Oliver Stone – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La violenza nel cinema contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/10/21/la-violenza-nel-cinema-contemporaneo/ Wed, 21 Oct 2015 21:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25382 di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, [...]]]> di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, autore del saggio “Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo”, si ravvisa la certezza che le immagini della violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva ed, inoltre, in entrambi i casi, si ripropone l’annosa questione circa la difficoltà, se non l’impossibilità, di misurare la disposizione alla violenza di un individuo prima e dopo aver osservato immagini violente. Di maggiore utilità, secondo l’autore, risultano gli studi che, anziché preoccuparsi delle reazioni del pubblico di fronte alla violenza cinematografica, si occupano di come la violenza che attraversa la società influenzi il desiderio di assistere a film violenti.

Voglio-vedere-il-sangueUno dei motivi del successo della violenza cinematografica è dovuto al fatto che le regole del cinema narrativo impongono alla violenza sullo schermo di non essere gratuita, di avere un senso ed una struttura, cioè che vi sia consequenzialità tra gesti e comportamenti dei personaggi. Il cinema, a differenza di altri media in cui le immagini tendono ad essere decontestualizzate, offre allo spettatore una logica narrativa capace di far comprendere la violenza senza che per forza la si debba condividere. Nel cinema dell’epoca del codice Hays, ad esempio, la censura più che alla rappresentazione della violenza è interessata alle modalità di rappresentazione del mondo del crimine; “Il problema, ieri come oggi, non consiste nel tasso di violenza e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale a partire dalla quale – attraverso la narrazione – il film ordina e struttura le proprie immagini”. La violenza in un film, per poter essere socialmente e culturalmente accettata, necessita di una giustificazione che permetta allo spettatore di valutarla moralmente. La morale sembra dunque rappresentare, ben più delle reazioni dello spettatore e delle sue inclinazioni all’aggressività, un elemento di collegamento importante tra la violenza reale e quella immaginaria, in quanto gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.

wild-bunchNel cinema classico hollywoodiano, l’accettabilità della violenza considerata legittima deriva dal fatto che i film permettono di confrontarla con una violenza malvagia, fonte di disturbo per la morale dello spettatore. Nel saggio viene argomentato come i film, maggiormente discussi a proposito della rappresentazione della violenza, tendenzialmente sono quelli che scompaginano il rapporto tra violenza malvagia e violenza legittima.
Probabilmente “il momento in cui, nella rappresentazione cinematografica della violenza, la morale e l’estetica non risultano più del tutto funzionali l’una all’altra” è databile attorno alla fine degli anni ’60, quando escono film come Gangster Story (1967, di Arthur Penn) ed The Wild Bunch (1969, di Sam Peckinpah). A risultare spiazzanti sono: “la dimensione estetica della violenza” (es. uso di immagini rallentate nelle scene più crude); il fatto che a risultarne vittime siano proprio i personaggi per cui simpatizzano gli spettatori; una narrazione che induce il pubblico ad identificarsi con fuorilegge. Ecco allora che, secondo Gandini, “senza un chiaro giudizio morale a reggerla, la violenza cinematografica si carica improvvisamente di una componente di ambiguità che lascia interdetta la critica e induce il pubblico a reazioni, per l’epoca, sorprendenti e inattese”.

Per quanto riguarda il cinema moderno e contemporaneo, molti studiosi hanno notato come il parziale affrancamento della violenza cinematografica dalla struttura narrativa porti spesso ad una maggiore complessità della messa in scena della violenza e come ciò provochi negli spettatori reazioni molto diverse; da un lato tutto ciò può produrre nel pubblico un’attrazione emotiva nei confronti della violenza mostrata slegata dalle valutazioni morali, dall’altro lato può produrre, invece, in base alle scelte estetiche adottate dal film, una sorta di straniamento dello spettatore rispetto alla violenza, inducendolo a concentrarsi “sul modo della rappresentazione più che sui contenuti”. Secondo diversi studiosi, è a partire dai tardi anni ’60, quando “diventa ‘celebrativa’, che la violenza viene resa oggetto di processi di stilizzazione elaborati al punto da richiamare (…) l’attenzione del pubblico sull’eleganza della forma più che sulla brutalità dei contenuti”.

