Ombre rosse – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La piazza carnevalizzata. Il cinema politico di Elio Petri https://www.carmillaonline.com/2016/12/29/28082/ Wed, 28 Dec 2016 23:01:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28082 di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura [...]]]> di Gioacchino Toni

indagine11mtAlfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 228 pagine, € 20,00

«La mia visione del cinema di Petri è quella di un cineasta, di un intellettuale pervaso di un lucido pessimismo fondato sull’analisi delle contraddizioni sociali e politiche, che si muove all’interno di una visione tragica dei conflitti, e che si sforza di metterli in scena come tali. Senza rassegnazione ma senza credenza» Alfredo Rossi (p. 55)

Perché scrivere oggi un libro su Elio Petri? Non si tratta, ci tiene a sottolinearlo l’autore, di sconfessare oggi «una letteratura pesantemente, a volte, ostile per forzare e chiudere un’azione risarcitoria nei riguardi di Petri. [il suo cinema] concerne oggi la scena critica per il suo lavorare in modo diretto sul problema del Potere e dell’Amore del Potere. Mai, infatti, come negli ultimi anni sono questi i nodi su cui si misura, in tutti gli ambiti del discorso, la cultura militante che non guardi in modo meccanicistico al tema del politico. Ecco perché il cinema di Elio Petri si fa dire oggi: perché lavora, nella sua major phase, in modo analitico attorno alla impossibile rappresentazione del Soggetto nel Politico se non in termini psicotici» (p. 27).

Elio Petri è sicuramente un autore dalla fortuna critica alterna. Tanti tra coloro che avevano supportato, seppur problematicamente, il cinema del “primo Petri”, hanno finito col contestarne, spesso drasticamente, l’ultima fase, segnata da un mutamento profondo; alcuni, secondo l’autore, «erano impossibilitati “per natura” a capire una nuova pratica della scrittura e della politica che troverà il momento più alto in Todo modo», altri, quelli che Rossi definisce «i rappresentanti del “terrorismo critico”, dell’avanguardia critica, “Cinema&Film” e “Ombre Rosse”», risultarono incapaci di «superare gli effetti di una supposta distanza politica, vittime loro malgrado delle proprie petizioni di principio e di lotta ideologica» (p. 21). Già all’uscita del film La classe operaia va in paradiso (1971) si alzarono pesanti critiche nei confronti dell’opera, accusata apertamente di essere reazionaria sia da parte dell’estrema sinistra che da parte degli esponenti dall’avanguardia del cinema militante, come il regista Jean Marie Straub.

la-classe-operaia-24Agli attacchi ed alle accuse Petri non mancò mai di rispondere con tono altrettanto polemico, a testimonianza di ciò si possono leggere alcuni passi, riportati dal saggio, tratti da Parla il cinema italiano vol. 2 (Il Formichiere, 1979 – p. 252-256), in cui il regista non risparmia stilettate sia alla critica marxista tradizionale che alla critica militante più recente, legata alle nuove riviste di cinema sorte negli anni ’60: «I marxisti dopo la scomparsa di Barbaro e Della Volpe, si sono ansiosamente ancorati ad un loro storicismo buono per tutte le occasioni. Marxisti, cattolici e idealisti si sono tutti trovati d’accordo in ciò, che la lettura di un testo è essenzialmente contenutistica […] Dal sessanta in poi vi sono state, inoltre, molte frettolose traduzioni dal francese di idee spesso tradotte dal tedesco e dal russo. Battaglioni di avventizi si sono gettati su queste idee, sbranandole, divorandole, in una gran confusione di fini. Molti si sono improvvisati formalisti, stilisti, semiologi, strutturalisti, lacaniani, o un po’ dell’uno un po’ dell’altro…» (p. 21-22). La polemica nei confronti di “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse” è palese, come è certo che tali riviste, sostiene Rossi, abbiano mantenuto un atteggiamento di «chiusura nei suoi riguardi in quella fase di passaggio radicale, gli anni settanta, vera sua fase di mutazione ideologica e stilistica da un cinema di narrazione, esistenzialista, ad un cinema volto al simbolico» (p.23).

Relativamente alla trasformazione imposta dal cineasta alle ultime opere, Rossi propone oggi una lettura differente da quella sostenuta a suo tempo, quando i film uscirono in un contesto culturale, politico e sociale diverso, in un periodo contraddistinto da ben altre urgenze: «Petri è un marxista e un materialista, lo psicologismo individualistico gli è estraneo o, nel tempo lo ha totalmente capovolto e ciò risulta chiarissimo nelle esperienze evolutive degli ultimi anni. È l’analisi della struttura capitalistica e psicotica che muove la sua riflessione sui fatti: gli attanti dei suoi film ultimi sono soggetti giocati dal reale e non individui – esistenze. L’oggetto del suo cinema sono soggetti equivocanti sul proprio supposto sé razionale, sociale e politico, sono maschere di una rappresentazione carnascialesca dominata dalla pulsione di morte. Elio legge con lenti marxiste e freudiane il mondo. Elabora all’interno della rappresentazione il gioco della pulsione di morte nelle dinamiche del reale della politica: è questa la genialità della sua scrittura. […] Il concetto di morte al lavoro è il rovello continuo della loro elaborazione: morte come processo di degrado del costume civile, decadimento dell’essere come insensatezza di soggetto lavorato dalla perdita identitaria. Pasolini parlava di corruttibilità della specie, delle facies, Elio la rappresentava, con genio registico a mio avviso assai superiore, radicalizzando la sua messa in scena grazie al gioco di maschere carnascialesche del potere, in una sfera di teatralità vicina al kabuki. È Elio il vero autore d’avanguardia del cinema italiano degli anni settanta, (assieme, come già detto al diversissimo Carmelo Bene e a qualche film di Ferreri, regista che amava) il vero padroneggiatore di un discorso sovversivo sul soggetto nel politico» (p. 26)

Nel corso degli anni ’60 si è sviluppata una profonda frattura tra i registi italiani “impegnati”, coinvolti nelle strutture produttive dell’industria del cinema, e la componente più radicale della critica cinematografica. Da allora, registi quali Petri, Rosi, Pontecorvo, Damiani e Montaldo rappresentano, secondo il saggio, «l’impensato della critica militante», tanto che ancora oggi risulta difficile «oltrepassare il limbo formalizzato della politica della rappresentazione per puntare all’analisi della rappresentazione del politico» (p. 40). Se si capiscono i motivi per cui i film di tali cineasti venivano, all’epoca, spesso attaccati da parte della critica politica (cinematografica e non) più radicale, oggi «tutto fa pensare che siano l’oggetto perturbante anche secondo i modesti criteri della comune pratica critica odierna che sono quelli della valorizzazione del cinema in quanto tale, come cosa cinematografica e prescindono da approcci analitici complessi. Oggi il massimo che ci si può attendere è l’assunzione impensata dei registi del cinema politico nell’empireo già affollatissimo del cinema italiano, quali esperti in un generone, come l’horror, il comico, la commedia, il peplum, il dramma popolare» (p. 40).

petri-cinema-politicoAlcune letture riducono il cinema politico italiano dell’epoca ad uno stereotipato catalogo di situazioni: «Le sceneggiature ruotano sempre infatti attorno a temi civili, variando esclusivamente l’economia della loro distribuzione. La polizia… italiana, la giustizia… italiana, la gestione… italiana del potere pubblico: si potrebbe dire che quel che è in questione è sempre l’apparato del Potere in Italia, distorto, mafioso, intrigato ed intrigante» (p. 42). Rossi evidenzia come gli ultimi due aggettivi non siano utilizzati casualmente; «poiché la politicità di tali film consiste nel contestare una realtà di potere, oggi, nel nostro Paese, inscenandola come “intrigo di potere” e, sottolineerei, intrigo “italiano” […] in quanto riconduce a modalità del dire, dell’immaginare, del rappresentare il Potere radicatesi nella notte della teatralità italiana. È dunque attraverso la griglia della doppia connotazione di “intrigo” ed “italianità” che il cinema italiano trova, a livello extracritico soprattutto, una sua riconoscibilità di massima che fa distinguere i film di registi quali Rosi, Montaldo, Pontecorvo, Petri da un altro cinema che pur esso si appella alle categorie del politico, quello dei Taviani, Bertolucci, Pasolini» (p. 42).

