Oreste Scalzone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 29 Mar 2025 21:00:06 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Si fa presto a dire Autonomia Operaia…* https://www.carmillaonline.com/2020/02/26/si-fa-presto-a-dire-autonomia-operaia/ Wed, 26 Feb 2020 21:38:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58117 di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019, pp. 553, 28,00 euro

E’ una storia dal lato dell’ombra quella tracciata dal testo recentemente edito da Red Star Press e curato da Emilio Quadrelli. Di quel lato rimasto in ombra di un’esperienza, quella dell’Autonomia Operaia, poi diventata semplicemente Autonomia una volta perso l’aggettivo, di cui in compenso si è parlato tantissimo, sia a livello storiografico che politico e culturale. Una storia cui sono [...]]]> di Sandro Moiso

Emilio Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, Roma 2019, pp. 553, 28,00 euro

E’ una storia dal lato dell’ombra quella tracciata dal testo recentemente edito da Red Star Press e curato da Emilio Quadrelli. Di quel lato rimasto in ombra di un’esperienza, quella dell’Autonomia Operaia, poi diventata semplicemente Autonomia una volta perso l’aggettivo, di cui in compenso si è parlato tantissimo, sia a livello storiografico che politico e culturale. Una storia cui sono stati dedicati molti volumi, molte ricostruzioni, molte biografie e autobiografie; quasi quanto è stato fatto per quella che è rimasta, almeno nell’immaginario collettivo, la leggenda aurea della lotta armata in Italia: le Brigate Rosse. Con tutto il corollario di polemiche, illazioni e differenti interpretazioni soggettive che ne hanno accompagnato la leggenda mediatica e politica dal processo 7 aprile e dal rapimento Moro in poi.

Quadrelli, con il suo consueto stile efficace e incisivo, affronta di petto la questione e ricorda a tutti che da questa narrazione “monca” della storia dell’Autonomia (in particolare quella facente capo a «Rosso») è rimasta a lungo esclusa quella di una delle anime dell’Autonomia Operaia più vicine alla fabbrica, agli operai, alle condizioni di vita e all’immaginario politico che accompagnavano la classe nelle sue espressioni di lotta più avanzate e, al contempo, spontanee.

Non è pertanto una storia intellettuale quella che Quadrelli ripercorre nella sua stimolante introduzione alla raccolta dei nove numeri di «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti» usciti tra il giugno del 1975 e il settembre del 1977. Piuttosto è un’attenta riflessione sulle cause della messa in disparte di un’esperienza di lotta, riflessione teorica e organizzazione pratica che era sorta quasi spontaneamente dalle esigenze di una classe che, all’epoca, non intendeva affatto rimanere rinchiusa tra le mura delle fabbriche1 e nel recinto di un operaismo ortodosso che più che liberarla sembrava volerla trattenere in un mortifero abbraccio con gli interessi di crescita dei suoi oppressori, a causa di un determinismo di origine positivista che aveva fatto parte, per lungo tempo, del bagaglio politico e filosofico dei suoi teorizzatori.

Classe che a quel punto del tragitto intrapreso, dallo scaturire spontaneo delle lotte da Piazza Statuto e dall’autunno caldo in avanti, aveva visto le sue avanguardie interne giungere a quel rifiuto del lavoro che non stava a indicare soltanto il rifiuto della fatica e dello sfruttamento ma, nella sostanza, il modo di produzione capitalistico nel suo insieme: un modo di produzione di morte (come già nel 1976 Seveso e l’ICMESA avrebbero ben insegnato), di sottomissione di classe, di genere e di ghettizzazione sociale (anche se i ghetti iniziavano a mimetizzarsi da feste, festival o circoli del proletariato giovanile). Come il giornale nella sua breve ed intensa esistenza ebbe il modo di rimarcare e porre all’ordine del giorno.

Ordine del giorno che prevedeva soprattutto una ridefinizione del programma comunista e una discussione sulla forma partito che non intendevano affatto scimmiottare le precedenti (e perdenti) ipotesi ispirate dalle varie correnti storiche del marxismo ortodosso, ma che dovevano ri-nascere da ciò che lo scontro di classe di quegli anni aveva posto materialmente all’ordine del giorno. Soprattutto a partire dalle lotte di fabbrica e dalla loro estensione politica (e militare) sul territorio.

Ipotesi che mettevano al centro l’attenzione nei confronti della guerra civile come fase ineluttabile, intesa come porta stretta attraverso cui il movimento sarebbe dovuto passare nella sua lotta contro il capitale. Ipotesi che negava qualsiasi possibilità di convivenza tra forme di comunismo vissuto ancora in ambito capitalistico e mantenimento di rapporti sociali e di produzione fondati sulla mercificazione delle attività e dei bisogni umani e dello sfruttamento del lavoro. Soprattutto operaio.

E’ infatti proprio sulla questione del lavoro produttivo e del capitale variabile che si giocherà la partita definitiva con quell’area dell’Autonomia che si sarebbe dedicata, soprattutto a partire dal 1976/77, all’identificazione di nuovi soggetti sociali in grado di sostituire i lavoratori produttivi e la classe operaia, sia dal punto di vista economico che politico. Una sorta di “revisionismo” del pensiero marxiano che sarebbe partito proprio dai settori più ortodossi dell’operaismo precedente.

Quello che, affondando le proprie radici nella tradizione di Potere Operaio ben lontana dall’esperienza militante di Lotta Continua, aveva precedentemente predicato la separazione degli interessi e la funzione della classe operaia da tutti gli altri settori, soprattutto giovanili e studenteschi, che fin dal 1968 avevano iniziato a muoversi a fianco e con gli operai in lotta. In un’azione di stimolazione reciproca che i militanti di Senza Tregua, al contrario, riconobbero sempre come vitale e positiva.

La separazione definitiva tra l’ipotesi di organizzazione e riflessione radicale contenute nell’ambito del giornale e quelle ancora legate a quello che, nelle pagine di Quadrelli, potrebbe essere definito come una sorta di neo-riformismo dell’Autonomia intellettuale (forse ancora oggi leggibile in una parte dell’azione dei centri sociali, per cui troppo spesso il movimento sembra essere tutto e il fine nulla) avviene proprio sulla base dello scontro apertosi intorno all’ultimo numero della prima serie del giornale, quello del novembre 1976.

A quel numero sarebbe stato allegato un inserto scritto da Oreste Scalzone, intitolato Realismo della politica rivoluzionaria, che da un lato avrebbe marcato l’addio dello stesso al giornale cui aveva collaborato fin dall’inizio e dall’altro una definitiva rottura dei militanti che riprenderanno in mano e manderanno ancora avanti il giornale, con i due numeri usciti per la seconda serie nel maggio e nel settembre del 1977, con la strada che la tradizione operaista stava ormai imboccando.

Proprio nell’ultimo numero della prima serie si affermava:

Una composizione politica nuova caratterizza l’attuale fase dello scontro di classe in Italia. Fuori da una lettura “sociologica” dei comportamenti e della struttura di classe, un carattere politico nuovo emerge nella mutata composizione di classe che è frutto di elementi oggettivi e soggettivi presenti entrambi in modo determinante: l’antagonismo sociale diffuso, la riproduzione e massificazione dei comportamenti e dei bisogni operai a nuovi settori proletari si intreccia in maniera significativa alle forme in cui lotte, comportamenti e bisogni si sono espressi , ai momenti di combattimento praticati, ai livelli di organizzazione che hanno sedimentato. E’ [in] questo processo unitario, a volte contraddittorio ma interno al corpo di classe, in ci hanno agito da una parte il proletariato sociale e dall’altra – in maniera soggettiva – reparti avanzati di questo […] in queste lotte si è espressa una composizione di classe nuova, matura, rivoluzionaria […] Contro questo soggetto proletario rivoluzionario che può liberare bisogni comunisti, forza creativa e territori urbani, lo stato ha dichiarato guerra, si erge come puro strumento di dominio privo di qualsiasi prospettiva di sviluppo economico e di legittimazione sociale, votato alla formazione di una classe operaia militarizzata, obbligata ad erogare lavoro tramite comando.2

Il titolo della sottosezione dell’articolo recitava: Oltre l’Autonomia, un nuovo soggetto per il «Partito Operaio». Poiché la separazione d’intenti proprio nella costruzione di un soggetto politico-partitico nuovo, in una forma partito adatta ai tempi e ai bisogni organizzativi e ai compiti politici posti dalle pratiche di massa affondava le sue radici.

E’ questa coscienza anticipatrice dei compiti che attendevano il movimento che andava scaturendo e si sarebbe pienamente manifestato, pur con tutte le sue contraddizioni e travagli, proprio nel 1977 a rendere ancora oggi, in un clima di chiusura a qualsiasi ipotesi di trattativa e di inasprimento della repressione nei confronti dei conflitti socialie e, sostanzialmente, da guerra civile mondiale dichiarata dal capitale e dai suoi apparati repressivi e statuali nei confronti di tutti i movimenti che ne contestano ovunque il diritto al dominio, all’iniqua ripartizione della ricchezza prodotta e alla devastazione ambientale, estremamente attuale e interessante la rilettura delle pagine e delle riflessioni proposte dal testo curato da Emilio Quadrelli.

