oralità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una sfida per i protocolli di un vecchio partito (e di una vecchia storiografia) https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/una-sfida-per-i-protocolli-di-un-vecchi-partito-e-di-una-vecchia-storiografia/ Wed, 24 Feb 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65064 di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse [...]]]> di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse soprattutto, li costringe a riflettere su una metodologia usata per ricostruire la storia del “partito comunista più grande dell’Occidente” che è diventata anche strategia politica. Mentre l’indagine di Boarelli sfugge, per scelta, alle norme che hanno prodotto le più scontate indagini storico-politiche, quasi tutte basate sull’esperienza dei vertici del partito stesso e sui documenti prodotti nel tempo da quegli stessi.

Come afferma ancora Ginzburg nella prefazione alla presente riedizione, al suo primo apparire: «La fabbrica del passato lanciava una sfida originale alla corporazione degli storici, invitandoli a superare l’ottica verticistica formulata in maniera esplicita da Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano»1. Sfida che non consisteva tanto in una differente lettura di quella storia, ma nell’utilizzo di un archivio costituito da circa milleduecento autobiografie che i militanti del partito erano stati invitati a scrivere nel periodo intercorso tra il 1945 e i 1956 in quel di Bologna.

In quel decennio il Partito obbligava di fatto i propri militanti a narrare pubblicamente oppure a scrivere la propria storia e molto spesso li sollecitava ad esplicitare il racconto della propria vita in entrambe le forme. Prima di procedere all’analisi dei motivi politico-ideologici che fecero sì che il Partito comunista, a livello nazionale, avesse adottato questa modalità di integrazione e controllo dei militanti all’interno delle proprie strutture, val la pena di sottolineare subito che la scelta operata nei confronti delle fonti utilizzate da Boarelli è già di per sé molto importante dal punto di vista storiografico.

Una sfida che, anche se è rimasta ancora in gran parte inevasa fino ai nostri giorni, ribalta l’ordine della storiografia partitica precedente, tutta rivolta ai documenti prodotti dall’alto, riportando l’attenzione sui documenti prodotti, si potrebbe dire, dalle gambe su cui il partito marciava.
Un autentico ribaltamento di prospettiva che nella scelta delle fonti aveva, e ha tutt’ora, il suo autentico punto di forza. Un punto di vista che, a differenza della prospettiva scelta anche da coloro che ieri e oggi hanno continuato e continuano a sottolineare e criticare il sostanziale stalinismo delle scelte espresse da Togliatti e dal suo “partito nuovo”, permette di allargare lo sguardo all’essenza del metodo di funzionamento dei partiti comunisti e della loro percezione e introiezione da parte dei militanti politici di base.

Non è certamente un caso che, più volte, Boarelli si richiami all’esperienza, in gran parte ancora unica e poco compresa, di Danilo Montaldi e alle sue scelte metodologiche, che Pier Paolo Poggio ha avuto modo di definire come una sfida ai protocolli ideologici del PCI2. Sfida che diventa, per forza di cose e lo si vedrà meglio più avanti, anche tale nei confronti dei rigidi protocolli di una storiografia imbalsamata ancora troppo spesso nei paramenti dei documenti e delle fonti “ufficiali” ovvero “alte”.

Un metodo storiografico rigido di cui si avvalgono ancora oggi sia la storiografia modellata dal togliattismo e dallo stalinismo che quella di “opposizione interna” nel ricostruire fatti ed eventi della storia della politica comunista. Da cui già si distaccava Montaldi quando nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia3 ricordava, solo per fare un esempio, gli episodi di autentica e violentissima lotta di classe verificatisi nelle fabbriche dell’URSS all’epoca dello stakanovismo.

Un testo che all’epoca era stato rifiutato da editori come Einaudi e Feltrinelli proprio perché scomodo, non soltanto dal punto di vista politico ma anche storiografico. Mentre l’irrequietezza di Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e di Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia, è ancora ravvisabile, fatte le dovute differenze epocali e soggettive, nel lavoro di Mauro Boarelli.

Ma se l’inquietudine di Montaldi scaturiva da una passione politica che costringeva il cremonese a modificare i canoni della ricerca sociologica e storica, nel caso di Boarelli è proprio l’insoddisfazione nei confronti delle metodologie e dei protocolli di ricerca a far scaturire, poi, nei fatti un differente sguardo storico-politico sulla storia del partito, anche se forse sarebbe meglio dire dei partiti comunisti. Rovesciando il punto di vista delle fonti scelte evidentemente si è costretti a rovesciare anche la narrazione storiografica. Semplificando: dal basso è possibile cogliere ciò che dall’alto è impossibile percepire (oppure si vuole nascondere).

Il problema vero, e più importante, è però costituito dal fatto che il lettore si troverà davanti non soltanto ad un’epoca in cui i militanti di base erano costretti a “confessare” ai funzionari del partito le loro convinzioni e, eventuali, debolezze, all’interno di un inquadramento e disciplinamento che si riscontrava in tutti i partiti stalinizzati, ma anche alla riflessione sul fatto che quella pratica, scritta e orale, discendeva dritta dritta dal gesuitismo dell’epoca della Controriforma.

Scoprendo in questo modo che quella pratica e quell’organizzazione partitiche erano tutt’altro che di ispirazione laica, facendo così che la fede religiosa, apparentemente, cacciata a pedate dalla porta del partito, si ripresentasse nella fede e fiducia nello stesso, rientrando così da una finestra nemmeno troppo stretta. Una fede di carattere religioso che riposava comunque sul fondo dell’“anima” di molti militanti dell’epoca e che veniva sostituita da una fede “laica” di uguale o maggior portata e potenza simbolica.

Ecco allora che la ricerca sulle “scritture” dei militanti comunisti rivela un aspetto ancora troppo accantonato dell’esperienza e del successo epocale dell’ideale comunista, in un contesto in cui il “partito nuovo” di Togliatti riproponeva la tradizione staliniana ancor più che bolscevica cercando di adattarla opportunisticamente alle necessità politiche dei tempi, affidandosi all’arma di coinvolgimento più potente per un’istituzione politico-religiosa (che fosse la Compagnia di Gesù o il PCI poco importa dal punto di vista della ricerca): la confessione pubblica e la dichiarazione della piena appartenenza alla causa ideale.