Se abbiamo un “intrigo”, continua lo studioso, «vi è qualcosa che va svelato, da parte di qualcuno di una certa “scena”» e si deve credere che esista una soluzione all’enigma, «ovvero che la Scena ricopra, celi, una Verità svelabile, dicibile. E che sussista la funzione catartica di strappare il velo della scena del “reale” in modo che esso possa dirsi nella sua verità» (p. 43). Il cinema politico italiano, secondo Rossi, intende mettere in scena l’enigma del sociale capitalista, sotto forma di intrigo politico al fine di denunciarne la natura di classe.

Circa la seconda connotazione, quella di “italianità”, il cinema politico italiano ha inevitabili rapporti con la commedia all’italiana (registi, attori, sceneggiatori, tecnici, produttori…) e tale legame ha la sua incidenza. Rossi indica come commedia all’italiana, commedia dell’arte e delle maschere borghesi siano segnate dell’immaginario politico di cui il cinema politico non ha di certo l’esclusiva. Nel saggio si sostiene che proprio a Petri si deve la più importante scoperta linguistica del cinema politico italiano, cioè «l’invenzione della necessità scritturale di attribuire all’ordine del politico la maschera di Gian Maria Volonté. Il che vuol dire strappare all’ordine simbolico della commedia all’italiana, tipicamente borghese, la pregnanza immaginaria della maschera spostandola sulla scena dell’agone del desiderio politico e restituendo alla maschera asservita e mercantile tutta la sua significanza» (p. 45). Non è dunque un caso che Petri si sia servito di un attore estraneo al firmamento del grottesco della commedia all’italiana. Il saggio evidenzia come esista una distanza netta tra le maschere degli attori della commedia all’italiana e la maschera di Volonté; in quest’ultimo caso l’attore riesce a «raggiungere la perfezione della maschera, la totalità della mimèsi e, di conseguenza, l’assoluta indifferenza rispetto al modello» (p. 46). Nel cinema di Petri prevale un’oscillazione permanente in un’alternanza di sublime/comico e ciò è dovuto alle capacità di alternanza della maschera di Volonté.

È nella ricostruzione del ruolo politico della maschera nella scena teatrale italiana che Rossi individua ciò che accomuna e ciò che differenzia la commedia all’italiana ed il cinema politico italiano, giungendo alla conclusione che, al fine di comprendere la peculiarità del cinema politico di Petri, si debba riflettere sulla maschera di Volonté e da qui sul ruolo della “festa” quale «avventura immaginaria del suddito ma anche la sua tragedia, il suo scacco radicale, la sua mancanza ad essere che si inscena nello stesso recinto spaziotemporale» (p. 48).

Ricorrendo ad una chiave di lettura psicanalitica, di matrice lacaniana, Rossi giunge alla conclusione che «anche il problema della maschera concerne il sintomo discorsivo dell’allegoria. Re Carnevale ne è la cifra, doppiamente, in quanto rappresenta il tentativo di incarnarsi nel tutto del desiderio facente capo al soggetto in ordine al Politico. E questo nella prefigurazione di natura isterica che quella totalità, quella assolutizzata verità sia inscenabile. Qui, precisamente, si situa il paradosso dell’allegoria: per dire il tutto, la verità del Potere, non si dice nulla del potere-reale. La scena festiva, quindi, dal punto di vista della politica-reale non è un fatto trasgressivo, o, peggio, rivoluzionario. Ché, anzi, è il gesto confermativo di una dipendenza fantasmatica. […] La dinamica pulsionale del soggetto e del collettivo disdicono il reale-politico rappresentandone il simulacro. Come tale l’allegoria festiva, dell’enunciato politico, ha per effetto di introdurre, nella scena, il Politico come fantasma del politico-reale. Ma quest’ultimo ricompare come effetto di ritorno nella rappresentazione. E il suo “effetto di ritorno”, o après coup, consiste precisamente nell’impraticabilità dell’allegoria, ovvero nell’impossibilità per Re Carnevale di trattenere le fattezze di maschera» (pp. 49-50). A Carnevale succede Quaresima, al desiderio subentra la sua negazione, alla festa che tenta di fare a meno del principio di realtà si sostituisce la cancellazione del principio di piacere.

La lunga disamina circa il ruolo della festa è ritenuta indispensabile al fine di affrontare il cinema politico italiano che, nella lettura proposta da Rossi, «rappresenta l’agone del collettivo, attuato, per il tramite dello spettacolo cinematografico, al fine di specchiarsi (“specchio” e “spettacolo” hanno lo stesso etimo) come Potere, di raffigurarsi tale al centro di un palcoscenico immaginario che ha per quinte le nostre città, i nostri palazzi del potere» (p. 51). Il cinema politico italiano sarebbe dunque caratterizzato dal conflitto che si instaura nella rappresentazione tra la festa carnevalesca ed il contraccolpo quaresimale, il «gioco di maschera che esso propone è sempre destinato alla tragedia, alla Quaresima, alla conferma fantasmatica del “sistema” contro cui si rivolta» (p. 53), così facendo l’enigma della società politica italiana tende a riconfermarsi come tale visto che l’assunto di credenza non è messo in questione. «Questa dialettica non risolvibile è invece il centro stesso del meccanismo scenico dei film di Petri. Laddove, in tutta la produzione che esaminiamo, permane come sintomo, come discorso in perdita. E di perdita» (p. 53).

Rossi ripropone, più di una volta, nel saggio una celebre citazione lacaniana: «L’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. Lo avrete.» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, Il rovescio della psicoanalisi, p 259). Tale citazione sintetizza bene la griglia di lettura attraverso cui Rossi analizza il cinema di Petri.

Nel cineasta la scena carnevalesca si fonda sull’attualità della politica-reale, il film affronta l’attualità del paese. «La messa in scena dell’impossibilità del desiderio, di dire il Politico-reale, il Potere-reale, fa si che Petri, in questa prospettiva, analizzi una fenomenologia del bisogno-politico quale si è prefigurata a partire dalla “festa sessantottesca”. Il ’68 come spazio festivo: le piazze le strade d’Italia battute da un’onda delirante, conclamatesi Potere» (p. 55). Secondo la lettura proposta dal saggio, mentre molti autori italiani del cinema politico «hanno letto l’invocazione ribellistica in termini di risposta, Petri l’ha letta in termini di domanda, quale disagio e pulsione di morte, di cui è intessuta» (p.55).

indagine su un cittadinoSecondo Rossi, nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), Petri inserisce la rappresentazione della politica italiana all’interno di canoni discorsivi carnevaleschi attraverso la maschera di Volonté. Dell’attore il cineasta esalta le qualità mimetico giocose della sua recitazione senza mai farle scivolare in quel che lo studioso definisce “mascherone”, tipico della cinematografia italiana del dopoguerra che, facilmente, avrebbe trasformato il personaggio dell’ispettore di polizia in semplice caricatura del funzionario dell’amministrazione centralistica e gerarchica dello Stato. Il film di Petri, sostiene Rossi, «persegue invece un altro effetto: il lazzo, il comico, il grottesco che alimentano la sua finzione hanno una significanza differente nel testo, avente a che vedere con il desiderio del Cittadino piuttosto che dell’“ispettore”» (pp. 101-102).

