Osvaldo Soriano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I comunisti sono matti ? https://www.carmillaonline.com/2023/10/11/i-comunisti-sono-matti/ Wed, 11 Oct 2023 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79137 di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli pubblicata nelle serie dedicata alla Storia della Sinistra comunista e della dissidenza in Italia di «Pagine Marxiste».

Figure che si muovono tutte tra prometeismo, visionarietà e giochi di equilibrio spericolati tra assurdità e tragedie personali. Un bel catalogo di vite frantumate e disperse, nel corso del XX secolo, da un modo di produzione, da un ambiente socio-culturale e politico e dalle sue mode che definire distruttivo e devastante, tanto per il singolo individuo quanto per i milioni di altri che lo circondano, è ancora eufemistico e dall’implacabile scorrere di eventi tra i più drammatici che la Storia possa annoverare nei suoi annali (dittature, guerre mondiali, uso dell’arma nucleare, asservimento degli ideali rivoluzionari agli interessi del Capitale, tanto ad Ovest quanto ad Est e molto, troppo altro ancora).

Eventi che hanno causato traumi collettivi e singoli, individuali e sociali, largamente conosciuti oppure del tutto sconosciuti, ma che hanno segnato donne, uomini e generazioni in profondità. Come avviene appunto per la vita del “ferroviere rosso” Isidoro Azzario, di cui i due ricercatori militanti, Pellegatta e Lunardelli, ricostruiscono le drammatiche vicende, a metà strada tra le prime storie di Georges Méliès, il tramonto del duo cinematografico composto da Stan Laurel e Oliver Hardy descritto nel romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano e la tragedia del proletariato mondiale schiacciato e sconfitto dall’azione di fascismo e stalinismo nel corso degli anni Trenta.

Isidoro Azzario, nato a Pinerolo il 20 maggio del 1884, figlio di un simpatizzante socialista da cui apprese, secondo le sue stesse parole «i primi rudimenti del socialismo», attraverserà i primi, drammatici cinquant’anni del XX secolo vivendo in prima persona molti degli eventi che li avevano caratterizzati. Non solo qui in Italia, ma anche all’estero. In Sud America, dove fu inviato come rappresentante dei Ferrovieri rossi, e in Russia, dove fu delegato del Pcd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista e dell’esecutivo allargato della stessa.

Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia al congresso di Livorno del 1921, Azzario era stato assunto in ferrovia nel 1904, portando con sé sul lavoro non soltanto la preparazione tecnica acquisita con la frequentazione delle scuole tecniche in provincia di Torino, ma anche le qualità oratorie dimostrate nei suoi improvvisati discorsi contro il colonialismo italiano e a favore di Gaetano Bresci che avevano stupito e scandalizzato i suoi insegnanti mentre spronava i suoi giovanissimi compagni di scuola negli anni di Crispi, Bava Beccaris e ancora in quelli successivi.

Chiamato da Bordiga nella commissione sulla tattica che avrebbe dovuto occuparsi del programma di lotta da applicare tra il proletariato italiano, avrebbe poi interpretato “al meglio” quello stravolgimento del corpo del partito seguito al convegno clandestino alla Capanna Mara del maggio 1924 e successivamente, in quanto ex-sinistro, venne scelto durante il congresso di Lione del 1926 per portare l’affondo più duro contro la direzione della Sinistra, con tanto di autocritica.

In America Latina, in seguito a un riconoscimento o a una delazione, fu arrestato a Cali e rispedito in Italia e, probabilmente, durante il viaggio di ritorno in nave fu a lungo torturato e seviziato dai fascisti, fin quasi a fargli perder la ragione, anche se questo non fu sufficiente a piegarlo del tutto. Successivamente, come era già successo dopo il primo licenziamento per motivi politici subito ancor prima del 1921, Azzario fu reintegrato nei ranghi delle ferrovie e nel secondo dopoguerra avrebbe svolto ancor per pochi mesi la funzione di Capostazione in quel di Luino. Ma tutto questo viene ricostruito a posteriori nel testo qui recensito, poiché la narrazione prende avvio da Mercoledì 26 novembre 1958, quando:

all’ospedale Luini -Confalonieri di Luino, viene ricoverato nel reparto Medicina un anziano signore: alto, visibilmente denutrito, il viso cianotico, lo sguardo perso; spicca sul mento un lungo e curato pizzo bianco. Le sue condizioni appaiono subito serie: aritmia, difficoltà di respirazione, scarso orientamento nel tempo e nello spazio. Al personale sanitario conferma di chiamarsi Isidoro Azzario […] Nella cartella clinica i medici aggiungono che le condizioni psichiche del paziente non consentono una corretta raccolta dei dati anamnestici: disturbo bipolare, precisano1.

