oppressione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 21:07:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 God save the drag queen! La cultura woke tra antagonismo e neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2024/09/17/god-save-the-drag-queen-la-cultura-woke-tra-antagonismo-e-neoliberismo/ Mon, 16 Sep 2024 22:10:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84247 di Fabio Ciabatti

Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.

C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.

C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo decisamente banalizzante, gli elettori votano soprattutto con il portafoglio. Perciò non rimane che evocare un sbiadito simulacro della classe per poi farlo agitare con cura da due personaggi secondari dello spettacolo elettorale.
Ed ecco spuntare dal cilindro Tim Walz, particolarmente gradito ai sindacati americani. A dirla tutta, però, J.D. Vance sembra più adatto a invocare il fantasma dell’America lavoratrice: nella sua famosa autobiografia, Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, egli rivendica apertamente le sue origini popolari, ovviamente dal punto di vista di chi ce l’ha fatta a diventare un uomo di successo. Con l’assumere su di sé il connotato dispregiativo della parola hillbilly (nella sua accezione negativa, il termine significa cafone, zoticone ecc.) l’autore vuole evidentemente marcare la propria distanza dall’élite dominante. Insomma ci troviamo nel bel mezzo di un guazzabuglio postmoderno con i repubblicani che sembrano più a loro agio nell’evocare, certamente a modo loro, temi legati all’appartenenza di classe rispetto ai democratici. Questi ultimi, invece, attraverso la loro candidata alla presidenza, una donna di colore di origini asiatiche, hanno il physique du rôle per impersonare le questioni legate alle cosiddette identity politics, nonostante si guardino bene dal farne un tema centrale della propaganda elettorale.

Tutto ciò non accade per caso, ma è il frutto di una trasformazione della cultura di sinistra, in ambito politico e accademico, compresa quella che si vorrebbe radicale. Come ci spiega Mimmo Cangiano nel suo Guerre culturali e neoliberismo (pubblicato all’inizio dell’anno, prima delle vicende elettorali americane cui ho fatto cenno), “Già ampiamente demonizzata dal reaganismo e dal thatcherismo come identità da cui smarcarsi a ogni costo, la classe lavoratrice è diventata una identity che la storia ha posto dal lato sbagliato della barricata”.1 Ridurre la classe a un’identity significa che nella sua definizione l’“Essere” ha preso il sopravvento sul “Fare”: la considerazione dello status culturale ha sovrastato gli aspetti legati all’attività lavorativa in senso proprio che sono di natura relazionale in quanto determinati nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. Giudicata su basi culturali, la classe lavoratrice può essere considerata “retrograda, intollerante, pronta a votare Trump (o Giorgia Meloni) sulla base del proprio privilegio di genere o di razza”.2 La stessa espressione working class “è praticamente scomparsa dal dizionario politico, in ambito culturale è invece cresciuto esponenzialmente il suo utilizzo accompagnato da aggettivi identitari (white working class, male working class ecc.)”.3
Cangiano, professore di Critica letteraria e letterature comparate all’università Ca’ Foscari di Venezia, ripercorre la storia delle idee che hanno portato a questa trasformazione partendo dal post-strutturalismo francese, passando per la sua reinterpretazione americana da parte della cosiddetta French Theory, per continuare con i Cultural studies inglesi e americani. Una storia che prosegue e si ramifica ulteriormente, arrivando fino alla cosiddetta woke culture (in breve la woke), espressione che indica un milieu politico fortemente impegnato nella lotta contro le discriminazioni sociali come il razzismo, il sessismo e la negazione dei diritti LGBTQIA+ (anche se la stessa espressione è oramai utilizzata frequentemente in senso dispregiativo nel dibattito americano). In questa sede non ci soffermeremo su questa genealogia preferendo seguire altre tracce presenti nel testo nel tentativo di dare conto della duplice prospettiva con cui Cangiano affronta il suo oggetto di studio: 

Ciò che […] vorrei tentare di fare qui è appunto comprendere le ragioni per cui la woke potrebbe al tempo stesso essere tanto una cultura perfettamente sintonica con le attuali modalità operative del mercato (come volgarmente credono i rosso-bruni) quanto, se portata fuori dall’ambito culturalistico, un effettivo e potente strumento di lotta anti-capitalista.4