Soprattutto nel momento in cui l’incapacità e la scarsa volontà dei governi di provvedere al benessere e alla salute dei cittadini viene coperta e giustificata da un’ulteriore militarizzazione dei territori e della società. Aspetto non secondario che “Senza tregua” aveva già denunciato a proposito di Seveso nel 1976.

* Da leggere possibilmente utilizzando come colonna sonora Before The Deluge di Jackson Browne, nella versione dell’autore (1974) oppure degli irlandesi Moving Hearts (1981)


  1. Si veda anche Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019 (qui)  

  2. Lo scontro di classe ha già da un pezzo superato la soglia oltre la quale non risulta più componibile attraverso vie pacifiche. La guerra civile è la porta stretta attraverso la quale dovrà passare chiunque intenda sbloccare questa situazione in «Senza Tregua», 24 novembre 1976 ora in E. Quadrelli (a cura di), Le condizioni dell’offensiva. «Senza tregua. Giornale degli operai comunisti»: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975-1978), Red Star Press, pp. 280-281  

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Al Ticinese, il vicolo con una casa losca e un libraio sovversivo https://www.carmillaonline.com/2018/07/24/al-ticinese-il-vicolo-con-una-casa-losca-e-un-libraio-sovversivo/ Tue, 24 Jul 2018 20:40:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47498 di Fiorenzo Angoscini

Umberto Lucarelli, Vicolo Calusca, prefazione di Tommaso Spazzali, Edizioni Bietti, Milano, maggio 2018, pag.106, € 12,00

Il titolo potrebbe sviare l’attenzione e far pensare a qualcosa di relativo alla toponomastica e circoscritto ad un vicolo, piccolo e secondario, ma quel luogo, proprio per una particolare libreria, è stato molto di più, sicuramente un posto importante, forse anche grande e, come scrive Tommaso Spazzali nella prefazione «…un denso spaccato di un pezzo di storia recente». Magari non nel senso che gli attribuisce l’ufficialità delle cose, della storia accademica ingessata ed istituzionalizzata. La lettura dello scritto confermerà e giustificherà [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Umberto Lucarelli, Vicolo Calusca, prefazione di Tommaso Spazzali, Edizioni Bietti, Milano, maggio 2018, pag.106, € 12,00

Il titolo potrebbe sviare l’attenzione e far pensare a qualcosa di relativo alla toponomastica e circoscritto ad un vicolo, piccolo e secondario, ma quel luogo, proprio per una particolare libreria, è stato molto di più, sicuramente un posto importante, forse anche grande e, come scrive Tommaso Spazzali nella prefazione «…un denso spaccato di un pezzo di storia recente».
Magari non nel senso che gli attribuisce l’ufficialità delle cose, della storia accademica ingessata ed istituzionalizzata. La lettura dello scritto confermerà e giustificherà questa affermazione.

Ma, già un’analisi più attenta della copertina lascia intendere che il contenuto della pubblicazione è particolare. Si intravede, a sinistra, proprio sotto l’intestazione, quasi in filigrana, una falce e martello e, nonostante il chiaro/scuro che un po’ confonde e nasconde, si coglie la presenza di un magnetofono (registratore portatile) con ben visibile al suo interno un’audiocassetta. Si tratta di storia orale, naturalmente di parte, vissuta e raccontata. Anzi, di tante storie che si sviluppano ed intersecano in una porzione particolare di Milano, il quartiere (anche se, forse, è limitativo definirlo così) del Ticinese. Quel grande agglomerato di monumenti, costruzioni e canali che l’attraversano, cresciuto attorno a

“Porta Ticinese, Porta Cicca, dal masticare tabacco, ciccà: dallo spagnolo Chica, ragazza, in quanto era zona di postriboli a buon mercato per operai e soldati. Il più noto era nel vicolo Cà Lusca, Cà Losca, oggi Calusca. Porta Cicca, con la variante di Porta Cina altro nome che la mala, una vecchia malavita che non esiste più, dava a Porta Ticinese dal dialetto cinès.
L’antica porta medioevale è ancora visibile all’angolo di via De Amicis-Molino Delle Armi: fu restaurata e in parte ricostruita,con variazioni non consone all’originale, da Camillo Boito. Alle spalle della porta medioevale vi sono le colonne di San Lorenzo che sono il più significativo resto delle opere milanesi in epoca romana.[…] Alla fine del Corso di Porta Ticinese, nel Piazzale XXIV maggio, vi è l’Arco di Porta Ticinese denominato di Porta Marengo e iniziato nel 1801 dall’architetto Luigi Cagnola per festeggiare la vittoria di Napoleone, nella battaglia svoltasi nella cittadina alle porte di Alessandria…Originariamente la porta era posta sopra un ponte del canale Ticinello, ora coperto, svetta sopra la confluenza di tre vie d’acqua, Olona, Naviglio Grande e Naviglio Pavese”.1

Sempre Spazzali, ricorda che le parole scritte in questo libro «occupano quarant’anni di storia». Parte all’inizio dei settanta e arriva fino ad oggi «attraversando quel lasso di tempo che ha portato la città, Milano, a trasformarsi da teatro di un conflitto sociale2 aspro ma al contempo espressione di grandissima vitalità ed energia, in simulacri di locali dove, come proprio Primo (Moroni) diceva, ‘si vendono vino e panini senza amore e senza memoria’».
Anche l’autore di questo promemoria scritto lo sottolinea: «Il Ticinese è una fiera e un fracasso con migliaia di persone che si aggirano come ebeti lungo il Naviglio verde e torbido immaginandosi d’essere lungo la Senna a Parigi…»

Quegli stessi luoghi già a metà degli anni sessanta erano stati un crocevia di incontri, di consolidate amicizie e germogli di cultura. Simili, ma diversi, da altre zone, come Brera e i suoi bar (Jamaica il più famoso) ‘templi’ della vita mondana di allora, dove artisti stravaganti, pittori, fotografi-paparazzi, attrici e registi famosi facevano sfoggio di eccentricità. Al Ticinese, scrittori partigiani come Salvatore Quasimodo e intellettuali dissidenti come Elio Vittorini, condividevano idee, esperienze e difficoltà con cantautori militanti e controcorrente come Ivan Della Mea.

“La sera (Elio Vittorini) gioca a carte in una crota3 di ligera4 all’inizio di Alzaia Naviglio Pavese, con Salvatore Quasimodo e Ivan Della Mea,5 che gli dedicherà la canzone ‘A quell’omm’” .6

Quello che è stato una fucina di cultura, arte e politica, deve sopportare lo scempio attuale «intorno alle Colonne di San Lorenzo impera la ‘movida’, coi suoi riti intesi ad occultare le sgradevoli condizioni sociali e a illudere che sia sempre festa…».7

L’estensore dell’elaborato, Umberto Lucarelli8 che sin da giovane aveva una passione ed un’ambizione: fare lo scrittore,9 tanto da meritarsi il soprannome di il Werther della Barona, si è deciso ed è riuscito dopo anni di rinvii e di oblio involontario, a sbobinare decine di audiocassette con la registrazione dei ‘racconti’ di Primo Moroni.

“Ricordo di aver ritrovato finalmente in cantina le audiocassette con la voce di Moroni, registrate fra la metà e il finire degli anni ottanta del secolo scorso, avvoltolate in un foglio di carta ingiallita con una scritta vergata con la stilografica che dice Intervista a Moroni per Una vita di carta… ascoltare quelle registrazioni è stato faticoso anche se Moroni sembrava vivo vicino a me”.

Nel libro non c’è solo Moroni, non solo i suoi ricordi, e «non si tratta solamente di una biografia» si precisa nella prefazione, «è un libro sulla memoria». E’ vero: c’è tratteggiata gran parte della vita dell’ Ho Chi Min meneghino, come veniva anche chiamato Primo Moroni (altri soprannomi erano, ‘l’autodidatta di grande cultura’ e lo storico del Ticinese) ma ci sono anche le esperienze politiche, intime e personali dell’autore e, senza presunzione, intromissioni e invadenza, la lettura di queste pagine ha fatto riaffiorare anche i miei ricordi, per quei luoghi e di quei periodi. Inoltre, sono, a volte solo ricordati, altre volte vengono tratteggiati, i profili dei tanti uomini e donne che, per ragioni e motivi diversi, hanno popolato le strade, le case, le botteghe e gli spazi culturali di quella parte di Milano. Forse, l’unica dimenticanza che ho colto, naturalmente tra le più significative in ambito artistico-culturale, magari voluta, riguarda Paolo Baratella, pittore che, nel Ticinese, aveva bottega e galleria espositiva. Da alcuni suoi quadri sono state realizzate copertine per la rivista CONTROInformazione.

Così, oltre ai già citati Quasimodo e Vittorini, a cui Primo, in veste di cameriere, serviva pranzo oppure cena ai tavoli delle trattorie gestite da suo padre, attraversavano il quartiere attori come Gian Maria Volontè, ci abitavano letterate come Ada Merini, la poetessa dei Navigli, abituale frequentratrice della «libreria Pontremoli con i suoi libri antichi e costosi». Stazionavano militanti politci come Andrea Bellini (del Collettivo del Casoretto) e Oreste Scalzone (Comitati Comunisti Rivoluzionari). Ancora, tra via Cicco Simonetta, via Marco D’ Oggiono e via Ascanio Sforza vagava il poeta bandito, voce della ligera, Bruno Brancher, autore, tra gli altri, di Disamori e di L’ultimo Picaro10 oltre a vantare di aver conosciuto Martino Zicchitella, appartenente ai Nuclei Armati Proletari, rimasto ucciso durante un’azione armata. «Personaggi particolari di una Milano ai margini, osannati a tratti e poi dimenticati e poi ancora ricordati, si parlava di loro come dei geni, dei cialtroni, dei matti…».
E quanti panini si sono mangiati (autore di queste righe compreso) al bar Rattazzo, quando era ancora in Corso di Porta Ticinese, proprio in parte all’ingresso della redazione della rivista CONTROinformazione.