Fino ad ora però si è qui tralasciato l’aspetto più interessante sottolineato da Mauro Boarelli, quello riguardante la cultura d’origine degli autori delle biografie esaminate: una cultura ancor prevalentemente orale in cui l’uso della scrittura costringeva spesso i militanti ad autentiche contorsioni espressive che costituivano effettivamente la “forma” della resa e dell’accettazione di un certo tipo di inquadramento politico che era, forse, prima di tutto culturale.

L’ideale progressista che animava le scuole di partito finiva così col ricalcare il metodo di una scuola che, dal punto di vista linguistico, più che tener conto delle differenze individuali, culturali e di classe, mirava ad un inquadramento unico dei soggetti/oggetti destinati ad essere istruiti e che della cancellazione delle radici sociali e delle lingue ad esse collegate faceva, e ancora troppo spesso fa, il suo obiettivo primario.

Lo sradicamento dalle radici culturali significava, in ambito istituzionale e partitico, non solo impoverire la ricchezza espressiva posseduta in partenza dai subordinati, ma anche, ridefinendone i linguaggi e le terminologie usate (spesso impropriamente), ridisegnarne i confini del pensiero e della capacità di autonoma riflessione, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Motivo per cui si può cogliere come la resa dei partiti comunisti all’ideale progressista di acculturazione e alfabetizzazione finisse col ridurre quegli stessi partiti a strumenti di un’evoluzione politica e sociale che poco per volta avrebbe rimosso dal suo orizzonte qualsiasi cambiamento radicale dei rapporti di classe, economici e culturali.

Come dire: la trasformazione dell’immaginario partitico da antagonista a sostenitore dell’esistente aveva origine, più ancora che nelle scelte ideologiche e nella praxis politica, negli strumenti usati per inquadrare i militanti. Strumenti educativi che si pensavano imparziali e disinteressati, ma che di fatto non lo erano.
E non a caso qui l’autore pone attenzione alle diverse interpretazioni dell’uso e dell’avvento della scrittura nelle società prevalentemente orali, mettendo a confronto le ipotesi di Walter J. Ong e Jack Goody che sono stati due dei maggiori studiosi, da punti di vista differenti e, sostanzialmente, contrari del fenomeno, sia a livello storico che antropologico.

Togliere ai militanti, o a chiunque altro, il proprio retroterra linguistico, rappresentava, e significa ancora adesso, una sorta di colonizzazione culturale destinata a privarli della “voce” nel senso più vero e profondo e “togliere la voce” significa anche ricomporre, oppure reprimere, il disaccordo compreso in una differente e più articolata organizzazione del discorso. Ecco allora che l’esercizio forzoso della scrittura si trasformava in un disarmo profondo della base del partito, dopo di che qualsiasi alterazione del percorso politico programmato dai vertici sarebbe stato più facilmente digerito dalla stessa. Fino alla cancellazione della sua memoria e della sua esperienza storica.

Sia ben chiaro: questa recensione si è basata principalmente sui presupposti metodologici espressi dall’autore sia nella prima introduzione che in in quella aggiunta per la nuova ma, anche se la ricchezza e la varietà delle testimonianze contenute nelle autobiografie citate costituisce il vero cuore del testo, è proprio in quelle che è possibile cogliere il problema di quella disciplina della memoria cui Boarelli ha rivolto principalmente la sua attenzione.

La lettura del testo non può dunque che rivelarsi utile e stimolante per chiunque sia interessato ad uscire dalle peste, ideologiche e metodologiche, che hanno caratterizzato un secolo giunto da tempo al suo tramonto, ma che ancora tardano a lasciare libero il campo a più approfondite conoscenze e riflessioni sulle cause delle sue tragedie, dei suoi errori e delle sue sconfitte. Cui la sola critica di carattere ideologico non può certamente più bastare.


  1. Carlo Ginzburg, Prefazione a Mauro Boarelli, La fabbrica del passato, Quodlibet, Macerata 2021, p.7  

  2. Pier Paolo Poggio, Montaldi e i protocolli ideologici del PCI in Gianfranco Fiameni ( a cura di), Danilo Montaldi (1929-1975), azione politica e ricerca sociale, Atti del seminario svoltosi a Cremona il 9 maggio 2003, Annali della biblioteca statale e libreria civica di Cremona, volume LVI, 2006, pp. 17-209  

  3. Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Centro d’Iniziativa Luca Rossi e Cooperativa Colibrì, Milano 2016 (Prima edizione edizioni Quaderni Piacentini, Piuacenza 1976)  

]]>
Vivare come l’uselin su la rama* https://www.carmillaonline.com/2020/11/25/vivare-come-luselin-su-la-rama/ Wed, 25 Nov 2020 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63532 di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il [...]]]> di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il 1975 e il 1978. Fu all’epoca una scelta sicuramente coraggiosa per un editore che fino ad allora aveva principalmente pubblicato testi, italiani e stranieri, riconducibili tutti, o quasi, all’ambito dell’antagonismo politico di estrema sinistra.
La ricerca dell’autore, infatti, si avventurava nell’opera di riscoperta e ricostruzione di una cultura, quella dei contadini veneti delle Basse veronesi, che sicuramente all’epoca, anche e forse soprattutto agli occhi dei militanti di quella Sinistra che si dichiarava extra-parlamentare, doveva apparire arcaica, superata, conservatrice, se non addirittura controrivoluzionaria. Perdendo così, già all’epoca, l’occasione per avvicinare strati popolari, allora ancora in parte superstiti, in cui era radicato un forte antagonismo nei confronti della cultura “elevata”, o presunta tale, imposta dallo Stato e dalla onnicomprensiva modernizzazione della società.

Dino Coltro (1929-2009) di quella cultura e di quella società contadina era invece discendente e, si potrebbe dire, voce; diretta emanazione di una lingua e di conoscenze apparentemente destinate ad essere cancellate dalla Storia.
Nato in provincia di Verona e cresciuto al Pilastro (Bonavigo), una tipica corte della Bassa veronese dove abitò dalla prima infanzia fino agli anni Cinquanta, dopo essere stato avviato al lavoro salariale, riuscì con l’impegno dell’autodidatta a diventare maestro. Con l’insegnamento iniziò anche la sua attività sociale, facendosi promotore di numerose cooperative agricole. A questa si aggiunse l’esperienza della Cooperativa della Cultura di Rivalunga, un’iniziativa socio-pedagogica che anticipò tendenze e metodi del rinnovamento della scuola. Dal 1972 si dedicò alla ricerca e alla trascrizione della tradizione orale veronese e veneta, di cui l’opera ripubblicata e recentemente portata a termine dalle edizioni Cierre di Verona costituisce uno dei risultati e, forse, l’esempio più significativo.

