operazioni di polizia internazionale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 23 Feb 2025 21:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 5 https://www.carmillaonline.com/2022/10/22/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-5/ Sat, 22 Oct 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73978 di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.

Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.

Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense di prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drasticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può fare altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Per questo il richiamo a una attualizzazione del “modello coloniale”, come forma di governo delle società attuali, rischia di essere in parte fuorviante. L’ambito coloniale agiva all’interno di uno scenario dove era lo Stato/Nazione, nella sua evoluzione imperialista, a tenere in mano il pallino, una cornice da tempo andata in frantumi. Quindi, se di colonialismo o neocolonialismo è lecito parlare, e noi crediamo lo sia, occorre farlo tenendo a mente lo scenario determinato dall’avvento del capitalismo globale. A ben vedere nelle società attuali i “governi nazionali” non sono altro che attori locali, fortemente depotenziati, posti sotto controllo da agenzie multinazionali. In questo scenario, allora, i retaggi coloniali possono agire come “suggestioni” operative per i governi locali, all’interno però di logiche diverse.

Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che la forza lavoro salariata delle metropoli diventa l’ambito coloniale di cui il capitalismo globale non può fare a meno.

Oggi, mentre per le nuove leve proletarie il mondo dei diritti e delle garanzie è qualcosa che appartiene al museo della storia, la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro va a colpire tutte quelle sacche, più o meno corpose, di proletariato e classe operaia dove, i residui novecenteschi, giocavano ancora un qualche ruolo. A conferma di come, la storia, proceda sempre attraverso il suo lato cattivo assistiamo, con tempi e ritmi sempre più accelerati, alla disarticolazione di tutto ciò che resta della rigidità operaia e del potere che questa si porta appresso. Si consuma, in questo modo, un modello che, a partire dalla Grande rivoluzione, l’Europa aveva tenuto a battesimo. La popolazione e i suoi destini diventano inessenziali per le classi dominanti le quali, nei loro confronti, adottano il modello di governance la cui logica è del tutto subordinata alle procedure messe in atto attraverso le operazioni di polizia internazionale. Anche nei nostri mondi, tra proletariato e borghesia imperialista, va sedimentandosi una relazione che accantona ogni forma di eguaglianza per rimodellarsi sul piano dell’asimmetria.

Questo, come vedremo immediatamente, però è solo un aspetto della questione. La scena politica è ben più articolata e complessa di quanto, a prima vista, possa sembrare. Se, per tutta una fase storica, per l’imperialismo l’unica guerra da combattere era sembrata solo quella contro le popolazioni, esterne e interne, oggi alcuni tratti della guerra classica tornano a fare prepotentemente capolino sulla scena politica internazionale. La situazione si complica e aggroviglia.

Nelle pagine precedenti abbiamo focalizzato sguardo e attenzione sul tratto asimmetrico della guerra ma, tutto questo, non significa automaticamente che le forme più classiche e tradizionali del conflitto bellico si siano estinte. Sarebbe un errore, infatti, ipotizzare che, la fase imperialista globale, abbia definitivamente posto in archivio la guerra interstatuale tra blocchi imperialisti. Certo, nel corso di tutta una fase, quella inaugurata con la Prima Guerra del Golfo sino all’intervento in Libia a primeggiare è stato un modello che, del conflitto asimmetrico, aveva fatto il suo credo assoluto. Credo che poggiava sulla prosaica constatazione della pochezza politico – militare dell’avversario di turno. A partire da ciò il proliferare di tutta quella serie di interventi di stampo apertamente colonialista all’interno dei quali, per lo più, tra le diverse consorterie imperialiste a primeggiare sembravano essere più le affinità piuttosto che le contraddizioni.

In linea di massima si può affermare che la logica che governava i vari interventi di polizia internazionale trovava non poche assonanze con quella politica della “porta aperta” coltivata dalle potenze imperialiste nei confronti della Cina negli anni Venti del secolo scorso. In tali operazioni ognuno poteva ricercare il proprio tornaconto negoziando, volta per volta, la propria area di influenza. A conti fatti non c’era attrito o conflitto che non potesse essere risolto attraverso le normali relazioni politiche e diplomatiche.

