ordine pubblico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Storia dei gas lacrimogeni e delle repressioni delle lotte nel mondo https://www.carmillaonline.com/2022/03/10/storia-dei-gas-lacrimogeni-e-delle-repressioni-delle-lotte-nel-mondo/ Thu, 10 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70735 di Salvatore Palidda

Anna Feigenbaum, Breve storia dei gas lacrimogeni, Edizioni Malamente, Urbino, 2022, pp. 252, € 14,00.

Generazioni e generazioni di manifestanti e militanti hanno visto e inalato i gas lacrimogeni, e spray al peperoncino. Eppure, quasi nessuno conosce non solo la storia terribile di quest’arma ma i suoi effetti a breve e anche a lunga distanza. Io stesso che per circa 60 anni ho partecipato a tantissime manifestazioni in Italia e in Francia e ho visto centinaia di documentari su cariche delle polizie, non sapevo nulla della storia scioccante dei lacrimogeni [...]]]> di Salvatore Palidda

Anna Feigenbaum, Breve storia dei gas lacrimogeni, Edizioni Malamente, Urbino, 2022, pp. 252, € 14,00.

Generazioni e generazioni di manifestanti e militanti hanno visto e inalato i gas lacrimogeni, e spray al peperoncino. Eppure, quasi nessuno conosce non solo la storia terribile di quest’arma ma i suoi effetti a breve e anche a lunga distanza. Io stesso che per circa 60 anni ho partecipato a tantissime manifestazioni in Italia e in Francia e ho visto centinaia di documentari su cariche delle polizie, non sapevo nulla della storia scioccante dei lacrimogeni e dello spray al peperoncino sugli effetti che provocano. Mi pare quindi più che doveroso ringraziare le edizioni Malamente di aver tradotto e pubblicato in italiano questo importantissimo libro perché, non solo fa conoscere la storia e gli effetti di queste maledette armi, ma è anche uno strumento prezioso per la storia delle pratiche repressive delle polizie. La diacronia che illustra l’autrice, docente di Digital Storytelling presso il Department of Communication and Journalism della Bournemouth University (UK) è infatti un eccellente excursus che parte dalla prima creazione del gas lacrimogeno (alla fine del XIX) per mostrare poi come diventa di fatto sino a oggi l’arma da guerra prediletta per colpire i manifestanti. Ma questo libro è anche la storia dei molteplici movimenti che dalla fine del XIX sino a oggi si sono confrontati con le brutalità poliziesche e militari sin dalle resistenze alla colonizzazione nei diversi paesi del mondo.

 

Ecco un sommario excursus del libro

I gas lacrimogeni trovano subito largo e diffuso impiego sia nei confronti delle popolazioni colonizzate in Asia, in Africa e in America Latina, sia nei confronti dei lavoratori e della popolazione quando protestano contro super sfruttamento, ingiustizie e soprusi: è l’“uso in tempo di pace delle tecnologie di guerra”. La militarizzazione delle polizie così come la pratica poliziesca delle forze militari sono sempre state operanti e sono diventati ancora più importanti.

Lo sviluppo industriale e in particolare quello della chimica fece diventare la ricerca e la produzione degli armamenti un settore particolarmente lucrativo. Da allora intere schiere di ricercatori, imprenditori, gruppi finanziari e banche, commercianti, personaggi tuttofare, spie, politicanti e giornalisti embedded si sono impegnati strenuamente per il successo di questo settore e in particolare dei gas lacrimogeni.

I primi sforzi per vietare l’uso di armi chimiche in guerra furono portati sul tavolo alle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907” (p. 35).

Fedele allo stile americano, il generale Amos Fries fu perfino più brusco: “Perché gli Stati Uniti o qualsiasi altro paese altamente civilizzato dovrebbero rinunciare alla guerra chimica? Dire che il suo uso contro i selvaggi non sarebbe una tecnica di combattimento giusta perché i selvaggi non ne sono dotati è un’assurdità (p. 41).
“I lacrimogeni possono essere sparati senza remore nel momento stesso in cui la folla appare e comincia a formarsi” (p. 43).

Da notare che in questa ricostruzione storica che propone l’autrice si constata appunto come la “teoria dei gas lacrimogeni” diventa valida dall’inizio del XX° secolo sino ai nostri giorni! Infatti sin da allora si afferma che “le armi chimiche sono il segno di una società civilizzata”. Per il generale Fries i gas bellici erano il definitivo ritrovato tecnologico americano; rappresentando il collegamento tra scienza e guerra, erano l’emblema della modernità industriale” (p. 49).

[Fries] studia con attenzione le questioni riguardanti l’uso di gas e fumi nel trattare tanto le folle interne quanto i selvaggi, … “non appena le forze dell’ordine e gli amministratori coloniali avranno familiarizzato con i gas come un mezzo per mantenere ordine e potere, ci sarà una tale diminuzione di disordini sociali e sollevazioni di selvaggi da equivalere alla loro scomparsa” (p. 51).

C’è qui lo stesso paradigma che induceva i discepoli di Lombroso a suggerire che gli scioperanti rivoltosi (diventati classi pericolose), così come i meridionali, i sardi e i siciliani (perché refrattari alla “civilizzazione” piemontese dello stato unitario) dovevano essere “trattati col ferro e col fuoco al pari dei rivoltosi della Numibia” che osavano ribellarsi contro la colonizzazione italiana1.