Come ricorda anche la pubblicazione, in zona Ticinese-Genova, ci sono state numerose sedi politiche, di diverse organizzazioni: dal MS-MLS, agli anarchici; da Lotta Continua ad Avanguardia Operaia, poi Democrazia Proletaria, Rosso, altri vari collettivi di Autonomia Operaia organizzata e anche organismi autonomi meno ortodossi. Alcuni centri sociali autorganizzati ed occupati.
Da un certo periodo della sua vita, dopo aver abitato in ‘centro’ (via Larga) Primo Moroni11 si è trasferito ad abitare, vivere, lavorare, lottare a Porta Cica.

Precedentemente, era stato un militante della Federazione Giovanile Comunista Italiana e del Pci; è un ‘ragazzo con le magliette a strisce’ durante gli scontri di Genova del giugno 1960,12 partecipa alla manifestazione a favore di Cuba del 27 ottobre 1962, quando viene ucciso Giovanni Ardizzone e a quella per la liberazione del comunista spagnolo Juliàn Grimau, cameriere nei ristoranti-trattorie del padre, poi commis, demi-chef. A Cannes si merita la promozione a chef de rang. Ballerino ed investigatore privato, agente librario e direttore editoriale. Sul finire del 1967 abbandona la carriera dirigenziale e, con la liquidazione, apre un club, il “Sì o Sì” che «non era un club politicizzato, ma soltanto largamente democratico, per l’occupazione del tempo libero, aperto dalle nove del mattino alle quattro del mattino successivo».13

Quando intraprende la ‘nuova vita’, oltre ad essere il sovraintendente della Calusca, è anche editore (Primo Maggio14 ), collaboratore di riviste (tra le tante CONTROinformazione, Altreragioni, Millepiani, Il de Martino, DeriveApprodi, Alfabeta, Metroperaio, Solidarietà Militante, 150 ore, Decoder, lo stesso Primo Maggio), autore di ricerche, 15 studi e pubblicazioni organiche,16 scritti vari.17 .

La prima sede della libreria Calusca è stata inaugurata in Corso di Porta Ticinese n.106, angolo Vicolo Calusca, nell’ inverno 1971-1972 poi, nel 1978 si trasferisce al civico 48 (verso via Molino delle Armi) dello stesso Corso. Vi rimane fino all’estate del 1986 quando «chiude a causa dell’esaurimento delle energie soggettive, della sostanziale scomparsa della produzione editoriale legata alla ‘stagione dei movimenti’ e di gravi problemi economici, cagionati anche dalla repressione (la libreria conta sei o settecento arrestati tra la sua clientela più stretta)».18

Nel suo primo periodo, più precisamente tra il 1975 e i primi quattro mesi del 1978, le mie visite alla libreria, sono state abbastanza frequenti. In una sola occasione ho anche incrociato il compagno-avvocato Sergio Spazzali, il genitore dell’autore della prefazione di questo Vicolo Calusca. In quegli anni ero iscritto (più che assiduo frequentatore di corsi e lezioni…) all’Università degli Studi di Milano, facoltà di Lettere, in via Festa del Perdono. Sfruttavo i pochi e piccoli vantaggi del mio stato di studente universitario, in particolare l’abbonamento agevolato alle Ferrovie di Stato. Così, partivo dalla città di provincia (Brescia) e mi dirigevo nella metropoli, capitale morale, in quegli anni anche politica. I miei interessi, però, mi portavano a visitare le varie librerie e depositi librari, piuttosto che seguire seminari ed insegnamenti. In una sorta di percorso obbligato, le tappe erano queste: Centro Libri (un ingrosso non proprio aperto al pubblico ma a cui, grazie ad un amico e compagno, avevo libero accesso) dove acquistai le opere complete di Ernesto Che Guevara ; proseguivo per la Feltrinelli di via Santa Tecla-via Larga per, poi, approdare alla Statale, quasi sempre solo per un’ occhiata alla libreria della Cooperativa Universitaria Editrice Milanese (la casa editrice-libreria del Movimento Studentesco). Una rapida colazione in mensa e via, a piedi, verso via Molino delle Armi e la libreria Sapere. Infine, l’approdo da Primo alla Calusca.

A questo percorso classico, qualche volta aggiungevo una capatina alla Feltrinelli di via Manzoni, alla Ringhiera di viale Padova e alla Libreria Proletaria di via Spallanzani (Buenos Aires). Dall’inverno 1976 ho anche iniziato a frequentare la sede del ‘Consorzio Punti Rossi’19 di via Cicco Simonetta n.11, sempre zona Ticinese, gestito da Renato Varani. Se qualche mese non rinnovavo (causa ristrettezze economiche…) l’abbonamento alla ‘ferrovia’, il sabato pomeriggio, con Lidia, la compagna di una vita, andavo in bottega e sequestravo l’automobile a mio padre: una 1100 bianca, con cambio al volante e le portiere che non erano ancora controvento, antica, ma non nel senso di auto storica, oppure d’epoca, bensì asfittica e sempre in procinto di cedere, esalando l’ultimo respiro. Mio padre, conoscendo le nostre abitudini, ce la faceva trovare sempre con il serbatoio pieno, o quasi. Partivamo dalla ‘Leonessa d’Italia’ e raggiungevamo la città meneghina percorrendo la SS 11, niente autostrada, mancanza fondi. Meglio, preferivamo investire quelli (pochi) che avevamo a disposizioni per acquistare libri, opuscoli e pubblicazioni varie.

Proprio in una di queste occasioni, davanti la seconda sede della Calusca in Corso di Porta Ticinese, risaliti in auto dopo il nostro ‘shopping’ culturale, la 1100 non voleva saperne di ripartire. Con Lidia provvisoriamente al volante, la vettura in direzione S.Eustorgio (leggerissima discesa), spinsi a mano il ferrovecchio finché, ruggendo, riuscì ad accendersi, permettendoci così di riprendere la strada di casa. Alè, spediti (?) verso Brescia senza fermarsi né farla spegnere. Esperienze simili anche in direzione nord-est, quando andavamo dall’editore Giorgio Bertani, a Verona.

Dal maggio 1978 iniziai l’attività lavorativa, abbandonando, anche burocraticamente, l’Università e le visite alla Calusca diventarono molto rare. Solo quando, per motivi professionali transitavo per Milano, oppure ero nelle vicinanze, cercai di concedermi dei ritagli di tempo per tornare ai vecchi amori. Proprio in una di queste occasioni, dopo la riapertura di fine 1987 in piazza Sant’ Eustorgio, andai da Primo. Erano i primi giorni di marzo del 1988. Era mattina, in libreria c’era solo lui e stava ‘sballando’ un bancalino pieno del suo libro: L’Orda d’ Oro. Sulla parete di fondo campeggiava il grande quadro, a semicerchio, di Paolo Baratella: L’Internazionale futura umanità, con in primo piano un soldato dell’Armata Rossa che, pistola in pugno, va all’assalto; sullo sfondo, davanti ad una testa-teschio in decomposizione di Benito Mussolini, Paperon de’ Paperoni legge un libro dalla copertina rossa con sopra impressa la S di dollari, e dal titolo ‘Il Capitale’, ma non è quello di Carlo Marx…
Naturalmente chiesi di acquistarne una copia, Primo me la porse, non senza aver prima scritto un’osservazione: «Marzo ’88. E’ un po’ noioso qua e la, però ci sono quasi tutti i ‘MEGLIO’ di quegli anni», seguita dalla sua firma autografa.

Purtroppo, anche la terza gestione viene interrotta, la libreria chiude di nuovo nel settembre del 1990. Cerca di concretizzare una nuova esperienza di attività libraria all’interno dell’occupazione ‘Acquario’, nel piazzale Stazione di Porta Genova, ma gli sforzi vengono vanificati a causa di un incendio doloso.
Infine, nel febbraio 1992, trasferisce la libreria all’interno del Centro Sociale Occupato Autogestito di via Conchetta 18 e la ribattezza ‘Calusca City Lights’, in onore del poeta-libraio-editore, di origini bresciane, Lawrence Ferlinghetti.
In COX 18 20 ha sede anche l’Archivio Primo Moroni.
La narrazione di Lucarelli non racconta solo il lato politico-militante, di libraio diffusore ed organizzatore21 di cultura dello ‘storico del Ticinese’, ma mette in risalto, come già accennato, anche aspetti e risvolti meno conosciuti, più intimi, direi privati se fossi sicuro di non essere frainteso. Parla di sua moglie, della seconda compagna, delle figlie che ha generato con loro, di qualche amore passionale e relazione ‘clandestina’. Del tentativo di suicidio della prima moglie. Descrive la cattiveria e le botte ricevute da sua madre. Moroni parla anche di altri: dei morti ammazzati da mano poliziotta,22 dei compagni suicidati, di quelli che si sono uccisi indirettamente iniettandosi eroina o altre sostanze, degli esuli e di quelli in galera.. «Degli avventori della sua libreria, un micromondo di individui che passavano di lì per nutrirsi di un’ altra storia».
Ma, Moroni (qui), seduto sulla sua sedia rossa da barbiere,

“non parlava mai di se stesso intimamente, non si apriva mai veramente…Metteva sempre davanti il suo personaggio, parlava della sua storia, di cosa aveva fatto e detto incrociando gli avvenimenti storici, era un gran affabulatore, spaziava, faceva digressioni, riprendeva il tema da cui era partito, inseriva storie su storie”.