«L’ispettore-Volontè risucchia la scena, la dissangua, la riduce ad ossessivo rumore di fondo per lanciare alta la sua invocazione isterica d’amore del Potere» e, continua lo studioso, quegli studenti che fronteggia, oggi si ritroverebbero nei panni di «funzionari dello Stato assistenziale, che con gesto amoroso li ha raccolti dalle piazze d’Italia e li ha “incardinati” nell’Amministrazione. Oggi essi fanno cardine: un po’ dovunque desidereranno esser ricevuti e amati dai capuffici, dai capi sezione, dai direttori generali, oppure sono già loro il Potere» (p. 102). La festa carnevalesca del ’68 si conclude, lacaniamente, verrebbe da dire, in maniera quaresimalistica.

«Per l’ispettore compiere l’assassinio dell’amante significa portare una sfida al centro del meccanismo fideistico che fonda l’Autorità, e al suo effetto di credenza. Non è un caso che nel corso del film, parlando dell’“interrogatorio” e della sua metodologia così lui lo definisca: “È una messa in scena per toccare corde profonde, sentimenti segreti. Di fronte a me che rappresento il Potere l’indiziato diventa un po’ bambino ed io divento il Padre, il modello inattaccabile; la mia faccia diventa quella di Dio, della Coscienza”. Ecco Re Carnevale […] Ma il dirsi Dio è anche una bestemmia: è nel contempo la incoronazione e la scoronizzazione del Potere e del suo effetto di credenza nell’ambito del Collettivo […] Proprio l’imputarsi, il farsi vittima sacrificale è il movimento stesso della colpevolizzazione per la pronunzia della bestemmia. È qui che s’annida il tarlo comico che mina la sublimità, l’eroicità dell’agire. Questa altalenanza è propria di ogni enunciato attorno al Politico, traversato come esso è dal sintomo isterico, in questo senso l’ispettore è anzitutto Cittadino, membro del Collettivo desiderante attorno al Potere. Di questa desideranza sessantottesca, nella sua continua pronunzia della bestemmia, nel godimento precluso, il Cittadino è il fantoccio, la maschera sublime e comica» (p. 102).

Con riferimento alla tarda produzione di Petri, secondo l’analisi proposta dal saggio, non si può parlare propriamente di “ritorno al privato”, di “riflusso dal politico” e di “disinganno”. Di certo gli ultimi film, a partire da La proprietà non è più un furto (1973) sono caratterizzati da una gestazione contorta, contraddittorietà e sofferta, ben testimoniata da una mole di scritti del regista in cui si alternano momenti di eccitazione ed altri di delusione. L’impressione, suggerisce il saggio, è che da un certo punto in avanti il cineasta abbia preferito lavorare per dare immagine ai propri fantasmi che a lungo erano stati “coperti” dal fragore della piazza. Nel film Le buone notizie (1979), al posto di Giancarlo Giannini, avrebbe dovuto recitare Marcello Mastroianni, attore che rappresenta per certi versi l’altra faccia di Volonté: «se quest’ultimo è la maschera del politico, Mastroianni lo è del privato. Ma un privato legato a doppio filo con il politico: un privato appartenente al dominio del conflitto attorno ad un’idea di morale possibile nel reale e di chiusura del Soggetto nel reale. Dunque nulla a che fare con modelli di introversione piccolo borghese, ma un privato giocato dalle contraddizioni tra il principio di realtà e le istanze anarchiche, violente e luttuose, di cui Elio è attraversato» (pp. 58-59).

La ri-lettura di Petri proposta da Rossi, che, come tiene a sottolineare, non vuole venga intesa come risarcitoria sconfessione di una precedente lettura ostile, sicuramente risente di come sono andate le cose dopo la sbornia sessantottesca e, se anche non vuol essere risarcitoria nei confronti di Petri, sembra riconoscergli doti di preveggenza. Una visione tragica, quella di Petri, in cui, oggi, in contesto fortemente mutato, forse, tra le righe, pare riconoscersi lo stesso Alfredo Rossi.


Il saggio contiene lettere e scritti di Elio Petri ed interventi di Goffredo Fofi, Franco Ferrini e Oreste de Fornari

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Barricate di carta. La critica cinematografica conflittuale attorno al ’68 https://www.carmillaonline.com/2015/11/20/barricate-di-carta-la-critica-cinematografica-conflittuale-attorno-al-68/ Thu, 19 Nov 2015 23:01:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25697 di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc. “Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. [...]]]> di Gioacchino Toni

barricate_di_cartaGianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. “Cinema&Film”, “Ombre Rosse”, due riviste intorno al ’68, Mimesis, Milano – Udine, 2013, 340 pagine, € 24,00

Barricate di Carta ricostruisce la storia di due riviste, “Cinema&Film” ed “Ombre Rosse”, che nascono, come ricorda Alfredo Rossi, in quel clima culturale dell’Italia degli anni ’60 attraversato da pubblicazioni come “Nuovi Argomenti”, “Aut-Aut”, “Quaderni piacentini”, “Nuova Corrente”, “Ideologie” ecc.
“Cinema&Film” ed “Ombre rosse” sono riviste di critica cinematografica nate dal rifiuto di intendere la critica come un mestiere. Il primo numero della pubblicazione romana “Cinema&Film” è dell’autunno-inverno 1966 e, sin da subito, è palese come i giovani critici intendano: applicare al cinema un approccio linguistico strutturalista; analizzare soltanto i film che desiderano supportare; porsi a difesa di un “cinema altro” ed, in alcuni casi,  passare dall’atto della critica scritta a quello del “misurarsi con la realtà del costruire immagini e immaginario, del fare insomma cinema con e nei film”. La pubblicazione della rivista romana termina all’inizio degli anni ’70. “Ombre rosse” nasce, invece, a Torino nel 1967 con una forte connotazione politica che ha come riferimenti le lotte studentesche ed operaie del periodo. In questo caso il film viene esplicitamente concepito come “prodotto ideologico dell’industria culturale” ed oltre a trattate le opere supportate vengono affrontati anche i film che si intendono contestare da posizioni ideologiche ben precise. Ad inizio anni ’70 la rivista torinese si trasforma divenendo una testata politico-militante.

C&Fn1Secondo Alfredo Rossi risulta interessante confrontare le modalità contemporanee di “pensare il cinema” con “quell’assunzione di moralità leggendaria, talvolta derisoria ma tumultuosa e vera” di “Cinema&Film” e di “Ombre rosse” e, da tale confronto, emerge in tutta evidenza lo “scollamento tra il pensare-cinema, il dire-cinema” di allora e “l’odierno parlare-cinema e consumare-cinema”. Ad essere scomparsa, continua Rossi, è “l’urgenza del giudicare in un ambito dichiarato di posizionamento ideologico, selettivo, rabbioso, talvolta euforico, comunque innovativo, un fenomeno complesso come quello del cinema”. A tutto ciò sembra essersi sostituito “un appiattimento benevolente, in funzione accademica, neutra, di tipo storicistico o di gusto, nel render conto di un reale, vecchio e nuovo, di nessun interesse”. Non vi è traccia nell’attualità di quel voler “essere di parte” presente nelle due riviste degli anni ’60.
La critica cinematografica portata avanti dalle due testate, pur derivata dall’amore per il cinema ed i film, finisce spesso per parlare anche di altro, ricorrendo all’oggetto film “come segno o sintomo di altro”, studiandone “il meccanismo specifico di effetto di credenza, di prodotto industriale, in senso marxista e adorniano, per superare, appunto, la relazione acritica d’oggetto”. Ormai, sostiene Rossi, si è compiuto quel “tragitto di accreditamento culturale e artistico del cinema nel suo tutto, attraverso un processo di sussunzione estetica cui consegue che il film venga, comunque, sublimato in valore-cinema, appartenendo tecnicamente a quella universitas, e come tale speso nella catena di mercato delle idee, in un circuito che va dall’asseveratore dei valori, il critico, al consumatore finale, lo spettatore cinefilo, anello ultimo e debole del nuovo infantilismo del vedere”. Oggigiorno ha conquistato la scena “l’ideologia del film come valore per il solo fatto di essere, di esistere quale cosa cinematografica, e di poter esser catalogabile come tale in un tessuto ideologico e immaginario appagato”.