BronsonIl saggio si sofferma su di una serie di film – Strange Days (1995, di Kathryn Bigelow), Sucker Punch (2011, di Zach Snyder), Kick Ass (2010 di Matthew Vaughn), Natural Born Killers (1994, di Oliver Stone), Bronson (2008, di Nicolas Winding Refn) – che, pur in maniera decisamente diversa, pongono interrogativi circa il rapporto tra violenza e sguardo, sui meccanismi della visione, sulle modalità con cui lo spettatore, attraverso un processo di straniamento, si mantiene a distanza dagli eventi e sulle implicazioni morali.
A partire dagli anni ’70, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia ad esibire sempre più palesemente la violenza, tanto che l’autore parla di un passaggio dall’avarizia espressiva alla bulimia estetica che ha condotto tanti registi contemporanei “a rispecchiare la violenza più che a riflettervi, a renderla più accattivante che legittima”. Non è infrequente che ad uscirne sacrificata sia proprio la morale a scapito dell’estetica. Con la crescita dell’estetica della violenza, della sua massima visibilità, si è avuta una contrazione dell’immaginazione e lo spostamento della questione morale in un ambito di discussione esterno al film.

L’autore individua anche alcuni film in cui la violenza, anziché descritta, viene semplicemente evocata. La parsimonia nell’esposizione della brutalità al cinema è storicamente legata a ragioni di carattere morale ma, tale modalità, funziona in quanto costringe il pubblico a supplire con la fantasia alla carenza visiva: deve immaginare ciò che il film non mostra fino in fondo. Tale coinvolgimento in termini di immaginazione induce lo spettatore a contribuire direttamente alla rappresentazione. A tal proposito nel saggio vengono esaminati film come Dogville (2003, di Lars Von Trier), Manderlay (2005, di Lars Von Trier) e Redacted (2007, di Brian De Palma). I primi due film del regista danese, che trattano il ruolo della violenza nei rapporti sociali, presentano una smaterializzazione estrema della scenografia, con una voce narrante che commenta in maniera asettica gli eventi che portano la vittima ad optare per una forma di ritorsione violenta. Le due opere di Lars Von Trier vengono indicate da Gandini come “un’illustrazione delle modalità con cui i meccanismi della sovranità popolare partoriscono, legittimano e realizzano atti di violenza ai danni del singolo”, dunque, continua lo studioso, è a tale “idea della sovrapposizione fra violenza e diritto che si attiene lo stile dei film, nei quali i momenti di aggressività e sopraffazione vengono rappresentati con la medesima, inesorabile pacatezza con cui il popolo di Dogville e quello di Manderlay emettono le loro sentenze di morte, schiavismo e punizione corporale”. Visivamente la rappresentazione della brutalità sottostà “al principio di astrazione e razionalizzazione che governa i due film sul piano tematico, caratterizzandosi come un evento inessenziale, prosaico, ancorato alle ordinarie dinamiche di amministrazione democratica di una comunità. La violenza perde qui completamente i suoi tratti di sregolatezza, innanzitutto nel senso etimologico del termine, poiché entrambi i film ci mostrano come essa di fatto sia né più né meno che una regola, in virtù della quale viene tutelato il benessere delle due comunità”.
De Palma, nel suo Redacted, ricorrendo all’assemblaggio di filmati derivanti da fonti diverse (video amatoriali, reportage televisivi, immagini notturne ai raggi infrarossi, riprese delle telecamere di sorveglianza ecc.), sembra quasi realizzare un film che prende le distanze da quelle immagini, “il fatto che i materiali che compongono la tessitura visiva del film siano estrapolati da altri contesti e riproposti in forma sintetica e frammentata dispensa lo spettatore dalla reazione emotiva che pure essi avrebbero potuto o dovuto suscitare nella loro forma originaria”. Nel suo presentarsi come riproduzione di una violenza catturata da altri media, il film depura l’evento dal suo tratto più “sensazionale”, consentendo così alla riflessione di sostituirsi all’indignazione.
Sia nei film citati di Von Trier, che in quello di De Palma, si sostiene nel saggio, “la forma determina una distanza che permette al regista di sollecitare lo spettatore non tanto a guardare la violenza, quanto a guardare alla violenza, vagliandone cause e conseguenze che la generano e diffondono”. Gli aspetti violenti e sensazionalistici che toccano l’emotività degli spettatori vengono qui decisamente limitati nel tentativo di “rendere lo spettacolare non spettacolare”. Secondo Gandini, in tali opere, si attua un doppio atto di negazione. “Da una parte viene rinnegata l’immediatezza propria delle fotografie più cruente sull’argomento, dall’altra sono ripudiate le occorrenze stilistiche e narrative che corredano abitualmente la rappresentazione cinematografica del tema. È necessario, per dare risalto alla violenza e renderla nuovamente eccezionale, calarla in un contesto nel quale il cinema possa guardarla – e farla guardare agli spettatori – come fosse la prima volta”. Attraverso la strada dell’astrazione, nel danese, e della rimediazione, nello statunitense, tali opere determinano “un effetto straniante, indispensabile in un’epoca nella quale i media affrontano il tema dispensando a getto continuo visioni sempre più stereotipate a beneficio di spettatori sempre più distratti”.