Sappiamo tutti come, oggi, in Veneto l’uso del dialetto sia ancora estremamente diffuso e sappiamo anche, purtroppo, che la sua difesa ha finito col costituire la base di una rivendicazione identitaria troppo spesso sfociata in una forma di autentica ostilità, se non di vero e proprio razzismo, nei confronti dei forestieri e degli immigrati più poveri, cui la Lega, nelle sue varie espressioni, ha dato voce e fiato per poter acquisire maggior rappresentatività politica sia a livello locale che nazionale.

Certo, l’opera di Coltro non andava, e non va letta tutt’ora, in quella direzione. Anzi quelle parole, quelle favole, quei modi di dire, quei canti e quelle filastrocche continuano a ricordare al Veneto degli schei (quattrini)1, una società contadina in cui molti vivevano come l’uccellino sul ramo* ovvero mangiando poco. Una società spesso povera, ma dall’identità forte proprio perché restia alla penetrazione di una cultura ufficiale, basata sulla prevalenza del testo scritto, destinata a sconvolgerla, privandola ancor prima che della lingua, ancor più della sua capacità creativa e della sua capacità di intendere il mondo, la natura, il lavoro, la fatica e la miseria, ma anche e soprattutto dei suoi valori etici e morali.

Come affermava infatti l’autore nelle riflessioni destinate ad accompagnare una prima ristampa dell’opera, nel 1982:

Il mio intento era di presentare una cultura nei termini e nei principi basilari intrinseci, senza ricorrere a prestiti interpretativi provenienti da altre concezioni della vita e del mondo. In questo modo risalta l’originalità della condizione contadina, nello spazio e nel tempo, e si dimostra che il complesso delle esperienze e delle situazioni, trattenute dalla coscienza collettiva, esprime una vera e reale concezione del mondo, da cui derivano valori e modelli che guidarono (e forse guidano) il comportamento individuale e collettivo. La mancanza di comunicazione simbolica o segnica della cultura subalterna, avverte soltanto che l’attenzione alla comunicazione orale deve essere portata al colore, alle forme, alla mitologia, alla fabulazione nelle loro complessità. Ma complessa non vuol dire frammentaria; la creatività e l’autonomia caratterizzante questa cultura ne amplificano la poliformia.

[…] C’è tuttavia, una unità concettuale, in larga misura implicita e intuitiva. Occorre soltanto capirne i termini. Esiste una morale del popolo, cioè degli imperativi molto più forti e tenaci della morale ufficiale con la quale, molto spesso, vengono in opposizione […] Così scopriamo opinioni e credenze sui diritti, sulla giustizia che nascono sotto lo spunto delle condizioni di vita e non risultano dei cascami degradanti dalle concezioni dominanti, come spesso si sente dire2.

Aggiungeva poi ancora, nella Premessa:«La lingua rappresenta un modulo conoscitivo fondamentale di una società e della sua cultura. Per questo ho tentato la trascrizione del linguaggio contadino della Bassa, colto nelle forme più espressive, dalla voce degli ultimi “analfabeti”, conservandone, fin dove possibile la contestualità e la struttura culturale orale. Una lingua non esiste al di fuori della cultura, cioè, al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita [da S. Amin, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969 – N.d.R]»3.

Come afferma, infatti, Manlio Cortelazzo nella Prefazione al primo dei quattro volumi:

La propria parlata individuale, di uso e di ricordo, come indicatore del lessico comunitario; e questo ripreso, quale specchio fedele e spesso unico testimone della perduta memoria collettiva di un passato anche recente, che va man mano sbiadendosi e sfumando i suoi precisi connotati: ecco l’opera, carica di pietas, compiuta con grande passione e lunga fatica dall’Autore […]
Non c’è, in questo lavoro, né recriminazione, né idilliaca (e, quindi, sostanzialmente falsa) ricostruzione di un’esistenza faticosa, superata sì nei suoi deprimenti aspetti quotidiani, ma anche in altri aspetti positivi, così alieni dal nostro impoverito villaggio globale.
La descrizione di questo “paese perduto” sa procedere attraverso la parola, il verbum, inteso in senso lontanissimo, includente qualsiasi manifestazione verbale, anche i gridi di richiamo e incitamento degli animali domestici, anche le creazioni effimere, incontrollate e irripetibili, o fantasiose e sfuggenti a tutti i tentativi di logica spiegazione, per arrivare a cogliere esattamente, come confermerebbero documentazioni di altro tipo, peraltro non indispensabili, il corso della vita contadina a cavallo fra i due secoli, anzi, tra un mondo millenario […] e il suo fresco antagonista, il mondo d’oggi, che se n’è liberato4.

Coltro privilegiava quindi la lingua dell’oralità, il dialetto, la lingua del fare, che è pensiero legato alla concretezza della vita quotidiana, alle fatiche, alle miserie, alla fame, alla violenza dell’esistenza.
Lingua di condivisione sociale e famigliare degli eventi e degli atti, lingua che ci ricorda che ogni lingua nazionale, spesso imposta con la violenza (anche a scuola), è una forma di colonizzazione non solo socio-economica, ma anche dell’immaginario espresso collettivamente. In un mondo in cui il termine analfabeta ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un grave stigma.