Partiamo dalla considerazione che nelle identity politics è 

la condizione di vittima a dettare le ragioni della scelta del soggetto rivoluzionario e/o resistente. Già in questo caso, l’allontanamento dal marxismo non potrebbe essere più netto. In Marx, infatti, la classe non è centrale perché oppressa, perché vittima, ma perché sul suo essere forza lavoro vendibile, cuore della produzione capitalista, si basa l’intero sistema economico.5

La prima cosa da sottolineare, insieme all’autore, è che l’oppressione viene disgiunta dallo sfruttamento, cioè dalle sue radici economico-materiali. In questa logica, “il capitalismo passa sempre più a essere inteso come forza anzitutto etico-culturale”6 piuttosto che un sistema connotato da rapporti sociali di produzione finalizzati prioritariamente alla ricerca incessante del profitto. Al vertice del sistema di dominio vi sarebbero le gerarchie del sapere-potere in grado di riprodurre sistematicamente meccanismi di discriminazione e oppressione come il razzismo e il sessismo. Il tutto porta a una visione culturalista che Cangiano interpreta come un sintomo legato alla percezione dell’immodificabilità del sistema economico. Le guerre culturali, sintetizziamo, diventano un succedaneo della guerra di classe. Solo per fare un esempio, la lotta contro il razzismo non punta ad abolire le forme di sfruttamento che su di esso fanno leva, ma, con spirito sostanzialmente riformista, sull’educazione antirazzista. Insomma i rapporti economici vengono depoliticizzati proprio mentre, giustamente, si politicizzano ambiti sempre più ampi delle relazioni sociali.
Una volta naturalizzato il sistema economico ai soggetti oppressi non resta che chiedere un riconoscimento a partire da “chi sono”, cioè a partire dalla loro sofferenza. Tutto ciò rischia però di risolversi in “una lotta infinita fra tribù che, perso il comune riferimento al sistema economico, o si auto-accusano o riescono a compattarsi solo mediante l’utilizzo di strumenti normativi come il politically correct”.7 Il risultato è la balcanizzazione del fronte dei subalterni. “Si crea infatti un vero e proprio meccanismo concorrenziale, teso ad accaparrarsi quella merce che è la penosa benevolenza verso la ‘vittima’ concessa dalla società”.8 Ciascuna identità subalterna, rispetto a tutte le altre, perde lo status di “compagno” per acquisire, al massimo, quello di “alleato”. Il diritto dell’individuo alla propria particolare separatezza e cioè alle proprie molteplici specificità identitarie è, infatti, “uno dei fondamenti di quella coesione senza-coesione” tipica delle società occidentali contemporanee.

In realtà, la frammentazione dei soggetti individuali e politici può essere letta in due modi molto diversi tra loro, sostiene Cangiano. Da un lato come un avanzamento etico-culturale contraddistinto dal superamento delle astrazioni universalistiche. Dall’altra, è questa l’opzione dell’autore, come sintomo di una situazione storicamente determinata che è il risultato, allo stesso tempo, 

della frammentazione competitiva indotta dal mercato neoliberale e di quella ipertrofia del simbolico e del sovra-culturale che si crea nel momento in cui in Occidente decade, insieme alla produzione di tipo fordista, anche l’egemonia a sinistra della classe operaia.9

In tutto ciò, e veniamo qui ad un altro punto centrale dell’argomentazione dell’autore, la cultura capitalistica viene letta in modo unilaterale, sostanzialmente equiparata a un meccanismo monologico e universalizzante che tende a negare e normalizzare tutto ciò che è molteplice, fluido, marginale, ibrido, diasporico, nomadico ecc. Ma le cose sono ben più complesse. 