La quantità del bottino a disposizione, del resto, era tale da sconsigliare eccessi di avidità. Certo, a differenza del passato, adesso, anche sul piano militare, la latente contraddizione tra il blocco imperialista statunitense e il nascente blocco imperialista europeo cominciava a farsi concreta e reale ma non a tal punto da provocare conflitti, nell’immediato, non mediabili. Tra Stati Uniti ed Europa il conflitto poteva essere tranquillamente posticipato anche perché, in apparenza, dopo l’89 sembrava che solo i Paesi Occidentali fossero in grado di operare sul piano militare tanto che, la conquista dell’intero pianeta, pareva cosa fatta. Come dire: piatto ricco, mi ci ficco, poi si vedrà.

Questa conquista finiva con il mettere tutti d’accordo coltivando, nel frattempo, l’ipotesi che, in un futuro prossimo si potesse giungere a un accordo, su basi maggiormente egualitarie, tra il vecchio drago americano e l’ipotetico nuovo leone europeo. Di ciò ne è in qualche modo testimone tutto il dibattito intorno alla NATO e alla sua funzione che le Cancellerie europee avevano da tempo posto all’ordine del giorno. Del resto la funzione della NATO, nata per “tenere fuori i russi e sotto i tedeschi”, nello scenario che si è delineato non è più in grado di assolvere a quella funzione. La dominanza germanica nella costituzione del polo imperialista europeo ha scompaginato per intero gli assetti geopolitici e geostrategici fuoriusciti dalla Seconda guerra mondiale. I cobelligeranti di oggi portano in loro i conflitti del futuro prossimo. Solo le rapine internazionali possono per ancora qualche tempo tenere insieme queste bande di gangster.

Un progetto di conquista e dominio variamente articolato attraverso operazioni militari dirette o, come nel caso delle innumerevoli “rivoluzioni colorate”, ponendo in atto piani di destabilizzazione politica al limite della guerra civile all’interno di tutte quelle entità politiche poco prone a sottostare ai diktat delle multinazionali e dei loro organi politici ed economici. A fronte di ciò un fatto è difficilmente oggetto di smentita: dopo l’89 tutti i potentati imperialisti hanno iniziato una continua e pressante campagna di conquista nei confronti di tutti quei territori non direttamente sottoposti alle imposizioni degli organismi economici internazionali. Una conquista che, per tutta una fase, non ha conosciuto ostacoli di sorta. All’interno di tale contesto sembrava essere stato accantonato in maniera definitiva quel conflitto interstatuale che tanto aveva pesato sulla storia del Novecento. Repentinamente tale scenario ha iniziato a modificarsi poiché, nel grande gioco geopolitico e geostrategico, potenze quali Russia e Cina sono intervenute pesantemente.

La Russia, forse troppo frettolosamente relegata a micro potenza regionale, ha mostrato di essere in grado di svolgere un ruolo centrale sulla scena internazionale mentre la Cina, che nel frattempo si appresta a diventare la prima potenza industriale del mondo, ha dimostrato di essere fortemente determinata a difendere le proprie aree di influenza non solo sotto il profilo economico ma anche politico e militare. L’entrata in gioco di queste due potenze ha ridefinito lo scenario geopolitico e geostrategico internazionale ma non solo.

Con l’entrata in gioco di queste la tendenza alla guerra propria di ogni crisi dell’imperialismo inizia ad assumere contorni diversi da quelli conosciuti tra la Prima guerra del Golfo e la disarticolazione dello stato libico. Quel tratto sostanzialmente coloniale che aveva accompagnato le varie operazioni di polizia internazionale è obbligato a modificarsi. Difficile, per non dire impossibile, svalutare e quindi ascrivere Russia e Cina nell’ambito dell’impolitico. Difficile relegare Russia e Cina a semplici realtà etniche. La loro forma politica e statuale non può essere posta in discussione, la presenza del nemico torna ad albeggiare con tutte le ricadute del caso. Di ciò diamo qui di seguito una sintetica ricapitolazione.

Le avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute tra la notte del sette e dell’otto agosto 2008, quando la Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud. La reazione di Mosca, alleata dell’Ossezia del Sud, è stata immediata. Le truppe georgiane sono state immediatamente sconfitte e le truppe russe hanno occupato gran parte della Georgia la quale, immediatamente, ha chiesto l’intervento dell’alleato statunitense e della NATO. Intervento che non si è minimamente profilato lasciando la Georgia con il più classico dei pugni di mosche in mano. Nel momento in cui, USA ed Europa si sono trovati di fronte un avversario nei confronti del quale non era realisticamente possibile muoversi in maniera asimmetrica, questi Paesi hanno fatto un corposo passo indietro. Un piccolo incidente che, se isolato, non avrebbe significato più di tanto.