Il mondo contadino preso in considerazione, appare in una dimensione culturale più esatta attraverso il suo linguaggio che ne esprime anche la filosofia e la morale: uno specchio modesto di una civiltà che va scomparendo […] Tuttavia il mondo contadino non si presenta con un’unica fisionomia: la differenza culturale di chi possiede casa e terra da chi non ha che le braccia per lavorare non è trascurabile. La spaccatura salariale in categorie di lavoro (salariati, avventizi, giornalieri) e in sottoclassi sociali determina una diversa visone del lavoro e della vita.
L’ambiente di paese o di corte, il vivere in case isolate o raggruppate, in contrade, in frazioni; l’influenza della predicazione religiosa e delle tradizioni mitologiche popolari; la frequentazione dell’osteria e la solitudine delle stalle, sono tutti fattori che rendono “diverso” un modo di dire, apparentemente identico o uniforme. In questo caso, ripetizioni e varianti diventano frasi ed espressioni del tutto nuove e autonome.
Il lessico dialettale ha sfumature, inflessioni verbali, accenti che variano con il mutare dell’ambiente naturale, sotto l’influenza delle condizioni economiche, in rapporto alla composizione sociale delle comunità contadine. Differenze si possono notare dentro uno stesso paese, determinate dal lavoro, dalla povertà, sottolineate da condizionamenti storici, da fattori spirituali, dall’accettazione o meno dell’insegnamento della Chiesa5.

In fin dei conti, forse, Francis Fukuyama non aveva del tutto torto quando parlava della fine della Storia con i progressi avvenuti al termine del XX secolo, poiché il capitalismo, il suo stato e la sua cultura hanno di fatto contribuito a far finire migliaia di volte la Storia delle culture e società altre, costringendole ad essere relegate in ricordi sempre più sbiaditi oppure a negarsi per potere stare al passo con la Modernità, lo Sviluppo e il Progresso.

Le lingue altre, i gerghi e i dialetti hanno continuato però a portare dentro di sé una memoria materiale di un passato quasi sempre distrutto e poi rimosso e nascosto. L’opera di Dino Coltro quindi, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, è ancora di estrema attualità per la metodologia impiegata. L’amplissima raccolta di detti, proverbi, modi dire, espressioni comuni, cantilene, fole scaturisce direttamente dalla viva voce dei contadini, non vi sono passaggi di carattere letterario o interpretativo che ne nascondano o ne travisino l’implicita forza espressiva.

L’opera risulta poi ancora attualissima poiché è stata scritta «appena usciti dal grande esodo dalle campagne, risulta, in definitiva, un esame immediato, spontaneo, fatto sul filo di una memoria intatta di quanto il cambiamento” aveva sperperato più che mutato. Perché il “cambiamento” era ed è nelle cose della storia e se c’era qualcuno che lo attendeva come una “liberazione”, questi erano i contadini. E, forse perché arrivato troppo tardi, li ha spinti a una trasmigrazione culturale così affrettata, confusa e sradicata da autentiche energie vitali. Una immagina speculare dell’emigrazione dalle campagne alle aree urbane, un tempo rifiutata»6.

Estremamente attuale nel ricordarci, in questo inizio secolo in cui gigantesche trasformazioni socio-economiche e tecnologiche contribuiscono a rovesciare ogni forma di resistenza e solidarietà nel loro contrario e ogni autonomia politica e culturale in immaginario spendibile per la causa capitalista, anche grazie ad una Sinistra dalle infinite sfumature progressiste tutte ispirate più dall’idealismo illuminista che dal materialismo e dall’interesse per gli “altri” di marxiana memoria7, che ogni passaggio, ogni trasformazione economica e sociale, anche all’intero di un medesimo modo di produzione, è sempre e soprattutto una trasformazione antropologica dei soggetti coinvolti. Senza di questa, senza la scellerata e condivisa rimozione di ogni forma di cultura non funzionale allo sviluppo economico e tecnologico dominante lo stesso non potrebbe infatti affermarsi e sopravvivere.


  1. Si veda G. A. Stella, Schei. Dal boom alla rivolta: il mitico Nord-est, Baldini &Castoldi, Milano 1997  

  2. D. Coltro, Riflessioni per una ristampa, in D. Coltro, Il paese perduto, vol.I, pp. 15-16  

  3. D. Coltro, Premessa a Il paese perduto, vol.I, op.cit. p.9  

  4. M. Cortelazzo, Il mondo contadino di ieri in D. Coltro, Il paese perduto, Vol. I La giornàda e il lunario, Cierre edizioni, Verona 2013, pp. 19-20  

  5. D. Coltro, Premessa in op. cit. pp. 10-11  

  6. D. Coltro, Riflessioni in op. cit. pp.16-17 

  7. Si vedano in proposito: E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e K. Marx, Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli, Milano 2009 oltre che K. Marx – Friedrich Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1960; oppure, ancora, E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1963  

]]>
Bob Dylan e la riscoperta delle origini rapsodiche del Mito e della Bibbia https://www.carmillaonline.com/2018/04/19/bob-dylan-potenziale-mitico-del-discorso-biblico/ Wed, 18 Apr 2018 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44790 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume III (1988 – 2012) Un nuovo inizio e la maturità, Ancora Editrice 2018, pp. 424, € 26,00

Come già precedentemente annunciato, è giunta al termine la monumentale opera dedicata da Renato Giovannoli ai rapporti tra l’opera di Dylan, la Bibbia e l’uso che di questa si è fatto nella canzone popolare americana. Il terzo tomo appena pubblicato conclude degnamente l’opera, fornendo al lettore indici analitici riguardanti i testi, le canzoni, gli autori e i passi della Bibbia citati nei tre volumi della stessa. Tali indici, soltanto per darne un’idea, occupano [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume III (1988 – 2012) Un nuovo inizio e la maturità, Ancora Editrice 2018, pp. 424, € 26,00

Come già precedentemente annunciato, è giunta al termine la monumentale opera dedicata da Renato Giovannoli ai rapporti tra l’opera di Dylan, la Bibbia e l’uso che di questa si è fatto nella canzone popolare americana. Il terzo tomo appena pubblicato conclude degnamente l’opera, fornendo al lettore indici analitici riguardanti i testi, le canzoni, gli autori e i passi della Bibbia citati nei tre volumi della stessa. Tali indici, soltanto per darne un’idea, occupano più di cento pagine di quest’ultimo volume, su un totale di 1132 che costituiscono nel suo complesso l’intera ricerca.

Le altre 316 pagine del testo in questione sono dedicate alla musica prodotta da Dylan negli anni compresi tra il 1988 e il 2012. Si tratta quindi del periodo in cui sono stati registrati i suoi ultimi dischi composti da brani originali prima dei tre album dedicati alla canzoni interpretate da Frank Sinatra oppure tratte dal grande American Songbook di interpreti come Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sara Vaughn o Ray Charles.

