Occupy Wall Street – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Voci, suoni e protesta dell’America profonda https://www.carmillaonline.com/2019/05/23/voci-suoni-e-protesta-dellamerica-profonda/ Wed, 22 May 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52633 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, We Shall Not Be Moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), Squilibri, Roma 2019, pp. 340 + 4 cd, 39,00 euro

Basterebbero le sedici tracce di Barbara Dane, in assoluto una delle più importanti rappresentanti della musica folk e di protesta americana, contenute nei quattro cd allegati al testo a giustificare, per chiunque si interessi di musica e cultura popolare e antagonista statunitense, l’acquisto dell’opera in questione. Ma l’autentico scrigno del tesoro, realizzato da Alessandro Portelli per Squilibri, contiene molto di più.

I quattro cd contengono infatti 92 brani registrati, nel corso degli ultimi cinquant’anni, sia durante concerti che manifestazioni oppure “sul campo” ovvero direttamente là dove erano eseguiti (abitazioni private, luoghi di lavoro, campagne, chiese o piazze) da esecutori spesso poco conosciuti oppure anonimi, da New York alla California, dal Kentucky all’Oklahoma, cominciando con le voci dei manifestanti contro Nixon nel 1969 e finendo con quelle dei ragazzi che scendono in piazza contro l’uso indiscriminato delle armi e le stragi nelle scuole, passando per i minatori in sciopero in Virginia e gli studenti nativi americani che rivendicano terra e scuola in Colorado.

E proprio questa caratteristica rivela la grande vitalità e diffusione di una musica popolare che è spesso multietnica, tradizionale e moderna allo stesso tempo. Ovvero proprio ciò che l’autore, ispirato sia dall’opera di raccolta che sia Gianni Bosio in Italia che Alan Lomax negli Stati Uniti e in giro per il mondo hanno impostato (il primo seguendo le indicazioni del secondo durante la permanenza italiana di Lomax negli anni Cinquanta), intende fare con questo lavoro che non esiterei a definire monumentale.

Già docente di Letteratura americana presso l’università “La Sapienza” di Roma, Portelli è presidente del Circolo Gianni Bosio, un’organizzazione indipendente di ricerca, studio e proposta della musica popolare nata a Roma nel 1972. Oltre a ciò l’autore può essere ritenuto uno dei maggiori esponenti della ricerca sulla storia orale a livello internazionale e, sicuramente, uno dei massimi esperti e studiosi della canzone popolare americana. E’ stato collaboratore dell’Istituto Ernesto De Martino e proprio in tale veste ha curato diverse registrazioni e pubblicazioni per I Dischi del Sole.

Proprio dal primo disco curato per quelle edizioni musicali insieme a Ferdinando Pellegrini nel 1969, L’America della Contestazione, provengono le prime 19 tracce del quarto cd, a testimonianza di un interesse e di una passione che hanno accompagnato cinquant’anni della vita dell’autore e della cultura americana, dal folk a Dylan e Springsteen e dal blues rurale e urbano al bluegrass e ai canti di protesta di Occupy Wall Street.

Il testo di Portelli costituisce il quinto capitolo, se così vogliamo chiamarlo, della collana I giorni cantati curata proprio dal Circolo Gianni Bosio e che riprende il suo titolo dalla gloriosa rivista trimestrale di cultura popolare e cultura di massa già pubblicata almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Suddiviso in quattro parti, quanti sono appunto i cd che lo accompagnano, il libro analizza nella prima (intitolata We Shall Not Be Moved, dal titolo di una delle più famose canzoni di protesta e di resistenza dal basso della tradizione folk americana:  non ci sposteremo, non cederemo, come un albero piantato sulla riva del fiume) canzoni di lotta e di carattere sindacale, politico e di rivendicazione delle minranze etniche. Nella seconda (Lonesome Dove. Blues, old time e worksongs), il cui titolo è ispirato sia da una delle canzoni in esso contenute che dal romanzo western più famoso di Larry Mc Murtry (qui la sua recensione su Carmilla), sono esplorate la tradizione della canzone popolare americana e la sua trasmissione, fino ai nostri giorni, attraverso voci singole o corali, quasi sempre poco note o sconosciute del tutto.

Nella terza parte (Amazing Grace. Gospel bianco e nero), intitolata ad una delle canzoni più famose e belle della musica religiosa tradizionale degli Stati Uniti (di cui vengono qui riportate diverse versioni), si analizza la presenza della religione e dei temi biblici nella canzone popolare americana; cosa spesso poco considerata, e ancor meno compresa dalla cultura italiana, nei suoi risvolti sociali sia per la cultura afro-americana che per quella dei lavoratori e dei poveri bianchi.
Nella quarta e ultima parte, infine, (L’America della contestazione. Un viaggio nel 1969 e un ritorno) si ricollegano le esperienze personali dell’autore e quelle dei movimenti contestativi americani, di ieri e di oggi.

Le canzoni raccolte nei cd, commentate una per una nelle pagine del libro e accompagnate dalla riproduzione tipografica del testo di ogni singolo brano, sono sia frutto della composizione di autori conosciuti quanto della rielaborazione o dell’inventiva di autori anonimi o collettivi e costituiscono un mosaico sonoro e culturale di grandissimo impatto.
La qualità del suono varia a seconda delle occasioni e delle situazioni in cui i brani sono stati registrati (dallo studio discografico alla piazza o nelle abitazioni private) e l’umore degli interpreti è importantissimo nel definire l’interpretazione (dall’entusiasmo della lotta al feeling che si crea tra reverendi e presenti alle funzioni religiose fino a Barbara Dane che conclude un brano sbattendo la chitarra sul tavolo avendo dimenticato alcune parole del testo).
Come afferma lo stesso Portelli nella Premessa:

Questi quattro CD rappresentano quasi cinquanta anni di registrazioni americane, da gennaio 1969 ad aprile 2018. Sono registrazioni di qualità variabile perché provengono da contesti diversi (in strada, in casa, in chiesa, nelle manifestazioni, nei concerti…) e ne recano il segno, compresi i disturbi e le incertezze […] E sono state realizzate con gli strumenti disponibili di volta in volta, a seconda delle situazioni e delle tecnologie, dal gelosino domestico, rimediato in casa di Ernie Marrs, agli apparati professionali della sessione con Barbara Dane e Mable Hillary a New York, e tutto quello che c’è stato di mezzo.
Il testo che accompagna i CD è un racconto che ripercorre soprattutto il rapporto più con le persone che con i suoni, ed esplora retroterra e ramificazioni. Molly McSweeney ha fatto un incredibile lavoro di trascrizione dei testi, qualche volta ingarbugliati e biascicati al limite dell’incomprensibilità. Le traduzioni sono funzionali alla comprensione del testo, non parola per parola (specie quando le parole si ripetono, come avviene soprattutto nei brani gospel o di derivazione gospel).

