affrontata nel suo recente saggio Elogio del politeismo), «se Greci e Romani hanno consumato violenze e carneficine, proprio come è avvenuto nelle epoche successive, non lo hanno fatto però in base a motivazioni di carattere religioso o per affermare la verità di un unico dio» (p. 47). Il dio dei monoteismi (il Cristianesimo e l’Islam) è infatti un dio unico ed esclusivo, che non ammette l’esistenza di altre divinità; le divinità dei politeismi antichi erano molteplici e potevano anche integrarsi fra di loro. Si potevano persino ‘importare’ gli dei di un’altra religione: ad esempio, molte divinità greche sono state ‘importate’ a Roma e tradotte in latino. Addirittura, i Romani istituivano parallelismi e somiglianze anche con le divinità di popolazioni estremamente lontane e ‘barbare’ come, ad esempio, i Germani. È preferibile quindi il mondo antico e il suo politeismo rispetto al monoteismo del mondo moderno che genera spargimenti di sangue proprio perché non tollera un dio diverso dal proprio.

Anche per quanto riguarda il razzismo gli antichi erano probabilmente migliori di noi moderni. Pur avendo coniato il termine «barbari» per indicare gli ‘altri da sé’ (per i Greci erano «coloro che balbettano», cioè coloro che non parlano il greco), il mondo antico non conosceva il razzismo verso i neri (gli Etiopi sono lodati come un popolo pio e molto civile): quando si parla di schiavi – dice Bettini – «non viene mai reso esplicito quale sia il colore della loro pelle» (p. 59). «Il contrario di quel che avviene oggi nei giornali, – ribatte Benedetti – dove sottolineano subito, fin dai titoli, il colore o la provenienza dell’autore di una rapina o di un omicidio: “Albanese uccide…”» (ibid.).

Per quanto riguarda i limiti della conoscenza, pare che nell’idea che l’uomo moderno ha di sé – dice Benedetti – «tutte le forze che lo determinano sembrano – anche se in realtà non lo sono – comprensibili» (p. 154). Il mondo antico, invece, «dispone di altri meccanismi di interpretazione: gli dèi, il Fato, il destino, però anche la forza che porta il nome di Tyche, la Sorte, ossia la congiunzione particolare di eventi che ha prodotto un determinato fenomeno» (Bettini, p. 148). Pensiamo anche alle mappe e alle carte geografiche, non soltanto antiche; in molte carte del Cinquecento e del Seicento, molte zone del globo erano lasciate in bianco, a rappresentare zone non ancora esplorate: «Così ti portavano subito davanti agli occhi, in evidenza, che lì c’era un limite di conoscenza» (Benedetti, p. 158). Adesso – risponde Bettini – chiunque può cercare un indirizzo su Google e visualizzarlo, come i ragazzi che crescono oggi, i quali hanno introiettata in loro l’idea «che il mondo non solo è tutto rappresentabile, ma anche tutto visibile!» (ibid.). Come – ricorda Benedetti – nel racconto di Borges, L’Aleph, dove c’è uno scrittore che ha un Aleph in cantina e su di esso può vedere rappresentato tutto il mondo: «Google street e Google map mi ricordano un Aleph» (p. 159). La rete, infatti, aggiungerei, con tutte le sue diramazioni, da Google ai social network, può dare un’illusione di libertà estrema ma, come ci ricorda il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio La società della trasparenza, siamo tutti detenuti del panottico digitale e siamo tutti carnefici e vittima di noi stessi: «La libertà si rivela controllo» (B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Notettempo, Roma, 2014, p. 83).

Per concludere – e qui sta, credo, il senso profondo di questo dialogo che srotola naturalmente altre problematiche che sarebbe troppo lungo sondare in queste pagine – ciò che possiamo ancora assimilare del mondo antico e forse ciò che in esso c’è di più prezioso per noi è la sua alterità. Si può indagare il mondo antico come Lévy-Bruhl o altri famosi antropologi hanno fatto per le società «primitive»: «La cosa appassionante sta proprio qui, nel seguire i cammini di questa alterità di pensiero; nell’esplorare queste “mille diverse maniere di vita” – come già diceva Montaigne, quel grande saggio – che gli altri, gli stranieri, ci mettono sotto gli occhi» (Bettini, p. 176). In questo senso, la civiltà antica si dispone dinanzi ai nostri occhi come un grande scenario in cui nulla è scontato, in cui il magico, il misterioso, il divino, la fluidità, l’enigma si contrappongono alla massificazione, alla «cultura media» controllata da censimenti, statistiche e sondaggi, al mercato che ingloba persino la cultura, all’economia che tutto pervade, alla rigidità di modi di vedere e di pensare, alla presunzione di avere a nostra disposizione, in un semplice smartphone, l’intero mondo. Forse allora, anche per mezzo della cultura antica – e ciò è veramente prezioso – possiamo arrivare a pensare che un altro mondo è possibile, che può esistere un altro modo di vivere e di organizzare l’esistente.

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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