Tale scelta è pienamente giustificata dalla ricerca tematica svolta, poiché non solo gli ultimi tre presentano canzoni più legate al mainstream musicale americano più che all’ambito folk e popular, ma anche perché in tale ambito è più difficile rintracciare eventuali richiami, vicini o lontani, alla Bibbia e alle sue parole.

Senza tornare a quanto già detto nella precedente recensione dei primi due volumi dell’opera, (qui) si rende ancora necessaria l’analisi di quali siano le motivazioni “poetiche” che hanno spinto Dylan e una gran parte di folksinger americani ad utilizzare le parole e i riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento nelle loro canzoni. Escludendo però l’indagine dalle personali convinzioni religiose che, soprattutto nel caso di Dylan ma anche in quello di molti altri (ad esempio Kris Kristofferson), possono apparire spesso altalenanti oppure soltanto occasionali.

Analizzare, d’altra parte, l’autenticità o meno della conversione religiosa dei singoli interpreti potrebbe costituire un lavoro non soltanto lungo e complesso ma, probabilmente, anche fuorviante e tutto sommato poco scientifico considerato che ogni interpretazione delle convinzioni religiose di qualunque individuo, famoso o meno che sia, finisce inevitabilmente con l’intersecare le convinzioni religiose o laiche di chi interpreta. Analisi che, comunque e nel migliore dei casi, riguarderebbe principalmente la psicanalisi o la sociologia più che l’interpretazione del testo poetico e la sua valenza comunicativa.

Certamente il periodo preso in esame nell’ultima fatica di Giovannoli non corrisponde al periodo più religioso di Dylan. Eppure, eppure…basta scorrere molti dei testi delle canzoni prese in esame nel terzo volume per rendersi conto che con l’età l’abile trickster di Duluth non ha rinnegato l’uso dell’enunciato biblico, anzi.

Pur escludendo infatti l’album di canzoni natalizie, in cui Adeste Fideles è presente, in una versione cantata con una voce più roca di quella di Tom Waits, insieme ad una pruriginosa immagine di una pin-up natalizia posta sulla copertina in compagnia di altre immagini dei Re Magi e di gioiose slitte trainate da cavalli sulla neve,1 quasi a voler giocare sulla componente sacra e profana (molto) delle festività natalizie, Dylan sembra aver incrementato negli album presi in esame l’uso della citazione biblica. Diretta o indiretta a seconda dei casi.

Il periodo corrisponde a quello in cui il cantautore dichiarerà apertamente che l’unica chiesa alla quale sente di appartenere è “quella della mente avvelenata”, ma allo stesso tempo i testi continueranno a riprendere citazioni del Vecchio e Nuovo Testamento oppure da canzoni (blues, gospel, spiritual, country song) in cui tali citazioni sono presenti anche se modificate o utilizzate in un contesto non propriamente legato ad una esperienza o speranza di ordine religioso o spirituale.

Ecco allora “the land of milk and honey” ( la terra del latte e del miele) che si trasforma nella “land of money” (la terra del denaro). L’allusione all’infranto sogno americano di libertà e vita migliore è evidente, ma è tutto lì? Davvero? O non riguarda forse tutta la società moderna, di qua e di là dell’oceano, a Nord come a Sud? O forse costituisce soltanto un’evocazione, qualcosa che sa trovare in ogni ascoltatore una diversa prospettiva interpretativa, tale da rivelare più i sogni o i demoni di chi ascolta che quelli di chi canta?

Oppure, come capita in Political World contenuta in Oh Mercy (del 1989), la sapienza (wisdom) di cui si parla nella terza strofa, dicendo che è stata gettata in prigione e che non c’è nessuno a raccoglierne la traccia (trail), è una reminiscenza del libro di Giobbe in cui si parla di una “Sapienza nascosta agli occhi di ogni vivente” (il mistero di cui l’essere umano non può appropriarsi se non avvicinandosi a Dio) oppure tratta delle idee che il potere vuole nasconder agli occhi di chi non “deve” sapere?

Affermava il romantico tedesco Novalis: la vera poesia può avere al massimo un vasto significato allegorico, come la musica. Aggiunge umilmente chi scrive che la poesia come la musica costituisce una sorta di vibrazione che percorre il mondo, tenendolo insieme e separandolo allo stesso tempo, poiché tutti possono trovare nello stesso testo poetico e nella stessa esecuzione musicale motivi comuni ed espressioni estremamente differenti di quella medesima Sehnsucht (struggimento, nostalgia, desiderio di qualcosa che non si sa bene interpretare né tanto meno si conosce con certezza) di origine romantica che sembra far vibrare le corde più intime dell’inconscio collettivo e di ognuno di noi.

E’ ancora Novalis ad affermare che nella lontananza tutto diventa poesia: montagne, uomini, accadimenti lontani. E allora come non comprendere che questi discorsi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento scaturiscono, come i miti greci o di altre civiltà, da un tempo lontano, in cui era la voce a produrre la parola e a ricordare gli eventi, gli uomini, gli insegnamenti e le storie da trasmettere ai posteri.

La poesia e l’oralità scaturiscono dalla stessa fonte: la voce dell’uomo. Tonante, dimessa, autorevole o timida che sia. I profeti parlavano e dovevano trovare le giuste parole e i giusti esempi. Gli anziani dei clan, i capi tribù e i re parlavano e dovevano convincere chi guidavano e governavano. I sacerdoti cantavano e danzavano e dovevano coinvolgere i possibili adepti nei loro culti. I cacciatori cantavano e dovevano ammansire gli Dei e gli animali per farseli amici e ringraziarli, magari dopo averli uccisi.

I guerrieri e gli schiavi dovevano trovare esempi e modelli che li sostenessero nella battaglia e nella rivolta. Gli agricoltori tramandavano ai figli i loro insegnamenti e le loro conoscenze e così pure facevano le donne, le uniche a tramandare i segreti più veri della vita, della nascita e dell’amore.

Tutto ciò è andato avanti per millenni e si è depositato in un vastissimo immaginario collettivo che non ha e non può avere confini nazionali o di classe, anche se a tale scopo può essere talvolta utilizzato, perché spesso si è formato ancor prima che quelli esistessero nelle loro forme attuali. Un immaginario che coinvolge le figure del Mito, autentico patrimonio di archetipi, che da Ulisse e Atena a Mosè e Gesù Cristo, da Maria Maddalena a Hermes e a Gilgamesh si è trasmesso fino a noi, inconsapevolmente.