Il veterano dell’esercito statunitense A. Reid Moir sosteneva che i gas non solo erano disumani, ma addirittura «infernali»: «è forse umano giacere a terra colto da dolori strazianti, con lo stomaco gonfiato dai gas in espansione e i polmoni divorati da vapori mortali, mentre si tossisce la propria vita tra agonizzanti convulsioni?». La risposta dei militari a simili obiezioni sostiene falsamente che avrebbero causato solo un dodicesimo delle morti rispetto ai proiettili (p. 52). E il generale Fries respinse le testimonianze dei veterani denigrandoli come: «simulatori che affermano di essere stati gasati solo per richiedere al governo i sussidi per invalidità di guerra» (come si diceva che i feriti al fronte si fossero auto-mutilati per farsi mandare a casa). Fries è palesemente un estremista militare, razzista e anticomunista che nel secondo dopoguerra troverà una sorta di suo omologo in MacCarty e le sue persecuzioni2. Ma la vittoria di Fies e dei suoi successori fu indiscutibile: “il gas lacrimogeno si andò fissando nella retorica dell’immaginario pubblico come alternativa umanitaria all’uso delle armi da fuoco” (p. 53).

“Lo slogan della Lake Erie – «Un uomo solo armato di gas bellici può metterne in fuga mille» – si trovava in calce a ogni suo materiale pubblicitario (degli armamenti e lacrimogeni) e prometteva «una irresistibile esplosione di soffocante dolore» che non avrebbe lasciato lesioni permanenti” (p.62). Negli Stati Uniti l’uso massiccio di lacrimogeni divenne frequente sin dall’inizio del XX° secolo e poi soprattutto durante la terribile crisi economica del 1929 e negli anni successivi.

Ricordiamo che ci sono territori che da un secolo sono gasati: “Ulteriori appoggi all’adozione dei lacrimogeni vennero dalla situazione politica in Palestina dopo le rivolte del 1929 (p. 84; allora colonia del Regno Unito … oggi peggio visto che ai lacrimogeni si affianca ogni sorta di dispositivo e armamento feroce per massacrare). La decisione di gasare i palestinesi presto si diffuse in tutto l’impero britannico (p. 87).

Nel frattempo gli impieghi di successo includevano la Germania (usato contro gli operai di Amburgo in sciopero nel 1933), l’Austria (per disperdere rivoltosi comunisti nel 1929), l’Italia (la polizia fascista aveva come equipaggiamento standard granate di gas lacrimogeno) e la Francia (dove il suo uso era già stato consentito) (p. 88).

“La testarda cecità di fronte ai danni che causavano i lacrimogeni venne a galla a metà degli anni Quaranta. In India la polizia usava granate di produzione statunitense; furono immagazzinate nella prigione centrale di Peshawar, nell’attuale Pakistan. Nel maggio del 1947, in una giornata afosa e senza vento, furono sparate nell’affollato cortile della prigione. Il 20 maggio del 1947, 1.100 detenuti stavano nel cortile della prigione. Il primo lancio riempì di gas lo spazio angusto. Seguirono altre granate, che spinsero i prigionieri a fuggire verso le loro celle. Furono lanciate altre trentotto granate. Senza vento e in spazi ristretti, i fumi tossici ristagnarono dalle quattro alle cinque ore, con effetti persistenti per oltre sedici ore dopo gli attacchi (p. 92). I detenuti furono vittime di vapori tossici (lacrimazione, congiuntivite, tosse, vertigini, nausea, vomito e stati di incoscienza). Ci furono poi ventotto casi di «piccole ferite multiple o incisioni nette e poco profonde, causate da schegge, frammenti metallici infilati nella carne, ferite di lesioni cutanee con ustioni di primo e secondo grado. Il resoconto riportava poi solo la morte di un uomo con vomito di sangue (ematemesi) e feci nere e catramose (melena).

Durante le diverse guerre di colonizzazione dei vari paesi dominanti i gas -fra cui la famigerata iprite- furono usati abbondantemente; fra queste guerre l’Italia fascista si distinse per la sua ferocia (si veda il documentario Fascist legacy3.

Nei primi anni Cinquanta nasce il moderno gas CS. Sebbene la vendita e produzione britannica di gas lacrimogeni non superasse quella statunitense, il Regno Unito finì per imporsi come luogo di ricerca e sviluppo per le tecnologie anti-sommossa. Il gas CS, perfezionato dai britannici, resta ancora oggi il composto di gas lacrimogeno più diffuso al mondo (p. 95).

«Il CS produce effetti immediati anche a basse concentrazioni. Gli effetti irritanti durano anche da cinque a dieci minuti quanto basta per permettere alla polizia la dispersione di un raduno e distruggere lo spirito collettivo di una dimostrazione: «durante questo lasso di tempo le persone sono incapaci di un’azione concertata». C’è infatti anche disorientamento e incapacitazione persino totale. Con la sua capacitaà di disorientare, debilitare e causare panico, il gas lacrimogeno indebolisce: ciò fa crescere o moltiplica l’efficacia delle altre pratiche repressive, come il pestaggio con i manganelli, i colpi a pallini e le cariche della polizia e oggi anche i flashball tanto usati dalla polizia francese contro i gilets gialli (p. 101).