Emiliano Morreale, nel suo intervento, ricorda come le due riviste nascano quando è ormai finita la Nouvelle Vague francese, Hollywood mostra di patire la crisi economica e l’esordio in Italia di Bellocchio e Bertolucci, più che aprire un ciclo, sembra chiudere una stagione. Morreale invita i lettori più giovani, che non hanno vissuto il clima degli anni ’60 in cui si è data l’esperienza delle due testate, a notare quanto all’epoca si vedesse nel cinema davvero una possibilità di crescita umana ed uno strumento di miglioramento sociale.

Jacopo Chessa puntualizza come con l’espressione “critica militante”, in Italia, venga designato quell’ambito di critica “non accademica e nemmeno quotidianista” che, prestando particolare attenzione alla produzione contemporanea, privilegia l’approfondimento alla divulgazione. In generale il fatto di esercitare una critica militante non vuole per forza di cose dire essere militanti dal punto di vista politico ma, sostiene Chessa, a partire dalla fine degli anni ’60, la maggior parte della critica militante è militante anche politicamente. “Se il PCI aveva una sua cultura ufficiale, dei cineasti da sostenere, delle riviste dove farlo e una casa di produzione di riferimento, l’Unitelefilm, i militanti alla sua sinistra erano obbligati a inventare un nuovo approccio e un nuovo linguaggio che fossero, realmente, ‘rivoluzionari’”.
Le riviste “Ombre rosse” e “Cinema&Film” si trovano innanzitutto a dover individuare “quali film sostenere per il loro valore politico”, come vengano trattate le questioni politiche nei film, come affrontare, a livello di critica, tali opere ed, infine, come rapportarsi nei confronti del “cinema militante”. A proposito del rapporto tra critica e militanza, nel n.7-8 del 1969 la redazione di “Cinema&Film” così sintetizza le differenze con “Ombre rosse”: “Noi facciamo una rivista di cinema che, qualche volta, parla incautamente di politica e loro una rivista politica che, spesso, parla di cinema”. “Ombre rosse”, nell’articolo “Cultura al servizio della rivoluzione”, steso a diretto contatto con il movimento studentesco torinese, dichiara sulle sue pagine come il cinema che intende porsi al servizio della rivoluzione debba contribuire a cambiare il mondo.

C&Fn2Con tutte le sue contraddizioni, la cinematografia hollywoodiana è, in genere, supportata da entrambe le riviste. È pur vero che “Cinema&Film” dedica gli approfondimenti ai grandi autori come Rossellini, Godard e Straub o, in diverse occasioni, al “nuovo cinema italiano”, ma, sostiene Chessa, “avendo sempre negli occhi la lezione dei grandi maestri americani” come Hawks, Walsh, Ford, Chaplin, Welles ecc. “Cinema&Film” dedica molto spazio al “New American Cinema”, mentre “Ombre rosse”, pur occupandosi di questo fenomeno, opta, a partire dal quinto numero, per la cinematografia del Terzo mondo, soprattutto latinoamericana, individuando in essa “un modello da imitare nella definizione di un cinema d’intervento che non si rassegni alla piatta illustrazione dei fatti o alla propaganda, sia pure rivoluzionaria”.
“Ombre rosse” si pone come “avanguardia teorica di un cinema politico che si vorrebbe allo stesso tempo militante e rivolto alle masse, alla ricerca di una norma rivoluzionaria”. “Cinema&Film”, come cinema politico, privilegia, invece, “quello che si manifesta come tale sul piano del linguaggio”; ad essere enfatizzata è la rivoluzione formale che si manifesta in alcune pellicole, pertanto il discorso tende ad essere centrato su “eccezioni” al cinema tradizionale portate da autori come Godard, Rocha, Bene ed, in generale, dal “New American Cinema”. La “questione del linguaggio e del suo rapporto con il politico”, sul finire degli anni ’60, è fonte di riflessione e discussione; come conciliare una volontà contenutistica rivoluzionaria con il mantenimento della “lingua dei padroni”, e di “modalità comunicative, figurative, espressive imposte dal capitale”? La ricerca di un cinema diverso sia dal punto di vista linguistico che politico, finisce, inevitabilmente, con la critica del suo processo di produzione. “Cinema&Film”, sostiene Jacopo Chessa, pare più critica nei confronti “del cinema in mano agli ‘autodidatti’, ai collettivi studenteschi o politici che spesso si limitano a registrare delle situazioni”, “Ombre rosse” sembra, invece, aprirsi maggiormente a tali esperienze anche se il conseguimento di “un cinema veramente militante” pare restare più un’ambizione che non un’esperienza realmente conseguita.

L’intervento di Adriano Aprà ricostruisce la nascita della rivista romana a partire dall’uscita di un gruppo di giovani critici da “Filmcritica” e ricorda come il titolo della testata “Cinema&Film” (“C&F” come acronimo), nel suo legare i due termini senza spazi intermedi, corrisponde allo spirito del gruppo che ha dato vita alla rivista: “l’astratto (cinema) non disgiunto dal concreto (film), la teoria strettamente legata alla pratica”. Il comitato direttivo originario risulta composto, oltre che dallo stesso Adriano Aprà, in veste di direttore responsabile, da Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli e Stefano Roncoroni. Nel corso della breve vita della rivista, alcuni dei critici della prima ora abbandonano e si aggiungono nuovi collaboratori come Franco Ferrini, Gianni Menon, Piero Spila, Enzo Ungari, Oreste De Fornari, Alfredo Rossi e Paquito Del Bosco.
Per farsi un’idea degli interessi di “Cinema&Film”, Aprà invita a passare in rassegna le immagini pubblicate in copertina e controcopertina: n. 1: Rossellini/Pasolini; n. 2: Chaplin/Godard; n. 3: Bertolucci/Bellocchio; n. 4: Welles/ Ferreri; n. 5-6: Straub-Huillet/Ponzi; n. 7-8: mosaico di nove giovani registi italiani/mosaico di foto tratte dai loro film; n. 9: Chaplin/Bene; n. 10: Hitchcock/Oshima; n. 11-12: Dreyer/Buñuel. Informazioni circa le preferenze dei critici di “C&F” si possono ricavare anche dall’elenco dei cineasti a cui viene chiesto di partecipare alla stesura delle classifiche dei migliori film: Amico, Bargellini, Bellocchio, Bertolucci, Brunatto, Cottafavi, Del Monte, Ferreri, Orsini, Pasolini, Rocha, i Taviani. Inoltre, tra gli altri autori amati dalla rivista romana, Aprà ricorda Ingmar Bergman, John Ford, Jerry Lewis, Michelangelo Antonioni, Eric Rohmer, Stanley Kubrick, Jacques Tati, Claude Chabrol e Glauber Rocha. Diverse anche le interviste pubblicate, tra le tante vale la pena citare quelle a: Dušan Makavejev, Robert Kramer, Ferreri, Jean Rouch, Straub, Bergman, Ponzi, Gianni Amico, Gian Vittorio Baldi, Bertolucci, Olmi, Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani, Glauber Rocha, Gustavo Dahl e Carmelo Bene. Se tali elenchi testimoniano la “tendenza cinefila” del gruppo, il racconto di Aprà prosegue nel ricostruire “la tendenza teorica” della rivista. In questo caso la semiologia ha un ruolo importante, sono infatti stati pubblicati testi di Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Roman Jakobson e Christian Metz, oltre che scritti di (e su) Ejzenštejn, Dziga Vertov, Erwin Panofsky, Emilio Garroni, Theodor W. Adorno, Roger Munier. Adriano Aprà, a proposito della teoria, tiene a sottolineare che, per quanto lo riguarda, è stata intesa come “strumento per l’analisi dei film”, dunque “una teoria immediatamente da applicare alle opere”.
Nel suo intervento, Luigi Faccini, ricorda le riflessioni del gruppo di “C&F” a proposito del linguaggio e dello stile da utilizzare negli articoli al fine di indagare le scelte stilistiche dei cineasti. Ed è proprio a partire dall’analisi delle scelte stilistiche dagli autori che diversi critici iniziano a studiare regia.