Azzario è in pensione da 11 anni dopo aver fatto il Capostazione sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove era giunto come sfollato da Milano, durante la guerra, insieme alla figlia e al genero che di quella zona era originario. La moglie era morta nel 1937 e Isidoro è accompagnato dal dolore di non aver potuto nemmeno partecipare al suo funerale a causa di un ottuso funzionario fascista che gli aveva impedito di lasciare l’isola di Ponza, ove era confinato, per il tempo necessario per partecipare alle esequie.

Anche se a Luino e Germignaga, dove risiedeva, molti lo conoscevano, quando viene ricoverato in stato confusionale e denutrito, l’ex-ferroviere rosso vive da solo, o quasi, da diversi anni dopo che la figlia era morta nel 1948 e il genero nel 1957. Da anni. però, aveva ripreso a frequentare la sezione locale del PCI in cui testardamente e ostinatamente aveva ripreso a professare la critica del partito stalinizzato e del fasullo socialismo reale tipica della Sinistra comunista e di Bordiga, cui tornerà ad essere associato dalla direzione locale del partito. Direzione di cui faceva parte Gianni Rodari che in quegli anni sarebbe stato uno dei giudici più fermi e intransigenti di ogni forma di dissidenza interna, soprattutto se anche lontanamente riconducibile alle posizioni della Sinistra.

Ma il motivo per cui tutti ricordano Azzario, in quegli anni, non è tanto l’intransigenza politica nei confronti del Partito togliattiano e dello Stato sorto dalla Resistenza e delle sue alleanze internazionali, quanto piuttosto per i voli pindarici riguardanti la posizione dell’uomo nello spazio, le reali dimensioni della Luna e la sua reale distanza dalla Terra; la curvatura dello spazio che permette altresì che il satellite terrestre non sia null’altro che il riflesso della stessa, insieme all’attenzione per i primi voli spaziali (in particolare per il lancio della prima sonda lunare sovietica, Lunik, lanciata il 2 gennaio 1959, ma che non entrò nell’orbita della Luna per un errore di circa seimila chilometri) e la televisione che egli riteneva superata dal fatto che presto gli uomini avrebbero potuto telepaticamente ricevere una propria “televisione mentale” senza l’uso di elettrodomestici o altri marchingegni tecnologici. Tutte riflessioni che egli sottoponeva agli infermieri e ai pazienti dell’ospedale, ma che in precedenza aveva fatto circolare a voce e a stampa, in opuscoli stampati insieme al genero e poi distribuiti con lui a Milano. Uno avvolto in un mantello nero di sapore ottocentesco e l’altro in un saio verde.

Una storia di disagio psichico che però era già iniziata dopo la disavventura sudamericana del 1927 e le torture subite dai fascisti. Così che, dopo esser stato all’epoca consigliere comunale a Cuneo, membro di spicco della Camera del Lavoro locale, redattore di giornali comunisti e militanti quali «il Sindacato Rosso», schedato dalle prefetture come elemento estremamente pericoloso e definito da Gramsci come oratore formidabile, freddo, preciso e impeccabile, a Regina Coeli, dove era stato rinchiuso in attesa del processo, era stato riconosciuto a stento dai suoi compagni di partito e di carcere.

Bollato dalle perizie psichiatriche come individuo affetto da paranoia espansiva e delirio cronico progressivo, avrebbe iniziato il suo calvario tra i manicomi e, dopo di questi, quello del confino a Ponza e alle isole Tremiti. Durante il quale elaborò complesse teorie astronomiche, scrisse di Bimanità e Trimanità e si dichiarò figlio illegittimi di Nietzsche, di cui in gioventù aveva letto gli scritti insieme a quelli di Karl Marx.