Quanto accaduto in Ossezia del Sud, però, si è ripetuto, e in maniera decisamente esponenziale, nel momento in cui Stati Uniti, Europa e Giappone hanno ipotizzato di attaccare la Siria. In quel caso non solo la Russia ma anche la Cina si è apprestata alla mobilitazione dichiarandosi pronta, in caso di intervento, a schierarsi militarmente al fianco di Damasco facendo seguire, a tali dichiarazioni, fatti quanto mai espliciti. Entrambi i Paesi hanno indirizzato verso il possibile scenario di guerra alcune unità della propria flotta attrezzate per contrastare e neutralizzare l’eccedenza tecnologica che le forze NATO potevano vantare nei confronti dell’apparato militare siriano. A quel punto, a differenza di quanto accaduto in Libia, il conflitto non avrebbe potuto giocarsi attraverso il dominio incontrastato dei cieli e del mare in modo da spianare, sul terreno, la via agli “insorti” di turno ma avrebbe comportato un coinvolgimento diretto, dagli esiti per lo meno incerti, di tutte le forze militari Occidentali. Uno scenario decisamente poco appetibile. Non per caso l’intervento diretto Occidentale è stato rimandato sine die e la guerra “appaltata” a forze locali che stanno dilaniando la Siria in un conflitto dai tratti sempre più endemici e con costi immani per le popolazioni. Nel frattempo, anche se forse poco osservato, vi sono stati tutta una serie di episodi, con protagonista la Corea del Nord, particolarmente degni di interesse.

La Corea del Nord, nonostante agli occhi dell’imperialismo Occidentale e giapponese vanti tutti i requisiti dello “Stato canaglia”, non è stata oggetto di alcun intervento eppure, la sua linea di condotta, lo avrebbe in più occasioni ampiamente sollecitato e meritato. La Corea del Nord, oltre alle continue scaramucce belliche con la Corea del Sud, la costruzione di un potenziale missilistico di media portata e la testazione di ordigni nucleari ha obbligato il Giappone a intraprendere alcune, per quanto limitate, operazioni militari difensive. Ve ne sarebbe abbastanza perché, almeno Stati Unti, Giappone e Corea del Sud, oltre a mai mancanti volenterosi compagni di merende del caso, intraprendessero nei suoi confronti un’operazione non troppo diversa da quella messa in atto in Iraq. Come è noto di ciò non si è mai avuto un qualche sentore. Pechino ha sempre dichiarato che un eventuale attacco alla Corea del Nord avrebbe comportato l’automatico coinvolgimento della Cina nel conflitto il che, per forza di cose, avrebbe ascritto l’intervento in Corea del Nord in qualcosa di ben diverso e distante dall’operazione di polizia. La presenza attiva della Cina avrebbe portato il piano del conflitto fuori dal modello coloniale, rendendo gli esiti della partita perlomeno incerti.

(fine quinta parte – continua)

]]>
Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 1 https://www.carmillaonline.com/2022/10/01/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-1/ Sat, 01 Oct 2022 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73960 di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel [...]]]> di Emilio Quadrelli

Il mezzo più sicuro per perdere una guerra è impegnarsi su due fronti. (Karl von Clausewitz, Della guerra)

La fine dei confini politici

Le tensioni Russia – Usa in merito alla “questione Ucraina”e nel Mediterraneo riporta la guerra al centro dell’interesse politico, ciò ci offre l’occasione per affrontare la “questione guerra” nelle diverse sfaccettature che ha assunto, a tal fine cercheremo di analizzarne i vari volti. Non occorre essere degli specialisti di cose militari per comprendere come le forme della guerra siano radicalmente mutate e di come, nel presente, parlare di guerra significa, per prima cosa,cogliere il nesso tra guerra esterna e guerra interna. Questa la principale differenza rispetto al passato quando la prima cosa di cui si preoccupavano gli stati era la più completa pacificazione interna e la ricerca di una sostanziale adesione della popolazione alle logiche di guerra. Oggi, al contrario, guerra interna e guerra esterna sono continuamente intrecciate e gli stati tendono a combattere senza alcuna preoccupazione su entrambi i fronti. In passato, non per caso,si è sempre parlato di “nazione in guerra” mentre, nel presente è lo stato e non la nazione a essere in guerra. Ciò implica, di fatto, una radicale frattura tra stato e nazione, dove con nazione si intende popolazione, e il delinearsi di un fronte, per quanto di gradi e intensità diversi, che vede guerra eterna e guerra interna come un continuum. Partiamo, pertanto, da quest’ultima poiché è proprio lì che è possibile cogliere come il paradigma della guerra si sia modificato. A differenza del passato il “fronte interno” riveste un ruolo non meno importante di quello esterno per cui una disamina su questo appare estremamente necessaria ma non dilunghiamoci ed entriamo subito nel merito delle cose.