Siamo però, in tutti i casi, all’interno di un’autentica fucina della musica popolare americana e tutta l’opera ce ne restituisce la grandiosa e commovente immediatezza.
Il tutto accompagnato da un corredo fotografico dovuto sia agli scatti dello stesso autore che a quelli di  Giovanni e Vilma Grilli che, come afferma ancora Portelli, si sono sempre rivelati

appassionati viaggiatori per le strade e i suoni di un’America vicina alle “radici d’erba” della vita di tutti i giorni e della marginalità sociale, sempre animata da una creatività irreprimibile che si manifesta nelle piccole cose, nei dettagli, come nei capolavori. La loro America è uno spazio di strade, insegne, finestre, murali, edifici, e soprattutto persone, dove lo straordinario sta nel quotidiano e dove individui ordinari e comuni, con le mani su uno strumento, ci fanno intuire quanta meraviglia può esserci in un essere umano. Si tratta solo di essere, come loro, straordinarie persone normali, o almeno di avere come loro occhi per vederlo e cuore per riconoscerlo.

Un’opera unica nel suo genere, almeno in Italia, e assolutamente irrinunciabile per chiunque si interessi, sia per motivi di studio che per piacere personale, al vasto, complesso e polifonico universo di cui è espressione.

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Che cos’è una canzone di protesta? https://www.carmillaonline.com/2018/03/15/cose-canzone-protesta/ Wed, 14 Mar 2018 23:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44055 di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza [...]]]> di Sandro Moiso

Matteo Ceschi, Un’altra musica. L’America nelle canzoni di protesta, Mimesis 2018, pp. 110, € 13,00

La sonnolenta cultura italiana, ancora immobilizzata troppo spesso tra documenti di archivio, manoscritti e testi a stampa, raramente sembra accorgersi dell’immensa mole di materiali riguardanti l’immaginario sociale e collettivo depositatasi, nel corso del ‘900, nelle varie forme “fisiche” assunte dalla musica registrata: rulli, dischi a 78/33/45 giri , nastri, cassette, cd e digitalizzazioni di vario altro genere. Che tali registrazioni siano avvenute in ambito privato, industriale o di ricerca poco conta, poiché l’aspetto importante è dato dal permanere di una testimonianza (caratterizzata spesso dall’immediatezza dell’evento e dall’oralità) che per i secoli precedenti è andata perduta. Fatti salvi i casi in cui una mano benevola abbia trascritto la canzone o il motivo oppure i casi in cui questi siano stati tramandati mnemonicamente di generazione in generazione e di terra in terra.

Da questo punto di vista la musica popolare prodotta negli Stati Uniti è stata forse la più fortunata poiché non solo ha raccolto l’eredità musicale di decine di etnie diverse, ma le ha viste anche spesso registrate sul campo da autentici fondatori della ricerca sulla popular music e, di fatto, della storia orale quali John e Alan Lomax, Sidney Robertson, Helene Sratman Thomas fino al più “recente” Art Rosenbaum.1

A tutto ciò l’industria discografica del XX secolo, sviluppatasi enormemente proprio negli USA fin dagli anni dei primi grammofoni, ha contribuito con una collezione infinita di suoni e canzoni che, pur allineandosi spesso ai canoni più commerciali, hanno ulteriormente arricchito quel patrimonio. Finendo anche col diventare uno degli archivi più preziosi dell’immaginario collettivo, sociale e giovanile, di un intero secolo. Anche se, va qui ricordato, il mercato degli spartiti sviluppatosi nel corso dell’Ottocento aveva già contribuito al mantenimento della memoria della cultura popolare o, come sarebbe stata poi in seguito spesso chiamata e confusa, di massa.

Matteo Ceschi, storico, saggista e fotografo milanese, che collabora da anni con diverse riviste musicali e ha pubblicato numerosi saggi dedicati alla controcultura statunitense, esplora uno degli infiniti aspetti possibili della popular music e indaga le vie e le modalità attraverso le quali una canzone entra nell’immaginario collettivo come espressione condivisa di un determinato momento storico o politico e diventa manifesto, strumento e definizione dell’azione collettiva contraria all’establishment economico, culturale, razziale e militare dominante. Ovvero come una canzone diventa “canzone di protesta”.

Per fare ciò l’autore sceglie tre canzoni più volte riprese nel contesto sociale e discografico, anche a distanza di generazioni: This Land Is Your Land di Woody Guthrie, Blowin’ in the Wind di Bob Dylan e Kick Out the Jams degli MC5, questi ultimi autentici guerriglieri del rock di Detroit degli anni Sessanta e Settanta. Tre espressioni musicali prodotte originariamente in contesti, da autori e con stili diversi, ma che nel tempo hanno finito con l’essere accomunate nel canone della protesta.