ombre-rosse-nr.6Goffredo Fofi, invece, nel ricostruire il clima degli anni ’60, entro cui nascono le due riviste, si riferisce a quel periodo come “l’ultima epoca davvero vitale delle arti, quella della presa di parola di una generazione irrequieta che rifiutava i diktat delle ‘scuole’ consolidate ‘di destra’ o ‘di sinistra’ – in Italia, del corporativismo romano-centrico, dei bavosi residui zavattiniani, degli ottusi ideologismi aristarchiani (e togliattiani), delle tranquille degustazioni borghesi, di un angusto cattolicesimo non scosso, in cinema, dall’’aggiornamento’ conciliare. Una generazione che voleva dire la sua, mettersi in gioco, entrare in lizza. Non solo i registi, anche i critici. Ma mentre i primi si erano mossi per tempo, approfittando del boom e della funzione civile e di massa che il cinema continuava a svolgere, i secondi si dimostravano molto più lenti, i giovani imbarazzati da vecchi invadenti e ricattatori. Fu sulla scia di quel che accadeva a Parigi – e per opera di giovani italiani che la Parigi della Nouvelle Vague e dei ‘Cahiers’ oppure di ‘Positif’ (e di ‘Les Temps Modernes’, ‘Esprit’, ‘Le nouvel observateur’) frequentavano assiduamente, chi direttamente e chi semplicemente divorando le loro pagine – che nacquero ‘Cinema&Film’ e ‘Ombre rosse’”. Fofi sottolinea come entrambe le riviste possono essere definite militanti, seppur pur in maniera diversa: “Cinema&Film” “ancorata al cinema e nella speranza-illusione di creare un movimento di nuovi registi (ne vennero, ma assai deboli) e incidere dal centro del mini-impero cinematografico della capitale, della centralità romana”, mentre “Ombre rosse” la descrive come “inserita in una battaglia culturale di più ampio raggio”, all’interno di un dibattito che vede nell’intervento politico “lo sbocco delle ricerche e tensioni culturali”. Con il ’68 tutto si intensifica e tutto si trova a gravitare attorno ad un movimento che mette “la politica al primo posto”.

Gianni Volpi evidenzia come la visione del ruolo del cinema dei giovani critici di “Ombre rosse”, si trovi, sin da subito, a cercare punti fermi nei francofortesi, nelle avanguardie, in Brecht, nel surrealismo, in Majakovskij, ed in generale nel clima culturale degli anni ’30. L’aspetto critico che sicuramente contraddistingue “Ombre rosse”, non deve sminuire l’attenzione rivolta dalla rivista “ai valori di linguaggio (e ad altri linguaggi: vedi il fumetto con le tavole-recensione disegnate appositamente da Buonfino o Crepax o Ballesta, o il romanzesco dei generi bassi)”.

ombre-rosse-nr.7 Volpi sostiene che le due testate nascono dall’insoddisfazione per la cultura cinematografica dominante e che, in entrambi i casi, il tentativo è quello “di porsi come interlocutori reali di alcuni autori, seppure diversi per ciascuna delle due riviste”, cioè di confrontarsi con chi praticamente realizza film. Tra gli autori amati da “Ombre rosse” ricorda Welles, Buñuel, Lang e Losey, definiti all’epoca come “i grandi della negazione”, capaci di “negare il mondo così com’è” e di “proporre forme e visioni in grado di scavare oltre la superficie”. Poi, ancora, la rivista indaga il cinema di Bresson, “espressione di un cattolicesimo come linguaggio e non come posizione”, alcuni autori della Nouvelle Vague, Rocha, Guerra, Solanas, il “Cinema nôvo” brasiliano, quello latino-americano, il cinema cubano, vietnamita ecc., senza dimenticare l’interesse per il “cinema militante”. Ad essere amati sono anche gli autori della “crisi del sogno americano” come Penn, Cassavetes, Jerry Lewis, poi, più tardi, Kazan e Robert Kramer. A parte i casi di Bellocchio e Ferreri, il cinema italiano, a causa di quella che Volpi definisce la sua “medietà”, viene invece sostanzialmente rifiutato dal gruppo di “Ombre rosse”.

La sezione antologica di Barricate di carta, per quanto concerne gli scritti di “C&F”, riproduce, in maniera parziale o integrale: “Editoriale” n. 1 Testo redazionale – “Godard à part, la bande des autres…” di Luigi Faccini – “Editoriale” n. 2 Testo redazionale – “Riflessione prima sui metalinguaggi critici” di Luigi Faccini; “Due o tre cose su Roberto Rossellini” di Maurizio Ponzi – “Immagine autoritaria e immagine trascendente” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 4 Testo redazionale – “Verso un cinema di risposte?” – “Editoriale” n. 5-6 Testo redazionale – “Cinema con le mani sporche” di Adriano Aprà – “Un totale equilibrio incarnato” di Adriano Aprà – “Editoriale” n. 7-8 Testo redazionale – “Nosferatu ’70: una sinfonia del disordine”di Enzo Ungari – “Appunti su una teoria del film permanente” di Piero Spila – Jack e il principe Hal poi Henry V” di Maurizio Ponzi – “I migliori rivoluzionari del 1968” di Maurizio Ponzi – “Le cadavre exquis del cinema rivoluzionario”di Piero Spila – “Sogni rubati” di Alfredo Rossi – “West by Northwest” di Franco Ferrini – “Introduzione all’arcipelago Hitchcock” di Enzo Ungari – “Editoriale” n. 11-12 Testo redazionale – “Dreyer: artificio, spazio, luce” di Adriano Aprà.
Per quanto concerne, invece, gli scritti di “Ombre rosse”, sono riprodotti, in maniera parziale o integrale: “Way Down East” di Goffredo Fofi – “A film politico giudizio politico” a cura di Paolo Bertetto, Goffredo Fofi, Massimo Negarville, Vittorio Rieser, Gianfranco Torri, Gianni Volpi – “Per una veridica filmografia del verace” di Saverio Esposito – Marco Bellocchio: Vento dell’est. Intervista su La Cina è vicina” a cura di Goffredo Fofi – “La negazione assoluta di Bresson” di Gianni Volpi – “Autunno senza Cheyenne. Ford e Missione in Manciuria” di Piero Arlorio – “Segni di riscontro su una vecchiaia felice” di Goffredo Fofi – “I verdi prati di Oxbridge. ‘incidente di Joseph Losey” di Gianni Volpi – “Ganster Story” di Juan Ballesta – “Cul de sac” di Guido Crepax – “Cultura al servizio della rivoluzione” Testo redazionale – “Godard uno e due. Masculin Féminin, Week-end” di Gianni Volpi e Paolo Bertetto – “Il cinema e il movimento studentesco” di Massimo Negarville – “Il cinema come fucile. Intervista a Fernando Solanas” a cura di Gianni Volpi, Piero Arlorio, Goffredo Fofi e Gianfranco Torri – “La prigione cristiana. Nazarin, La via lattea” si Goffredo Fofi – “Andremo a Thaiti. Dillinger è morto” di Gianni Volpi – “Alla ricerca del positivo” di Goffredo Fofi – “Cronaca del Cronopio: critica e intervento” di Goffredo Fofi.