Credo in molti,come me, ti ricordino ancora così.
Anche quella mattina del 31 marzo 1998 quando, davanti alla basilica di Sant’ Eustorgio, ai tuoi funerali laici, si sono sparati fuochi d’artificio.
Condividendo le ultime righe della prefazione di Tommaso Spazzali dobbiamo, tutti, consapevolmente e convintamente sapere che «…è la vita delle persone e la loro memoria a far girare la ruota del tempo».


  1. Marco Caccamo, Milano, il dialetto nelle parole, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano-Milano, novembre 2005, pag. 112  

  2. “Milano allora era un bel posto per chi credeva nella rivoluzione”, Rossella Simone, anch’ella frequentatrice del Ticinese  

  3. bettola, osteria di basso rango, nda  

  4. leggera: per il modo di camminare leggero e furtivo; Gadda nell’Adalgisa dice: “La lingèra è la teppa, la malavita: in una sfumatura espressiva piuttosto blanda e scherzosa” , Marco Caccamo, op.cit., pag. 112  

  5. Giancarlo Ascari, Matteo Guarnaccia, Quelli che Milano: Storie, leggende, misteri e varietà. Un viaggio ironico e curioso nello spazio e nel tempo. Luoghi celebri e sconosciuti, personaggi famosi e gente comune, storie incredibili e aneddoti buffi, giochi, canzoni, curiosità, primati, segreti e spigolature, BUR Extra-Rizzoli, Milano, novembre 2010  

  6. A quel omm, che incuntravi de nott in vial Gorizia, là sul Navili, quand i viv dormen, sognen tranquili e per i strad giren quei ch’inn mort – Quell’uomo, che incontravo di notte in viale Gorizia, là sul Naviglio, quando i vivi dormono, sognano tranquilli e per le strade girano quelli che sono morti. Ivan Della Mea, A quell’omm, 1965  

  7. Marco Caccamo, op.cit., pag. 110  

  8. Militante del Collettivo Autonomo Barona, viene arrestato, insieme ad altri, il 18 febbraio 1979. L’accusa, infondata, è di essere responsabile dell’assalto ad un gioielleria, con conseguente morte del titolare, Pier Luigi Torreggiani. Lucarelli, con altri due compagni, sarà scarcerato il 24 febbraio “per assoluta mancanza di indizi” . Purtroppo, in quei ‘Sei giorni troppo lunghi’, subirà pestaggi e torture psico-fisiche che gli cambieranno la vita. Per approfondire si veda: Paolo Bertella Farnetti-Primo Moroni, Collettivo Autonomo Barona: appunti per una storia impossibile, Primo Maggio n. 21, primavera 1984  

  9. Non vendere i tuoi sogni: mai, Tracce, 1987 e Bietti, 2009; Ser Abel va alla guerra, Tranchida, 1991 e Bietti, 2009; Il quaderno di Manuel, Tranchida, 1994; Fossimo fatti d’aria, BFS, 1995; Nulla, BFS, 1999; Pavimento a mattonella, BFS, 2001; Sangiorgio il drago, IBS, 2008; Rivotrill, Bietti, 2011; Commiato, Bietti, 2014  

  10. Disamori, Squilibri Edizioni, Milano, 1977; L’ultimo Picaro, l’uomo delle biciclette gialle, All’Insegna del Pesce D’Oro di Vanni Scheiwiller, Milano, 1991  

  11. Da “Don Lisander” alla Calusca . Autobiografia di Primo Moroni, [raccolta e redatta da Cesare Bermani], in Primo Maggio, Saggi e documenti per una storia di classe, Milano, n. 18, autunno inverno 1982-83 poi Da “Don Lisander” alla “Calusca”. Autobiografia di Primo Moroni, postfazione di Cesare Bermani e profilo biografico a cura dell’Archivio Primo Moroni, Archivio Primo Moroni – CSOA Cox 18-Calusca City Lights – Cox 18 Books, Milano, 2006  

  12. Il Movimento Sociale Italiano, voleva svolgere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. I partiti della sinistra: Pci e Psi, la CGIL, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, i camalli-portuali genovesi, i giovani e la popolazione della città della lanterna, si opposero e ingaggiarono duri scontri di piazza con le forze dell’ordine. Il congresso venne vietato. In molte città d’Italia ci furono proteste, manifestazioni e violenti scontri con carabinieri e polizia. Purtroppo molti morti: solo tra gli antifascisti. Cinque a Reggio Emilia, quattro a Palermo, due a Catania, uno a Licata, centinaia i feriti da armi di polizia  

  13. Da “Don Lisander” alla Calusca, cit.  

  14. Cesare Bermani (a cura di) La rivista Primo Maggio. Saggi e documenti per una storia di classe. (1973-1989), Dvd con la raccolta completa della rivista, DeriveApprodi, Roma, maggio 2010. Un numero speciale della rivista è stato pubblicato nel marzo 2018, per iniziativa della Fondazione Micheletti di Brescia, a vent’anni dalla scomparsa di Primo, ed è a lui dedicato  

  15. John N. Martin, Primo Moroni, La luna sotto casa. Milano tra rivolta esistenziale e movimento politico, Editore ShaKe, Milano, 2007  

  16. Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’Orda d’Oro, 1968-1967. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Editore SugarCo, Milano, febbraio 1988  

  17. Cà Lusca. Scritti e interventi di Primo Moroni, Archivio Primo Moroni – CSOA Cox 18-Calusca City Lights – Cox 18 Books, Milano, marzo 2001; seconda edizione, riveduta e aumentata. Contiene il dvd del film Malamilano (1977) di Tonino Curagi e Anna Gorio, Milano, marzo 2016  

  18. “E’l Primin l’è on che legg” in Da “Don Lisander” alla Calusca, cit.  

  19. P. Moroni e Bruna Miorelli, Dieci anni all’inferno. Storia dell’altra editoria, in Pasquale Alfieri e Giacomo Mazzone (a cura di), I fiori di Gutenberg. Analisi e prospettive dell’editoria alternativa, marginale, pirata in Italia e Europa, Arcana, Roma, 1979  

  20. Cox 18. Archivio Primo Moroni. Calusca City Lights. Storia di un’autogestione, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi) marzo 2010  

  21. Primo Moroni e IG Rote Fabrik, Konzeptburo (a cura di), Le Parole e la lotta armata. Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera. Materiali tratti dal Convegno di Zurigo “Zwischenberichte”, 1997, Shake Edizioni, Milano, 1999  

  22. Francesco Guccini, Libera nos domine, 1978  

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Le emozioni del cuore, la freddezza della ragione, la realtà dei fatti. https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/ Tue, 25 Apr 2017 22:01:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37787 di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

brigate rosse Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’, Volume I, DeriveApprodi, Roma, febbraio 2017, pagg. 550, € 28,00

Il lavoro di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, si distingue per la vasta mole di documenti consultati. I molti materiali analizzati e di diversi archivi. La lettura delle relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, lo studio degli atti giudiziari, delle indagini e varie perizie attinenti i numerosi processi relativi al sequestro e soppressione dell’esponente democristiano. La disponibilità di inediti colloqui con militanti protagonisti dell’ esperienza armata, della guerriglia diffusa, della lotta nelle carceri e le stragi compiute all’interno di alcune di esse: Le Murate ed Alessandria; nonché per i nuovi dettagli evidenziati, la segnalazione (ricordi, memorie) di particolari rimossi. La smentita di una recente dietrologia complottista con presenze ‘multiple, diverse ed eterogenee durante le fasi dell’azione in via Fani. Le deposizioni di testimoni oculari che smentiscono se stessi, motociclette con a bordo ignoti sparatori fantasma ed altro ancora.
Inoltre la loro ricostruzione favorisce il recupero e il riordino della memoria.
Quella colletiva e quella individuale: la nostra, di ognuno di noi.

Gli autori hanno dei significativi ‘precedenti’ relativamente agli argomenti trattati nel libro di recente pubblicazione.
Clementi, dieci anni fa, ha realizzato una “Storia delle Brigate Rosse”;1 anni prima aveva dato alle stampe uno studio che potremmo definire correlato al piano ‘Victor’, ossia come neutralizzare umanamente, politicamente, personalmente e mentalmente il presidente del Consiglio Nazionale DC qualora fosse stato liberato.2
Il piano da attuare in caso di morte dell’ostaggio, era stato denominato ‘Mike’.
Più semplice, prevedeva di informare tutta una serie di figure istituzionali, giudiziarie e politiche, isolamento immediato del luogo di ritrovamento del corpo, interdizione dello stesso ai famigliari, l’istituzione di un efficiente servizio d’ordine davanti lo studio e l’abitazione di Moro, fornire in forma dubitativa le informazioni a stampa e tv.