Tra la canzone di Woody Guthrie la cui politicizzazione è sempre stata estremamente evidente, a partire dalla scritta sulla chitarra che recitava “Questa è una macchina per uccidere i fascisti”, e la canzone di Dylan che derivava da uno spiritual che risaliva alla seconda metà dell’Ottocento e che il folksinger originario di Duluth era solito inserire nelle sue prime esibizioni newyorkesi2 oppure lo scatenato brano inciso dai Motor City Five nel 1968 corrono non solo anni, ma epoche dal punto di vista del gusto e dello stile musicale di esecuzione. Ma tutti e tre hanno finito col condividere un destino simile, quello di essere interpretati all’epoca e in seguito dalle generazioni successive come bandiere della lotta: dal racconto dei migranti impoveriti dopo le tempeste di polvere e al grande crisi degli anni Trenta, ai movimenti per l’uguaglianza e per i diritti degli afro-americani dei primi anni Sessanta, fino alla rabbia giovanile bianca delle rivolte urbane e universitarie degli anni Settanta e poi ancora dei movimenti succedutisi contro la guerra in Vietnam, contro quella in Irak fino, in alcuni casi, a Occupy Wall Street.

Come tale fenomeno sia stato possibile è ciò che l’autore riesce a spiegare nel suo sintetico ed efficace testo.
Per riuscire nel suo scopo Ceschi individua tre elementi fondamentali destinati a trasformare una semplice canzone, per quanto folk, in un inno della protesta.
Il primo consiste nel fatto che la canzone destinata a diventare simbolica deve nascere, come opera d’arte che si rispetti, da una sensibilità autoriale capace di leggere le paure e le inquietudini della propria epoca di appartenenza ed espressione.

“Un secondo aspetto, non meno importante della sensibilità dell’artista alle correnti della realtà sociale e politica che lo circonda, permette di includere nella categoria delle canzoni di protesta una maggiore varietà di brani: va cioè ammessa la possibilità che l’artista non senta e non nutra un’affiliazione particolare a uno specifico movimento politico o partito in attività e non abbia quindi l’intenzione soggettiva di essere un portavoce. Questo è stato particolarmente vero nella storia degli Stati Uniti, soprattutto dagli anni Sessanta in poi, e può essere fonte di equivoci per il pubblico europeo, anche se da questa parte dell’Oceano qualche caso di questo tipo c’è stato. La militanza […] non dipende dall’adesione a forme di protesta strutturate sul territorio, ma può scaturire dalla presa di coscienza del singolo che, affidandosi a quel common sense che da Thomas Paine in poi ha fatto da pietra angolare alla sensibilità politica americana, aderisce ad alcune istanze sociali e si sente in dovere di denunciare e rendere pubblici alcuni fatti.
Con ogni evidenza, la posizione privilegiata dell’artista quale “testimone e megafono dei tempi”, e la lingua universale di cui è dotata la musica […] facilitano enormemente la veicolazione del messaggio e la sua diffusione anche presso l’ascoltatore casuale.”3

Il terzo fattore, a far sì che una folk song sia immediatamente recepita come canzone di protesta, è costituito dalla

“presenza e il ruolo attivo del pubblico – ascolto-decifrazione-elaborazione-diffusione – che costituiscono il più importante requisito per definire una canzone di protesta, oltre che per decretarne il successo. Diversamente da quanto accade per un discorso di un oratore, con la musica la «retorica della protesta» arriva al pubblico anche senza che questo sia specificamente preparato o predisposto a riceverne il messaggio. Tutto, grazie al supporto fondamentale della melodia e del ritmo, è ancora di più affidato alla sfera emotiva dell’individuo. In un clima di progressiva e spontanea complicità dettato dal momento e, è bene ripetere, quasi mai predi¬sposto, cantante e platea possono quindi scoprire inaspettate affinità e trasformare un sentimento personale in una più inclusiva esperienza collettiva.”4

Una volta accumulati questi tre fattori la canzone entra nel “mito” o nel “canone” protestatario destinandola a successive interpretazioni ed utilizzi. Ceschi, oltre che delle tre canzoni sopra elencate, fa l’esempio di altri brani musicali entrati nell’immaginario musicale e culturale non solo statunitense come Morning Dew di Bonnie Dobson, nata dalla paura suscitata nell’autrice dal possibile conflitto nucleare tra USA e URSS nel 1962 e poi diventata attraverso i Grateful Dead o l’interpretazione datane dal Jeff Beck Group un simbolo della protesta contro l’arruolamento dei giovani per la guerra in Vietnam. Oppure The Star Spangled Banner che da orgoglioso inno degli Stati Uniti fu rovesciato da Jimi Hendrix nel suo esatto contrario, attraverso un processo di distorsione e feedback chitarristico che avrebbe immediatamente ricordato ai suoi ascoltatori i devastanti bombardamenti e i combattimenti sanguinosi di qualsiasi guerra dal Vietnam in poi.

L’interazione tra pubblico, momento socio-politico e creatività dell’artista diventa un nodo fondamentale della costruzione del simbolo e della sua successiva trasmissione anche se, e non è male ricordarlo, è la vastità, la durata o la portata dell’evento che definisce la crisi o la rottura sociale a determinare il destino di una canzone di protesta o rivoluzionaria.
In tal senso si potrebbe affermare in teoria che può esistere una rivoluzione o una rivolta anche senza una musica che l’accompagni, ma che non può esistere una canzone rivoluzionaria o di protesta senza l’evento traumatico di una rottura socio-politica e/o rivoluzionaria.

Facendo un salto più indietro nel tempo può essere, a questo riguardo, interessante ricordare che il primo inno rivoluzionario francese, il Ça ira!, nacque da un brano composto nel 1786 da Bécourt, violinista del Teatro Beaujolais, e intitolato Le Carillon National, la cui melodia divenne una delle preferite della regina Maria Antonietta. Le parole rivoluzionarie furono aggiunte da un soldato, tale Ladré, e ispirate da un tic verbale di Benjamin Franklin che nel corso della Guerra di Indipendenza americana fosse solito ripetere ossessivamente: “Ça ira! Ça ira!” soltanto per farsi coraggio.
L’ironia della Storia fece poi così che la giovane regina mentre veniva condotta al patibolo, il 16 ottobre 1793, dovesse sentire cantare dalla folla inferocita proprio il refrain della sua amata canzone.