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Quando l’immagine è politica https://www.carmillaonline.com/2015/09/21/quando-limmagine-e-politica/ Mon, 21 Sep 2015 21:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25110 di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, [...]]]> di Massimiliano Coviello

cinema-uva-immagine-politicaChristian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano – Udine, 2015, 210 pagine, € 24,00

Il volume di Christian Uva prende avvio dalla riflessione sul politico, inteso come dimensione della vita pubblica nelle sue relazioni con il potere, svolta dallo storico e teorico del cinema Maurizio Grande in Eros e Politica. Sul cinema di Bellocchio Ferreri Petri Bertolucci P e V. Taviani (1995). A partire dalle pellicole girate negli anni Settanta da Bellocchio, Ferreri, Petri, Bertolucci e dai Taviani, Grande, che per diversi anni intrattenne un dialogo vivace con Gilles Deleuze e Carmelo Bene, utilizza l’aggettivo politico non tanto per quei film che sviluppano il loro intreccio a partire dalla rappresentazione di un particolare contesto politico (è il caso della politica messa in scena nei film legati alla cronaca o in quelli di propaganda), quanto piuttosto per individuare le opere che possiedono un senso politico e suscitano interrogativi politici.
L’immagine politica si appropria del paradigma inaugurato da Grande. Pertanto il volume di Uva non è una storia per immagini degli anni Settanta e delle lotte che li hanno segnati ma un’analisi che, a partire da un accurato studio storico e critico delle riviste cinematografiche e di quelle dei gruppi extraparlamentari, del cinema, del video e della fotografia militante, offre al lettore un’analisi del contropotere delle immagini, delle sue forme e della sua efficacia sociale, politica, nonché della sua capacità di imprimersi nell’immaginario collettivo.

Il contropotere, ossia «contestazione, rivoluzione, resistenza, antagonismo» (p. 10), messo in atto dalle e per il tramite delle immagini configura queste ultime come armi capaci di enunciare un discorso e di sprigionare un senso politico di natura antagonista ma anche di denunciare, ossia di offrire una risposta, quella della controinformazione, al malcontento crescente nei confronti degli organi di stampa e dei mass media in varia misura conniventi con il discorso istituzionale.

L’immagine politica ha una scansione cronologica che intreccia gli eventi alle trasformazioni tecnologiche, stilistiche e contenutistiche connesse alle immagini e ai loro medium di propagazione e diffusione sociale. Il volume prende avvio dalle lotte studentesche e operaie della seconda metà degli anni Sessanta, un periodo in cui si afferma il “cinema militante”, una fase «nella quale fiorisce una nutrita produzione di materiali di “servizio alla causa” di matrice fondamentalmente documentaria» (p. 15). Al centro della seconda sezione, dedicata agli anni Settanta, vi sono i linguaggi elettronici del video: la tecnologia elettronica esce dagli studi televisivi e diventa un strumento accessibili ai molti per supportare, sovvertendo i mezzi di produzione, l’attivismo politico e le istanze trasformatrici del periodo. L’ultima parte di questo percorso sul contropotere delle immagini negli anni Settanta è dedicata alla fotografia, un apparato di cattura che in quel periodo è al servizio di scopi e regimi discorsivi molto diversi, dalle Polaroid delle Brigate Rosse alle “immagini del movimento” di Tano D’amico.

Andiamo per gradi e proviamo a offrire una panoramica su ciascuna delle sezione di cui si compone L’immagine politica.

Fotogramma tratto da Ipotesi su Giuseppe PinelliA cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il dibattito sullo specifico ideologico e linguistico del cinema politico imperversa su riviste come «Cinema&Film» «Ombre Rosse» e «Cinema Nuovo». A confrontarsi sono posizioni contrastanti a proposito della dimensione didattica del film, dell’accesso democratico al mezzo e alla grammatica cinematografica, della militanza e della rivoluzione culturale condotta attraverso il cinema. D’altra, parte anche la pratica del cinema militante si presenta come un coacervo di istanze produttive: dai gruppi extraparlamentari alle riviste come «Lotta Continua», dai collettivi studenteschi come il “Collettivo cinema militante Milano” a quelli operai e femministi, come il “Collettivo di Cinema femminista”, sino ai gruppi e ai comitati che riunivano registi e cineasti come il “Comitato cineasti italiani contro la repressione”, formatosi all’indomani della strage di piazza Fontana avvenuta il 12 dicembre 1969. Uno dei gruppi del comitato dei cineasti, realizza, con il coordinamento di Elio Petri, Ipotesi su Giuseppe Pinelli (o Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli). Le tre versioni sul presunto suicidio dell’anarchico milanese sono restituite allo spettatore grazie alla capacità attoriale di Gian Maria Volonté «nella funzione di persona/personaggio interna/esterna alle tre “narrazioni” che ricostruiscono, sfruttando le diverse e contraddittorie indicazioni fornite dalla Questura, i vari scenari dai quali emerge in definitiva l’impossibilità materiale della caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra» (p. 70).
A livello delle tecnologie usate dal cinema militante dell’epoca, tematiche e rivendicazioni vengono documentate e raccontate attraverso quei formati ridotti come l’8mm e il 16mm che consentivano l’alleggerimento dell’apparecchiatura e davano al cineoperatore, professionista o amatoriale, la possibilità di cogliere sul fatto le manifestazioni e le proteste, le assemblee e gli scioperi.
Tra le esperienze più fertili e riuscite di questa stagione si può ricordare la serie dei Cinegiornali Liberi realizzati da Cesare Zavattini a partire dal 1967, nei quali l’utilizzo del piano sequenza “adegua” l’estetica del pedinamento di matrice neorealista ad un cinema di analisi e di intervento, militante e di azione, «un cinema di tanti per tanti» (p. 42) che però prevede la presenza e il supporto di intellettuali e registi.
In pieno Sessantotto il Movimento Studentesco dell’Università “La Sapienza”, con il coordinamento del regista Silvano Agosti, realizza quattro cinegiornali sulle manifestazioni romane. Ben presto alcune immagini di questi cinegiornali (il ferimento di Oreste Scalzone, allora leader del Movimento Studentesco, le cariche violente della polizia contro i manifestanti che protestano per l’arresto di Piperno e Russo) vengono «fagocitate e reiterate in più momenti dalla televisione, diventando tout court il simbolo di quella stagione» (p. 49).
Matti da slegareCon l’arrivo degli anni Settanta il cinema militante inizia a produrre immagini e discorsi su due nuove direttrici che possono essere definite a partire da alcune parole chiave la prima è sintetizzata dalle rivendicazioni sociali delle minoranze, la seconda, sulla scorta dell’ascesa del terrorismo di destra e la strage di piazza Fontana, fonde le lotte studentesche e operaie al passato della Resistenza. Nella prima direttrice rientrano opere importanti come il documentario, girato nel 1975, tre anni prima della legge Basaglia, Matti da slegare di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Gli autori di Matti da slegare mostrano gli spazi interni dell’ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) e le strutture esterne di recupero in cui venivano impiegati alcuni dei ricoverati dismessi e soprattutto deliberatamente rifiutano «un ruolo puramente documentaristico o di informazione, optando piuttosto per un intervento diretto sulla realtà politica e sociale di uno spazio fisico che, nel frangente, è quello dell’emarginazione dei malati di mente» (p. 58).