Così come si è depositato in opere che sono state scritte secoli dopo l’inizio della loro diffusione orale: l’Iliade, l’Odissea, l’Antico Testamento, così ricco di canti e poesie. Oppure attraverso una narrazione disordinata e popolare come quella contenuta negli infiniti Vangeli apocrifi, in cui magari un dispettoso Gesù ancora bambino fa morire un compagno di giochi per poter dimostrare la sua potenza facendolo poi risorgere. Un intero universo narrativo, evidentemente tutto di origine umile ed orale, da cui i Padri della chiesa hanno poi dovuto scindere il grano dalla pula per ottenere una narrazione più rispettabile ed accettabile.

E allora cosa fa il poeta, il cantautore, il poeta-cantautore vincitore di un premio Nobel come Dylan, se non rielaborare all’infinito temi antichi e sempre attuali, edificanti o devastanti, ma sempre in grado di toccare le menti e i corpi di chi lo ascolta. Cosa può fare se non dare voce alla Musa che canterà, magari polifonicamente, attraverso di lui? E’ soltanto una superficiale abitudine della società borghese, l’unica in cui la scrittura sia stata pienamente dominante dopo l’invenzione della stampa, quella di considerare il testo sempre come scritto e stabile, anzi stabilito una volta per tutte.

E’ una febbre filologica, nata con l’Umanesimo, che fa cercare sempre il testo definitivo e completo di un’opera, quasi che questa non fosse in costante evoluzione nel tempo e non soltanto nella o per la volontà dell’autore (ah già…i diritti d’autore…questo è mio, questo di qualcun altro etc.) e non soltanto per sua mano.2 Ed è stata spesso la cultura “bassa” e collettivamente condivisa, che molti ritengono sottocultura, quella che nel tempo ha rimodellato e ridefinito collettivamente i messaggi selezionando, in tempi e momenti diversi e attraverso rapsodi casuali oppure coscienti, ciò che alla fine rimarrà dell’umana esperienza e dell’umano errare. A dispetto dei palazzi della cultura “alta” dove tutto è via via classificato, canonizzato e definitivamente imbalsamato.

Ed è poi ancora un male interpretato laicismo di stampo perbenista e borghese che vede nella citazione religiosa soltanto un elemento di arretratezza ed ignoranza senza saper coglie invece la potenza del discorso figlio di secoli di rielaborazioni orali, in cui tutti i problemi dell’individuo e della specie sembrano essere già stati elaborati e rielaborati più volte. Magari senza l’aiuto della penna, del computer o dell’istituto universitario e degli specialisti che ne sono la malferma ma autoritaria espressione.

Ed è altrettanto il prodotto di un razionalismo portato all’eccesso, e conservativo quanto il buio che voleva inizialmente combattere, l’incapacità di cogliere il fatto che dentro a quelle parole antiche sia racchiusa la capacità di donare la speranza, di suscitare la rivolta oppure di consolare la sconfitta e la miseria, che non è sempre e soltanto economica.

Soltanto per questa via si può realmente avvicinare Dylan, cercare di comprendere il suo uso delle citazioni, il suo modificare sempre ciò che il pubblico si aspetta come dato una volta per tutte, come ancora ha fatto nel primo dei tre concerti tenuti a Roma ad inizio aprile (qui). Solo così si può comprenderne ad un tempo la genialità, la poetica e l’arte come l’opera ricca e profonda di Renato Giovannoli ci stimola a fare.


  1. Si tratta dell’album Christmas In The Heart del 2009  

  2. Per meglio comprendere questo basterebbe che ogni lettore di questo articolo potesse rileggerlo nella sua forma originale e nelle dieci diverse versioni che hanno preceduto questa stesura definitiva (?), osservando come ogni minima variazione di termini o periodi possa portare il lettore stesso a recepirne il senso in maniera diversa, sia in positivo che in negativo.  

]]>
Che cos’è una canzone di protesta? https://www.carmillaonline.com/2018/03/15/cose-canzone-protesta/ Wed, 14 Mar 2018 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44055 di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza (caratterizzata spesso dall’immediatezza dell’evento e dall’oralità) che per i secoli precedenti è andata perduta. Fatti salvi i casi in cui una mano benevola abbia trascritto la canzone o il motivo oppure i casi in cui questi siano stati tramandati mnemonicamente di generazione in generazione e di terra in terra.

Da questo punto di vista la musica popolare prodotta negli Stati Uniti è stata forse la più fortunata poiché non solo ha raccolto l’eredità musicale di decine di etnie diverse, ma le ha viste anche spesso registrate sul campo da autentici fondatori della ricerca sulla popular music e, di fatto, della storia orale quali John e Alan Lomax, Sidney Robertson, Helene Sratman Thomas fino al più “recente” Art Rosenbaum.1

A tutto ciò l’industria discografica del XX secolo, sviluppatasi enormemente proprio negli USA fin dagli anni dei primi grammofoni, ha contribuito con una collezione infinita di suoni e canzoni che, pur allineandosi spesso ai canoni più commerciali, hanno ulteriormente arricchito quel patrimonio. Finendo anche col diventare uno degli archivi più preziosi dell’immaginario collettivo, sociale e giovanile, di un intero secolo. Anche se, va qui ricordato, il mercato degli spartiti sviluppatosi nel corso dell’Ottocento aveva già contribuito al mantenimento della memoria della cultura popolare o, come sarebbe stata poi in seguito spesso chiamata e confusa, di massa.

Matteo Ceschi, storico, saggista e fotografo milanese, che collabora da anni con diverse riviste musicali e ha pubblicato numerosi saggi dedicati alla controcultura statunitense, esplora uno degli infiniti aspetti possibili della popular music e indaga le vie e le modalità attraverso le quali una canzone entra nell’immaginario collettivo come espressione condivisa di un determinato momento storico o politico e diventa manifesto, strumento e definizione dell’azione collettiva contraria all’establishment economico, culturale, razziale e militare dominante. Ovvero come una canzone diventa “canzone di protesta”.

