Occitania – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ecologia e letteratura in Occitania https://www.carmillaonline.com/2020/06/08/ecologia-e-letteratura-in-occitania/ Mon, 08 Jun 2020 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60679 di Paolo Lago

Monica Longobardi, Viaggio in Occitania, prefazione di Fausta Garavini, Virtuosa-Mente, Aicurzio, 2019, pp. 295, € 29,00.

Monica Longobardi, con il suo Viaggio in Occitania, ha realizzato un vero e proprio studio pionieristico nel campo della filologia romanza. Se, infatti, in Austria o in Germania, tale disciplina presta attenzione alle lingue romanze antiche e attuali, in Italia, essa, come scrive Fausta Garavini nella prefazione al volume, “rimane arroccata nel Medioevo e non varca la soglia della modernità, tanto meno della contemporaneità”. Garavini, i cui importanti studi già erano stati pionieristici in [...]]]> di Paolo Lago

Monica Longobardi, Viaggio in Occitania, prefazione di Fausta Garavini, Virtuosa-Mente, Aicurzio, 2019, pp. 295, € 29,00.

Monica Longobardi, con il suo Viaggio in Occitania, ha realizzato un vero e proprio studio pionieristico nel campo della filologia romanza. Se, infatti, in Austria o in Germania, tale disciplina presta attenzione alle lingue romanze antiche e attuali, in Italia, essa, come scrive Fausta Garavini nella prefazione al volume, “rimane arroccata nel Medioevo e non varca la soglia della modernità, tanto meno della contemporaneità”. Garavini, i cui importanti studi già erano stati pionieristici in questo senso, continua affermando che “ci voleva un’altra filologa romanza come Monica Longobardi, esperta, sì di Medioevo, ma aperta a molteplici sollecitazioni – dalla letteratura latina alle lingue immaginarie alle contaminazioni testuali alla poesia dialettale – per saltare il fosso, interessarsi con passione e far interessare i giovani a questa cultura negletta nel nostro paese”. L’approccio interdisciplinare di Monica Longobardi alla filologia (oltre che occuparsi di filologia romanza ha infatti dedicato saggi alla letteratura latina traducendo inoltre due importanti romanzi come il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio) le ha permesso di realizzare uno studio dedicato alla letteratura occitanica contemporanea, di prestare attenzione, quindi, alla cultura minoritaria di una zona d’Europa (bisogna ricordare che la studiosa da alcuni anni ha aperto, all’università di Ferrara, un insegnamento di letteratura occitanica contemporanea, unico in Italia). La prospettiva adottata, perciò, è anche quella di una precisa geografia letteraria, prospettiva che risente, per certi aspetti, dell’approccio critico già attuato da Carlo Dionisotti per quanto riguarda la letteratura italiana.

I tre autori presi in esame sono Joseph (Jóusè) d’Arbaud (1874-1950), Mas-Felipe Delavouët (1920-1990) e Joan Ganhaire (1941-). I temi naturalistici sono assai importanti nelle opere di questi autori: la Provenza e il fiume Rodano, presenti nella letteratura occitanica con una forte valenza mitopoietica, sono i luoghi ideali in cui si può riscoprire un nuovo rapporto con la natura rivestito di connotazioni mitologiche pagane. Ognuno dei tre autori – scrive Longobardi – “coglie, attraverso i tratti naturalistici, l’anima mitica dei luoghi e la lunga storia del mondo, che non coincide con la storia costruita dagli uomini”. D’Arbaud celebra lo stagno del Vaccarès e la Camargue, Delavouët il fiume Rodano, Ganhaire la foresta di Feytaud nella Nuova Aquitania. Per d’Arbaud e Ganhaire, “la sovranità della Natura trova un’incarnazione in un essere totemico, rispettivamente un essere simile al dio Pan, e il Grande Lupo Grigio”, figure che si presentano quasi come ibridi semidivini, metà bestia e metà uomo.