Durante le lotte degli anni ’60 per i diritti civili negli Stati Uniti i neri erano aggrediti anche da segregazionisti bianchi. “I gas accompagnavano pestaggi e sberleffi che subivano nella loro sfida alla imperante segregazione razziale. Il gas lacrimogeno veniva lanciato nei loro bus e penetrava nei loro luoghi di riunione e persino nelle abitazioni dove cerano bambini.

L’utilizzo dei lacrimogeni in spazi ristretti è estremamente pericoloso: aumenta il livello di panico e intensifica la tossicità̀, che può̀ portare a seri danni ai polmoni e anche alla morte per soffocamento (p. 109).

Nell’agosto del 1968 a Chicago la “settimana di disobbedienza civile” diventò lo storico caso di brutalità poliziesche con un impiego gigantesco di lacrimogeni. “Le granate di gas lacrimogeno cascavano ovunque, dietro la barricata e attraverso gli alberi. Si sparse una enorme nube di gas e i poliziotti con le maschere antigas a ondate, usarono i fucili d’assalto come mazze e colpendo con il calcio del fucile chiunque fosse a tiro, anche i residenti non manifestanti (p.112). “Il gas si infiltrò nelle case, nelle automobili, nei ristoranti e coprì interi condomiìni”. “I lacrimogeni venivano spruzzati direttamente in faccia alla gente, schiacciata contro il muro dalla polizia”.

Mesi dopo, “l’immagine più rappresentativa di un uso di massa dei lacrimogeni negli anni Sessanta resta quella dell’elicottero che sparge gas sulla folla disarmata mentre sorvola Sproul Plaza, al centro dell’Università di Berkley. La polizia irrorava di gas CS gli studenti alla stessa maniera in cui l’esercito spargeva napalm sulla popolazione vietnamita” (p. 116). Nel 1969 sempre a Berkley, la Berkley Daily Gazette descrisse gli incroci come «camere a gas a cielo aperto». Anche elicotteri militari sparavano lacrimogeni. A volte il gas fu diffuso persino da camion cisterne che lo contenevano.

Dal 1971 si sviluppò negli Stati Uniti ancora di più l’interazione fra militari e polizie: la strategia del Pentagono, col nome Garden Plot, stabiliva le relazioni fra esercito, Guardia nazionale e polizia cittadina per contrastare il dissenso in oltre centoventi città (p. 125). In questo periodo di modernizzazione del controllo antisommossa ci furono esperti dell’esercito che divennero celebrità nel settore dell’ordine pubblico. Il libro, Riot Control, scritto da un veterano militare accusa “marxisti ed estrema sinistra di mirare a prendere il potere e a destabilizzare la società”. Quest’autore diventa uno degli «architetti dei moderni SAS» (forze speciali dell’esercito britannico); il libro gli fu commissionato dalla Schermuly Ltd, l’azienda fornitrice di attrezzature antisommossa, fra cui gas CS, manganelli e pallottole di gomma (p. 128).

Oltre al Mace, il Pepper Fog, spray al peperoncino della GOEC con marchio registrato nel 1968, prometteva di «isolare o liberare strade, piazze, edifici o panchine in pochi attimi, senza contaminazione!». Applegate esaltava le capacità di questo spray per «far sgomberare in sicurezza e senza violenza» raduni pacifici (p.132).

Contro l’evidenza che i gas e anche lo spray al peperoncino sono dannosi e in certi casi letali, la “scienza” (embedded) ha sempre preteso affermare che i gas sono “sicuri”.

Dopo decenni di prove sui danni provocati dai gas è stata sempre confermata la scelta di mantenere l’ordine pubblico con l’uso del veleno contro manifestanti e popolazione (p. 170).

Il dottor Steve Wright, esperto di storia dell’ordine pubblico e della sicurezza, scrisse che i cambiamenti in questo campo si connettono alla crescente impostazione neoliberale del governo di Margaret Thatcher: “Un assunto fondamentale per motivare l’uso di tecniche avanzate di controllo delle masse è che aumentano la potenza dello Stato e le sue capacità repressive, secondo un criterio di convenienza economica. L’idea è che maggiore è l’uso della forza concesso all’agente di polizia, maggiore sarà la sua produttività repressiva di fronte a una folla”. Dagli anni ’70, il dominio capitalista-liberista fa spesso ricorso alla gestione brutale dei presunti “disordini” come modalità di supporto al supersfruttamento e al massacro delle possibilità e capacità di agire sociale e politico dei dominati (da i casi più noti di Seattle e Genova 2001 sino alle cariche dei picchetti nel 2021 e a quelle degli studenti nel 2022).

Nel 1996 “gli anatomopatologi della polizia affermano che “il CS non ha causato seri danni a coloro che ne sono stati irrorati o indirettamente esposti” (p.174).

Un “banale” fatto recentissimo che mostra l’effetto dello spray peperoncino: A Verona sedici studentesse sono rimaste intossicate dopo che una 14enne ha spruzzato in classe spray al peperoncino – tre sono state portate in ospedale in codice giallo, le altre in codice verde4. Da notare che anche in Italia il commercio dello spray al peperoncino è ormai del tutto libero e il pericolo del suo uso e abuso è diventato sempre più pericoloso.

 

Il business della repressione

Intanto, non mancano i “giri di denaro attorno allo spray al peperoncino. Nel 1996 fu rivelato che alcuni importanti studi a supporto della sicurezza dello spray al peperoncino erano sostenuti da un agente dell’FBI pagato dai principali produttori di questi spray” (p. 184).