Persichetti, con Oreste Scalzone, ha scritto “Il nemico inconfessabile”3 e, quasi quotidianamente, su ‘Insorgenze.net’ conduce una sistematica azione di puntigliosa smentita e rettifica di notizie…false e tendenziose. Relativamente ad avvenimenti e fatti riconducibili alla lotta armata e suoi militanti, alla repressione, tortura, ‘omicidi’ di stato, alla politica e alla cultura.

Infine, Santalena, ha elaborato una tesi dottorato di ricerca all’Università di Grenoble su, “La gauche révolutionnaire et la question carcérale : une approche des années 70 italiennes” (8 dicembre 2014) con capitoli espliciti: “Dalle prigioni fasciste, alle prigioni in rivolta (1969-1973)”; “Dalla riforma alla controriforma: tra repressione, lotta armata ed evasione (1974-1977)”; “Le prigioni al centro del conflitto: tra lotta armata e gestione dell’emergenza antiterrorismo (1977-1987)”.

Dettagli e particolari
Addentrandosi nella lettura si incontrano alcuni dettagli, o particolari, che se non sconosciuti, sono sicuramente poco noti. Così, si apprende che, la mattina del 9 maggio 1978, lo spazio dove verrà ritrovata in via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della Dc e quella del Pci) la Renault 4 di colore amaranto con all’interno il corpo senza vita di Moro, era stato occupato la sera prima da Bruno Seghetti che vi aveva parcheggiato la sua vettura personale, una Renault 6 di colore verde. Questo per evitare intoppi o inconvenienti dell’ultimo minuto. Così facendo si era sicuri che il luogo prescelto per posizionare la macchina servita per l’ultimo trasferimento, e successivo ritrovamento del corpo senza vita del parlamentare democristiano non sarebbe stato ostacolato dalla presenza di altri veicoli inopportunamente parcheggiati al suo posto.

Un’altra questione poco considerata è l’azione svolta da Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, quando è nominato difensore d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise di Torino che deve condurre il giudizio (maggio 1976) contro il cosiddetto ‘nucleo storico’ (definizione sempre rifiutata dagli imputati) dell’organizzazione comunista combattente, dopo che i militanti delle BR avevano ricusato i propri avvocati di fiducia, diffidato la corte di nominarne d’ufficio ed erano, momentaneamente, riusciti a far vacillare i meccanismi classici dell’ordinamento giudiziario, rivendicando il diritto all’autodifesa, per condurre il cosiddetto ‘processo guerriglia’4 e far ‘saltare’ il dibattimento.

br-processo Nonostante l’accettazione delle superiori ragioni di stato, delegando la difesa tecnica ad altri otto avvocati dell’ordine torinese, il presidente della corporazione forense, approfittando del rinvio al 16 settembre 1976 – in attesa di un pronunciamento della Cassazione per redimere un conflitto di competenza territoriale tra Torino e Milano – al riparo da clamori mediatici, si fece promotore della proposta di promulgazione di una ‘leggina’ (come la definì in una missiva indirizzata al presidente del Consiglio nazionale forense) ad hoc che permettesse agli imputati che lo desiderassero di difendersi da soli.

Sempre durante il tentativo di costituire la corte per poter svolgere il processo, oltre alla nomina di ‘difensori tecnici’, si incontrarono notevoli difficoltà nell’individuare i giudici popolari, per la rinuncia ad accettare di molti di essi.
Per superare questo ostacolo scesero in campo i massimi dirigenti del Pci torinese, Giuliano Ferrara in testa, coadiuvato ufficiosamente da due magistrati della procura, Luciano Violante e Gian Carlo Caselli che, secondo il parlamentare ed esponente del Pci torinese Saverio Vertone, “Partecipava alle riunioni del comitato federale. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria…” Mentre l’elefantino (pseudonimo di G. Ferrara) partecipò ad “alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico” (M. Caprara).

Sempre Ferrara, rivendicava il merito al Pci di aver realizzato, e diffuso, il famigerato questionario contro il terrorismo che, alla domanda n. 5, invitava alla delazione.
…poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra. (…) Per esempio case. Chiedevamo: ‘Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo”.
Tramite un suo ‘autorevole’ dirigente, G. Ferrara, il Pci si faceva Stato.

Prima delle Brigate Rosse e le militanze nel Pci
Già subito dopo la Liberazione si sono strutturati gruppi od organizzazioni Comuniste che praticavano la lotta armata. In diverse forme e modi. Dal Movimento Resistenza Partigiana-Movimento di Unità Proletaria di Carlo Andreoni, di cui, però, vanno chiarite alcune ambigue striature; alla “IX Divisione Stella Rossa Brigata clandestina ‘808’ “ di Armando Valpreda,5 presidente dell’Anpi di Asti, tra i promotori dell’ insurrezione di Santa Libera,6 fino a quel gruppo di bravi ragazzi che si ritrovavano presso la Casa del Popolo di Lambrate (Mi) per costituire la ‘Volante Rossa’.7 Per giungere a quei militanti emiliani (clandestini ed apparentemente senza organizzazione unificante) che hanno costellato le province reggiana, modenese, ferrarese e bolognese di numerosi fatti d’armi, principalmente eliminazione di fascisti e loro complici.

In anni più vicini al secondo biennio rosso italiano (1968-1969) ci sono esperienze di resistenza ed attacco armato che potremmo definire propedeutiche alla più significativa (per durata, numero di militanti ed azioni) organizzazione che ha ‘imbracciato il fucile’ e che viene ‘raccontata’ nel libro.
Il gruppo torinese costituito da Piero Cavallero, Danilo Crepaldi, Sante Notarnicola,8 Adriano Rovoletto, tutti militanti del Pci operaista delle ‘Barriere’ proletarie di Torino. “Già nel 1959 abbiamo compiuto la prima azione e siamo andati avanti fino al 1967, momento del nostro arresto. Piero era il coordinatore delle sezioni Pci della ‘Barriera di Milano’ , una circoscrizione popolare con circa 70.000 abitanti. Io, ero stato segretario dell’organizzazione giovanile del partito (Fgci) a Biella e contavamo circa 3.000 iscritti. Agli inizi degli anni sessanta avevamo capito che non eravamo più sintonizzati con il ‘partito’. Troppo ingessato, conformista e non più ‘rivoluzionario’9 .

Un’altra compagine di militanti iscritti al Pci, sezione “Rino Mandoli” di Ponte Carrega a Genova, che ha intravisto ‘l’ora del fucile’, è quella che volgarmente e mediaticamente è stata battezzata XXII Ottobre, attiva a Genova dal 22 ottobre 1969 (data di costituzione) al 26 marzo 1971, giorno della rapina al fattorino dello Iacp. In realtà, colui che è indicato come uno dei fondatori della pattuglia di nuovi partigiani, Mario Rossi, anche se con reticenze, distinguo e cautele, afferma: “Condividendo la posizione dei Gap, diventammo in pratica il gruppo Gap di Genova come c’erano già a Milano e Trento. Però, l’ho detto e lo ripeto ancora, siamo sempre stati autonomi rispetto alle altre formazioni che si stavano formando o che erano già attive altrove”.10
.
L’esperienza di Rossi, e la lettura del libro di Clementi-Persichetti-Santalena, ci offrono l’occasione di approfondire anche un altro aspetto, relativo a militanti delle prime formazioni armate, ma anche delle Brigate Rosse: la loro provenienza, l’appartenenza e l’agire politico.
Nella testimonianza raccolta da Donatella Alfonso (giornalista de “La Repubblica”) Rossi ribadisce,
Io, di fatto, mi sento ancora un militante del Pci degli anni Sessanta…In quegli anni lì ti capitava di frequentare il Partito soprattutto sul posto di lavoro, nelle sezioni di fabbrica, perché sentivi il polso dell’operaio che era quello che ti insegnava a lavorare e poi pensare…(Noi) ci eravamo tutti forgiati anche con il 30 giugno del ’60, quando Genova ha respinto il congresso del Msi. Lì c’eravamo tutti e l’ultima volta che ho visto davvero il Partito comunista in piazza è stato quel giorno, con i partigiani e i portuali con il gancio in mano”.