Il testo di Pellegatta e Lunardelli, che a questo punto si lascia che sia il lettore ad esplorare fino in fondo, si avventura dunque in un territorio oscuro, sospeso tra dramma e paradosso, tra tragedia e sempre involontaria comicità, che, però, non costituisce l’unico caso nella storia del movimento operaio italiano. E nemmeno solo del movimento operaio, soprattutto nel guardare allo spazio come luogo di fuga e liberazione. Per la mente e, forse, anche per il corpo.

Basterebbe, allontanandoci per un momento dal contesto della lotta di classe, pensare a uno dei jazzisti afro-americani più innovativi e visionari: Sun Ra. Nato come Herman Poole Bloun a Birmingham in Alabama nel 1914, dotato di notevoli doto pianistiche e gusto musicale fin da giovane, a seguito dell’imprigionamento per renitenza alla leva e dei maltrattamenti subiti nel 1942-43 a causa della sua obiezione alla guerra e al servizio militare, dopo essere stato esaminato dagli psichiatri del campo dove avrebbe dovuto prestare servizio civile, venne dichiarato “personalità psicopatica” anche se altamente “erudita ed intelligente”, e quindi congedato a tempo indeterminato.
Dopo di che assunse il nome d’arte, e non solo, che ne avrebbe collegato opera musicale, pensiero e immagine pubblica allo spazio (in particolare a Saturno) e all’antico Egitto faraonico, di cui si reputava discendente e, in qualche modo, erede delle conoscenze esoteriche.

Una divagazione, quest’ultima, apparentemente fuori luogo, ma che ci rinvia alla necessità umana di sognare e di cui il comunismo, “demone” come già lo definì il giovane Marx, scienza o programma che sia, spesso ha rappresentato soprattutto un grande e liberatorio esempio, sia sul piano collettivo che sul piano individuale. Sogni di cui, come già profetizzava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’essere umano ha bisogno come dell’aria per vivere e la cui repressione parziale o totale può portare alla morte, se non fisica almeno psichica.

Un vecchio compagno bordighista era solito ripetere che i comunisti, per resistere in condizioni sociali, politiche e culturali controrivoluzionarie decisamente avverse, oltre ad avere una pelle da rinoceronte dovevano essere per forza dei drop out. Effettivamente l’autore della presente recensione di drop out nell’ambiente comunista ne ha conosciuti davvero tanti. Si intenda bene, però, qui non si parla degli internati nei manicomi staliniani e sovietici per reprimere la dissidenza e nemmeno dei partigiani rinchiusi in manicomio dopo il secondo dopoguerra mentre il guardasigilli Togliatti apriva le porte delle carceri ai fascisti per farli uscire (e magari, in molti casi, per entrare nei ranghi del PCI e dell’amministrazione statale)2.

Se ne vogliono qui ricordare soltanto alcuni, spesso riconducibili all’area cosiddetta bordighista, come ad esempio quello che, all’epoca cinquantenne, tra il 1976 e il 1977 a Torino, bazzicava gli ambienti del canagliume giovanile “rivoluzionario” legato alle precedenti esperienze di Lotta Continua, Potere Operaio e Lotta Comunista, proponendo loro opuscoli, testi e giornali provenienti dall’area della Sinistra comunista. Spiegando, però, a tutti coloro che lo ascoltavano che non sarebbe stato necessario agire fino a quando i morti accumulati per le strade non avessero raggiunto il davanzale della sua finestra. Finestra che era di fatto un abbaino di una soffittta posta al quarto o quinto piano di un edificio umbertino del quartiere San Paolo. Per non dare adito a dubbi di qualsiasi genere va qui chiarito che Zombie di Romero sarebbe uscito soltanto nel 1978.