E si arriva così ai lacrimogeni contro il movimento “no-global” a cominciare dal gigantesco uso di gas da parte della polizia canadese. E al G8 di Genova 2001, la polizia non risparmiò i gas: “Poliziotti ovunque, armi ovunque, carri armati! L’intera città era piena di gas lacrimogeno. Veniva lanciato dagli elicotteri e dagli appartamenti dei piani alti. Solo la fortuna ti poteva salvare da pestaggi violenti e cariche. Nemmeno i pacifisti e le persone dall’aspetto tranquillo, tipo gli avvocati, erano al sicuro” (p. 188). Si veda il dossier citato in nota5.

La perpetua pratica delle brutalità e in particolare dell’uso dei gas (CS e peperoncino) da parte delle polizie del mondo intero è ovviamente la scelta che i dominanti ritengono assolutamente indispensabile per massacrare i dominati che osano ribellarsi. Non va però dimenticato che tale scelta è supportata anche dalla “rendibilità” economica che è insita nell’impiego della forza poliziesca e quindi dei dispositivi, armamenti, gadget e strumenti di ogni sorta fra i quali granate lacrimogene per la dispersione della folla, flashball, droni e videosorveglianza a tappeto -sebbene palesemente inutile (p. 200).

Dal 1984 ogni anno si tiene a Parigi Milipol, la più grande esposizione europea sulla sicurezza interna (ne abbiamo raccontato l’edizione del 2019 e quella del 2021 negli articoli indicati in nota6.

L’odierno complesso industriale internazionale degli equipaggiamenti antisommossa è capeggiato da una manciata di pezzi grossi: l’Ispra israeliano (Israel Product Research Co.), la Rheinmetall Denel Munitions tedesco-sudafricana, Condor Non-Lethal Technologies in Brasile, le francesi Sae Alsetex, Verney- Carron e Nobel Sport, oltre alla triade statunitense di produttori di lacrimogeni: Combined Systems Inc., Non-Lethal Technologies e Safariland, a cui si deve aggiungere anche il produttore di spray al peperoncino Sabre. I lacrimogeni sono prodotti anche in molti paesi europei, in Canada, Turchia, India, Pakistan e, in via crescente, nel sudest asiatico, dove Cina e Corea del Sud rivendicano pacchetti azionari nel mercato. Il tasso di crescita annuale è stato del 5,4% tra il 2016 ed il 2021. In Italia è la Simad spa, la fabbrica di Carsoli7 che produce i gas lacrimogeni al CS e al CN che furono usati al G8 di Genova (vedi nota 5 interrogazione sen. Martone).

Il libro si conclude con il capitolo intitolato “Dalla resilienza alla resistenza” (p. 228). In tutti i paesi si è sviluppata una certa solidarietà transnazionale in materia di resilienza ai gas lacrimogeni, agevolata dai social media e dalle tecnologie mobili che consentono ai dimostranti di far circolare consigli sulle prime cure, modelli di maschere antigas e tecniche per rilanciare indietro le granate (evitando di ferirsi). Non mancano i tentativi legali per contrastare l’uso dei gas e il suo aumento auspicando di far riconoscere che “il gas lacrimogeno opera in una forma di «controllo atmosferico»; avvelenando l’aria, rende infatti impossibile l’espressione delle proprie idee in pubblico, quindi il diritto a manifestare.

L’autrice illustra infine il progetto #RiotID a cui partecipa e la guida tascabile per documentare e identificare le armi che si pretendono “non letali”, tradotta in otto lingue8.

Questo libro è frutto di oltre cinque anni di ricerca rigorosa sulla storia dei movimenti e sulla loro repressione in tantissimi paesi del mondo; è di grande ricchezza e utilità non solo per i militanti, ma per avvocati, magistrati, operatori sociali, giornalisti, storici e ricercatori sui movimenti.

Aggiungiamo che appare più che mai essenziale la necessità indicata dal movimento Black Live Matter di lottare per l’abolizione delle polizie perché -come le carceri- sono istituzioni forgiate per la repressione di ogni istanza anche solo pacifica rispetto ai dominanti. L’attuale eterogenesi delle pseudo-democrazie mostra che è una pia illusione credere in una possibile democratizzazione delle polizie e delle carceri.


  1. Vedi Vito Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 2011. 

  2. Vedi qua; si veda anche il film J. Edgar di Clint Eastwood; J. Edgar Hoover, fu ininterrottamente capo del Federal Bureau of Investigations (FBI) per circa mezzo secolo, dal 1923; vedi qua