Per fare ciò l’autore sceglie tre canzoni più volte riprese nel contesto sociale e discografico, anche a distanza di generazioni: This Land Is Your Land di Woody Guthrie, Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e Kick Out the Jams degli MC5, questi ultimi autentici guerriglieri del rock di Detroit degli anni Sessanta e Settanta. Tre espressioni musicali prodotte originariamente in contesti, da autori e con stili diversi, ma che nel tempo hanno finito con l’essere accomunate nel canone della protesta.

Tra la canzone di Woody Guthrie la cui politicizzazione è sempre stata estremamente evidente, a partire dalla scritta sulla chitarra che recitava “Questa è una macchina per uccidere i fascisti”, e la canzone di Dylan che derivava da uno spiritual che risaliva alla seconda metà dell’Ottocento e che il folksinger originario di Duluth era solito inserire nelle sue prime esibizioni newyorkesi2 oppure lo scatenato brano inciso dai Motor City Five nel 1968 corrono non solo anni, ma epoche dal punto di vista del gusto e dello stile musicale di esecuzione. Ma tutti e tre hanno finito col condividere un destino simile, quello di essere interpretati all’epoca e in seguito dalle generazioni successive come bandiere della lotta: dal racconto dei migranti impoveriti dopo le tempeste di polvere e al grande crisi degli anni Trenta, ai movimenti per l’uguaglianza e per i diritti degli afro-americani dei primi anni Sessanta, fino alla rabbia giovanile bianca delle rivolte urbane e universitarie degli anni Settanta e poi ancora dei movimenti succedutisi contro la guerra in Vietnam, contro quella in Irak fino, in alcuni casi, a Occupy Wall Street.

Come tale fenomeno sia stato possibile è ciò che l’autore riesce a spiegare nel suo sintetico ed efficace testo.
Per riuscire nel suo scopo Ceschi individua tre elementi fondamentali destinati a trasformare una semplice canzone, per quanto folk, in un inno della protesta.
Il primo consiste nel fatto che la canzone destinata a diventare simbolica deve nascere, come opera d’arte che si rispetti, da una sensibilità autoriale capace di leggere le paure e le inquietudini della propria epoca di appartenenza ed espressione.

“Un secondo aspetto, non meno importante della sensibilità dell’artista alle correnti della realtà sociale e politica che lo circonda, permette di includere nella categoria delle canzoni di protesta una maggiore varietà di brani: va cioè ammessa la possibilità che l’artista non senta e non nutra un’affiliazione particolare a uno specifico movimento politico o partito in attività e non abbia quindi l’intenzione soggettiva di essere un portavoce. Questo è stato particolarmente vero nella storia degli Stati Uniti, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, e può essere fonte di equivoci per il pubblico europeo, anche se da questa parte dell’Oceano qualche caso di questo tipo c’è stato. La militanza […] non dipende dall’adesione a forme di protesta strutturate sul territorio, ma può scaturire dalla presa di coscienza del singolo che, affidandosi a quel common sense che da Thomas Paine in poi ha fatto da pietra angolare alla sensibilità politica americana, aderisce ad alcune istanze sociali e si sente in dovere di denunciare e rendere pubblici alcuni fatti.
Con ogni evidenza, la posizione privilegiata dell’artista quale “testimone e megafono dei tempi”, e la lingua universale di cui è dotata la musica […] facilitano enormemente la veicolazione del messaggio e la sua diffusione anche presso l’ascoltatore casuale.”3

Il terzo fattore, a far sì che una folk song sia immediatamente recepita come canzone di protesta, è costituito dalla

“presenza e il ruolo attivo del pubblico – ascolto-decifrazione-elaborazione-diffusione – che costituiscono il più importante requisito per definire una canzone di protesta, oltre che per decretarne il successo. Diversamente da quanto accade per un discorso di un oratore, con la musica la «retorica della protesta» arriva al pubblico anche senza che questo sia specificamente preparato o predisposto a riceverne il messaggio. Tutto, grazie al supporto fondamentale della melodia e del ritmo, è ancora di più affidato alla sfera emotiva dell’individuo. In un clima di progressiva e spontanea complicità dettato dal momento e, è bene ripetere, quasi mai predi¬sposto, cantante e platea possono quindi scoprire inaspettate affinità e trasformare un sentimento personale in una più inclusiva esperienza collettiva.”4

Una volta accumulati questi tre fattori la canzone entra nel “mito” o nel “canone” protestatario destinandola a successive interpretazioni ed utilizzi. Ceschi, oltre che delle tre canzoni sopra elencate, fa l’esempio di altri brani musicali entrati nell’immaginario musicale e culturale non solo statunitense come Morning Dew di Bonnie Dobson, nata dalla paura suscitata nell’autrice dal possibile conflitto nucleare tra USA e URSS nel 1962 e poi diventata attraverso i Grateful Dead o l’interpretazione datane dal Jeff Beck Group un simbolo della protesta contro l’arruolamento dei giovani per la guerra in Vietnam. Oppure The Star Spangled Banner che da orgoglioso inno degli Stati Uniti fu rovesciato da Jimi Hendrix nel suo esatto contrario, attraverso un processo di distorsione e feedback chitarristico che avrebbe immediatamente ricordato ai suoi ascoltatori i devastanti bombardamenti e i combattimenti sanguinosi di qualsiasi guerra dal Vietnam in poi.

L’interazione tra pubblico, momento socio-politico e creatività dell’artista diventa un nodo fondamentale della costruzione del simbolo e della sua successiva trasmissione anche se, e non è male ricordarlo, è la vastità, la durata o la portata dell’evento che definisce la crisi o la rottura sociale a determinare il destino di una canzone di protesta o rivoluzionaria.
In tal senso si potrebbe affermare in teoria che può esistere una rivoluzione o una rivolta anche senza una musica che l’accompagni, ma che non può esistere una canzone rivoluzionaria o di protesta senza l’evento traumatico di una rottura socio-politica e/o rivoluzionaria.

Facendo un salto più indietro nel tempo può essere, a questo riguardo, interessante ricordare che il primo inno rivoluzionario francese, il Ça ira!, nacque da un brano composto nel 1786 da Bécourt, violinista del Teatro Beaujolais, e intitolato Le Carillon National, la cui melodia divenne una delle preferite della regina Maria Antonietta. Le parole rivoluzionarie furono aggiunte da un soldato, tale Ladré, e ispirate da un tic verbale di Benjamin Franklin che nel corso della Guerra di Indipendenza americana fosse solito ripetere ossessivamente: “Ça ira! Ça ira!” soltanto per farsi coraggio.
L’ironia della Storia fece poi così che la giovane regina mentre veniva condotta al patibolo, il 16 ottobre 1793, dovesse sentire cantare dalla folla inferocita proprio il refrain della sua amata canzone.