La notizia è di qualche tempo addietro ed passata pressoché inosservata. Una parte dei militari impegnati tra le montagne dell’Afghanistan è stata spostata in Val Susa con compiti pressoché analoghi: la pacificazione del territorio. Un’operazione intorno alla quale è opportuno ragionare poiché, attraverso un dato empirico, è possibile cogliere per intero un paradigma politico. Tutto ciò, ovviamente, non è frutto di una improvvisazione né, tanto meno, l’effetto di una decisione estemporanea priva di razionalità e progettualità bensì il naturale e ovvio approdo di una linea di condotta che affonda le sue radici dentro l’insieme delle trasformazioni che hanno caratterizzato il “politico” nella fase imperialista globale e dei modi in cui, la tendenza alla guerra, o almeno un suo aspetto, prende concretamente forma nel mondo contemporaneo. I tratti di tale tendenza appare sensato investigare poiché, la loro decifrazione, sono in grado di raccontare con non poca esattezza la cornice entro la quale siamo immessi.

Notoriamente, a partire dal post ’89, il nemico in quanto entità politica legittima, almeno nell’utopia coltivata nei mondi occidentali, è scomparso. Da quel momento in poi contendenti di pari grado e dignità hanno cessato di esistere. Repentinamente abbiamo assistito alla messa in circolo di un ordine discorsivo il cui cuore strategico era esattamente rappresentato dalla svalutazione del nemico e, pertanto, della sua dimensione politica. Un passaggio intorno al quale è bene interrogarsi poiché è proprio l’analisi di tale trasformazione a consentirci di entrare per intero negli arcani del presente. Parlare del modo in cui la guerra, o almeno un suo aspetto non secondario, è messa in forma ha ben poco di specialistico così come, per altro verso, non denota una particolare propensione verso le cose militari ma, al contrario, significa entrare direttamente nelle prosaiche cose di tutti i giorni poiché la guerra, in quanto sintesi massima del “politico”, non può che informare e governare per intero tutti gli ambiti di una formazione economica e sociale. Il modo in cui la guerra è pensata, organizzata, pianificata e condotta indica esattamente il tipo di società entro cui siamo immessi.

Della sequela di guerre che hanno preso l’avvio dal 1991 in poi si è perso persino il conto. Queste, indipendentemente dalla loro particolarità e specificità, erano unite da un comune elemento: la dimensione impolitica dell’avversario di turno. Non per caso la stessa parola guerra, dal 1991 in poi, non è più stata pronunciata se non accompagnata da un qualche aggettivo. Nasce proprio in quel contesto la dicitura di guerra umanitaria mentre il termine guerra tout court comincia a essere bandito dal lessico comune. Perché? Per quale motivo, a un certo punto, non è più possibile parlare di guerra? Per quale motivo, il termine guerra senza aggettivi, crea non pochi imbarazzi? Perché le varie coalizioni statuali che, volta per volta, hanno dato il la a una qualche operazione bellica si sono sentite in dovere, di fatto, di scongiurare la guerra proprio mentre davano fuoco alle polveri? A un primo sguardo, tutto ciò, potrebbe sembrare la semplice reiterazione di un modus operandi che, nelle vicende storiche, è stato più volte utilizzato. In ciò i nazisti sono stati autentici maestri.

L’Austria, la Cecoslovacchia e la Polonia sono state operazioni di guerra diversamente nominate. In quei contesti, però, a delinearsi non era un modello teorico/concettuale ma la più prosaica esigenza di occupare nazioni e territori facendo in modo che, agli occhi delle compiacenti e impaurite democrazie imperialiste europee, la legalità internazionale non risultasse sovvertita più di tanto. Questione contingente dettata dal più cinico dei tatticismi senza alcun altro tipo di rimando. Uno scenario, pertanto, del tutto diverso da quello inaugurato a partire dalla Prima guerra del Golfo.
Nessun tatticismo, nessun problema di ordine legale è stato posto alla base del “nuovo corso” in cui la forma guerra ha iniziato a essere ascritta bensì un modello teorico concettuale ex novo del quale è opportuno coglierne il senso.