Era stato però il 14 luglio del 1790, durante un’improvvisazione alla Fête de la Federation, che erano stati aggiunti i versi che l’avrebbero resa poi famosa ed espressiva della rabbia popolare: Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates à la lanterne / Ah, Ça ira! Ça ira! Ça ira! / Les aristocrates, on les pendra! 5 E queste ultime parole, probabilmente, erano state ispirate da un evento “da strada” parigino, quando Foullon de Doué, un funzionario del ministero della Guerra, era stato catturato dalla folla.

“La Bastiglia è appena caduta, e per le strade si inseguono voci su cospirazioni tese ad affamare il popolo e a reprimere l’insurrezione. Si dice che Foullon sia coinvolto in uno di questi complotti. I rivoltosi lo atterrano, lo trascinano fino a un lampione nei pressi dell’Hôtel de Ville e lo impiccano a quella forca improvvisata. Per un attimo resta sospeso a mezz’aria, poi la corda si rompe. Lo appendono di nuovo. Di nuovo la corda si spezza. Al terzo tentativo, finalmente, muore soffocato. Una mano agguanta brutalmente il cadavere, stacca la testa dal collo, apre le mandibole e riempie la bocca di paglia.. «Che mangino fieno», si vuole abbia esclamato Foullon, riecheggiando il famoso «Mangino brioches» attribuito alla regina. Lo ha veramente detto? Non importa.Ora la sua testa, portata in trionfo per le strade in cima ad una picca, urla ai quattro venti quel messaggio”. 6

Il successivo inno, la Marsigliese, divenuto poi inno nazionale, è ben più retorico ed attentamente formulato per invitare i cittadini alla difesa della Patria e questo percorso, tra un inno e l’altro, credo sia estremamente utile per illustrare, anche per periodi e contesti diversi quali quelli di cui parla il libro di Ceschi, la differenza tra il prodotto di un momento storico specifico, della spontaneità dell’azione e della percezione sociale e della creatività individuale e artistica che contribuiscono alla definizione e diffusione di una canzone di protesta o di un inno rivoluzionario nel tempo e nella cultura e un prodotto artificiale, istituzionalizzato e sostanzialmente limitante per la sensibilità collettiva realizzato in seguito oppure con specifiche finalità retoriche e politiche.

Nel corso della seconda metà del ‘900 però, proprio per l’importanza assunta dalla musica registrata e dall’industria discografica che comunque l’ha raccolta e diffusa, la ripresa della canzone di protesta è stata anticipata da una rinvigorita produzione di folk music seguita al grande successo internazionale di un brano come Tom Dooley,7 ripreso ed eseguito dal Kingston Trio nel 1958 e successivamente da molti altri artisti e gruppi folk, che scatenò negli ambienti discografici americani un’autentica caccia al cantautore o all’esecutore di folk song e che a sua volta segnò la svolta del folk revival del Greenwich Village in cui finirono col precipitarsi giovani artisti squattrinati da ogni parte degli States e dal Canada. Finendo col costituire un “quarto” e inaspettato possibile fattore per la messa in moto del processo creativo e percettivo cui il movimento per i diritti civili avrebbe dato la spinta definitiva.

E questo rivela come la strada intrapresa dall’autore, supportata anche da interviste originali a personaggi del calibro di Wayne Kramer (chitarrista degli MC5), Joe McDonald (meglio conosciuto come Country Joe) e Jimmy Collier (allievo di Pete Seeger e Martin Luther King), potrebbe rivelarsi ancora estremamente ricca e stimolante per l’ulteriore sviluppo degli studi non solo sulla popular music, ma anche sull’immaginario collettivo nel suo insieme.


  1. Si vedano, soltanto per citarne alcuni, a proposito della varietà delle culture e delle etnie che hanno contribuito alla formazione del patrimonio musicale statunitense: James P. Leary, FOLKSONGS OF ANOTHER AMERICA. Field recordings from the Upper Midwest, 1937 – 1946 (con allegati 5 cd e un DVD), Dust to Digital 2015; Mariano De Simone, Benvenuti in America! Musica e minoranze etniche nel sud degli Stati Uniti, L’Epos 2004 e, ancora, M. De Simone, “Doo-dah! Doo-dah!” Musica e musicisti nell’America dell’Ottocento. Afro-americani e Minstrel Show. Popular music e tradizione irlandese. Brass bands e canzoni della Guerra Civile, Arcana 2002 . Va qui aggiunto che Mariano De Simone è il ricercatore che, insieme a Robbie Robertson, ha contribuito alla realizzazione della colonna sonora del film Gangs of New York di Martin Scorsese, uno dei tentativi più interessanti e riusciti di ricostruzione dell’immenso melting pot musicale e culturale da cui è scaturita la musica popolare statunitense.  

  2. Si tratta di Many Thousand Go trascritto con il numero 35 da Thomas Wentworth Higginson, pioniere della ricerca musicale sul campo e colonnello del 1° Reggimento dei South Carolina Volunteers (il primo contingente dell’U.S.Army composto esclusivamente da soldati afro-americani), che lo raccolse insieme ad altri sulla rivista “Atlantic Monthly” nel 1867 e che Bob Dylan eseguì e incise , quasi con le stesse parole, nel 1962 con il titolo No More Auction Block. Dal quale estrasse poi la melodia di Blowin’ In The Wind. Si veda. Alberto Crespi, Quante strade. Bob Dylan e il mezzo secolo di Blowin’ In The Wind, Arcana 2013  

  3. Matteo Ceschi, Un’altra musica, pag. 19  

  4. Ceschi, op.cit. pp. 19-20  

  5. Arriverà, arriverà, arriverà il momento in cui gli aristocratici saranno impiccati ai lampioni!  

  6. Robert Darnton, Il bacio di Lamourette, pp. 11-12, Adelphi 1994  

  7. Una canzone probabilmente composta ed eseguita negli anni successivi al 1865, che narra della morte per impiccagione di un soldato accusato dell’assassinio della sua fidanzata dopo il ritorno dalla Guerra Civile  

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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Appuntamenti mancati, indirizzi sbagliati https://www.carmillaonline.com/2016/05/09/appuntamenti-mancati-indirizzi-sbagliati/ Mon, 09 May 2016 20:30:07 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30419 di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente [...]]]> di Sandro Moiso Copertina1923