Fotogramma da Pagherete caro Pagherete tutto, la morte di ZibecchiLa seconda direttrice intrapresa dal cinema militante, a fianco di quella a vocazione sociale e femminista, è quella ideologica e militante. All’interno di questa direttrice, oltre al lavoro di Volonté e al già menzionato Ipotesi su Giuseppe Pinelli, rientrano operazioni di controinformazione militante che si impegna a offrire immagini e punti di vista sulle manifestazioni, sulle violenze della polizia e sul terrorismo nero opposti a quelli forniti dalla stampa e dalla televisione. Due titoli. Il primo è Pagherete caro pagherete tutto (1975) del Collettivo cinema militante Milano, «vero e proprio manifesto dell’antifascismo militante […], realizzato durante le “calde” giornate dell’aprile 1975» (p. 78). Pagherete caro pagherete tutto è il resoconto delle uccisioni compiute dall’estremismo di destra (l’omicidio di Carlo Varalli) e dalla polizia (Giannino Zibecchi, investito da una camionetta della polizia durante le manifestazioni per la morte di Varalli). Il secondo film è Filmando in città – Roma 1977, realizzato da Lotta Continua per documentare, con immagini fisse e in movimento, spesso a bassa definizione, la repressione di stato e le violenze della polizia. Uva, che nella sezione dedicata alla fotografia, analizzerà gli scatti realizzati da Tano d’Amico su quegli stessi eventi, in particolare l’arresto e il ferimento di Paolo Tommasini (Paolo) e di Leonardo Fortuna (Daddo), attribuisce alle immagini di Filmando in città la «funzione di inoppugnabili prove, tracce, indici di una violenza e di una criminalità di cui si intende responsabilizzare lo Stato» (p. 85).

Le tecnologie di ripresa e registrazione elettronica vengono impiegate per la prima volta al di fuori degli studi televisivi a metà degli anni Sessanta grazie a tre noti artisti, precursori della video arte: Andy Warhol, Les Levine e Nam June Paik. È soprattutto quest’ultimo a pensare e adoperare il video come strumento antagonista rispetto alla televisione e a sostenere la nascita di una controcultura fondata su questa tecnologia. Dal punto di vista tecnico, il video può essere considerata l’“arma” ideale per la militanza e la guerriglia urbana. Esso è in grado, seguendo la teoria e la pratica vertoviana, di cogliere e restituire la vita colta sul fatto, inoltre permette di produrre immagini facilmente rielaborabili in fase di post produzione, infine, come già accennato, l’utilizzo del video da parte delle controculture è in opposizione alla produzione televisiva con la quale condivide la stessa matrice tecnologica.
Nel 1964 il padre degli studi sui media, Marshall McLuhan, dà alle stampe Understanding Media: The Extensions of Man (Gli strumenti del comunicare). Nel volume McLuhan classifica come freddi i medium che hanno una bassa definizione e che quindi richiedono un’alta partecipazione dell’utente, in modo che egli possa riempire e completare le informazioni non trasmesse; i media caldi sono invece quelli caratterizzati da un’alta definizione e da una scarsa partecipazione. Leggerezza del dispositivo, bassa definizione dell’immagine e alto livello di partecipazione e coinvolgimento: il videoattivismo, cinquant’anni prima dell’avvento dei social media e del giornalismo partecipativo, sembra possedere, in misura maggiore rispetto al medium televisivo, tutte le caratteristiche per essere una di quelle pratiche mediali che McLuhan avrebbe definito come fredda.
Rispetto all’utilizzo coevo del mezzo televisivo e del cinema, la politicità dell’immagine video si esprime, in primo luogo a livello temporale. Il video, a differenza del cinema, non riproduce il tempo ma lo produce: l’immagine si genera e si trasforma mentre l’evento ha luogo. Inoltre, Uva rileva la centralità del flusso video che risponde a «quell’urgenza […] di porsi in presa diretta con la realtà» (p. 97). La registrazione in tempo reale e il long take ben si adeguano alle necessità di processualità, trasformazione e immediatezza che sono racchiuse nell’idea di rivoluzione permanente ritornata in auge negli anni Settanta.
In Italia, il termine “videoteppisti” compare in quello che potrebbe essere definito il manifesto del video militante: Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, un volume a cura di Roberto Faenza, edito da Feltrinelli nel 1975. Accanto ad alcune importanti proposte programmatiche ed estetiche sull’uso del video per una comunicazione partecipata e paritetica, Senza chiedere il permesso istruisce i suoi lettori sulla tecnica e la pratica del mezzo che, a differenze delle compatte fotocamere digitali, era ancora un sistema composto da due dispositivi separati, la telecamera con il microfono e il videoregistratore, e aveva dei costi elevati. Pertanto Faenza, che è ben consapevole della valenza politica dei media e della necessità per il proletariato di conoscere e controllare i propri mezzi di comunicazione, promuove un uso collettivo del videotape per «controllare e non di farsi controllare dalla tecnologia» (p. 95). All’esaltazione, tipica del periodo, di una produzione partecipata dal basso spesso fondata sullo spontaneismo, Faenza accosta la riflessione sulla dimensione processuale che la tecnologia video garantisce sia in fase di registrazione (la vita colta sul fatto) sia in fase di fruizione (il flusso di immagini che può restituire l’evento nel suo farsi) e che si oppone e nasce per contrastare l’idea di ricezione passiva del prodotto televisivo.
Come per il cinema militante, anche nel caso delle esperienze video i temi delle lotte sociali si affiancano all’antagonismo politico. è il caso di Processo per stupro (1979) di Loredana Rotondo, prodotto dal movimento femminista per denunciare l’arretratezza della legislazione italiana in materia. Trasmesso dalla Rai e presentato in diversi festival del cinema, Uva definisce Processo per stupro un oggetto narrativo non identificato per il suo carattere ibrido, «a cavallo tra prodotto televisivo di servizio pubblico e video militante» (p. 111).
Tra le esperienze di video attivismo più importanti, sia dal punto di vista della militanza sia per la consapevolezza tecnica e teorica del mezzo, c’è quella di Videobase. Il collettivo nasce nel 1971 e comprende Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leo. Lottando la vita (1975), girato tra i lavoratori italiani a Berlino, e Il lavoro contro la vita (1979), un’inchiesta sul petrolchimico di Porto Marghera realizzato per Rai Tre, condensano, già a partire dai titoli, la proposta teorica, estetica e politica di Videobase. Se il video è in grado di catturare il flusso vitale degli eventi e degli esistenti, allora esso è anche capace di “dirottare” questo flusso al di fuori delle processi di irreggimentazione a cui la politica ha sottoposto la vita. Ad una società disciplinare, fondata sull’esercizio della violenza e della repressione poliziesca delle manifestazioni, Videobase contrappone una biopolitica affermativa che, pur non potendo prescindere dalle lotte, è «intesa come politica condotta in nome e a difesa delle forme di vita» (p. 130). Per Videobase non esiste un confine tra osservatore e osservatore: nella loro pratica, in cui è evidente il debito nei confronti del documentario etno-antropologico, vige una tendenza “immersiva” nei confronti dell’ambiente, spesso i testimoni e gli intervistati vengono inquadrati mentre guardano e dibattono su ciò che è stato girato in precedenza. Tali strategie permettono a Videobase di rafforzare la dimensione performativa e partecipativa del video.
Le strategie del controllo, le forme della sorveglianza, le pratiche dell’irreggimentazione: al centro della produzione di Alberto Grifi ci sono molte delle tematiche studiate da Michel Foucault (Surveiller et punir viene pubblicato nel 1975; due anni prima, Gilles Deleuze e Félix Guattari avevano scritto L’Anti-Edipo, incentrato sulla contrapposizione tra desiderio e capitalismo). Ne Il festival del proletariato giovani al Parco Lambro (1976) Grifi coordina la regia di quattro troupe di “videoteppisti” catturando, contro il parere degli organizzatori, tutte le contraddizioni e le proteste emerse durante il festival milanese. In Lia (1977), un piano sequenza di oltre venti minuti serve a raccogliere le parole dell’omonima studentessa che, durante un’assemblea sull’antipsichiatria, smonta la retorica dei collettivi di sinistra. Fotogramma tratto da Anna di GrifiMa è soprattutto in Anna (1972-1975) che le tematiche sopra elencate incontrano le immagini più intense, immagini capaci di articolare un complesso discorso sulla follia e la sessualità. Anna è un progetto talmente sperimentale che la forma di vita che esso tenta di raccontare – la cronaca di una minorenne sarda, ospitata dall’attore Massimo Sarchielli, che sul proprio corpo gravido reca i segni della contenzione e della tossicodipendenza– impone continue trasformazioni alle forme della rappresentazione: dalla pellicola al video, dalla creazione di una traccia di lavoro per il film alla scelta di registrare tutto ciò che accade prima e dopo e le scene, sino allo scavalcamento dello spazio che separa la troupe e il profilmico per mezzo del gesto compiuto dall’elettricista Vincenzo Marra che entra in campo per dichiarare, di fronte all’obiettivo, il suo amore per Anna.