Per quanto strano possa apparire, e con buona pace dei pacifisti, se c’è qualcosa che non è mai uguale a se stessa è la guerra. La guerra non è, come gli stolti solitamente immaginano, pensano e proclamano, l’elemento irrazionale che sovverte l’ordinato e razionale mondo della pace bensì il massimo della razionalità, storicamente determinata, che una forma politica “concreta” è in grado di mettere in campo. Guerra e pace sono, e non potrebbe essere altrimenti, comprese nella medesima forma politica la quale non può darsi, pena la sua estinzione, escludendo uno dei suoi poli. In altre parole ogni “forma guerra” non può che essere già compresa nella sua “forma pace”. La guerra, quindi, non presenta alcuna invarianza come se, questo, fosse un mondo astorico e avulso dalla formazione economica e sociale perché di questa, invece, ne è la massima espressione. Non esiste la guerra ma le guerre le quali sono sempre il frutto di formazioni politiche storicamente determinate. A decidere della e sulla guerra sono classi storiche concrete, espressioni di determinati rapporti di forza e di potere e, soprattutto, di una determinata base strutturale.

La Prima guerra mondiale è stata qualcosa di assolutamente incommensurabile rispetto alla guerra franco/prussiana così come, il Secondo conflitto mondiale, è stato ben diverso dal Primo. E questo, per essere chiari, non tanto per le obiettive trasformazioni che scienza e tecnica hanno apportato al modo di combattere ma per la differenza dei sistemi politici ed economici che facevano da sfondo al conflitto. Nessun “dominio della tecnica” è in grado di sovvertire le ragioni politiche della guerra così come, l’irrompere prepotente della “battaglia dei materiali”, non è altro che il modo in cui, un determinato sviluppo delle forze produttive, determina “concretamente” la forma guerra. Non vi è mai stata una guerra bella, onorevole e cavalleresca bensì una guerra che poggiava per intero sulle possibilità che una base strutturale le consentiva di porre in campo. Ogni fase storica ha il suo modello bellico e questo va compreso e analizzato.

Non è possibile, pertanto, comprendere la forma guerra contemporanea se non si affronta la questione della fase imperialista globale che ne rappresenta il cuore politico. Difficile, infatti, spiegare la presenza dei militari in val Susa se non si comprende il modo in cui, la fase imperialista globale, ha ridefinito l’idea stessa di confine, di Stato e il rapporto di questi con le popolazioni interne a questi perimetri. Allo stesso modo, senza comprendere che cosa è mutato nel rapporto tra stato e popolazione nelle nostre società, diventa di difficile comprensione la presenza ormai abituale dei militari in servizio di ordine pubblico nelle nostre città. Non si possono decifrare i volti di Marte se non si comprende di quali trasformazioni questi ne sono gli effetti. Ricorrere alla facile, e buona per tutte le stagioni, categoria della repressione è un modo per spiegare tutto e non spiegare nulla. Così come la guerra è sempre l’effetto di una condizione storicamente determinata, la repressione è sempre il frutto di un modello politico “concreto” e il risultato di rapporti di forza “concreti”. Per quanto possa essere in qualche modo vero che: “I Governi cambiano, le polizie restano”, i modelli polizieschi, al pari della guerra, non sono astorici bensì il frutto maturo di una determinata formazione economica e sociale.

La compenetrazione di polizia e militare, perché di ciò stiamo parlando, non è un semplice fatto repressivo ma un passaggio strategico nella messa in forma della guerra. Ciò ha ricadute a trecentosessanta gradi su tutta la formazione economica e sociale. Capirne il senso è qualcosa di più di un vezzo intellettuale. Decifrarne il portato e il significato significa, almeno sul piano della teoria e dell’analisi politica, fare già un passo dentro la guerra, la sua forma, le sue dinamiche. Sicuramente non è tutto, ma certamente è qualcosa.