Corrado Basile, L’«OTTOBRE TEDESCO» DEL 1923 E IL SUO FALLIMENTO. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Edizioni Colibrì 2016, pp.170, € 15,00

Corrado Basile da anni si dedica a ricostruire criticamente la storia dell’esperienza della Sinistra Comunista italiana ed internazionale nel corso del XX secolo e, in particolare, della sua parabola nei primi decenni dello stesso. La sua ultima fatica editoriale pertanto si colloca in tale continuità di studi, ma, allo stesso tempo, si propone come un’importante riflessione su temi e problemi ancora di cocente attualità. Primo tra tutti quello della centralità , o meno, della classe operaia e del suo ruolo all’interno di un radicale sovvertimento del modo di produzione attuale e della politica di alleanze che, attraverso le sue organizzazioni e partiti, dovrebbe saper mettere in piedi in una tale prospettiva. Ben al di là, naturalmente, della “egemonia”, principalmente culturale, teorizzata da Gramsci.

Tema delicato in cui una sorta di idealizzazione della stessa, ricollegabile alle trasformazioni avvenute forse più a partire più dall’inizio del ‘900 che ai fondatori del socialismo, ha forse raggiunto nell’operaismo degli anni settanta, e nei suoi attuali epigoni, il suo limite e il suo massimo rilievo teorico.1

Fin dalla premessa l’autore si chiede, a proposito della mancata rivoluzione tedesca del 1923, “perché fino a oggi l’argomento in Italia è stato affrontato in modo più che fuggevole, nonostante il fatto che in quel tentativo siano stati coinvolti all’incirca un milione di lavoratori e varie centinaia di migliaia di comunisti, e non solo tedeschi, cosa che nella storia non si era mai verificata prima e non si è più verificata successivamente. Dalla storiografia di tipo accademico c’era da aspettarselo: quello che si è rivelato come un «non evento» non poteva suscitare grande interesse”.

Osservando, però, subito dopo che “Si potrà essere o meno d’accordo su singoli aspetti della nostra analisi, ma non si potrà evitare di riconoscere che i motivi veri della sconfitta in Germania (primo fra tutti il mancato riconoscimento dell’idea che la rivoluzione comunista doveva avere carattere popolare o non sarebbe stata, idea presente, anche se poco considerata, nel famoso opuscolo di Lenin sull’Estremismo) siano esistiti e necessitino ancora di una seria discussione, nonostante la mole d’acqua che è passata sotto i ponti della storia.
Purtroppo in Italia, e non solo in Italia, ha circolato e alimentato, con effetti disastrosi, la cultura di quella che è stata chiamata «sinistra rivoluzionaria» la tesi secondo la quale la rivoluzione nei paesi sviluppati sarebbe stata, e sarebbe ancora al risveglio della classe operaia, di estrema «semplicità», con uno svolgimento positivo assicurabile da un grado spinto di intransigenza formale rispetto a obiettivi programmatici generalissimi. Ristabilire la verità sul 1923 in Germania, che ha attestato proprio l’esatto contrario della «semplicità» del processo rivoluzionario in Occidente, è quanto abbiamo cercato di fare
”.

Il tema centrale dello studio qui esaminato riguarda quindi le possibili strategie e tattiche di un percorso politico destinato a sfociare nel superamento dei rapporti di produzione e dominio di carattere capitalistico. Tema che Basile focalizza soprattutto analizzando l’azione del Partito Comunista Tedesco che, all’epoca, costituiva il secondo partito, numericamente e per ordine di importanza, dopo quello bolscevico all’interno dell’Internazionale Comunista.2

Era chiaro che il proletariato tedesco non poteva restare inerte di fronte alle ripercussioni della crisi mondiale sulla disastrata economia del paese e alla progressiva svalutazione del danaro, all’aumento dei prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, alla crescita della disoccupazione e all’impoverimento di sempre più vasti settori della popolazione, per la quale giorno dopo giorno si aggravava ovviamente anche il problema delle abitazioni. Ed era altrettanto chiaro che la KPD (Partito Comunista Tedesco) non poteva sottrarsi al compito di dare a questo fenomeno una prospettiva politica pratica, fuori da un ambito propagandistico generale”.

Ma, in Germania, proprio l’orientamento operaista significò “contrapporre alcune decine di milioni di lavoratori al resto della popolazione, che ammontava a un po’ più di sessanta milioni, tra la quale, nel vuoto lasciato dai comunisti e dagli stessi socialdemocratici, cominciarono a prendere sempre più piede le destre e l’estrema destra (i nazionalisti, i gruppi paramilitari reazionari derivati dai Corpi Franchi, l’Orgesch, i völkischen e i nazionalsocialisti), che sfruttarono la protesta sociale cercando di indirizzarla anche in senso fisico contro il movimento operaio e le sue organizzazioni”. La rivoluzione non poteva certo vincere lasciando da parte più della metà della popolazione del paese.

Il dramma prese inizio a partire dall’entrata sul territorio tedesco delle truppe franco-belghe che fin dal 10 gennaio 1923 “occuparono nei giorni successivi Düsseldorf, Bochum e Dortmund. La Germania perse così il 40 per cento del suo ferro, il 70 per cento della sua ghisa e l’88 per cento del suo carbone […]La Germania fu trascinata in una spirale inflazionistica peggiore di quella in atto, voluta dai finanzieri e dagli industriali speculatori, che liquidò la resistenza, investì i risparmiatori, assumendo l’aspetto di un’espropriazione sistematica delle classi medie e precipitando i lavoratori in una miseria inaudita. Il cambio del marco tedesco, a pochi mesi di distanza dall’occupazione della Ruhr, passò da 48.000 in maggio a 4,6 milioni per un dollaro in agosto. Si può facilmente immaginare l’abisso in cui repentinamente precipitarono le condizioni di vita della popolazione. Scoppiarono infatti vere e proprie «rivolte della fame» in parecchie città. E il tasso di cambio continuò a salire”.