funny game - remote controlNel saggio viene affrontato anche il film austriaco Funny Games (1997, di Michael Haneke) – di cui esiste un remake americano del 2007, ad opera dello stesso regista – opera in cui la violenza tende, per lunghi tratti, ad essere nascosta allo sguardo dello spettatore. La macchina da presa indugia spesso su luoghi diversi da quelli in cui si sta compiendo violenza affidando al sonoro il compito di farla immaginare allo spettatore. Il fatto che uno dei due assassini volga più volte lo sguardo in macchina, contribuisce a coinvolgere lo spettatore negli eventi, inoltre, suggerisce Gandini, tale espediente “accorcia ulteriormente la distanza fra i due personaggi e il regista, poiché alla fredda crudeltà con cui Haneke distilla la violenza ai suoi spettatori si unisce l’impressione, generata appunto dagli sguardi in macchina, che i due ragazzi operino da registi interni della vicenda, dettandone tempi e modi anche alla macchina da presa, nella piena consapevolezza che ‘lì fuori’, oltre lo schermo, qualcuno li sta guardando”.
Mentre nei film di Von Trier e di De Palma “la forma della violenza viene utilizzata per riflettere sulla sua genesi ed evoluzione”, nell’opera di Haneke essa “serve a mettere sotto i riflettori le sue conseguenze”. L’austriaco intende “smantellare ‘l’innocente complicità’ che correda la violenza cinematografica” e “portare lo spettatore a solidarizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici”. Haneke non concepisce la sua estetica della violenza “in termini di contenuto, ovvero nei suoi tratti di cruento sensazionalismo, ma di ricezione, ovvero dal punto di vista di una possibilità di lettura, oltre che di visione, della brutalità umana. È per questo che in Funny Games alle inquadrature fuori campo (…) ne fanno puntualmente seguito altre in campo, dove allo spettatore è data piena possibilità di cogliere nel dettaglio gli effetti della violenza che in precedenza aveva potuto percepire soltanto sul piano sonoro”.
In Dogville, sul finire del film, quando Grace decide di vendicarsi, vi è una sequenza in cui la violenza si palesa sia sul piano visivo che drammatico, analogamente anche in Funny Games si giunge a “dare al pubblico un assaggio di quello che il film, sotto il profilo estetico, non vuole essere”: si tratta della scena, girata e montata in maniera diversa dal resto del film, in cui la protagonista riesce a sparare alla testa di uno dei due giovani comportando l’affannosa ricerca, da parte dell’altro ragazzo, del telecomando per “riavvolgere gli eventi”. Il saggio si sofferma sulla logica di tale sequenza che proietta l’attenzione dello spettatore “sul carattere illusorio e manipolabile della violenza cui ha assistito sino a quel momento (…) La natura convenzionale del frammento espulso non riguarda (…) solo il piano stilistico ma anche quello narrativo, poiché la scena vede la vittima ribellarsi e vendicarsi del suo carnefice. La vicenda dunque ritrova qui, sia pure solo per un pugno di inquadrature, una logica morale, basata sulla ritorsione”.
Riflettendo sul frammento “anomalo” di Funny Games, Gandini sottolinea come lo spettatore giustifichi il ricorso alla violenza della donna in quanto reazione ad una violenza invece ingiustificabile operata dai due giovani. Per certi versi, con tale sequenza, il pubblico “viene attirato nell’orbita di violenza alla quale si illudeva, attraverso la condanna dei personaggi, di rimanere estraneo. Provando sollievo e soddisfazione per il modo con cui la moglie si sbarazza del ragazzo, egli smette di rinnegare la violenza in quanto tale, proprio perché in quel punto assume verso di essa un atteggiamento di approvazione e complicità (…) lo spettatore sin lì crede di poter uscire dal film confortato nella sua convinzione che la violenza è comunque odiosa e sbagliata, mentre in realtà, a causa di quella scena, dovrà uscirne con la convinzione che la violenza può essere sbagliata oppure legittima, a seconda delle circostanze morali che la preparano e motivano. Nello stesso tempo quel frammento – riavvolto con suprema disinvoltura in virtù di un telecomando – ci dice anche che la violenza del cinema, per quanto possa suscitare in noi sentimenti di adesione ai personaggi che la subiscono e di avversione per quelli che la infliggono, è volatile, inconsistente e relativa”.
In diversi film la questione della legittimità morale o meno del ricorso alla violenza diventa problematica, si pensi, ad esempio, ad A Clockwork Orange (1971, di Stanley Kubrick), pellicola in cui la classica contrapposizione “fra tutori e trasgressori della legge non poggia su una distinzione morale in grado di giustificare la brutalità dei primi e condannare quella dei secondi”.