Nella ricostruzione delle sue scelte politiche, svela anche un particolare emblematico, “…un altro fatto che non ho mai raccontato per non mettere in imbarazzo nessuno, ma io ho continuato ad avere la tessera del Pci: finché non è morto, un vecchio compagno di Genova me l’ha rinnovata tutti gli anni, anche quando ero in carcere…Sembra assurdo, ma io non sono mai stato espulso dal Partito comunista”.

feltrinelli Queste due organizzazioni ‘minori’ e precedenti al dispiegarsi delle BR e di altre formazioni con struttura nazionale anche se con diffusione a macchia di leopardo (Nuclei Armati Proletari e Prima Linea) insieme ai Gruppi d’ Azione Partigiana costituiti da Giangiacomo Feltrinelli (operativi a Trento, Milano e Genova, i cui militanti in maggioranza, e sostanzialmente, sono confluiti nelle Brigate Rosse dopo la morte dell’editore,14 marzo 1972) sono stati un insieme di più ‘iscritti’ al Partito (Nelle inchieste sui Gap sono stati indagati G.B. Lazagna, Marisa e Vittorio Togliatti, nipoti del Migliore, ed altri ancora molto ‘vicini’ al Pci) che si sono mossi collettivamente, ma ci sono anche sintomatiche individualità o compagni semi-organizzati, con contatti personali. L’editore milanese presta la sua pistola (una Colt Cobra) a Monika Ertl, nome di battaglia ‘Imilla’, quando il primo aprile 1971, ad Amburgo, uccide Roberto Quintanilla Pereira, rappresentante del governo boliviana in Germania e boia di Ernesto Che Guevara.11

Clementi e coautori ricordano il caso di Maria Elena Angeloni, la zia di Carlo Giuliani, dilaniata – insieme al militante cipriota Georgios Christou Tsdikouris – dall’auto bomba che stava indirizzando verso l’ambasciata statunitense di Atene (2 settembre 1970) ed iscritta alla sezione 25 Aprile del Pci milanese. “Ai funerali di Elena, a Milano, per la Resistenza greca c’è Melina Mercouri. Ci sono i compagni, gli amici, i militanti del Pci. A titolo individuale. Il Partito non c’è. Anche se ufficialmente sostiene la Resistenza. Il segretario della sezione 25 aprile viene costretto dalla Federazione a strappare la matrice della tessera di Elena”.12

Un altro esempio evidenziato in “Brigate Rosse. Dalle fabbriche alla ‘campagna di primavera’” è quello di Angelo Basone, operaio alle presse di Mirafiori, delegato sindacale e dirigente della sezione di fabbrica del Pci, mai espulso dal partito, inserito nella lista dei 61 operai da licenziare e militante noto e riconosciuto dell’organizzazione con la stella a cinque punte. Condannato per partecipazione a banda armata, prigioniero politico nelle carceri speciali.

Quelle sopra ricordate sono le biografie politiche di alcuni militanti comunisti (militanti del Pci) che hanno intrapreso la lotta armata. Militanti politici a tutto tondo, che partecipavano all’attività di sezione, contribuivano al dibattito durante le riunioni, intervenivano ai congressi di partito, organizzavano manifestazioni e comizi, redigevano e distribuivano volantini, diffondevano la stampa: il quotidiano ‘L’Unità’, i settimanali ‘Vie Nuove’ e ‘Noi Donne’. Non giocavano a fare i soldatini.

La più significativa, probabilmente, è la coerente traiettoria disegnata da Prospero Gallinari. Già militante, a Reggio Emilia, dell’ organizzazione giovanile del Pci, dal 1968 con doppia tessera, anche quella del Partito13 quando ne viene espulso (1969) per indisciplina, partecipa alle riunioni del ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’, detto ‘Gruppo dell’appartamento’ (poi CPM-Sinistra Proletaria di Re). Dopo un’infelice (così la definisce nella sua autobiografia) esperienza (1971-1972) nel Superclan di Corrado Simioni, aderisce ufficialmente alle Brigate Rosse, divenendone uno dei militanti più rappresentativi.

Mario Moretti, quando Gallinari muore, lo ricorda così: “Il nome di battaglia di Prospero era Giuseppe e non è certo per caso. Se l’era scelto con molta ironia ma per un vecchio comunista quel nome vuol dire qualcosa. Prospero è uno dei compagni di fiducia e di linea, è lui che guida la battaglia politica con Morucci nella colonna romana. Prospero è il marxismo-leninismo, tutto quel che ci succede, ascese e cadute, lui lo legge alla luce del rapporto tra partito e masse, avanguardia e masse. Pensa che è là che manchiamo. Viene dall’esperienza emiliana, per lui il partito è tutto, la coerenza politica è tutto, e ha un senso morale fortissimo. Ognuno vive la sconfitta in maniera diversa… per lui, se le cose tornano sui paradigmi marxisti-leninisti va bene, e di lì non si muove neanche se gli spari. Quando le Br si esauriscono, spera in una continuità in qualcosa che non siano le Br. Il che a mio parere non ha senso, e gliel’ho detto, pur con il grande rispetto che ho per lui. Prospero è uno di quelli con cui mi intendevo, è d’acciaio, proprio d’acciaio, è fatto così, è un vecchio contadino del Pci. Prospero è importantissimo. Ciao, Prospero”.14

Anche Andrea Colombo,15 in altra prospettiva ed ottica, gli rende gli onori della Politica: “Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice ‘col cuore grande’…Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo. Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. ‘Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata’ “.

La costituzione delle BR
Gli artefici di questo primo volume, a cui altri ne seguiranno, hanno ricostruito dettagliatamente come, e quando, si è costituita la prima, e più importante, organizzazione armata italiana del dopoguerra con un’ ampia ramificazione su quasi tutto il territorio nazionale. Quali sono stati gli organismi, collettivi e comitati politici che hanno contribuito alla sua fondazione. Più sopra abbiamo sottolineato come questo lavoro sia di aiuto e stimolo al recupero della memoria, anche per questo motivo lo consideriamo un testo utile e fondamentale.

Da Trento, un apporto sostanziale lo hanno fornito Margherita Cagol e Renato Curcio che, poi, con Mauro Rostagno (Movimento per una Università Negativa) sono ‘migrati’ a Verona, per poter aver un respiro politico maggiore, dove hanno collaborato con il ‘Centro d’informazione’ che pubblicava la rivista ‘Lavoro Politico’ diretta da Walter Peruzzi. Successivamente, quasi tutta la redazione aderì al Partito Comunista d’Italia, che poi si scisse in ‘linea nera’ e ‘linea rossa’.

Curcio e ‘Mara’ aderirono a quest’ultima, fino a quando, agosto 1969, ne vennero espulsi insieme a Peruzzi ed al ‘trentino’ Duccio Berio. Da Verona si trasferiscono a Milano, ed incontrarono i Compagni del Collettivo Politico Metropolitano (poi Sinistra Proletaria), i Compagni dei Cub Pirelli, Alfa, Sit-Siemens, Marelli, nonche i componenti dei Gruppi di Studio della Sit e della Ibm. Quest’ultimo, qualche anno dopo, realizza un importante lavoro di ricerca sulla multinazionale statunitenese: “IBM, capitale imperialistico e proletariato moderno”.16 Ma anche nei quartieri della cintura periferica ci sono realtà ‘autonome’ che iniziano una certa critica politica: comizi volanti, diffusione di materiale di propaganda e militare, prevalentemente incendio di automobili di capetti e fascisti.

Particolarmente radicato, nel quartiere Lorenteggio-Giambellino, il “Gruppo Proletario Luglio ’60” comunista autonomo. Animatori e aderenti a questo organismo sono tutti (un centinaio) ex militanti iscritti alla sezione Pci di quartiere, intitolata al partigiano ‘Giancarlo Battaglia’. Come partigiani sono il militante storico del rione: Gino Montemezzani, uno dei pochi maoisti ad avere incontrato personalmente Mao Tse Tung,17 e Giacomo ‘Lupo’ Cattaneo, successivamente combattente comunista nelle Brigate Rosse. Del comitato “Luglio ’60” fanno parte anche i nove fratelli Morlacchi,18 figli di una ‘famiglia comunista’. In sei saranno perseguitati per costituzione e partecipazione a banda armata: le BR. Pierino, oltre ad essere uno dei promotori dell’organizzazione è stato anche nel primo comitato esecutivo con Curcio, Cagol e Moretti.

A Reggio Emilia, la gran parte dei componenti il ‘Collettivo Politico Operai-Studenti’ provenivano dal Pci e dalla Fgci, ed insieme agli organismi sopra ricordati, oltre ad un gruppo di compagni di Borgomanero (No) e uno del comprensorio Lodi-Casalpusterlengo (allora provincia di Milano) si ritrovarono a dibattere e discutere, a fine dicembre 1969 presso la locanda ‘Stella Maris’ di Chiavari (Ge) e, poi, al ‘congresso di fondazione’ in quel seminario-convegno di tre giorni che si svolse presso la trattoria ‘Da Gianni’, frazione Costaferrata, zona appenninica della provincia reggiana nell’agosto 1970. Così, sostanzialmente, si costituirono le Brigate Rosse.

Memoria ed oblio
Spesso si ripete che la memoria è un ingranaggio collettivo. Ma è anche uno strumento ‘sovversivo’. I tre ricercatori, autori di questa complessa ricostruzione umana, storico e politica ci forniscono l’occasione per coniugare le due azioni. Gli episodi, all’interno di questo primo volume, sono numerosi, alcuni ci hanno colpito particolarmente. Ricordiamo quelli che ci sembra abbiamo una maggior valenza politica.

Quello di maggior spessore e ‘peso’, in tutti i sensi, è relativo al famigerato (vale la pena ribadirlo) scandalo Lockheed. Gli autori lo ricordano19 con precisione. “Lo scandalo Lockheed era nato dalle rivelazioni della Commissione d’inchiesta statunitense guidata dal senatore Frank Church, secondo le quali la compagnia Lockheed aveva pagato tangenti in molti paesi per vendere la produzione bellica agli eserciti nazionali. Per quanto riguardava l’Italia, si trattava di tangenti per l’acquisto di 14 aerei C-130 comprati dal governo italiano tra il 1972 e il 1974, di aerei F-104S e di carri armati Leopard. Accanto a Gui (Ministro degli Interni e moroteo, nda) fu coinvolto anche il ministro della Difesa Mario Tanassi mentre, sempre secondo le rivelazioni statunitensi, dietro alcuni nomi in codice (Antelope Cobbler e Pun) si nascondeva un ex presidente del consiglio…Il nome in codice ‘Antelope’, secondo le rivelazioni americane, indicava un presidente del Consiglio negli anni dal 1965 al 1970, coinvolgendo dunque, oltre a Moro (1963-1968), il governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone (giugno-novembre 1968) e quello di Mariano Rumor (dicembre 1968-luglio 1970). I tre smentirono ogni coinvolgimento e il 29 aprile l’ambasciatore statunitense notò che, nel farlo, avevano dato l’impressione di ritenersi colpevoli a vicenda”.