Karl Radek, all’epoca uno dei più important rappresentanti del Partito Bolscevico e dell’Internazionale, ebbe ad osservare che i comunisti, in tale situazione, avrebbero avuto tutto l’interesse a non consegnare all’imperialismo francese il cuore della rivoluzione: il bacino della Ruhr.
Sempre Radek affermò che “Il fatto decisivo in tutta la situazione è che una grande nazione industriale è stata ridotta al rango di una colonia. Questa sconfitta della borghesia tedesca suscita un grande movimento rivoluzionario. Il nazionalismo, che un tempo era soltanto uno strumento per rafforzare i governi borghesi, si converte in un fattore di accelerazione dell’attuale rovina capitalistica

E continua poi ancora: “Il partito tedesco non si è affatto adattato all’ondata nazionale, esso non ha smesso di incoraggiare la fraternizzazione con i soldati francesi […], ma la KPD non deve trascurare che la differenza tra il nazionalismo e gli interessi rivoluzionari della nazione tedesca che sono adesso la stessa cosa degli interessi nazionali rivoluzionari del proletariato […] Quello che viene definito nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo, bensì un vasto movimento nazionale d’importanza rivoluzionaria. Le ampie masse piccolo borghesi, le masse dei tecnici e degli intellettuali, che svolgeranno un ruolo importante nella rivoluzione proletaria per il fatto che nel sistema borghese tutte queste masse vengono schiacciate, declassate e proletarizzate, danno ai loro rapporti con il capitalismo degenerato la forma di una ribellione nazionale. […] Noi dobbiamo combattere l’ideologia nazionalistica, aprire gli occhi alle masse che ne sono strumentalizzate. Ma se non vogliamo essere un mero partito operaio di opposizione, ma un partito operaio che combatte per il potere dobbiamo trovare il cammino che conduce a queste masse”.

Agli inizi di luglio, si verificò il montare spontaneo di scioperi rivendicativi a causa del crollo del marco e dell’aumento vertiginoso di tutti i prezzi, con il governo che sembrava in procinto di dichiarare bancarotta. Contemporaneamente gli occupanti francesi e belgi nella Ruhr spingevano avanti un movimento secessionista e in Baviera il governo di estrema destra si muoveva per rendersi autonomo da Berlino; la Reichswehr, con i gruppi paramilitari fascisti, si preparava dal canto suo a intervenire contro i governi operai della Sassonia e della Turingia.
La Centrale della KPD lanciò un appello per organizzare in tutto il paese per la fine del mese una «giornata antifascista» che prevedeva la mobilitazione dei proletari contro la minaccia del fascismo e l’agitazione tra le masse piccolo borghesi per separarle dai loro dirigenti.

Ma tale appello portò, progressivamente a far dipendere sempre di più l’azione dei comunisti e delle masse già potenzialmente in rivolta dalle scelte operate dal partito socialdemocratico e dal sindacato con cui si era cercata l’alleanza a discapito di un’azione allargata anche a quei settori “nazionalisti” che, di fronte ad un’azione più decisa della KPD, avrebbero dovuto decidere se stare dalla parte del capitale o dei lavoratori e dei contadini . Così quando, di fronte agli scontri che si verificarono in alcune prove preliminari a ridosso di scioperi rivendicativi, la polizia della Prussia e il governo del Reich vietarono la manifestazione, si propose di svolgere la manifestazione stessa soltanto là dove, come in Sassonia e in Turingia, non fosse stata sospesa dalle autorità o dove, come nella Ruhr e nell’Alta Slesia, queste ultime non potessero impedirla. Nel resto del paese si sarebbero dovuti tenere comizi in spazi chiusi. In considerazione anche del fatto che i fascisti sembravano molto superiori ai comunisti quanto ad armamento e sarebbe stato utopico credere che i socialdemocratici avrebbero seguito i comunisti nel caso di scontri diretti, nei quali la polizia, trovandosi di fronte a nulla più che una dimostrazione di protesta, sarebbe stata tra l’altro dalla parte dei fascisti.

Ai primi di agosto, la Commissione di Berlino dei sindacati, nella quale era presente una forte componente socialdemocratica, sia di destra sia di sinistra, invitò l’ADGB (Allgemeine Deutsche Gewerkschaftsbund – Confederazione generale dei sindacati tedeschi), la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Tedesco), l’USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico Indipendente Tedesco) e la KPD a una riunione di «concertazione», ma questa iniziativa fu surclassata subito dalle azioni di massa e dagli scontri con la polizia e con l’esercito che, con morti e feriti in varie città, fecero aumentare ancor più la tensione.

Ruolo propulsore nella dichiarazione di uno sciopero generale di tre giorni ebbero i comitati di fabbrica, che avevano raggiunto il numero di ventimila, con un Consiglio d’azione a livello nazionale, presieduto da un comunista, che l’11 agosto esso approvò un programma in nove punti: dimissioni del governo, formazione di un governo operaio e contadino, requisizione dei viveri e loro distribuzione sotto il controllo delle organizzazioni proletarie, riconoscimento ufficiale dei comitati di vigilanza appositamente costituiti, decadenza dell’interdizione degli organismi operai di autodifesa, salario orario minimo, riassunzione dei disoccupati, revoca dello stato d’assedio e del divieto di manifestare, liberazione dei prigionieri politici operai.

Lo stesso giorno il partito socialdemocratico fu costretto ad annunciare la fine del proprio sostegno al governo Cuno che si dimise. L’incarico di formare un nuovo governo fu affidato da Ebert, presidente socialdemocratico della repubblica, al deputato popolare Gustav Stresemann. Questi diede vita a un ministero di «grande coalizione». Su tale base la socialdemocrazia, pronta a voltare le spalle alle lotte operaie e all’ipotesi di un accordo con i comunisti, appoggiò Stresemann ed entrò nel governo con quattro ministri.