Oppure un giovane compagno che, ancor ventenne agli inizi degli anni Ottanta, si rifugiò in un mondo tutto suo, da cui non sarebbe mai più uscito, in cui la Terza guerra mondiale era già iniziata e le bombe atomiche avevano cominciato a piovere su un’umanità spenta e incredula. O, ancora, un vecchio compagno di una nota azienda di Ivrea in cui i comunisti di sinistra che componevano l’intero consiglio di fabbrica erano stati espulsi dal sindacato, per mano di Fausto Bertinotti, quando si erano rifiutati, insieme a tutti gli altri operai, di solidalizzare col Governo e i servi del capitale, non aderendo allo sciopero dichiarato dopo il rapimento o il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978. Tale compagno dopo essersi ritirato in pensione manifestò sempre più i sintomi di un forte bipolarismo che spesso lo rendeva inviso ad amici, ex-compagni e famigliari.

Sono solo alcune delle storie che, per quanto piccole e apparentemente insignificanti, non andrebbero prese sottogamba e nemmeno ridotte a semplici curiosità aneddotiche, ma come testimonianza di sofferenze e drammi umani seguiti alla sconfitta (momentanea o sempiterna non tocca qui stabilirlo) del sogno più grande che il capitalismo, fin dalla scoperta delle sue irrisolvibili contraddizioni di classe, ha contribuito a produrre nella mente e nella speranza di chi dal basso gli si è contrapposto senza infingardaggini e senza compromessi.

Almeno per questo Isidoro Azzario e tutti gli altri sperduti compagni che in tanti modi diversi hanno seguito il suo percorso, meritano la riconoscenza di chi li ha conosciuti o di chi ne sente parlare soltanto ora per la prima volta.
Questa è la memoria che val la pena di preservare, molto più di quella delle rimembranze istituzionali e mummificate degli infiniti giorni e delle infinite iniziative ufficiali dedicate alla conservazione di una memoria a senso unico. Per questo Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli hanno fatto benissimo a ricordarcelo attraverso il loro lavoro di autentica, non blasonata e tanto meno patinata “storia dal basso”3. Storia di militanti che, come nel caso di Azzario, troppo spesso sono stati volontariamente rimossi dai gestori dell’ordine della memoria e dai loro partiti, anche quando, questi ultimi, per lungo tempo si son dichiarati “comunisti”.


  1. M. Lunardelli, A. Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, p. 11  

  2. In proposito si vedano: A. Peregalli, M. Mingardo, Togliatti Guardasigilli 1945-1946, Colibrì, Milano 1998 e M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano 2015  

  3. Alessandro Pellegatta, oltre ad avere scritto già un altro testo su una figura dimenticata e contraddittoria dell’anarchismo, Infinita tristezza. Vita e morte di uno scalpellino anarchico (pagine Marxiste), ha anche curato, sempre per le stesse edizioni, due volumi sull’azione dei rivoluzionari in provincia di Varese e all’isola d’Elba nell’immediato secondo dopoguerra ed è tra i curatori del Dizionario biografico del movimento operaio, reperibile qui  

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Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino di Osvaldo Bayer https://www.carmillaonline.com/2020/08/08/futbol-una-storia-sociale-del-calcio-argentino-di-osvaldo-bayer/ Fri, 07 Aug 2020 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61549 [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai [...]]]> [Segnaliamo l’uscita per Alegre Edizioni di Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino. Abbiamo la fortuna di godere dell’opera di Osvaldo Bayer in italiano grazie all’instancabile lavoro culturale di Alberto Prunetti, giá traduttore dell’adattamento italiano di Patagonia rebelde, Elèuthera 2009, di Severino Di Giovanni, Agenzia X 2011 e di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, Ouverture, 2016. A seguire la prefazione all’opera di un altro grande scrittore argentino, Osvaldo Soriano. s.s.].

Il calcio, questa passione all’apparenza innocente…

Pochi come Osvaldo Bayer hanno illuminato la storia dell’Argentina. Dai tempi delle ricerche di Adolfo Saldías nessun altro ha saputo far vibrare corde così profonde come Bayer con le sue ricerche storiche dedicate agli episodi più dolorosi e nascosti del ventesimo secolo. I suoi quattro volumi sul movimento libertario della Patagonia, soffocato nel sangue nel 1921, hanno scosso la timida storiografia ar-gentina e costituiscono uno dei pochi classici degli studi storici del nostro paese. La Patagonia rebelde (Elèuthera, 2009) è l’opera più popolare mai pubblicata sul movimento operaio argentino. Un libro che gli è valso la persecuzione, l’esilio, l’isolamento e difficoltà giudiziarie. Eppure gli ha anche dato una soddisfazione: quella di aver messo davanti agli occhi di tutti la verità sulla feroce repressione patita dai lavoratori rurali che cercavano di organizzarsi per resistere allo sfruttamento feudale nei grandi latifondi del sud.