  3. Vedi qua 

  4. Vedi qua

  5. Come dice l’avvocato Nicola Canestrini, Genova Legal Forum, “la legge del 18 aprile 1975, numero110 per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, permette di dire che i candelotti al CS vanno classificati come armi da guerra”. Il CS rientra appunto tra gli “aggressivi chimici” inclusi nell’elenco. “Lo ha confermato la Cassazione”, aggiunge Canestrini, “con una sentenza del 1982”, prima che il CS fosse dato agli agenti. Il CS è entrato nella dotazione delle forze dell’ordine italiane nel 1991, con il Decreto del presidente della Repubblica n.359. Dopo l’Italia ha ratificato nel 1995 la Chemical Weapons Convention, l’ultimo trattato internazionale sulla messa al bando delle armi chimiche, entrato in vigore nel 1997 (vedi qua e anche Martone qua). Nella sentenza della Cassazione penale Sez. 6 Num. 30140 Anno 2021 (qua) la bomboletta spray è considerata arma comune da sparo, ponendo l’accento sia sulla natura del gas in essa contenuto, qualificato come un “aggressivo chimico”, per le sue potenzialità nocive. La Corte (Sez. 2, n. 946 del 09/07/1981, dep. 1982, Boscarolo, Rv. 151891) ha anche considerato quali armi da guerra i candelotti lacrimogeni poiché compresi tra gli “aggressivi chimici”. Tuttavia questa stessa sentenza ricorda: “L’impiego del gas CS è, inoltre, consentito alle sole forze di polizia (si veda, al riguardo, l’articolo 12, comma 2, del d.P.R. 5 ottobre 1991, n. 359, che, con riferimento agli artifici sfollagente per lancio, sia a mano che con idoneo dispositivo o con arma lunga, precisa che «entrambi sono costituiti da un involucro contenente una miscela di CS o agenti similari, ad effetto neutralizzante reversibile»). In realtà questa sentenza si rivela contraddittoria e sempre riverente rispetto ai poteri conferiti alle polizie. Di fatto le autorità italiane non hanno mai accettato una valutazione scientifica indipendente della dannosità dei CS e CN. 

  6. Vedi qui per il 2019 e qui per l’edizione 2021. 

  7. Vedi qua 

  8. Vedi qua 

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Querela continua https://www.carmillaonline.com/2020/06/05/querela-continua/ Fri, 05 Jun 2020 18:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60627 di Casa del Popolo Spartaco

[Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato della Casa del Popolo Spartaco di Correggio (Re), centro di iniziativa popolare assai attivo sul territorio e protagonista, nei mesi scorsi, della grande campagna di solidarietà verso la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici Italpizza di Modena. Proprio a seguito di tale impegno, l’azienda modenese, ricchissimo player del settore prodotti da forno surgelati, ha deciso di querelare Casa Spartaco. Ai compagni e alle compagne di Correggio va la nostra incondizionata solidarietà, rafforzata dal fatto che anche un nostro redattore è stato querelato da Italpizza. Nell’auspicio che le forze di movimento e [...]]]> di Casa del Popolo Spartaco

[Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato della Casa del Popolo Spartaco di Correggio (Re), centro di iniziativa popolare assai attivo sul territorio e protagonista, nei mesi scorsi, della grande campagna di solidarietà verso la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici Italpizza di Modena. Proprio a seguito di tale impegno, l’azienda modenese, ricchissimo player del settore prodotti da forno surgelati, ha deciso di querelare Casa Spartaco. Ai compagni e alle compagne di Correggio va la nostra incondizionata solidarietà, rafforzata dal fatto che anche un nostro redattore è stato querelato da Italpizza. Nell’auspicio che le forze di movimento e della società civile impediscano il silenziamento delle voci critiche attraverso la forza dell’intimidazione economica.]

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Ad un anno dalla partecipazione come Casa del Popolo Spartaco, insieme con altre realtà, associazioni, partiti e sindacati, alla campagna di “consumo consapevole” in solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori di Italpizza, ci è stata recapitata una querela per diffamazione aggravata, per un video da noi girato che documentava un volantinaggio davanti ad un supermercato.
In un clima che vede trattare i sacrosanti diritti delle lavoratrici e dei lavoratori come questione di ordine pubblico (in questo caso tra l’altro si sta chiedendo l’applicazione del contratto collettivo e delle norme previste) e sono continue le intimidazioni e i ricatti per chi denuncia lo sfruttamento in un’azienda da tempo militarizzata, noi rivendichiamo la nostra azione politica collettiva, in un paese che dovrebbe avere ancora la libertà di dissenso e di espressione.
Continueremo a sostenere chi lotta per la propria dignità e i propri diritti, che sono quelli di tutta la classe lavoratrice.

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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico https://www.carmillaonline.com/2016/07/22/31544/ Fri, 22 Jul 2016 21:30:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31544 di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come [...]]]> di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.

Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).

Nel Primo capitolo il writing contemporaneo viene collocato all’interno di una lunga tradizione di scrittura ed arte murale. Se la prima è un tipo di espressione che risale ad antiche culture, come quella egizia, le forme di rappresentazione parietale si trovano già nel Paleolitico superiore. Gli autori non intendono proporre improbabili paragoni tra le pitture rupestri preistoriche e le forme contemporanee, ma sottolineare come il gesto di quei lontani antenati costituisca una sorta di universale antropologico. Nelle decorazioni rupestri, in un ambiente collettivo, viene rappresentato il mondo nei suoi aspetti considerati significativi; attraverso quelle pratiche il mondo viene dunque condiviso. Da quando, attorno al XV secolo, l’arte inizia ad essere intesa come espressione individuale, si è via via persa l’idea «dell’attività artistica come opera collettiva, nel doppio senso di qualcosa creato in comune e rivolto a un uso collettivo» (p. 47). Secondo Dal Lago e Giordano, al di là di improbabili altri paragoni, come detto, il writing contemporaneo ha in comune con il graffito rupestre l’idea di dar vita ad una forma di comunicazione pubblica.