A poco a poco, nel giro di una settimana, le lotte si esaurirono. Cominciarono arresti e licenziamenti (che raggiunsero la cifra di centomila verso la fine del mese). Anche i vertici dei comitati di fabbrica furono colpiti dalla repressione, così come l’apparato della KPD.
Nel partito si fece strada, lentamente e nonostante forti incertezze, l’idea che forse la situazione era più matura per un’azione rivoluzionaria di quanto esso avesse ritenuto fino alla «giornata antifascista» di fine luglio. Le lotte rivendicative degli operai e dei disoccupati erano nel frattempo ricominciate, così come quelle per la casa e per gli approvvigionamenti, mentre si moltiplicavano gli scontri con la polizia e con l’esercito.

A settembre nel giro di alcune settimane, la Germania diventò l’argomento principale degli interventi pubblici dei dirigenti sovietici, dei loro discorsi nei congressi, sindacali o d’altro genere, il centro dell’attenzione della stampa sovietica. In particolare ebbe inizio l’impegno per sostenere le strutture militari della KPD e di quelli che erano chiamati organismi di difesa della classe operaia o «Centurie proletarie». Un generale sovietico già presente in Germania fu posto alla loro testa con lo pseudonimo di Helmuth Wolf e furono creati apparati specifici per l’addestramento militare, per lo spionaggio, per la penetrazione nella polizia e nell’esercito e per le azioni di sabotaggio e terroristiche.

centuria Per quanto riguarda le Centurie proletarie, esse erano state pazientemente costituite agli inizi dell’anno. Il 15 maggio erano state vietate in Prussia, misura presa a ruota in altre regioni, e ciò aveva ostacolato il loro sviluppo, costringendo gli organizzatori a mascherarle come servizi d’ordine o associazioni sportive. Se a maggio ne esistevano 300 in tutta la Germania, in luglio crebbero a 900, per un totale di circa centomila uomini, la metà dei quali concentrati in Sassonia e Turingia, con forti presenze anche nella Ruhr e a Berlino. Nella maggior parte dei casi si trattava di organismi, basati nelle aziende o nelle varie località, a composizione mista, di membri della KPD, dei sindacati e della socialdemocrazia.

L’armamento delle Centurie in ottobre, nell’ipotesi migliore, a parte le pistole, non superava i 50.000 fucili. Si approntarono anche riserve di esplosivi, si svaligiarono botteghe di armaioli e si organizzarono vari furti nelle caserme. In Sassonia si impiantò addirittura una fabbrica clandestina di armi e munizioni.Lo sforzo militare compiuto in pochi mesi fu davvero considerevole. Ma, rapportato alla società tedesca, agli effettivi e all’armamento della Reichswehr, della polizia e dei gruppi paramilitari d’estrema destra, esso appare del tutto inadeguato.

Mentre i comunisti entravano nei governi della Sassonia e della Turingia a fianco dei socialdemocratici, il generale Müller in Sassonia, fin dagli ultimi giorni di settembre, aveva rafforzato lo stato d’emergenza, attribuendo alla Reichswehr il compito di assicurare l’ordine pubblico, vietando ogni manifestazione di strada e gli scioperi, annunciando lo scioglimento delle Centurie proletarie e il ritorno della politica locale ai propri compiti tradizionali di pura amministrazione.
Cosa non meno importante, egli aveva ordinato alle banche di non consegnare i fondi chiesti dai ministri del governo di Dresda. Nello stesso modo si era comportato il generale Reinhardt in Turingia, dove tutto si svolse più o meno come in Sassonia, con la stessa violenza anche se con maggiore lentezza. Il 5 ottobre era stata sospesa la stampa comunista. Ma le truppe erano rimaste consegnate momentaneamente nelle caserme.

La tensione cresceva. Dal ministero sassone dell’economia partì una richiesta alle banche di Dresda per l’apertura di un credito di 150 miliardi di marchi-oro che avrebbe permesso di effettuare gli acquisti più urgenti di generi alimentari per 700.000 abitanti ridotti letteralmente al lumicino.
Le banche comunicarono che il credito sarebbe stato messo a disposizione del generale Müller. La Baviera sospese le vendite del latte e dei prodotti caseari in genere in Sassonia e i granai del Reich aumentarono i prezzi del 41%. Per la Turingia la situazione non era diversa. Era in atto un vero e proprio blocco contro le regioni rosse.

La Reichswehr si mobilitò nelle strade e nelle piazze dove le proteste, anche in Sassonia, contro l’intervento militare prendevano sempre più l’aspetto di una rivolta: di nuovo ad Amburgo, ad Aquisgrana, Berlino, Düsseldorf, Erfurt, Cassel, Essen, Colonia, Francoforte, Hannover, Beuthen, Lubecca, Braunschweig e Allenstein. Questa collera non poteva giungere da sola al livello dell’azione rivoluzionaria: essa, di fronte al protrarsi eventuale della repressione, non poteva trasformarsi in altro che in una rassegnazione disperata. Ma non esisteva soltanto il proletariato, per la piccola borghesia, più pauperizzata che mai, e i ranghi intermedi e inferiori delle forze armate la capitolazione nella Ruhr aveva accresciuto piuttosto che diminuito l’ira, anche se ne beneficiava l’estrema destra, a causa della debolezza che sulla questione specifica aveva recentemente mostrato il KPD che senza un’azione rivoluzionaria diretta, non poteva provocare crepe reali nella forza dello Stato.

Il 20 ottobre i dirigenti comunisti incaricati dell’insurrezione si riunirono clandestinamente a Dresda e sottolinearono unanimemente che prima della data prevista per l’insurrezione era necessario che il proletariato sassone chiamasse in proprio aiuto l’insieme dei lavoratori tedeschi. Solo durante lo sciopero generale, in cui questo aiuto si doveva esprimere e che sarebbe stato indetto da una conferenza dei comitati di fabbrica convocata a Chemnitz il giorno successivo, sarebbe iniziato il sollevamento armato. Ai segretari di distretto si comunicò che il 23 le Centurie e i gruppi d’assalto sarebbero entrati in azione, attaccando caserme e posti di polizia, occupando i nodi stradali, le stazioni, gli uffici postali e gli edifici amministrativi.