Repubblica Moro Dal momento che non condividiamo, né abbracciamo, nessun tipo di teoria complottista e dietrologica, specifichiamo subito che non attribuiamo a nessuno dei citati colpe precise, però ricordiamo…E ricordiamo che giovedì 16 marzo 1978, il giorno del rapimento Moro, sulla prima pagina del quotidiano “La Repubblica” c’era questo ‘box’: “Antelope Cobbler è Aldo Moro?” che rimandava ad un articolo interno: “Antelope Cobbler? Semplicissimo Aldo Moro, presidente della DC”.

Non ci dilunghiamo oltre perché non è necessario. Rileviamo che la notizia poteva essere approfondita, verificata, confermata, smentita. Come tutta la vicenda delle cosiddette ‘bare volanti’, così erano anche chiamati i Lockheed F-104, che si concluse con le condanne dei ‘soli’ Tanassi (Psdi), del suo segretario personale, dei rappresentanti italiani della Lockheed e dell’allora presidente di Finmeccanica (a partecipazione statale). Non sappiamo come finì la falsa (?) accusa del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari contro Moro.

Con la loro ricostruzione, Clementi, Persichetti, Santalena, ci aiutano a rideterminare i tempi e modi con cui sono state istituite le carceri speciali, la ‘settimana rossa’ dell’Asinara, le battaglie di Pianosa e Saluzzo, lo sciopero della fame di Nuoro, proprio per superare e smantellare le fortezze disumane: Kampi. La costruzione ed inaugurazione del primo super-carcere femminile: quello di Voghera e la manifestazione-con cariche bestiali e tante botte ai partecipanti-del luglio 1983, per la sua neutralizzazione. La ‘mano libera’ concessa a Carlo Alberto Dalla Chiesa e al suo nucleo speciale antiterrorismo. L’introduzione dell’uso sistematico della tortura contro gli arrestati per farli parlare.
Già dal 1975, con Alberto Buonoconto, poi Enrico Triaca, Cesare Di Lenardo, Paola Maturi, Sandro Padula, Emanuela Frascella, purtroppo tanti altri.

E proprio all’istituzionalizzazione di questa pratica crudele e ai molti casi riscontrati, gli autori di ‘Brigate Rosse’ dedicheranno approfondimenti ed adeguato spazio nei prossimi volumi. Senza tralasciare il sequestro D’Urso, Dozier e dei quattro rapimenti della ‘campagna di primavera’: Cirillo, Taliercio, Sandrucci e Peci. Non trascurando la nascita del Partito Guerriglia, del distacco della Walter Alasia, dell’annuncio della ritirata strategica e della fine di un’esperienza.
Così come il massacro di via Fracchia a Genova e l’esecuzione di Roberto Serafini e Walter Pezzoli a Milano.
“La storia continua”.20

N. B. Questo è il primo di tre contributi relativi a lotta armata, carcere, proletariato extra legale, realizzati prendendo spunto da altrettante recenti pubblicazioni. Oltre a questa di Clementi-Persichetti-Santalena, le prossime saranno l’autobiografia di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”, e “L’albero del peccato”, pubblicato, grazie a Giorgio Panizzari, aggiornato e notevolmente ampliato rispetto all’edizione del 1983, diffusa a firma ‘Collettivo prigionieri comunisti delle Brigate Rosse’. (F.A.)


  1. Marco Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek Edizioni, Roma, 2007  

  2. Marco Clementi, La ‘pazzia’ di Aldo Moro, Odradek Edizioni, Roma, 2001  

  3. Paolo Persichetti-Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni settanta ad oggi, Odradek Edizioni, Roma, 1999  

  4. Jacques M. Verges, Strategia del processo politico, Einaudi, Torino, 1969  

  5. Nel saggio di Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’ insurrezione partigiana. Agosto 1946, il leader degli insorti, ‘Armando’, “…insieme ad alcuni compagni, costituì, dopo la liberazione, un gruppo clandestino denominato ‘808’ in onore di un potente esplosivo e che, di fronte al progressivo atteggiamento di clemenza dei giudici nei confronti dei fascisti, decise di assumersi il compito di fare giustizia.”  

  6. Alice Diacono, L’insurrezione partigiana di Santa Libera (agosto 1946) e il difficile passaggio dal fascismo alla democrazia, anno accademico 2009-2010; Giovanni Rocca (Primo), Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Art pro Arte, Canelli (Cn), 1984; Laurana Lajolo, I ribelli di Santa Libera. Storia di un’insurrezione partigiana. Agosto 1946, Edizioni Gruppo Abele, Torino, marzo 1995; Giovanni Gerbi, I giorni di Santa Libera, otto puntate su “ L’eco del lunedì”, settimanale di Asti, ottobre-novembre 1995; Marco Rossi, Ribelli senza congedo. Rivolte partigiane dopo la Liberazione. 1945-1947, Edizioni Zero in condotta, Milano, 2009; Claudia Piermarini, I soldati del popolo. Arditi, partigiani e ribelli: dalle occupazioni del biennio 1919-20 alle gesta della Volante Rossa, storia eretica delle rivoluzioni mancate in Italia, Red Star Press, Roma, giugno 2013  

  7. Cesare Bermani, La Volante Rossa. Storia e mito di ‘un gruppo di bravi ragazzi’, Colibrì Edizioni, Milano, 2009; Carlo Guerriero-Fausto Rondelli, La Volante Rossa, Datanews, Roma, 1996; Massimo Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza. Storia di un combattente della Volante Rossa, DeriveApprodi, Roma, 2009; M. Recchioni, Il tenente Alvaro, la Volante Rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia, DeriveApprodi, Roma, 2011; Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014  

  8. Sante Notarnicola, L’evasione impossibile, Feltrinelli, 1972  

  9. Da una conversazione con Sante Notarnicola, 14 aprile 2017  

  10. Donatella Alfonso, Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita. La storia inedita della banda XXII Ottobre, Castelvecchi Rx, Roma, 2012  

  11. Jurgen Schreiber, La ragazza che vendicò Che Guevara. Storia di Monika Ertl, casa editrice Nutrimenti, Roma, 2011  

  12. Paola Staccioli, Sebben che siamo donne. Storie di rivoluzionarie, DeriveApprodi, Roma, 2015  

  13. Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse, Bompiani Overlook, Milano, 2006  

  14. Mario Moretti, Per Prospero, 14 gennaio 2013  

  15. Gli Altri online, 14 gennaio 2013  

  16. Sapere Edizioni, Milano, 1973  

  17. Gino Montemezzani, Come stai compagno Mao?, Edizioni LiberEtà, Roma, 2006  

  18. Manolo Morlacchi, La fuga in avanti. La rivoluzione è un fiore che non muore, Agenzia X, Milano, 2007  

  19. nn.14 e 15, pag. 149  

  20. P. Gallinari, Un contadino nella metropoli, cit.  

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Il Settantasette e poi… secondo Oreste Scalzone https://www.carmillaonline.com/2017/03/18/37085/ Fri, 17 Mar 2017 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37085 di Giovanni Iozzoli

scalzone-77-coverOreste Scalzone, Pino Casamassima, ’77, e poi…, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 336, € 20,00

’77, e poi… è uno dei libri di riflessione sul movimento del Settantasette che riscuoterà più attenzioni, anche in ragione della grana umana e politica dell’autore: a Oreste Scalzone non piace la memorialistica autocelebrativa e si porta dentro, a differenza di altri protagonisti di quell’epoca, un’inquietudine irrisolta che lo colloca fuori dalla schiera paludata dei “testimoni” o dei tromboni da commemorazione.

La scrittura di Scalzone non è sempre agevole: procede rapsodica, tra rimandi, domande, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

scalzone-77-coverOreste Scalzone, Pino Casamassima, ’77, e poi…, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 336, € 20,00

’77, e poi… è uno dei libri di riflessione sul movimento del Settantasette che riscuoterà più attenzioni, anche in ragione della grana umana e politica dell’autore: a Oreste Scalzone non piace la memorialistica autocelebrativa e si porta dentro, a differenza di altri protagonisti di quell’epoca, un’inquietudine irrisolta che lo colloca fuori dalla schiera paludata dei “testimoni” o dei tromboni da commemorazione.

La scrittura di Scalzone non è sempre agevole: procede rapsodica, tra rimandi, domande, parentesi che non si chiudono mai – come se l’autore cercasse continuamente di forzare il linguaggio editoriale tradizionale, troppo povero (rispetto alla ricchezza della narrazione orale) e inadeguato a raccontare quell’esplosione di vita e potenza che fu il ’77 italiano.