I primi congegni di ripresa foto-cinematografica sono costruiti e lessicalizzati sul modello dell’arma da fuoco: uno degli esempi più noti è il fucile cronofotografico di Étienne Jules Marey, fabbricato alla fine dell’Ottocento, con cui era possibile mirare e fotografare un oggetto in movimento nello spazio. Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia (1978) di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni, una sintesi delle buone pratiche per realizzare immagini della e per la lotta, è in perfetta continuità con la semantica e la pragmatica che legano le capacità scopiche, mediate dall’apparato fotografico, e la potenza di fuoco in ambito militare. Naturalmente, il manuale edito da Savelli compie un’operazione di parziale inversione, spostando “il fuoco” dal contesto bellico a quello delle lotte di piazza: «la messa a fuoco del soggetto su cui gioca il titolo del manuale si fa così lo strumento attraverso il quale l’atto fotografico diventa un vero e proprio atto politico» (p. 196). Come accade per altri volumi coevi – oltre al testo di Faenza già menzionato si può ricordare anche L’arma dell’immagine. Esperimenti di animazione sulla comunicazione, realizzato dal Laboratorio di Comunicazione Militante per fornire strumenti di analisi dell’immagine giornalistica capaci di svelarne il portato sensazionalistico e repressivo – l’educazione alla tecnica non è scindibile da quella politica.

giuseppe-memeoLa fine degli anni Settanta è caratterizzata dalla convivenza delle istanze vitali e desideranti che hanno animati i movimenti e la loro produzione audiovisiva, con una pulsione distruttiva e mortifera che trova nel terrorismo e nelle sue immagini fotografiche la fonte principale. Per questo Uva sottopone ad attenta analisi la nota istantanea dell’ “uomo che spara” (Giuseppe Memeo, esponente di Autonomia Operaia), scattata in via De Amicis a Milano il 14 maggio 1977, mostrandone le manipolazioni e gli ingrandimenti adoperati dai quotidiani dell’epoca, comparandola con le altre foto scattata durante quella giornata (Carmilla), rinvenendo le somiglianze e i rimandi tra questo corpus fotografico e i generi cinematografici all’epoca in voga, dal western al poliziottesco italiano, riportando il dibattito tra intellettuali che quella foto, fin da subito un simbolo (lavoroculturale), aveva scatenato. Pur ribadendo che con quella foto il terrorismo fa il suo ingresso nella cultura visuale italiana dell’epoca, Uva riconduce l’immagine dell’uomo che spara all’interno di una costellazione discorsiva più ampia, capace di individuare le molteplici ragioni che hanno trasformato via De Amicis nel set in cui si è consumato un momento importante per la capitolazione dei movimenti e l’esplosione della violenza terroristica.
Con l’arrivo del Settantotto l’immaginario è invaso dalle polaroid scattate dalle Brigate Rosse ad Aldo Moro. Nel formato scelto, che elimina le fasi di sviluppo e stampa della fotografia, e nelle modalità della messa in scena, la “prigione del popolo” nella quale campeggia la stella a cinque punte, il volto in primo piano del ministro che guarda in macchina, l’elemento metalinguistico e probatorio della prima pagina di Repubblica con il titolo cubitale del sequestro che compare in una delle polaroid, il modello «indiziario fondato sui canoni della fotografia segnaletica (denotante) e quello prettamente comunicativo-propagandisco (connotante) trovano una perfetta sintesi» (p. 205). Istantaneità dello scatto, efficacia indiziaria e persuasiva (il mezzo busto di Moro interpella lo spettatore alla stregua dello Zio Sam con suo il dito puntato e la didascalia “I want you”): la disfatta del corpo del potere immortalato nelle polaroid delle BR costruiscono un “canone” estetico per gran parte dell’iconografia terroristica coeva e di quella futura, sino a video diffusi su YouTube dall’IS (doppiozero).
Il poliziotto Giovanni Santone fotografato da DamicoChiude l’ultima sezione del volume il capitolo dedicato alla produzione di Tano D’amico (lavoroculturale) nella quale ritornano le istanze vitalistiche di cattura del flusso della vita e delle trasformazioni dei movimenti si legano alla necessità di denunciare le ingerenze del potere politico nelle sue bieche derive poliziesche. è il caso della fotografia che immortala l’agente di polizia Giovanni Santone infiltrato tra i disordini successivi al sit-in del maggio 1972, indetto a Roma dal Partito Radicale, in cui rimane uccisa Giorgiana Masi. Con gli scatti del fotografo siciliano si chiude il percorso intrapreso da L’immagine politica e il lettore può rivolgere il suo sguardo verso delle immagini disposte a raccogliere i volti e i sentimenti della storia dei movimenti. E D’Amico, seppur dietro l’obiettivo, si sente con fierezza parte in causa di questa storia.

Fotogramma da solo limoniLe immagini politiche analizzate da Uva custodiscono e sono ancora capaci di spigionare la loro efficacia? Queste immagini sanno offrire allo spettatore contemporaneo una risposta alla domanda di contropotere e di controinformazione? Queste domande sembrano emergere in filigrana in diverse parti de L’immagine politica e le risposte non risiedono esclusivamente nell’elevata accessibilità dei dispositivi di cattura e riproduzione digitale, quanto piuttosto nella volontà degli spettatori contemporanei di saper esporre e montare le immagini del presente assieme e a partire da quelle del passato, strappando queste ultime al fenomeno di fagocitazione degli immaginari legati alle contestazioni politiche spesso attuato dai media. Si tratta quindi di un processo di analisi, critica e storica, condotto attraverso le immagini che, per esempio, viene messo in evidenza dallo stesso Uva quando compara la frontalità del cadavere del militante antifascista Zibecchi, investito da una camionetta dei carabinieri durante le proteste milanesi dell’aprile del 1975, congelata in una delle inquadratura di Pagherete caro pagherete tutto con una delle tante immagini digitali del cadavere di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda durante le manifestazioni contro il G8 di Genova del 2011. Un’altra risposta giunge nelle conclusioni di Uva dove, ancora una volta, sono le “immagini povere” che ancora oggi si rendono disponibili a un’apertura delle potenzialità autenticative e rielaborative rese possibili dalla bassa definizione. È il caso della produzione poetica e militante di Pippo del Bono, condotta attraverso lo smartphone, in opere come Amore Carne (2011), Sangue (2013) e La paura (2009) o di Giacomo Verde che Solo limoni (2001) (vimeo.com), rimonta le immagini del G8 per rivelare come lo schieramento antisommossa adoperato dalla polizia in seguito alla morte di Giuliani abbia principalmente un obiettivo scopico, quella di occludere la visione del cadavere.

 

 

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 72 https://www.carmillaonline.com/2015/06/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-72/ Thu, 11 Jun 2015 20:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22948 ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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