Il saggio si sofferma anche sul muralismo messicano che, riprendendo la tradizione figurativa preispanica, palesa forti intenti pedagogici. Tale movimento presenta diverse contraddizioni a proposito del rapporto arte/potere, tanto che dal ruolo sovversivo rivestito nella prima fase della rivoluzione, passa ben presto ad avere un mero ruolo celebrativo una volta che le istituzioni rivoluzionarie si sono stabilizzate. Gli autori mettono in luce come l’ambiguità dei muralisti messicani derivi anche dall’adesione ad un’ideologia progressiva positivistica e questo è proprio uno dei motivi per cui tali artisti esercitano una certa attrazione anche nel capitalismo statunitense. A tal proposito gli autori ricordano come lo stesso Diego Rivera, nel 1931, venga chiamato dall’industriale Ford per illustrare il Detroit Insitute of Art con l’opera Detroit Industry or the Man and the Machine. «L’ambiguità si rivela nella celebrazione del matrimonio tra uomini e macchine proprio nel momento in cui la società americana era attraversata da aspri conflitti tra operai e industriali (si dice che tra i lavoratori che protestavano ci fossero anche i malpagati assistenti di Rivera)» (p. 53).

DECORO URBANO

DECORO URBANO

Nel volume viene ricordato anche come agli albori della pubblicità di massa, le scritte tracciate con la vernice sui muri vengano preferite ai manifesti cartacei, tanto che su diversi edifici statunitensi ed europei risultano ancora visibili le tracce sbiadite di vecchi messaggi commerciali. Ancora oggi nell’Africa, soprattutto sub-shariana, le pubblicità sono spesso dipinte direttamente sulle pareti. Alle pitture murali ha fatto ricorso anche il regime fascista al fine di riportarvi i motti mussoliniani o l’effige stessa del dittatore. Dunque, fino ad epoca recente, “scrivere sui muri” è stato un sistema di comunicazione diffuso e legittimo. In Occidente, le cose sembrano cambiare negli Stati Uniti dei primi anni Settanta, quando nei ghetti arfoamericani e latinos i graffiti murali iniziano ad essere utilizzati come reazione alle discriminazioni delle minoranze ed all’omologazione dello spazio urbano.

Secondo gli autori del saggio, al di là dei significati originari, il writing rappresenta «un impulso a lasciare il proprio segno sul palcoscenico urbano» (p. 34). I muri finiscono con l’ospitare «i punti di vista di mondi privi di accesso legittimo alla parola in pubblico» (p. 34). Dunque la prima e “pericolosa” novità introdotta dal fenomeno del writing degli anni Settanta, non è tanto il comunicare sui muri urbani, ma il fatto che a farlo non siano più soltanto gli apparati di propaganda commerciale e politico-statale. Si tratta in primo luogo di una “presa di parola” da parte dei ceti meno abbienti: «tracciare i segni sui muri significa […] contrapporsi all’immagine della povertà, dell’emarginazione e dell’ingiustizia sociale che la società ufficiale o legale produce in nome dell’ordine pubblico» (p. 35). Oggi le cose sono ovviamente cambiate ed a ricorrere a comunicazioni murali non sono soltanto gli ambienti marginali ed antagonisti; i muri oggi sembrano rappresentare spazi fisici in cui l’irrequietezza esistenziale e politica si può manifestare liberamente e ciò non è per forza prerogativa dell’antagonismo sociale.

Nel saggio viene sottolineato come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche da un senso di impotenza nei confronti di una scelta che altri, nottetempo, hanno fatto per tutti. Il cittadino che si ritrova le mura del palazzo “esteticamente modificate”, non ha avuto voce in capitolo. Tale frustrazione si scarica facilmente sui writer ma, a ben guardare, suggeriscono gli autori del testo, il cittadino è impotente anche di fronte alle modificazioni estetiche della città, siano esse temporanee o permanenti, imposte dalle politiche urbane comunali e dal mondo del commercio. Gli spazi urbani in cui i cittadini si trovano a vivere costituiscono pertanto «l’arena dei conflitti (di interessi e visioni del mondo) che si esprimono anche nelle dimensioni semiotiche ed estetiche. Ciò che gli abitanti vedono intorno a loro è, a seconda dei punti di vista, una scena collettiva squallida o invitante, degradata o scintillante, rilassante o inquietante, piacevole per alcuni, sgradevole per altri…. In ogni caso, è il risultato dell’azione di poteri e interessi spesso invisibili, a cui nessuno pensa quando passeggia per le strade e giudica ciò che lo circonda» (pp. 41-42). Dal Lago e Giordano individuano nei graffiti contemporanei l’indicazione di un punto di vista altro, diverso, rispetto ad una scena urbana che intende proporsi/imporsi come necessaria/obbligatoria ma che in realtà è contingente, derivata da un’evoluzione storica che avrebbe potuto dirigersi verso tante altre direzioni.

Nel Secondo capitolo viene passata in rassegna l’evoluzione del writing e le sue connessioni con l’arte contemporanea. Questa sezione del volume prende il via con l’articolo comparso nel luglio del 1971 sul “New York Times” ove viene riportata la fotografia di una porta della 183a strada ricoperta da sigle. Tale pubblicazione rappresenta per certi versi un momento significativo per il writing perché apre un discorso pubblico su di esso.