sawLa produzione cinematografica degli ultimi decenni risulta decisamente variegata, tanto che non mancano esempi di film volti a tranquillizzare lo spettatore che la “violenza dei giusti” finisce col prevalere su quella “dei malvagi”, d’altra parte, sostiene Gandini, il pubblico “non ha mai smesso di volere un cinema capace di essere, al contempo, violento e morale (…) Può essere che talvolta non apprezzi la morale di un film se non la vede scritta nel e col sangue; ma certamente vuole che il sangue, nel corso del film, prima o poi si incanali lungo percorsi di retribuzione e castigo, colpa ed espiazione”. Non è, pertanto, affatto detto che un’estetica violenta neghi implicazioni di carattere etico o morale. Allo stesso tempo non è nemmeno detto che una maggior complessità estetico-narrativa comporti la scomparsa della morale.
L’imbarazzo morale provato dallo spettatore che, al cinema, osserva con piacere episodi violenti, si stempera grazie alla promessa narrativa che, prima o poi, quella violenza verrà giudicata e punita, pertanto, secondo l’autore, ad ogni “dilatazione visiva” della violenza corrisponde una narrazione in grado di giustificarla. A tal proposito ci si può riferire a quelle opere in cui la figura del killer moralista/moralizzatore agisce per punire la dilagante corruzione che lo circonda. In Seven (1995, di David Fincher) il serial killer agisce in preda ad un bisogno morale e la coppia di detective che indaga sui suoi omicidi, per dargli la caccia, si trova a doversi sintonizzare sulla “lunghezza d’onda morale del suo avversario”. Analogamente anche in Saw (2004, di James Wan) i crimini derivano dalla volontà di punire individui rei di colpe condannabili moralmente. In opere come Seven e Saw “estetizzazione e moralizzazione della violenza” coincidono e, secondo l’autore, se da un lato tali film sembrano “mettere in guardia lo spettatore contro gli eccessi della morale”, dall’altro “possiamo vedere nelle figure dei killer-moralizzatori, in quanto curatori ed artefici di messe in scena della violenza di grande complessità, un equivalente del regista dei film che li contiene, col quale condividono l’attenzione congiunta per l’etica e l’estetica del delitto. La loro condotta criminale rimanda implicitamente all’obbligo di dare alla violenza quei tratti di necessità (morale) e appariscenza (visiva) senza i quali essa oggi non può essere presentata né apprezzata”.
Nel libro non manca una riflessione su Fight Club (1999, di David Fincher), film ove, invece, la violenza diviene terapeutica; si ricorre ad essa per alleviare e curare le ferite della società contemporanea ormai totalmente anestetizzata.

reservoir-dogsL’ultima parte del saggio affronta alcune opere recenti che affrontano la violenza facendo i conti con la tradizione del cinema, soffermandosi su alcuni film di Quentin Tarantino – Reservoirs Dogs (1992); Pulp Fiction (1994); Kill Bill (2003 e 2004); Django Unchained (2012); Inglorious Basterds (2009) – e di Clint Eastwood. In questo ultimo caso, è inevitabile che, nel momento in cui le sue opere recenti affrontano la violenza, la sua presenza fisica nei film rimandi alla sua icona giovanile, dunque si inneschi un dialogo col passato.

gran-torinoIn Gran Torino (2008, di Clint Eastwood) l’ormai anziano protagonista si trova a fare i conti con il rimorso per le violenze compiute in gioventù nel corso della guerra in Corea. Il film si presenta dunque come una storia di “rimorso, pentimento ed espiazione” che, per compiersi, richiede al protagonista di riappacificarsi con la sua identità giovanile e di cimentatisi, un’ultima volta, con la violenza ma, stavolta, non in qualità di giustiziere, bensì di martire, “facendo del sacrificio del proprio corpo un atto di giustizia”.

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Gomorra, la serie https://www.carmillaonline.com/2015/02/11/gomorra-la-serie/ Tue, 10 Feb 2015 23:03:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20619 di Mauro Baldrati

Gomorra_fotoE’ l’era delle serie televisive. Accanto alla serialità di culto, Walking Dead, Breaking Bad, Doctor Who, ha preso forma una macchina seriale piuttosto articolata, Il trono di spade, True detective, Supernatural, Teen Wolf, solo per citarne alcune. Sono perlopiù produzioni americane e inglesi di genere crime, o fantasy, o storiche, come la canadese Viking, la britannica White Queen, l’americana Spartacus.