Ma, per i tentennamenti e i rifiuti opposti da una parte della socialdemocrazia e degli operai ad essa legati questo ordine finì con l’essere sospeso e solo ad Amburgo (dove i comunisti erano in condizioni di marcata inferiorità rispetto ai socialdemocratici), a causa dell’abbandono in anticipo della riunione della Centrale da parte di un rappresentante dell’organizzazione cittadina, questi partì convinto che l’insurrezione fosse confermata e l’attacco iniziò come stabilito, ma, ovviamente, senza mobilitazione delle masse. All’alba del 23 ottobre, l’organizzazione di combattimento del partito (composta da un po’ più di un migliaio di militanti) attaccò i posti di polizia dei sobborghi della città per rifornirsi di armi e fornirne anche alle Centurie proletarie, che erano state formate, ma non ne disponevano. Poi si puntò verso il centro della città. Mancando la mobilitazione proletaria, per lo meno nelle proporzioni che avrebbe dovuto avere – non si può dire che fu proprio del tutto assente –, l’azione si esaurì in ventiquattr’ore, nella consapevolezza dell’isolamento in cui si svolgeva, a causa della preponderanza delle forze avversarie (la polizia contava varie migliaia di uomini che furono rincalzati via mare). Il partito riuscì a organizzare abbastanza efficacemente la ritirata. Sul terreno restarono alcune decine di morti da ambo le parti. Molti furono i feriti e vennero arrestati un centinaio di comunisti.

Nei giorni seguenti lo stato d’emergenza dichiarato dal governo e l’azione decisa della Reichswehr portarono all’eliminazione dei “governi operai” della Sassonia e della Turingia, sostituiti da governi a cui capo vi erano rappresentanti della destra socialdemocratica e finiva così in un fiasco l’ultima occasione, prima dell’avvento del nazismo, che la più importante classe operaia e il più grande partito comunista dell’Occidente avessero mai avuto.

Che in quel fiasco l’incapacità di allargare un fronte dal basso alle esigenze di altri settori di società, non solo operai, abbia avuto un ruolo è cosa certa per l’autore, che conclude il suo lavoro citando Lenin nel 1916 che, in occasione dell’insurrezione irlandese, aveva scritto: “Le fiamme delle insurrezioni nazionali, dovute alla crisi dell’imperialismo, sono divampate sia nelle colonie sia in Europa e […] le simpatie e antipatie nazionali si sono manifestate nonostante le minacce di misure draconiane di repressione. […] La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, […] potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere […] e attuare le altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si «epurerà» dalle scorie piccolo borghesi tutt’altro che di colpo. […] Non è […] chiaro che in questo senso meno che in ogni altro è lecito contrapporre l’Europa alle colonie? La lotta delle nazioni oppresse in Europa, capace di giungere sino all’insurrezione e alla lotta di strada, sino a spezzare la ferrea disciplina dell’esercito e dello stato d’assedio, «inasprisce la crisi rivoluzionaria in Europa» con forza immensamente maggiore di un’insurrezione molto più sviluppata in una lontana colonia”.

Giunto a questo punto, devo scusarmi con il lettore, per la lunga dissertazione tesa a riassumere i fatti narrati (con maggior dovizia di particolari) nel testo, ma la conoscenza di quegli errori e di tentennamenti, di quei dibattiti a livello tedesco ed internazionale di cui furono protagonisti tutti i maggiori rappresentanti dell’Internazionale Comunista (che l’autore riporta con estrema fedeltà e con un’abbondante raccolta di relazioni e discorsi) non ancora stalinizzata, vale ancora la pena di essere approfondita e conosciuta, non soltanto per pedanteria storica o per il piacere della citazione.parigi 1 maggio

Si può non essere d’accordo con la tesi dell’autore, ma è certo che, e forse soprattutto, oggi la questione della capacità per un movimento antagonista di essere portatore di istanza collettive globali, da Occupy Wall Street al movimento NoTAV passando per Taranto fino al rifiuto dei pareggi di bilancio e delle leggi sul lavoro imposti da Bruxelles e dai governi che ne sono ispirati fino ai diritti dei migranti e degli immigrati, resta un terreno di scontro, ricerca teorica, organizzazione ed azione che proprio l’opposizione di una parte del sindacato al referendum sulle trivelle o l’appoggio alla disperata ed iniqua scelta tra posto di lavoro e salute dei cittadini oppure l’appoggio di una parte delle ex-sinistre alle politiche europee, dimostrano essere ancora centrale e vitale.

Così come si dimostra ancora essenziale la riflessione sul legame tra lotte di classe e questioni nazionali, dalla Palestina al Kurdistan fino al Donbass, e su ciò che si intende come internazionalismo e che non può essere semplificato solamente attraverso la richiesta dell’abolizione di tutti i confini. Oppure su svariati altri temi, come la spontaneità o meno di un’insurrezione, che Corrado Basile tocca nel corso della sua indagine e di cui occorre qui lasciare al lettore l’onere della scoperta.


  1. Come precisa lo stesso autore “Con orientamento operaista intendiamo il fatto di concentrare l’attenzione sui problemi che in modo diretto e immediato riguardavano la condizione dei lavoratori, trascurando tutti gli altri come di second’ordine se non peggio”  

  2. Secondo le fonti disponibili, i membri della KPD nel 1922 dovevano essere circa 220.000, per lo più operai. I giovani comunisti erano 30.000. L’organizzazione si basava sul centralismo democratico. Il partito disponeva di 38 quotidiani con 340.000 abbonati. I deputati al Reichstag erano 14, nei parlamenti regionali erano presenti 72 deputati; i consiglieri municipali erano 12.000 e la KPD disponeva della maggioranza assoluta in 80 consigli e relativa in 170. Dopo il partito bolscevico quello tedesco era il più importante partito della Terza Internazionale. I comunisti influenzavano due milioni e mezzo di lavoratori attraverso i sindacati, i comitati di fabbrica e le organizzazioni dei disoccupati. I comitati di fabbrica erano strutture legali dal 1920 e avevano raggiunto una consistenza numerica considerevole, con un congresso e un consiglio d’azione nazionale orientato molto a sinistra  

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