È soprattutto nell’ambito della cultura Hip Hop che «le tag, che nascono come sigle o firme e quindi come un tipo di scrittura, diventano vere e proprie forme artisticamente autonome, composizioni complesse, progettate e poi realizzate (pieces). Le lettere si dilatano nello spazio, si riempiono di colore creando immagini di grandi dimensioni (masterpieces). I caratteri (blockletters) si gonfiano (bubble style), oppure acquistano una dimensione in più (3d style) e, infine, perdono la loro funzione, diventando forme volutamente illeggibili (wild style)» (pp. 78-79). La risposta delle istituzioni newyorkesi non tarda ad arrivare; all’epoca del sindaco John Lindsay sono ben 1500 i writer arrestati. Lo stesso mondo dei graffiti si rinnova; la bomboletta spray sostituisce il pennello e s’impone il lavoro di gruppo, dunque le stesse tag non di rado si trasformano da firma individuale ad espressione dell’intera crew.

La stagione d’oro della Street art coincide con gli anni Ottanta, quando il «graffitismo si emancipa come linguaggio autonomo e l’attenzione si sposta dal gesto in sé al risultato» (p. 82) e ciò, sottolineano gli autori del saggio, attira l’attenzione del mondo dell’arte ufficiale provocando così l’apertura di un fronte interno al mondo dei writer che vede contrapporsi “puri” e “venduti”. «Dal momento in cui l’idea di Street art ha libera circolazione all’interno dei confini dell’arte riconosciuta, diviene oggetto di un discorso fondamentale per confezionare gli oggetti artistici. Un discorso a cui i graffitisti “perbene” aderiscono pienamente. Spesso, le dichiarazioni di guerra al sistema dell’arte e al suo mercato da parte loro sono in netta contraddizione con fruttuose frequentazioni di galleristi e collezionisti. Una contraddizione che non disturba affatto questi ultimi che, al contrario, si industriano per trovare formule spericolate, capaci di conciliare la natura anarchica della Street art con il suo sfruttamento commerciale» (p. 84).

Al fine di consentire ai graffiti di entrare a far parte del circuito artistico ufficiale, occorre togliere loro l’etichetta criminale e così gli “addetti alla trasformazione” si appellano all’idea che i graffitisti sono criminali per necessità (mancanza di spazi su cui lavorare) e non per scelta. A questo punto, sostengono gli autori, i writer indipendenti che non si concedono, o che tentano di resistere per quanto è loro possibile – visto che il sistema-arte non manca di speculare su produzioni indipendenti anche senza il consenso degli autori -, sanno benissimo che la Street art è divenuta una moda tra le altre all’interno del circuito ufficiale. «Sanno anche che il loro lavoro anonimo potrebbe essere fotografato e inserito in un catalogo, con tanto di prefazione di un critico alla moda: un’eventualità a cui non possono opporsi, ma della quale non intendono approfittare» (p. 87). Altri writer accettano di entrare a far parte del mercato dell’arte e non mancano di estendere l’ambito d’azione commerciale a sneakers, cappellini, t-shirt e felpe dei grandi marchi. In un modo o nell’altro il luccicante e remunerativo mondo dell’arte (e del commercio più in generale) ha modificato le regole del gioco e nulla può più essere come prima.

DECORO URBANO

DECORO URBANO

«I writer, quando sposano il mercato, portano in dote l’aura di trasgressione della loro vita precedente, ma non basta. Sono necessarie le giuste parole dei critici per trasformare in arte ciò che fino a qualche anno prima era deliberatamente fuori dal sistema […] Occorre rompere con il passato, mantenendo vivo quanto basta il mito degli anni ruggenti, ridotto a una scena di sfondo. Occorre soprattutto inventare qualcosa di nuovo per garantire la bontà del prodotto, dimostrando che non tutti i graffiti sono arte. Ciò significa mettere ordine in un repertorio sterminato e, come sempre accade, stabilire criteri estetici, canoni tecnici, limiti e regole» (pp. 90-91).

La questione dei canoni estetici che creano gerarchie ed indicano cosa è arte e cosa non lo è, risulta centrale nel discorso di Dal Lago e Giordano. Gli autori citano esempi di writer “convertiti al mercato” che imputano l’ostilità dei cittadini nei confronti dei lavori di tanti “colleghi” alle loro scarse capacità professionali. Chi ha scelto di “contaminarsi col mercato” è costretto, come abbiamo visto, a mantenere i piedi su due staffe e nell’argomentare circa i difficili rapporti del writing con la cittadinanza, può giungere ad indicare nella mancanza di abilità tecnica di tanti colleghi la principale causa di astio. Se tutti fossero “bravi” come coloro che il mercato ha saputo scegliere, verrebbero meno molti motivi di ostilità. «Riemerge il fantasma della tecnica, grande cavallo di battaglia di qualsiasi posizione reazionaria nell’arte» (p. 92), sostengono gli autori che, a tal proposito, portano alcuni esempi di motivazioni addotte dalle associazioni ostili al writing in cui si sostiene che i graffiti “non possono” essere considerati un fenomeno artistico o perché “l’arte è un’altra cosa” o perché, derivando da un’azione illegale, “non possono” essere considerati “arte”. Lo stesso Museo d’arte moderna di Bologna (Mambo) nel luglio del 2009 giunge a proporsi di “periziare” i murales in città al fine di evitare che, “malauguratamente”, vengano cancellate “opere d’arte” nel corso delle operazioni di ripristino del “decoro urbano” promosse dal Comune. Insomma, da più latitudini si avverte la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è.