L’universalismo capitalista coincide cioè con lo sviluppo del “particolarismo” (universale e particolare, monologico e molteplice sono coesistenti nel capitalismo), vale a dire con una società in cui gli individui, alieni gli uni agli altri, strumenti gli uni degli altri (merce gli uni degli altri), si relazionano sulla base dei propri interessi egoistici (“particolari”) e si ricompattano solo mediante le astrazioni dell’ideologia e la fedeltà “obbligata” alle norme prammatiche del modo di produzione e consumo. È per questa ragione che i capitalisti possono poi mettere a profitto sia l’universalismo che la differenza: perché l’universalismo capitalista si fonda su ostilità e divisioni (di classe, di genere, di razza, alienazione dai propri simili, competizione fra gli stessi capitalisti ecc.) che vanno continuamente tanto rinfocolate quanto standardizzate attraverso la falsa coscienza.10

Per dirla con i termini lacaniani richiamati da Cangiano, la cultura del capitalismo viene appiattita sul “discorso del padrone”. Questo impone repressione, astinenza, risparmio ecc. per ridislocare le energie così immagazzinate verso il lavoro e l’accumulazione. Ma proprio perché il capitalismo non è una riducibile a un’istanza culturale, esso dal punto di vista ideologico può giocare su più tavoli e farsi portatore, come accaduto soprattutto negli anni ruggenti della globalizzazione, anche del lacaniano “discorso del capitalista”, quello che esprime l’imperativo consumistico a un godimento senza fine che travalica ogni limite e non conosce alcuna misura. Proprio per queste sue caratteristiche il godimento valorizza il molteplice, il fluido, l’ibrido ecc., tutto ciò che è fuori norma, cioè quegli elementi che il progressismo contemporaneo considera naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti. E i paradossi non finiscono qui. In ambito etico-politico, in aperto contrasto con il suo relativismo epistemologico, la cultura woke finisce affermare una sorta di “essenzialismo di ritorno” perché sostiene una “rigida e binaria separazione fra bene (ibrido, nomade, non-normato) e male (univoco, monologico, universalista)”.11

Riassumendo, il soggetto resistente viene identificato nella sua qualità di vittima dell’oppressione. L’oppressione, a sua volta, è disgiunta dallo sfruttamento e di conseguenza il capitalismo viene culturalizzato. La cultura capitalistica, però, viene unilateralmente identificata con il discorso del padrone. Tutti gli elementi che si oppongono a quest’ultimo vengono considerati come naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti, ignorando come questi stessi elementi possano essere funzionali al discorso del capitalista.
Fin qui abbiamo visto perché la woke può rivelarsi una cultura in sintonia con le attuali modalità operative del mercato. Ora bisogna vedere quale sono gli elementi che, almeno potenzialmente, la rendono funzionale a un possibile discorso antagonista. Questa considerazione di tipo dialettico distingue nettamente le critiche di Cangiano dalla becera ostilità del rosso-brunismo. Quest’ultimo, infatti, denuncia la complicità e l’omologia della woke con il capitalismo contemporaneo che, però, viene completamente appiattito sul discorso del capitalista ignorando del tutto come esso possa esprimersi anche attraverso il discorso del padrone. Di fatto i rosso bruni adottano una posizione che, nella sua unilateralità, è uguale e contraria a quella dell’ideologia che vorrebbero criticare.

Tornando alle potenzialità antagonistiche della woke, occorre partire da alcune considerazioni sulla struttura sociale del mondo contemporaneo. Oggi, sostiene Cangiano,

non abbiamo perso né la classe né il soggetto rivoluzionario; ciò che abbiamo perso, almeno in Occidente (e dipende ovviamente dalle trasformazioni materiali interne al capitalismo), è il soggetto egemonico (l’operaio industriale) all’interno della classe. Il che ovviamente ci mette in una posizione difficile, perché dobbiamo ora operare con tutta una serie di soggetti e gruppi sociali la cui relazione col modo produttivo, il cui essere classe, è meno evidente.12

Oggi risulta chiaro che non è più possibile pensare alla classe come un tutto omogeneo perchè genere, razza ecc. influiscono, anche se in modi storicamente mutevoli, sia sui rapporti lavorativi sia sui processi di soggettivazione. Attraverso le battaglie delle cosiddette minoranze, le diverse identity sono state funzionali a individuare una serie di specifiche tipologie di oppressione, permettendo l’articolazione di un linguaggio rivendicativo. In questo contesto, sostiene Cangiano, una woke in grado di riconnettersi materialisticamente al modo in cui il capitale opera

potrebbe effettivamente porsi come strumento fondamentale di lotta, proprio nel suo riconnettere al centro della classe (che poi vuol dire al centro della società vista come un intero) tutte quelle soggettività sociali che prima vi avevano operato in funzione solo in apparenza più laterale.13