Gli americani, come al solito, primeggiano. Sono i più grandi commercianti del mondo e di tutti i tempi, ha scritto Don Winslow in Satori (un testo piuttosto commerciale, cvd), il prequel del classico di Trevanian, Shibumi. Tutto in [...]]]> di Mauro Baldrati

Gomorra_fotoE’ l’era delle serie televisive. Accanto alla serialità di culto, Walking Dead, Breaking Bad, Doctor Who, ha preso forma una macchina seriale piuttosto articolata, Il trono di spade, True detective, Supernatural, Teen Wolf, solo per citarne alcune. Sono perlopiù produzioni americane e inglesi di genere crime, o fantasy, o storiche, come la canadese Viking, la britannica White Queen, l’americana Spartacus.

Gli americani, come al solito, primeggiano. Sono i più grandi commercianti del mondo e di tutti i tempi, ha scritto Don Winslow in Satori (un testo piuttosto commerciale, cvd), il prequel del classico di Trevanian, Shibumi. Tutto in loro è commercio: il bene, il male, le emozioni, gli ideali, l’etica, la religione, lo spettacolo. Commerciano bene, per cui curano i dettagli, e se è necessario osano, perché anche il coraggio è oggetto di commercio, anche la trasgressione, lo scandalo. E il prodotto deve essere adeguato. Se c’è da spaventare, si spaventa. Se c’è da provocare, si provoca. Se c’è da offendere, si offende. Senza reticenze, spingono quanto basta. Per dire, se ci fosse da fare la rivoluzione, farebbero anche quella, se questo risultasse funzionale al commercio.

In Italia, si sa, le cose vanno diversamente. Non abbiamo quella forma di professionalità frontale, quel coraggio semplificato di tipo protestante, ma l’eterna torsione bizantina. Ci avvitiamo nella reticenza un po’ falsa del cosiddetto buonismo, con serie televisive di preti-eroi, poliziotti senza macchia, storielle edificanti, il festival di Sanremo formato famiglia, che si alternano con telegiornali dove, alle odi sperticate agli algidi personaggi governativi, seguono servizi di cronaca supersplatter con massacri e sgozzamenti riversati sul video con una violenza verbale che lascia sbalorditi.

Eppure, anche gli italiani hanno alcune qualità da capitalizzare. Se gli americani sono pronti a commerciare anche l’anima, noi abbiamo la grande arte manifatturiera. Siamo i più grandi artigiani del mondo. Forse dovremmo dire siamo stati, saremmo. Purtroppo dobbiamo parlare al passato, quanto meno al condizionale, perché il Made in Italy è stato smembrato, svenduto, rovinato dagli “eroi nazionali”, come Renzi chiama con affetto gli imprenditori, che hanno delocalizzato la quasi totalità della produzione in Cina, Turchia, Pakistan, Polonia eccetera.

E questo ovviamente si ripercuote anche nello spettacolo e nell’intrattenimento. Perché quando un patrimonio nazionale viene svilito nessuno può veramente chiamarsi fuori.
Eppure, quando ci impegniamo, riusciamo a sfornare prodotti artigianali che spaccano. La filiera non è omogenea, non c’è una linea di produzione continua, malleabile, con plot adattabili e rinnovabili, ma quella raffinatezza, quella novità che il commercio industriale non riuscirà mai a raggiungere. E questo è un ottimo segnale, significa che non tutto è perduto.

E visto che stiamo parlando di serie, ne abbiamo almeno tre di genere crime che qualificano il Made in Italy a livello globale. Diciamo che potrebbero ricrearlo, rilanciarlo, se una grossa parte degli investimenti si spostasse da quei pecorecci di nuova generazione, da quei comici che occupano tutti gli schermi possibili e anche i palcoscenici, per sostenere invece la ricerca di un nuovo brand italiano. Non si tratta di nazionalismo, che significa populismo. E’ una battaglia per liberarci dalla colonizzazione, che fa del nostro paese una terra di scorrerie di tutti quegli agenti-ragazzotti del FBI, con modelle di vent’anni che comandano squadre di agenti speciali, di commedie e/o polpettoni americani per gli americani e per i sudditi del resto del mondo. Perché solo con uno stile proprio si può essere sovranazionali. Senza, non si è che subalterni.