La biografia dell’autore è il filo d’Arianna che attraversa un’intera stagione della nostra storia. Scalzone compie giovanissimo il viaggio che fu di molti, dalla sinistra tradizionale verso nuovi sconosciuti approdi: dalla FGCI ternana a Valle Giulia lo spazio geografico è poco ma il salto è epocale e generazionale. Il suo imprinting “ortodosso” non lascia molto spazio alle suggestioni dell’epoca: poco Foucault, poco Lacan, poco Reich, molta attenzione alla scoperta del comunismo critico, del consiliarismo tedesco e olandese, di tutti i marxismi eretici, così minoritari nella togliattiana provincia italiana – fino all’incontro decisivo con lo straordinario laboratorio operaista, nel pieno del suo fulgore teorico.

Il racconto rimbalza da una tappa all’altra di quella lunga stagione che comincia nel ’68 e culmina nel sequestro Moro. In un processo di accumulo di conflittualità che dura quasi un decennio, il Movimento non è rappresentabile in termini di esplosione quanto di necessario epilogo. E del resto, da dove far iniziare (convenzionalmente) una cronaca del ’77?

Scalzone sceglie la straordinaria giornata romana del 12 marzo: centomila in piazza di cui – sottolinea l’autore due volte in poche pagine – almeno 5000 armati. Non è un dato statistico: serve a Scalzone per ribadire quanto fasulla sia la narrazione di un ’77 diviso tra “lottarmatisti” cattivi e “movimentisti” buoni; in larghi settori di movimento in quei giorni è aperta la tematica dell’iniziativa armata – ci si divide, caso mai, sulla sua centralità, sul carattere strategico della clandestinità militare, sul rischio che trascini il conflitto sociale sul terreno della militarizzazione, in opposizione a un processo di contropotere i cui tempi di maturazione sono dettati dai rapporti di forza tra le classi e la “critica delle armi” deve piegarsi al servizio di questi passaggi di massa.

E poi l’assassinio di Francesco Lorusso, uno dei tanti giovani che in quegli anni (Walter Rossi, Giorgiana Masi…) lasceranno sul selciato insanguinato la loro voglia di libertà. E il Convegno di Bologna sulla repressione: Scalzone è tra i promotori della decisione politica, di non trasformare quelle giornate in un assalto alla cittadella della socialdemocrazia – un ultimo tentativo di sottrarsi ai ghetti e alle trappole, di offrire un immagine del movimento non condannato all’automarginalità, una decisione politica lungimirante che “passa” trasversalmente (nonostante le profonde fratture interne fra le diverse componenti organizzate).

Il tema della violenza attraversa tutto il libro, come un’interrogazione implacabile e sempre aperta. Le riflessioni di Scalzone in materia sono di una franchezza estrema, niente a che vedere con il politicamente corretto di alcuni suoi pacificati coetanei:

liberazione, autonomizzazione e comunanza son tutte cose che implicano sovversione e, senza eccezione, gli eventi storici implicano che la guerra c’è, latente, occulta, ed essa è a senso unico, guerra dall’alto verso il basso, se a un certo momento una guerra sociale di liberazione non incarna la forma necessaria del movimento. (p. 49)

La “violenza”- come sempre nella storia – è solo il prodotto della discesa in campo di larghe masse, nel tempo accelerato del ciclo di modernizzazione/crisi di questo paese, che si consuma nel breve volgere di un quarto di secolo.

Il ’77 a molti fa ancora paura e contro di esso viene cinicamente “giocato” anche il ’68 in una stucchevole opposizione tra festa creativa e violenza cieca. Infatti, secondo l’autore, è proprio il carattere selvaggio del movimento, non riconducibile agli schemi tradizionali, espressione della potenza di un corpo sociale e di un’intelligenza collettiva che cercano di liberarsi in modo caotico dai ceppi della valorizzazione capitalistica, a renderlo ancora oggi indigeribile a molti.

Non è la “quantità” di violenza in discussione: ma il fatto che essa non sia programmata e gestita da alcun centro di “nuovo potere”, da nessuna prospettiva di nuova statualità (ci proveranno le Br, con esiti infausti). Potenza produttiva, potenza creativa e potenza antagonista si inseguono caoticamente dentro la prima grande crisi del capitalismo (ormai maturo) italiano.

il Settantasette è la prima grande sollevazione sociale interna alla società del capitale mondiale integrato, alla società post-fordista globale e, se si vuole, al dominio reale del capitale. Il Settantasette è il primo movimento di contestazione che ci sia contemporaneo (p. 145)

È quindi questa l’anomalia selvaggia del ’77: il primo movimento rivoluzionario occidentale, in una società capitalistica a democrazia politica, nell’epoca della fine della centralità del lavoro: e quindi il primo movimento contro il lavoro (con tutti i drammatici fraintendimenti che questa posizione reca con sé).

Le vicende quotidiane – la militanza, il ritmo crescente degli eventi, i drammi dei morti e delle carceri speciali – scorrono come una cronaca in diretta. E in controluce i nodi irrisolti delle grandi questioni teoriche che quegli eventi sollevavano: non si riuscì, allora, ad evitare lo schiacciamento tra le posizioni di idolatria militarista e una pratica di massa costretta a radicalizzare sempre di più le sue forme per “reggere il gioco” e non ritrovarsi marginale.

Lavoro clandestino o iniziativa sociale, fucile o megafono, agire di partito o dimensione orizzontale: in particolare nelle organizzazioni dell’autonomia operaia, questi livelli si inseguono e si ingarbugliano, fino all’implosione – in un tentativo generoso di tenere insieme le “antiche” suggestioni insurrezionali (le memorie bolsceviche e fochiste sono ancora egemoni, nel ’77) con nuove pratiche di massa all’altezza di una mutata composizione di classe. Un equilibrismo quotidiano tutto da inventare – «tra il sublime e il demenziale» – che non poteva reggere a lungo, nella specifica condizione italiana di fine decennio.

Ma non è solo questione di prassi. Tutto il patrimonio teorico del comunismo ortodosso inizia a barcollare, centinaia di migliaia di giovani cominciano a sentirsi non “traditi” ma estranei al Movimento Operaio ufficiale: la cacciata di Lama non è un oltraggio al Padre, ma il respingimento dell’invasione di un esercito nemico. Secondo Scalzone è in questa stagione (ben prima dell’89) che tutto il maestoso monumento del marxismo “statualizzatosi” – da Lassalle a Breznev – comincia a mostrare le sue crepe. Il nuovo movimento “antioperaio” (Dio ci salvi dai fraintendimenti lessicali…) comincia a porre sul tappeto la questione della negazione di sé come proletariato, non della sua emancipazione. Un passaggio teorico e pratico mostruosamente complesso, eppure agito con semplicità, ai livelli di massa della nuova composizione sociale, scolarizzata, colta, velleitaria e piena di diffidenza circa i paradisi socialisti del futuro.

Evocare il rifiuto del lavoro nei giorni attuali (in cui un posto di lavoro sembra diventato l’obiettivo più agognato della vita ) può apparire lunarmente incomprensibile per un giovane proletario di oggi che più che altro si sente “rifiutato” dal lavoro, percependosi come eccedenza senza valore. In questo, il sistema ha dimostrato una demoniaca capacità di assumere le parole d’ordine del movimento – pensiamo anche alla parità di genere, alla questione dei diritti individuali, all’evocazione di una “giustizia più giusta” – per cavalcare un drammatico rovesciamento di senso e di segno, di quelle allusioni. Volete la liberazione dal lavoro? Vi daremo la precarietà di massa e la vostra stessa vita diventerà un continuum di tristissimo e inafferrabile lavorio produttivo.

In ogni argomentazione affrontata, aleggia l’interrogativo: siamo sideralmente lontani o piuttosto insospettabilmente vicini a quel mondo, a quella stagione e a quelle tematiche? Entrambe le cose. Scalzone non crede e non auspica la riproducibilità delle forme di quel moto, ma legge in esso tutti i semi che risultano adesso pienamente maturi, dentro la nostra modernità: il ’77 come esplosione, precoce e anticipatrice, di ciò che oggi, come condizione sociale, si mostra già pienamente dispiegato. E che compone un quadro di crisi antropologica, globale, dell’umano – oltre che del sistema capitalistico.

Tra i documenti in appendice, un livido editoriale di Rossana Rossanda che invita a «difendersi dall’infezione» dell’Autonomia Operaia, frammenti d’assemblee d’antan, un profetico appello promosso da Scalzone per il “diritto d’interferenza” da parte del movimento nella trattativa Stato-Br, per sottrarre Moro (e le stesse Br) a un esito drammatico e prevedibile che avrebbe mutato irreversibilmente i destini di tutti.

Il volume, primo di una trilogia, è curato dal gionalista e saggista Pino Casamassima e si apre con una prefazione di Erri De Luca. Un libro da leggere, senza dubbio. Che anzi andrebbe letto insieme ad un altro importante testo scritto da Carlo Formenti – La variante populitsta (Derive Approdi, 2016) – a suggerire quasi un controcanto disincantato contro ogni tentazione “romantica” e “mitopoietica” su quella stagione, sulla sua ricchezza, ma anche sui suoi sbracamenti teorici che proseguiranno fino ai giorni d’oggi.

Oreste Scalzone non è mai stato reticente sulla sua vita e la sua storia. Ha provato a scrivere un libro non per addetti ai lavori: dietro quelle infinite parentesi aperte sulla memoria, brucia la curiosità intellettuale di un giovanissimo settantenne, dallo sguardo mai pacificato. I rivoluzionari non vanno in pensione, si diceva una volta: è per quello che la loro scrittura, a volte, lascia sulla carta parole di verità.

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