In questo percorso si può recuperare il concetto di intersezionalità, a patto di ripensarlo “materialisticamente, cioè a partire dalla relazione che intratteniamo con produzione e mercato, non dalla condizione di vittima”.14 La relazione della classe lavoratrice col modo produttivo rimane secondo l’autore il luogo dove le molteplici forme di oppressione si intersecano connettendosi al piano dello sfruttamento.  Essa è anche il luogo dove i diversi gruppi subalterni, seppure diversamente oppressi e diversamente sfruttati, possono riconoscere che la logica del sistema cui tutti quanti soggiacciono è fondata sull’estrazione di plusvalore dalla forza lavoro, sullo sfruttamento. Solo riconoscendo questa logica è possibile articolare un’azione unitaria coinvolgendo le diverse soggettività che formano la classe. La coscienza di essere classe (e la conseguente lotta di classe), insomma, è ciò che consente ai soggetti oppressi di scoprire la loro condizione storico-oggettiva, cioè la loro  posizione nella totalità delle relazioni sociali. 

Tornare a parlare di totalità significa anche contrastare il particolarismo e la tribalizzazione degli oppressi riprendendo in mano l’universalismo inteso non come un qualcosa di presupposto, ma come un campo di battaglia:

non solo di battaglia per l’egemonia, ma anche per l’eliminazione di quelle contraddizioni fra gruppi sociali storicamente create dal modo di produzione capitalista. E non si tratta dunque di universalismo astratto (quello tipico del potere), ma della lotta per un universalismo concreto che è quello, a venire, della società non divisa.15

Al contrario, dove

l’universalismo rischia di ricomparire come monolite presupposto è ovviamente nel rosso-brunismo (che vede la classe come un vincolo comunitario intero e senza linee di divisione interne), ma anche in molteplici fenomeni correlati alle culture wars: nell’assolutismo identitario che caratterizza le identity politics; nello spostamento del concetto di comunità, ancora indiviso, nello spazio coloniale o ex coloniale.16

In conclusione, le necessarie critiche alla cultura woke non ci devono far dimenticare che 

Negli ultimi quarant’anni molte nuove questioni sono state poste al centro del dibattito, e da queste non si tornerà indietro. Si tratta di “materializzarle”, cioè di sottrarle all’orizzonte liberale e culturalista in cui in larga parte tendono a esprimersi. È impossibile farlo senza porre la questione di un’alternativa, cioè senza la domanda di un modo di vivere che chiuda davvero con sfruttamento e oppressione (oltre che con la loro dialettica).17

Da parte mia aggiungo solo che i funesti orizzonti bellici in cui siamo oramai immersi non fanno che approfondire le contraddizioni di cui il testo tratta. Da una parte la guerra richiede un inasprimento del discorso del padrone, funzionale alla repressione di ogni alterità e alla creazione di un corpo sociale omogeneo pronto all’estremo sacrificio; dall’altra lo scontro militare tende a presentarsi come scontro di civiltà e la cultura occidentale, per affermare la sua superiorità sul resto del mondo, difficilmente può fare a meno del discorso del capitalista. 
In questo contesto la cultura woke può certamente rappresentare un fattore di resistenza contro i rigurgiti di dio, patria e famiglia. Allo stesso tempo, però, può fornire armi per l’arsenale ideologico occidentale come accade nel caso dell’omonazionalismo in cui i diritti di gay, lesbiche, trans ecc, diventano ingredienti di un razzismo soprattutto anti-islamico. Insomma, le guerre culturali possono fornire ulteriore polvere da sparo per caricare le armi delle guerre di civiltà. Anche per questo è sempre più urgente riconnettere oppressione e sfruttamento, perché se non cogliamo le radici capitalistiche della guerra, rischiamo di farci arruolare in uno scontro ideologico senza né capo né coda dal punto di vista di una politica di emancipazione. Uno scontro in cui, contro il patriarcato grande russo, fantomatici soldati gay ucraini possono combattere fianco a fianco con i nazisti del battaglione Azov, attenti lettori della kantiana Per la pace perpetuaGod save the drag queen!


  1. M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, p. 38, ed. kindle. 

  2. Ivi, p. 37. 

  3. Ivi, p. 38. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, p. 21. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Ivi, p. 37. 