Le tre serie sono, nell’ordine, La Piovra, storia di mafia iniziata nel 1984 e proseguita fino al 2001 con alti e bassi, ma che ha avuto registi come Damiano Damiani e Forestano Vancini; Romanzo criminale (2008-2010), tratta dal romanzo di De Cataldo, diretta dal figlio di uno dei maestri del western-spaghetti, Stefano Sollima; Gomorra, con Saviano tra gli ideatori, con la regia dello stesso Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini. Attualmente Gomorra è in programmazione su RAI 3 alle 22 circa.

Pur nella diversità stilistica e narrativa (La Piovra ha un background più da “sceneggiato televisivo”, le altre due sono più omogenee, con più azione e violenza), le accomuna quel mix “popolare” che le rende competitive: un uso consapevole del mainstream, che tuttavia non prende il sopravvento rendendole così prodotti da supermarket adeguati alla sub-cultura cui fanno riferimento; interfacce chiare e ben delineate dove la violenza, il politicamente scorretto, il coraggio nella rappresentazione del male non sono reticenti e al contempo non costituiscono oggetti di compiacimento; un’attenzione, almeno minima, alle tematiche sociali.

Gomorra, che si concluderà sabato prossimo, riprende in parte alcuni stilemi di Romanzo Criminale. In particolare la lingua. E’ recitato in napoletano stretto, coi sottotitoli. Anche Romanzo Criminale usava il romanesco, ma Gomorra usa una vera e propria seconda lingua che assume caratteristiche di argot, senza quei doppiaggi stereotipati che appiattiscono il tutto, e tolgono un elemento fondamentale della recitazione. La quale è credibile, una discesa nella cupezza dei personaggi votati al male, senza vita, perché la loro anima è morta.

Questo però si configura almeno a partire dal quarto episodio in poi. All’inizio stupisce come i camorristi siano abbastanza simpatici, sentimentali persino, impegnati perlopiù in piccole attività illegali con qualche modesta ammazzatina. La storia riguarda le vicende di un clan, i Savastano, il cui monarca assoluto, Don Pietro, vive con la moglie, Donna Imma, in un villa ultrapacchiana (vera, perché è stata confiscata a un boss), circondato dai guaglioni. Ha anche un figlio, Gennaro, una sorta di bamboccione timido e di stomaco debole che ad ogni omicidio vomita. Ciro è il braccio destro tuttofare, che prende “il lavoro” molto sul serio. Hanno tutti famiglia, sono devoti alla Madonna, e ai loro valori, che sono il dominio incontrastato del territorio, da conquistare e mantenere con ogni mezzo.

Poi la storia si incattivisce, i personaggi si de-eroizzano sempre più per sprofondare nella loro violenza, nella prepotenza, e l’empatia con gli eroi-antieroi si stempera. Anche se, per salvaguardare almeno in parte i nostri diritti di spettatori, siamo costretti a parteggiare per i Savastano nelle guerre civili contro i nemici, almeno fino al livello di guardia della progressione criminale. Che altro possiamo fare?

Il limite di una full immersion nel negativo assoluto, peraltro, resta. E’ uno dei problemi – anzi, IL problema – di una grande opera narrativa come Le Benevole di Littell: una inevitabile identificazione con un gelido SS straniato e totalmente amorale, tra massacri e folli dibattiti sulla supremazia della razza. Ma solo fino a un certo punto. Diventa addirittura vomitevole l’overdose di violenza e di tradimento senza soluzione né riscatto, con gli eroi che si immeschiniscono in un crescendo che ci fa diventare deboli di stomaco proprio come Gennaro.

Il quale torna dall’Honduras, dove è stato inviato dalla madre Imma per organizzare il traffico di cocaina (e qui come non evocare Scarface in Colombia), trasformato in una sorta di serial killer sanguinario che scatena guerre ferocissime con gli avversari di altre cosche. E ci si mette anche Ciro, che massacra, tradisce, tortura. Pur non essendoci scene di violenza particolarmente patinata, nella quale gli americani sono grandi maestri (un richiamo obbligato è Le Belve di Oliver Stone), si sprofonda in un buio afasico di oscuramento della ragione e di tutti gli umani sentimenti che diventa soffocante. Insomma, si sta come in certi romanzi di Ellroy, dove tutti, ma proprio tutti sono marci, corrotti, traditori e assassini. Non c’è un filo di luce né di aria fresca.