Bayer ha poi pubblicato decine di testi rimasti quasi segreti. Ma il suo minuzioso lavoro su Severino Di Giovanni, l’anarchico fucilato nel 1931, ha segnato un’epoca, sollevando il dilemma del periodo precedente agli anni Trenta, ossia il Decennio infame: è lecita la violenza individuale di fronte all’ingiustizia sociale? È possibile che oggi, alla luce di tanti drammi e sconfitte, si risponda di no, o perlomeno che il risultato di quella violenza sia discutibile. Eppure la storia di Di Giovanni illumina un momento cruciale di questo paese, quello della nascita e dello sviluppo della classe operaia internazionalista assieme alla sua prima grande sconfitta in Argentina.

Per quanto possa sembrare strano le preoccupazioni sociali sono presenti anche nel libro di Bayer dedicato al calcio, questa passione all’apparenza innocente. La storia dei club dei quartieri periferici, tipicamente rioplatense, va oltre i grandi episodi del calcio. Come sono nate queste associazioni «atletiche e sportive», che oggi solo a sentirle nominare non evocano nient’altro che un tuffo al cuore per questioni di tifo? Da dove viene il nome di squadre come Independiente, San Lorenzo, Argentinos Juniors, Chacarita, Boca, El Porvenir e River? Perché hanno scelto proprio certi colori, di cui oggi non comprendiamo il significato, o che ormai sono devastati dalle etichette degli sponsor? E ancora: le loro tifoserie riflettono differenti strati sociali? Le figure più importanti di quei club da dove venivano? E che traiettoria hanno compiuto?

Qui c’è tutto quel che sappiamo sul calcio argentino e sui suoi momenti indimenticabili. Lo storico della Patagonia rebelde entra in campo e gioca con i vecchi campioni, rivive la propria infanzia, le passeggiate della domenica, la rivista Alumni e il sapore della frutta secca caramellata. Prima della pubblicazione, questo manoscritto è stato la base per un documentario dal titolo omonimo, Fútbol argentino, arrivato sugli schermi nell’aprile del 1990. Ma il testo – impegnato, appassionato come tutte le opere di Bayer – si spinge più in avanti del film nell’analisi dei fatti che hanno marcato per sempre questo povero paese: colpi di stato, rivolte, scioperi – anche dei calciatori –, una guerra con la Gran Bretagna… tutto questo si riflette nel calcio e i suoi protagonisti più lucidi lo dicono chiaramente analizzando quegli eventi.

Serviva un bel libro sul calcio argentino e finalmente ce l’abbiamo. Osvaldo Bayer conosce la mia passione, nient’affatto segreta, per i campi di calcio, soprattutto per uno che purtroppo non esiste più, quello del Gasometro di Boedo. E tra di noi abbiamo parlato molto di fútbol, un argomento che in genere non interessa molto ai letterati (anche se ci sono alcuni trasgressori, da Roberto Arlt a Santoro, fino a Fontanarrosa e Carlos Ares).

Questo libro non è solo per gli appassionati di calcio, ma anche per chi studia i movimenti sociali nati in Argentina negli anni delle “vacche grasse”. Non è un altro Bayer quello che scrive di calcio. È lo stesso che si è impegnato, con la vita e con le opere, affinché gli argentini conoscano la verità storica, che spesso è stata deformata e decontestualizzata. Non mi sorprende che nel suo lavoro storico Bayer si occupi di Varallo, Di Stéfano, Sívori, Pipo Rossi, Sanfilippo e Maradona. Albert Camus, l’autore de La peste e de Lo straniero, era stato il portiere dell’Algeri. Diceva che il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita. È possibile. Per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita. Bayer ci parla di questo. E di alcune cose in piú.

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Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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