  8. Ivi, p. 36. 

  9. Ivi, p. 40. 

  10. Ibidem. 

  11. Ivi, p. 50. 

  12. Ivi, p. 169. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 177 

  15. Ivi, p. 168. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 180. 

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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Kim, prima che l’ipocrisia soffochi il mondo https://www.carmillaonline.com/2021/09/29/kim-prima-che-lipocrisia-sommerga-il-mondo/ Wed, 29 Sep 2021 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68366 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi. È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia. (Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi.
È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia.
(Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. Certamente l’opera di Rudyard Kipling lo è, ma è anche molto di più: un magnifico romanzo di formazione, un grande affresco storico e antropologico sull’India coloniale e i giochi delle grandi potenze imperialistiche che si svolsero ai suoi confini e al suo interno. Intorno ai personaggi principali, infatti, si sovrappongono, talvolta nell’ombra e talaltra alla luce del sole, i maneggi di spie e avventurieri che incrociano, non sempre solo virtualmente, le loro armi nel tentativo di difendere o indebolire il dominio britannico sul subcontinente indiano e le sue propaggini centro asiatiche.

Ora, prima che sia costituito qualche nuovo ministero da Minculpop perbenista e politically correct destinato a proibire la circolazione e la lettura di un libro scritto da un autore “colonialista”, varrebbe la pena di scoprire quanti di quei personaggi (il curatore del museo di Lahore, il vecchi lama tibetano, i rappresentanti dei servizi segreti inglesi, le spie francesi al soldo dello zar, commercianti e ladri di cavalli, anziane donne indiane autoritarie ma benevole e molti altri ancora) avessero radici e riferimenti in personaggi reali, oltre che in fatti e vicende appartenenti alla dinamica del Grande Gioco ovvero all’infinito sotterraneo conflitto che vide coinvolte, tra l’inizio del XIX secolo e la prima metà del XX secolo Russia e Gran Bretagna per il controllo del grande nulla costituito dall’Asia centrale e dalle aree confinanti con l’India, il Pakistan e il Tibet attuali.

Vicende interessanti soprattutto per chi, ancora oggi e con attori parzialmente cambiati (USA e Cina oltre che la Russia di Putin), si interessi alle vicende centro-asiatiche, e afghane in particolare. Che, al di là del miserrimo e ipocrita discorso liberal sui diritti umani e il politically correct, continuano a sgranare il loro rosario di conflitti, voltafaccia, tradimenti, morti, violenze, contraddizioni, false informazioni, contrasti religiosi e ideologici e, perché no, speranze per le irriducibili popolazioni locali.

Peter Hopkirk, che prima di affermarsi come saggista storico con i volumi che dedicò al Grande Gioco e ai suoi preamboli ed aspetti avventurosi, di cui Sulle tracce di Kim costituì il sesto e ultimo1, fu ufficiale dell’esercito britannico, viaggiatore e reporter per la «Independent Television News», corrispondente da New York per il «Sunday Express» ed in seguito giornalista, per quasi vent’anni, del «Times», cinque come capo reporter e poi come specialista del Medio ed Estremo Oriente (aree che aveva conosciuto personalmente girovagando a lungo tra Russia, Asia Centrale, Caucaso, Cina, India e Pakistan, Iran e Turchia orientale.

Sostenne sempre che ad ispirare questa sua passione fosse stata proprio la lettura del romanzo di Kipling, cui volle dedicare la sua ultima fatica saggistica. Romanzo che, a sua volta, era strettamente ispirato alle vicende famigliari e d’infanzia dello stesso Kipling, visto, ad esempio, come sia facilmente riconoscibile la figura del padre dell’autore nel personaggio del curatore del Museo di Lahore (la Casa delle Meraviglie) che compare nelle prime pagine del romanzo.

Uomo colto, conoscitore delle culture locali, affascinato dall’arte e dal pensiero buddista, in qualche modo sembra rivelare il cuore dell’attenzione di Kipling per il subcontinente e le sue genti, anche se lo stesso autore fu forse l’inventore del termine Grande Gioco per definire lo scontro tra potenze per il suo controllo e possesso e, ancor peggio, il teorizzatore del white man burden (il fardello dell’uomo bianco) con cui l’Occidente, compresa la sua componente socialdemocratica e socialista, spesso guardò a quello e ad altri nell’intento di giustificare come missione (non si parla forse ancora oggi di missioni di pace e di soccorso oppure di polizia quando si tratta di operare in aree poste al di fuori dei confini ufficiai dell’Occidente?) l’opera predatoria messa in atto di popoli e continenti non bianchi.