Forse proprio questo non essere patinato sottrae Gomorra all’omologazione americanoide e lo rilancia come prodotto coraggioso e innovativo, anche per la fotografia ad alti contrasti con scompensi cromatici che abbiamo visto in certi servizi dei fotografi d’avanguardia inglesi. E poi non c’è la solita esibizione di limousine nere, con quelle guardie del corpo inespressive con gli occhiali alla Terminator. I camorristi sono dei soggetti in fondo tristi, morti, vestiti modestamente, che ammazzano senza la solita esibizione modaiola delle armi di ultimo modello. Realisti insomma, o addirittura reali.

La competitività del prodotto originale, sganciato dal DNA patinato dei colonizzatori, si vede anche dalla qualità della recitazione non fumettistica. Sono tutti credibili, in grado di mantenere il loro personaggio che sembra vivere di vita propria, che è uno dei requisiti – non sempre soddisfatto in molte opere – della serialità. E di nuovo il confronto coi padroni regge. Se Oliver Stone ha messo una grande attrice hollywoodiana come Salma Hayek nel personaggio di Elena Sanchez, in Gomorra c’è un’attrice di nome Maria Pia Calzone che interpreta Donna Imma. Ci hanno detto che l’attrice stava per ritirarsi a vita privata, visto che non riusciva a lavorare come voleva. Poi è arrivato il successo. Meno male, perché con quella faccia di pietra, scolpita da una luce gelida, e quella parlata in napoletano, Donna Imma davvero non ha rivali.

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THE CANYONS VS LE BELVE https://www.carmillaonline.com/2014/01/24/canyons-vs-le-belve/ Thu, 23 Jan 2014 23:10:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12262 di Mauro Baldrati

CANYONSbelveIl regista Paul Schrader e lo scrittore-sceneggiatore Bret Easton Ellis sono un’accoppiata decadente. Puro decadentismo storico occidentale, epica delle persone-oggetto, incroci tra larve lacerate dal gelo di vite fallite e oggetti dominati dalle proprie ossessioni, dall’impotenza affettiva. The Canyons è un OGM filmico di queste tematiche, di questa estetica, di questa immobilità. E’ ambientato nei dintorni di Los Angeles, villa con vista sull’oceano, nel downtown di un’umanità giovanile, rampante, post-yuppie, ossessionata dal successo e dal “vizio” ma anche terrorizzata dalla povertà. In questo l’astuto Easton Ellis sembra perfettamente a proprio agio, [...]]]> di Mauro Baldrati

CANYONSbelveIl regista Paul Schrader e lo scrittore-sceneggiatore Bret Easton Ellis sono un’accoppiata decadente. Puro decadentismo storico occidentale, epica delle persone-oggetto, incroci tra larve lacerate dal gelo di vite fallite e oggetti dominati dalle proprie ossessioni, dall’impotenza affettiva. The Canyons è un OGM filmico di queste tematiche, di questa estetica, di questa immobilità. E’ ambientato nei dintorni di Los Angeles, villa con vista sull’oceano, nel downtown di un’umanità giovanile, rampante, post-yuppie, ossessionata dal successo e dal “vizio” ma anche terrorizzata dalla povertà. In questo l’astuto Easton Ellis sembra perfettamente a proprio agio, come un luccio in uno stagno.

Christian (l’attore porno James Deen) è un figlio di papà che si diletta nella produzione, ma soprattutto nei filmini che realizza lui stesso col cellulare (oggetto onnipresente nel film), dove “recita” la sua ragazza Tara (Lindsay Lohan) con altri uomini. Non è geloso di questi ménage a tre o a quattro, anzi, vedere Tara “guardata” o toccata da altri maschi lo eccita. La loro vita va avanti piatta, tra orgette, peep show casalinghi, e bicchieri di vino bianco, che secondo la retorica hollywoodiana è la bevanda nazionale dei wasp. La situazione si complica quando entra in scena un ragazzotto palestrato, Ryan, aspirante attore che sbarca il lunario con lavori umili, il quale è anche il fidanzato dell’efficiente segretaria-assistente di Christian. Dovrebbe recitare in un b-movie di genere horror, ma la cui realizzazione è incerta. La variabile distruttiva è costituita dal fatto che Ryan e Tara sono stati amanti, in un passato recente. Christian sospetta, sente che tra i due serpeggia qualcosa. E qui diventa morbosamente, violentemente geloso. Per Christian Tara può accoppiarsi con sconosciuti, ma per nessun motivo può sentirsi attratta da un altro. Il film procede tra scene di sesso straordinariamente poco intriganti, ricerca di un piacere che non è tale, ma solo ripetizione, farsa, nello scenario di una città cosparsa di sale cinematografiche abbandonate, sorta di monumenti spettrali alla morte di qualsiasi espressività, fino alla conclusione all’insegna di una violenza banale e gratuita.
Il fulcro creativo del film è costituito da due elementi: la regia incostante, disconnessa, con una fotografia a tratti curiosamente naif, quasi tirata via, da filmetto amatoriale a basso costo. Alla fine risulta una componente interessante, che stupisce, nella piattezza del “vizio” a sangue freddo e del vuoto centrale delle vite dei protagonisti. E poi da Lindsay Lohan, un’attrice molto espressiva, dotata di un talento naturale, che si collega col suo personaggio reale. Nella vita è stata più volte arrestata per guida in stato di ebbrezza, obbligata a disintossicarsi dall’alcol, a prestare servizio nei servizi sociali, poi è fuggita, riacciuffata, di nuovo fuggita, nuovamente in galera per il furto di un gioiello, e così via per anni. Non è “bella” secondo la morfologia classica hollywoodiana, ogni tanto ha la faccia gonfia, le gambe costellate di lividi, un corpo in bilico tra il crollo alcolico e un fascino magnetico. Sorprende la sua capacità di cambiare, di essere sciatta, raffinata, ricercata e splendida anche con un rossetto sbavato e il trucco pesante.