Quanto accade in Val Susa, e in forma apparentemente più mesta si è manifestato poco tempo addietro attraverso l’impiego dei militari in servizi di ordine pubblico nelle metropoli, rappresenta esattamente il rimpatrio di un modello bellico la cui genealogia è possibile rintracciare nel momento stesso in cui, il crollo del “Blocco sovietico” e il dispiegarsi della fase imperialista globale, hanno inaugurato non solo un nuovo modo di combattere ma, ed è questo il punto che proveremo ad argomentare, hanno declinato la forma guerra all’interno di un paradigma nuovo e distante da quello ampiamente conosciuto in quelle che, ormai, possiamo definire come fasi classiche dell’imperialismo. Fasi sicuramente non del tutto identiche e omogenee tra loro ma assai più simili e affini rispetto alle rotture prodotte dalla fase imperialista globale. Il senso di queste rotture, delle quali la forma guerra ne incarna l’aspetto più puro e cristallino, segnano e modellano per intero la formazione economica e sociale contemporanea. Ciò è quanto è necessario comprendere.

Poche righe sopra abbiamo parlato di compenetrazione di poliziesco e militare come aspetto centrale assunto nel mondo contemporaneo dalla forma guerra. Non ci stiamo inventando nulla poiché, proprio una delle diciture in cui le operazioni belliche odierne sono state ascritte, sono denominate operazioni di polizia internazionale. Se guerra umanitaria è termine non solo ambiguo ma indeterminato e indistinto operazione di polizia internazionale ha sicuramente il merito di essere chiara ed esplicita poiché consente di comprendere appieno il modo in cui, dentro la fase imperialista globale, il conflitto è stato, prima agito, poi concettualizzato.

Classicamente, polizia ed esercito, rimandano a due mondi ben distinti tra loro. Non è certo un caso che, nelle classiche guerre tra entità statuali, quando un Paese veniva occupato le forze di polizia autoctone rimanevano al loro posto. La polizia continuava a occuparsi di crimini comuni i quali, grosso modo, rimangono identici sotto tutte le latitudini. Il nemico, proprio in quanto nemico pubblico, poteva e doveva essere combattuto solo da forze militari regolari. Un qualche problema, sotto tale profilo, è stato rappresentato dalla figura del partigiano rispetto alla quale, il riconoscimento di nemico pubblico, è stato oggetto di non poche resistenze. Aspetto importante, sul quale torneremo, ma che per il momento poniamo tra parentesi.

Ciò che vogliamo evidenziare è il fatto che, nelle guerre che ci hanno preceduto, la compenetrazione di poliziesco e militare non è mai stata presa in considerazione. La polizia, in sostanza, non era deputata ad altro che alla messa in sicurezza di colui o coloro i quali, proprio in virtù dei loro comportamenti, non potevano andare oltre, rispetto alla società, alla figura del nemico privato. Un nemico che, per definizione, non è assolutamente e legittimamente fisicamente eliminabile. Ciò è facilmente dimostrabile. Un soldato nemico placidamente addormentato sotto una pianta può essere tranquillamente fatto fuori, da chi porta una divisa di altro colore, senza che la cosa susciti o possa suscitare una qualche forma di riprovazione. Il fatto stesso di indossare una divisa nemica lo espone a un pericolo mortale. Per meritarsi la morte, il soldato, non deve compiere una qualche azione riprovevole. La sua stessa esistenza, sotto quelle vesti, gli procura la concreta possibilità di essere ucciso. Allo stesso modo il soldato che cogliendo di sorpresa uno o più militi nemici arricchisce di un certo numero di tacche il suo fucile mitragliatore oltre a non essere passibile di incriminazione può aspirare a una qualche menzione al valore. Del tutto diverso si mostra lo scenario quando si entra alle prese con un nemico privato.

Le “regole di ingaggio”, nel contesto, cambiano completamente. Legalmente nessun poliziotto è autorizzato a eliminare un bandito. Solo nel caso in cui, il bandito, metta a repentaglio la vita del poliziotto o di qualche altro la sua uccisione diventa possibile altrimenti, poiché la sua esistenza rimane rigidamente ascritta nell’ambito del privato, nessuno è autorizzato a estirparne la vita. Del resto la stessa linea di condotta del nemico privato si modella esattamente dentro questa cornice. Nessun fuorilegge, infatti, attacca apertamente le forze di polizia ma, per lo più, tende a starne alla larga. Da ciò ne consegue che esercito e polizia rimandano a mondi e procedure assai diversi tra loro tanto che trasformare la guerra in operazione di polizia internazionale appare, sotto il profilo concettuale, un’operazione più che ardita impossibile a meno che non intervenga qualcosa che sovverta per intero la cornice entro cui la guerra è pensata e agita. La messa in forma della guerra contemporanea ha segnato esattamente questo passaggio. Ciò è quanto è necessario investigare.

(fine prima parte – continua)

]]>