Era stato però il 14 luglio del 1790, durante un’improvvisazione alla Fête de la Federation, che erano stati aggiunti i versi che l’avrebbero resa poi famosa ed espressiva della rabbia popolare: Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates à la lanterne / Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates, on les pendra! 5 E queste ultime parole, probabilmente, erano state ispirate da un evento “da strada” parigino, quando Foullon de Doué, un funzionario del ministero della Guerra, era stato catturato dalla folla.

“La Bastiglia è appena caduta, e per le strade si inseguono voci su cospirazioni tese ad affamare il popolo e a reprimere l’insurrezione. Si dice che Foullon sia coinvolto in uno di questi complotti. I rivoltosi lo atterrano, lo trascinano fino a un lampione nei pressi dell’Hôtel de Ville e lo impiccano a quella forca improvvisata. Per un attimo resta sospeso a mezz’aria, poi la corda si rompe. Lo appendono di nuovo. Di nuovo la corda si spezza. Al terzo tentativo, finalmente, muore soffocato. Una mano agguanta brutalmente il cadavere, stacca la testa dal collo, apre le mandibole e riempie la bocca di paglia.. «Che mangino fieno», si vuole abbia esclamato Foullon, riecheggiando il famoso «Mangino brioches» attribuito alla regina. Lo ha veramente detto? Non importa.Ora la sua testa, portata in trionfo per le strade in cima ad una picca, urla ai quattro venti quel messaggio”. 6

Il successivo inno, la Marsigliese, divenuto poi inno nazionale, è ben più retorico ed attentamente formulato per invitare i cittadini alla difesa della Patria e questo percorso, tra un inno e l’altro, credo sia estremamente utile per illustrare, anche per periodi e contesti diversi quali quelli di cui parla il libro di Ceschi, la differenza tra il prodotto di un momento storico specifico, della spontaneità dell’azione e della percezione sociale e della creatività individuale e artistica che contribuiscono alla definizione e diffusione di una canzone di protesta o di un inno rivoluzionario nel tempo e nella cultura e un prodotto artificiale, istituzionalizzato e sostanzialmente limitante per la sensibilità collettiva realizzato in seguito oppure con specifiche finalità retoriche e politiche.

Nel corso della seconda metà del ‘900 però, proprio per l’importanza assunta dalla musica registrata e dall’industria discografica che comunque l’ha raccolta e diffusa, la ripresa della canzone di protesta è stata anticipata da una rinvigorita produzione di folk music seguita al grande successo internazionale di un brano come Tom Dooley,7 ripreso ed eseguito dal Kingston Trio nel 1958 e successivamente da molti altri artisti e gruppi folk, che scatenò negli ambienti discografici americani un’autentica caccia al cantautore o all’esecutore di folk song e che a sua volta segnò la svolta del folk revival del Greenwich Village in cui finirono col precipitarsi giovani artisti squattrinati da ogni parte degli States e dal Canada. Finendo col costituire un “quarto” e inaspettato possibile fattore per la messa in moto del processo creativo e percettivo cui il movimento per i diritti civili avrebbe dato la spinta definitiva.

E questo rivela come la strada intrapresa dall’autore, supportata anche da interviste originali a personaggi del calibro di Wayne Kramer (chitarrista degli MC5), Joe McDonald (meglio conosciuto come Country Joe) e Jimmy Collier (allievo di Pete Seeger e Martin Luther King), potrebbe rivelarsi ancora estremamente ricca e stimolante per l’ulteriore sviluppo degli studi non solo sulla popular music, ma anche sull’immaginario collettivo nel suo insieme.


  1. Si vedano, soltanto per citarne alcuni, a proposito della varietà delle culture e delle etnie che hanno contribuito alla formazione del patrimonio musicale statunitense: James P. Leary, FOLKSONGS OF ANOTHER AMERICA. Field recordings from the Upper Midwest, 1937 – 1946 (con allegati 5 cd e un DVD), Dust to Digital 2015; Mariano De Simone, Benvenuti in America! Musica e minoranze etniche nel sud degli Stati Uniti, L’Epos 2004 e, ancora, M. De Simone, “Doo-dah! Doo-dah!” Musica e musicisti nell’America dell’Ottocento. Afro-americani e Minstrel Show. Popular music e tradizione irlandese. Brass bands e canzoni della Guerra Civile, Arcana 2002 . Va qui aggiunto che Mariano De Simone è il ricercatore che, insieme a Robbie Robertson, ha contribuito alla realizzazione della colonna sonora del film Gangs of New York di Martin Scorsese, uno dei tentativi più interessanti e riusciti di ricostruzione dell’immenso melting pot musicale e culturale da cui è scaturita la musica popolare statunitense.  

  2. Si tratta di Many Thousand Go trascritto con il numero 35 da Thomas Wentworth Higginson, pioniere della ricerca musicale sul campo e colonnello del 1° Reggimento dei South Carolina Volunteers (il primo contingente dell’U.S.Army composto esclusivamente da soldati afro-americani), che lo raccolse insieme ad altri sulla rivista “Atlantic Monthly” nel 1867 e che Bob Dylan eseguì e incise , quasi con le stesse parole, nel 1962 con il titolo No More Auction Block. Dal quale estrasse poi la melodia di Blowin’ In The Wind. Si veda. Alberto Crespi, Quante strade. Bob Dylan e il mezzo secolo di Blowin’ In The Wind, Arcana 2013  

  3. Matteo Ceschi, Un’altra musica, pag. 19  

  4. Ceschi, op.cit. pp. 19-20  

  5. Arriverà, arriverà, arriverà il momento in cui gli aristocratici saranno impiccati ai lampioni!  

  6. Robert Darnton, Il bacio di Lamourette, pp. 11-12, Adelphi 1994  

  7. Una canzone probabilmente composta ed eseguita negli anni successivi al 1865, che narra della morte per impiccagione di un soldato accusato dell’assassinio della sua fidanzata dopo il ritorno dalla Guerra Civile  

]]>