Eppure, eppure…
Basterebbe scorrere le pagine di Kim, con un minimo di attenzione, per cogliere il realismo e il rispetto con cui vengono descritti non solo i personaggi principali, ma anche quelli secondari e minori che si incontrano lungo l’interminabile viaggio sulla Grand Trunk Road2 che il giovane protagonista intraprende come servitore, astuto e fedele, di un vecchio lama tibetano intento a visitare, prima di morire, i Quattro Luoghi Sacri e a voler scoprire il fiume da cui tutto ha avuto origine.
Pagine e vicende che, come afferma Hopkirk nel Prologo, hanno colpito non soltanto lui ma tantissimi altri lettori di formazione e convinzioni molte lontane tra loro.

L’indirizzo della mia vita lo devo molto alla lettura da giovane del capolavoro di Kipling. Perché è stato proprio Kim, non riesco neppure a ricordare quanti anni fa, a introdurmi per la prima volta nel mondo intrigante del Grande Gioco. Per l’impressionabile e fantasticante ragazzo di tredici anni qual ero – la stessa età di Kim – le attività misteriose, per non dire torbide, di uomini come il colonnello Creighton, Mahbub Ali e Lurgan Sahib erano davvero roba forte. Dopotutto, si era al tempo in cui la Gran Bretagna governava ancora l’India, e molte altre parti del mondo, per cui quasi tutto pareva possibile.
Ero così stregato da questa mia sbirciata dentro i maneggi del servizio segreto indiano che mi portavo sempre dietro, dovunque andassi, una copia di Kim, anche se tante cose non le avevo capite. Perché Kim, nonostante molti non lo sappiano, non è un libro per ragazzi. E in effetti, all’età di tredici anni, ero ben lontano dal capire di cosa veramente si trattasse dicendo Grande Gioco, «che mai cessa di giorno e di notte». Ciò nonostante, quello che appariva era incredibilmente eccitante, e io anelavo di saperne di più. La ricerca sarebbe durata per tutta la vita, e dura ancora.
Scoprii poi che non ero il solo ad essermi appassionato a Kim. Wilfred Thesiger ci dice che raramente si è messo in viaggio senza una copia di questo libro nella bisaccia, mentre T.S. Eliot lo leggeva a voce alta a sua moglie certe sere, giusto per il piacere di sentire il suo linguaggio. Mark Twain disse che lo leggeva da capo ogni anno […] E io una volta ho sentito dire da Tarik Ali,
quell’ex-fustigatore dell’establishment britannico, che Kim era il libro che amava di più quando stava a Lahore, dove anche lui era cresciuto, come Kim3.

Ma chi volesse vedere nell’opera di Kipling, e nella lettura attenta che ne fa Hopkirk, soltanto un segno del paternalismo occidentale nei confronti dei sottoposti o degli ex-tali, dovrebbe fare i conti anche con l’attenzione che l’autore di Kim pone alla presentazione delle culture e delle arti locali. Ad esempio quando l’Amico del Mondo (uno dei tanti soprannomi assegnati al giovane protagonista) entra con il lama nel museo di Lahore: «Nel salone di ingresso erano esposte le figure più grandi della statuaria greco-buddhista; datarle è impresa da eruditi – opera di artefici anonimi dalle mani impegnate a ritrovare, non senza maestria, il tocco greco misteriosamente trasmesso»4.
Tema che sarai poi ripreso, in un’altra delle sue ricerche, dallo stesso Hopkirk.
La vera base di partenza per la diffusione del buddhismo in Cina, ci spiega infatti l’autore inglese

fu in realtà il regno buddhista di Gandhara situato nella valle di Peshawar, che appartiene oggi al Pakistan nordoccidentale. In questi luoghi si era già realizzata un’altra fusione artistica, tra l’arte buddhista indiana importata dai dominatori Kushan (discendenti degli Yueh-chih) nel I secolo d.C. e l’arte greca, introdotta in quella regione quattro secoli prima da Alessandro il Grande.
Il più rivoluzionario prodotto di questa scuola greco-buddhista, o gandharana, fu la raffigurazione del Buddha in forme umane. Era la prima volta che degli artisti si permettevano di rappresentarlo in questo modo […] I primi viaggiatori occidentali che nell’Ottocento raggiunsero la regione di Gandhara dall’India restarono stupefatti alla vista di quest’arte così differente dalle forme dell’arte religiosa indiana alla quale erano abituati. Nella precipitazione con cui si cercò di ottenere campioni di quell’arte per musei e collezioni, furono inflitti a siti e templi irreparabili danni5.