La coppia Oliver Stone–Don Winslow è altamente conflittuale, viscerale, violentissima. Le belve, come The Canyons, è ambientato in un contesto giovanile californiano, oceano, sole, villa, soldi. Ma rispetto al film di Schrader–Easton Ellis non vi è alcun decadentismo, nessun indugio sull’incomunicabilità e sulla sterilità della ricchezza. Chon (un ex guerriero seal), Ben (pacifista, che devolve in beneficenza i proventi dei suoi traffici) e la bellissima “O” (diminutivo di Ofelia) coltivano una ganja idroponica stratosferica, con la quale guadagnano un sacco di soldi. Conducono un ménage a tre, ma senza gelosie né compiacimento nel “vizio”, anzi, stanno bene, sono soddisfatti e, si potrebbe dire, felici. Lavorano, si divertono, si amano. Si sentono vivi, fumano i “purini” (joint o pipette senza tabacco). Si godono il mare e il sole. Ma Il Male è sempre in agguato, sempre in osservazione. Un potente e spietato cartello della droga messicano vuole mettere le mani sul piccolo ma poderoso commercio dei tre. L’indipendenza non è tollerata, mai. Iniziano le minacce, le aggressioni, i ricatti, tra terrificanti snuff-movies, omicidi efferati, torture, gestite dal criminale-macellaio Lado (Benicio del Toro), padre di famiglia che come mestiere decapita, smembra, sbudella. E’ una guerra senza esclusione di colpi, col coinvolgimento del poliziotto corrotto John Travolta, che ha come posta la sopravvivenza, e la libertà, del trio Chon-Ben-O. Vi è un conflitto aspro e sanguinario tra Bene e Male, dove il Bene non è la Morale Americana, né il lieto fine ad ogni costo, ma l’accettazione della vita, del piacere, della libertà. Pienamente inserito in un genere thriller-duro, con esplosioni pulp, Le belve si porta dietro istanze rimodernizzate di anarchia e alternativa libertaria anni ’60, ultraviolenza anni ’70, il tutto girato con una regia spavalda da Oliver Stone, a sua volta contaminatore di stili e tonalità, cineprese guizzanti e brusche, che fa dimenticare alcuni film-baraccone a dir poco mediocri (come Alexander), e filtrato, governato dalla sceneggiatura magistrale, benché non del tutto priva di buchi, di Don Winslow.

I due film condividono i finali piuttosto ambigui, quasi insicuri, nel loro voler essere “aperti” e non perfettamente rassicuranti: manierista e abbastanza scontato in The Canyons, con la pretesa ad ogni costo di essere cattivi, scorretti, viziosi; doppio in Le belve, uno per gli ottimisti e uno per i pessimisti; e due personaggi femminili di grande spessore: la Lohan in The Canyons e Salma Hayek in Le Belve. Salma interpreta Helena Sanchez, la “regina” del cartello, donna meta-criminale che non esita a condannare a morte i nemici con estrema crudeltà, eppure si intenerisce quando guarda “O” prigioniera, o parla con lei, perché le ricorda la figlia. Assassina splatter sentimentale, passa dal fascino all’ironia, dalla minaccia al paradosso, e proprio come con Lindsay Lohan, non riusciamo a staccare gli occhi da lei.

Insomma, la coppia Stone–Winslow è altra merce rispetto a Schrader-Ellis, non c’è storia.
Ma se mettiamo di fronte Lindsay Lohan con Salma Hayek la faccenda si complica alquanto.
E il gioco si fa duro.

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