Negli anni Novanta ormai il mondo dei writer è cambiato radicalmente rispetto alle origini del fenomeno; è cambiata la composizione sociale, ora molto meno connotata, sono mutate le tecniche di realizzazione e si è di fronte ad un contesto molto più globalizzato. Se in passato l’idea era quella di coprire la città, ora l’intervento tende piuttosto a scoprirla, svelarla e, spesso a deriderla. Negli ultimi tempi diversi writer hanno messo in campo notevoli abilità manageriali nella gestione della propria immagine, nel saggio viene fatto esplicitamente riferimento al caso forse più noto: «Banksy incarna perfettamente il modello dell’artista capace di fondere la sua arte e la sua capacità imprenditoriale in un’unica grande opera: se stesso» (p. 101). C’è chi ha voluto vedere analogie tra la figura di Banksy e quella di Andy Wharol. A tal proposito, nel saggio, viene evidenziato come mentre il primo si è più volte espresso con opere di esplicita contestazione nei confronti del sistema capitalistico e consumista, Wharol ne ha invece tessuto acriticamente le lodi. Resta il fatto che l’anonimo fustigatore della società dei consumi ha finito col generare un business impressionante attraverso le sue opere e le riproduzioni delle stesse. Lo stesso attacco del celebre writer ai brand delle grandi multinazionali è stato portato attraverso tecniche pubblicitarie che hanno contribuito a creare il “brand Banksy”.

Anche l’arte mainstream non ha mancato di fare i conti con il fenomeno del graffitismo ma, puntualizzano gli autori, «l’interesse degli artisti “ufficiali” nei confronti della strada è un’estensione del territorio della galleria e non una reale fuoriuscita dalla gabbia dorata in cui operano. Diciamo che l’arte ufficiale può solo citare quella di strada, può appropriarsene o trasformarla, ma non sarà mai la stessa cosa. Infatti non gode del privilegio della gratuità e del disinteresse, da cui in fondo deriva ogni innovazione nell’arte e nella vita» (p. 163).

Nel Terzo capitolo vengono analizzate le ragioni dell’ostilità nei confronti del writing. Come presupposto alle questioni che verranno affrontate, gli autori sottolineano come l’attività artistica, indipendentemente da cosa essa sia in origine, divenga socialmente tale solo nel momento in cui viene riconosciuta da chi dispone, storicamente, della legittimità per farlo. Sappiamo che tale soggetto, tale istituzione, viene ad avere diritto di vita e di morte circa il riconoscimento dell’artisticità o meno di un’opera ed in questo discorso non si tratta di accettare o mettere in discussione tale autorità, si tratta di prendere atto del ruolo che certe cariche hanno nell’ambito del conferimento di artisticità qui ed ora. Premesso ciò, Alessandro Dal Lago e Serena Giordano sottolineano come nelle motivazioni delle associazioni antigraffiti non ci si appella tanto al diritto decisionale degli abitanti circa gli interventi sulle superfici delle pareti di casa, ma piuttosto, spesso, si entra nel merito artistico dei graffiti sostenendo che questi non sono opere d’arte. Così facendo tali associazioni si inoltrano su un terreno scivoloso perché sappiamo come sia variabile il concetto d’arte nel tempo. Se i graffiti, o alcuni di essi, fossero ritenuti opera d’arte dalla maggioranza dei cittadini e/o dalle “autorità in materia”? In linea di principio, ricordano gli autori, qualsiasi graffito può “divenire” (essere indicato come) opera d’arte.

In alcuni casi gli abitanti del quartiere hanno difeso i graffiti (e gli autori) in quanto ritenuti una valorizzazione del contesto urbano e tutto ciò indipendentemente dal fatto che fossero stati realizzati illegalmente e che nessun critico d’arte od altra autorità in materia si fosse espresso a riguardo. La mera questione estetica risulta scivolosa, pertanto il fronte antigraffiti, non di rado, si sposta sul versante pedagogico indirizzando i potenziali vandali verso spazi consentiti, non rendendosi conto che una componente fondamentale del writing ha a che fare con il fascino dell’illegalità.

In conclusione, abbiamo visto come, ancora una volta, un fenomeno controculturale, di strada, finisca con l’essere in buona parte riassorbito da un sistema che non esita a ricavare profitto anche da chi lo contesta. Qualche writer si adegua, preferendo mettere a profitto le sue abilità creative a costo magari di trasformare quello che era stato un linguaggio di ribellione donato alla collettività in un testo vuoto che deve essere riempito da critici e dispensatori d’aura. Qualcun altro decide di resistere e di non farsi coinvolgere dal mercato, magari vendendo la propria forza lavoro altrimenti per campare. È una vecchia storia che ha attraversato – e sempre lo farà – le cosiddette sottoculture quando queste diventano appetibili al circuito economico; lo abbiamo visto nell’ambito musicale e nella gestione degli spazi sociali così come tante volte abbiamo assistito a contrapposizioni frontali tra più o meno “puri” contro più o meno “venduti”. Resta il fatto che i graffiti sono «sia un aspetto rilevante della convivenza urbana, sia l’occasione per i cittadini di esprimersi su un buon numero di questioni di interesse generale. In breve, hanno una grande capacità di aggregazione concettuale. Parlare sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (pp. 18-19).

 

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