Metafora di tutti i successivi danni causati dal colonialismo occidentale in India e nelle regioni limitrofe (e già abbondantemente segnalati da Marx ed Engels nei loro scritti sull’India e la Cina6), le descrizioni di Hopkirk (e di Kipling) ci parlano dei tempi lunghi della Storia, degli incontri tra culture e civiltà diverse, segnalandoci, se abbiamo orecchie ed occhi per comprenderlo, che tutto quanto sta avvenendo oggi nell’area centro-asiatica ha una lunga storia pregressa con cui occorrerebbe fare i conti e conoscere nel dettaglio. Magari anche prima di lanciarsi in campagne militari destinate alla sconfitta fin dall’inizio. Proprio come quella occidentale in Afghanistan.

Ora, ed è questo il punto principale di questa riflessione, il vento di revisionismo che percorre il pensiero liberal e una certa sinistra immediatista, che in nome di un loro ipotetico superamento “volontario” intende rimuovere ogni ricordo del passato o dell’attuale regime di differenziazione tra le classi, i generi e gruppi etnici e culturali, rischia di non far altro che nascondere e rimuovere le infinite contraddizioni, passate e attuali, su cui si fonda ogni regime di oppressione di classe, razza e genere.

Il rischio è costituito, infatti, dal fatto che, passato il momento della rivolta generalizzata e “illegale” durante la quale, giustamente, statue e immagini di dittatori, schiavisti e generali vengono bruciate o abbattute, si pensi di cancellare le contraddizioni reali e persistenti con un volontaristico e “legalitario” colpo di spugna ed un mea culpa generalizzato e infingardo. Rintracciabili, soltanto per fare due esempi, tanto in dichiarazioni come quella rilasciata in un tweet dall’attrice americana Rosanna Arquette («Sono dispiaciuta di essere nata bianca e privilegiata, Mi disgusta. Mi vergogno molto»), quanto nell’abito indossato dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez in occasione di un (ricco) meeting di gala per la raccolta fondi (Met Gala), considerato l’evento mondano più importante di New York, una serata di “beneficenza” da 30mila dollari a biglietto organizzata dalla direttrice di «Vogue» Anna Wintour. Abito di alta sartoria sul quale era scritto provocatoriamente (?), con grandi lettere rosse, Tax the rich (tassate i ricchi).

La rivolta e la protesta vengono così sostituite dagli atti di contrizione, cui già spesso ci hanno abituato i social7, oppure dalla loro formale spettacolarizzazione mediatica attraverso logo e frasi ad effetto.
Una furbesca operazione di disarmo delle lotte che attraverso l’eliminazione di film, opere letterarie ed altro8 non fa altro che prolungare l’esistenza di violenza, oppressione e ingiustizia semplicemente nascondendo, nel più borghese ed opportunista dei modi, la polvere sotto il tappeto del salotto buono.
La finta intolleranza, che non passa attraverso la lotta aperta e dichiarata, finisce infatti col creare nuova tolleranza nei confronti delle ingiustizie, ben più profonde e radicate che nelle pagine di un romanzo o tra le immagini di un film (dove quasi sempre sono spesso più evidenti proprio perché date per scontate).

Noi, che crediamo che l’attuale modo di produzione abbia bisogno di ben altre iniziative per poter essere negato e rovesciato, continueremo a leggere con attenzione le opere che di tali violenze ed ingiustizie ci parlano, anche e forse soprattutto indirettamente, a distanza di decenni o di secoli da quelle stesse. Per questo vale ancora la pena di leggere la dettagliata ricostruzione storica di Hopkirk e lo stesso romanzo da cui ha tratto ispirazione, prima che nelle biblioteche, solo per fare un’ipotesi banale, siano soltanto più rintracciabili le opere di Elena Ferrante (guarda caso, quest’ultima, autrice prediletta da Hillary Clinton).

Era seduto, in barba alle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggiava il vecchio Ajaib-gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore. Chi detiene Zam-Zammah, il «drago sputafuoco», tiene il Punjab, e quel gran pezzo di bronzo verde è sempre stato la preda più ambita del conquistatore.
A parziale giustificazione di Kim – che aveva cacciato il figlio di Lala Dinanath giù dall’affusto – c’era il fatto che gli inglesi tenevano il Punjab, e Kim era inglese. Pur essendo un tizzo nero almeno quanto un indigeno; pur parlando di preferenza il vernacolo, e la lingua madre con un’incerta, zoppicante cantilena; pur facendo comunella su un piano di perfetta parità con i ragazzini del bazar, Kim era bianco…un bianco povero tra i più poveri. La mezzosangue che badava a lui (fumava oppio e faceva mostra di tenere una bottega di mobili usati vicino alla piazza dove stazionavano le vetture da nolo a buon mercato) raccontava a i missionari di essere la sorella della madre di Kim; in realtà la madre del ragazzo aveva fatto la bambinaia presso la famiglia di un colonnello e aveva sposato Kimball O’Hara, giovane sergente portabandiera dei Maverick, un reggimento irlandese. In seguito O’Hara aveva trovato impiego alla Sind, Punjab and Delhi Railway, e il reggimento era tornato in patria senza di lui. La moglie era morta di colera a Ferozepore e O’Hara si era messo a bere e vagabondare su e giù lungo la linea ferroviaria assieme al figlio, un bimbo di tre anni con due occhi vispi. Istituti e cappellani, preoccupati per il piccolo, avevano cercato di sottrarglielo, ma O’Hara aveva preso il largo fino a quando, incontrata la donna che faceva uso di oppio, ci aveva preso gusto anche lui ed era morto come muoiono i bianchi poveri in India 9.

Questo l’incipit del grande romanzo e della contraddizione che il giovane protagonista vivrà sempre nella sua appartenenza a due mondi, entrambi poveri e complessi.


  1. Peter Hopkirk: Diavoli stranieri sulla Via della Seta. La ricerca dei tesori perduti dell’Asia Centrale (Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of the Chinese Central Asia, 1980), Adelphi, Milano 2006; Alla conquista di Lhasa (Trespassers on the Roof of the World: The Secret Exploration of Tibet, 1982), Adelphi, Milano 2008; Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia (Setting the East Ablaze: Lenin’s Dream of an Empire in Asia, 1984), Mimesis, Milano-Udine, 2021 (già recensito su Carmilla qui); Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale (The Great Game: On Secret Service in High Asia, 1990), Adelphi, Milano 2004; On Secret Service East of Constantinople: The Plot to Bring Down the British Empire, 1994. [pubblicato negli USA nel 1995 col titolo Like Hidden Fire]; Quest for Kim: in Search of Kipling’s Great Game, 1996.  

  2. Conosciuta anche come Uttarapath, Sarak-e-Azam, Badshahi Sarak, Sarak-e-Sher Shah è una delle strade più antiche e più lunghe dell’Asia. Per almeno 2.500 anni, ha collegato l’Asia centrale con il subcontinente indiano. Si sviluppa per 2.400 km (1.491 miglia) da Teknaf, dal confine con il Myanmar a ovest di Kabul, passando per Chittagong e Dhaka in Bangladesh, Calcutta, Allahabad, Delhi e Amritsar, in India, e Lahore, Rawalpindi,e Peshawar in Pakistan.  

  3. Peter Hopkirk, Prologo. Qui comincia il Grande Gioco in Sulle tracce di Kim, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 13-14  

  4. Rudyard Kipling, Kim, Adelphi, Milano 2000, p.17  

  5. Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano 2006, p. 45  

  6. Raccolti a cura di Bruno Maffi in K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960  

  7. Si veda qui su Carmilla  

  8. A quando la cancellazione del XXXIII canto dell’Inferno dantesco, quello del conte Ugolino (mai letto, guarda caso, in tv dal servile e liberalissimo Roberto Benigni), per l’insopportabile violenza sui minori in esso descritta?  

  9. R. Kipling, Kim, op. cit., pp. 11-12  

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