La studiosa adotta quindi, in un certo senso, una prospettiva ecocritica, concentrandosi, all’interno delle dinamiche letterarie, sui rapporti fra uomo e ambiente naturale. La delicata interazione fra uomo e natura, nel primo dei romanzi analizzati da Longobardi, La bestia del Vaccarès (La Bèstio dóu Vacarès, 1926) di Joseph d’Arbaud, viene tematizzata nel ritrovamento, in piena Camargue, di uno sperduto e decrepito fauno da parte di un mandriano. Assistiamo, insomma, al vero e proprio ritorno di un dio pagano in una precisa collocazione geografica, la Camargue, dopo l’esilio e la rimozione cui erano state condannate le divinità pagane con l’avvento del cristianesimo. Il fauno, come già accennato, è una figura del dio Pan, il quale diviene anche una potente incarnazione della Natura. Se l’uomo viola la natura e ne distrugge la valenza sacra, la stessa Natura, stavolta con l’iniziale maiuscola, può ripresentarsi sotto antiche forme rimosse ma mai sopite. E il panismo, come nota giustamente Longobardi, “conosce una sua elezione «geografica» specifica e ideale nella letteratura occitanica”. L’opera di d’Arbaud utilizza l’espediente del manoscritto ritrovato, usato spesso in letteratura a partire da Potocki fino a Poe e Manzoni, e riferisce di un incontro fantastico con la Bestia in una notte di luna nuova: l’essere si presenta con un “fondoschiena ispido”, con “due zoccoli a forca”, ricoperto di “un saio di stoffa grossolana incollato sulla schiena e sui reni”. Ma è soprattutto il volto a intimorire il mandriano: una “faccia terrosa, due corna di cui uno troncato miseramente a metà e l’altro ricurvo in una voluta, rugose e infangate e simili del tutto a quelle del capro, creatura delle tenebre e in onore del quale si celebrano orride messe nel sabba”. L’incontro con questa sorta di mostro biblico è suggellato da un segno della croce: come nota la studiosa, “agli occhi del cristiano, l’alterità di quell’essere pagano non può che essere assimilata al dettato della Chiesa che quell’antico pantheon ha demonizzato definitivamente”. La Bestia si dichiara infatti esiliato dalla storia, emarginato all’interno della propria amata terra. Dopo la repulsione iniziale, il mandriano, vinto da pietà, offre però del cibo al fauno e, lentamente, nasce una vera e propria amicizia (“io porto come un male, nel mio sangue, la sua amicizia”). Il romanzo di d’Arbaud mette in scena quindi un incontro con l’Altro, con il Diverso: dopo una repulsione iniziale, l’alterità viene, per certi aspetti, superata e messa da parte. Ma il Diverso, in questo caso, rappresenta quasi la stessa Natura violata, incarnata da un essere ferino e mitico come il fauno che è stato allontanato e rimosso prima dal cristianesimo e poi dal progresso che ha sempre di più allontanato l’uomo dalla dimensione naturale. Il fauno è un vero e proprio genius loci, un “Lare di una terra desolata”, un essere che condivide con il mandriano “un compito perpetuo: la salvaguardia di un habitat e di una cultura in pericolo”.

La successiva opera presa in esame è la Storia del re morto che andava alla discesa (Istòri dóu Rèi mort qu’anavo à la desciso, 1961) di Max-Philippe Delavouët, un poeta che tiene molto alla vocalità e all’oralità dei suoi componimenti, espressi in una lingua “primigenia, concreta e sensuale” come quella provenzale. L’opera appartiene ad un genere letterario sentito oggi come desueto, il poema epico, e vede la sua genesi in una lettera del poeta datata 16 novembre 1955, in cui egli parla del suo nuovo progetto relativo alla navigazione fluviale di un morto. Fra le fonti più significative del poema vi sono senza dubbio l’Odissea, col suo eroe navigatore, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, un poema di viaggio e di navigazione, fino alla Chanson de Roland e, in tempi più recenti, all’opera di Mallarmé. Il vero protagonista del poema non è il re morto ma “il fiume sacro e gli Alyscamps, o Isole Fortunate, la cui voce ipnotica (i «cantici delle profondità»?) sembra magnetizzare la salma del re, in quel sonno-viaggio sciamanico che lo guida a quell’approdo”. Il poema andrebbe comunque interpretato in relazione ad un’altra opera del “Trittico del tempo cattivo”, il Camin de la crous, il quale si chiude con la deposizione del corpo morto di Cristo, mentre l’Istòri si apre con un re morto senza nome che viene deposto non da una croce ma da un’alta vetta. Del resto, a monte del poema vi è anche l’usanza culturale di affidare i cadaveri a navi funerarie: in molte civiltà, infatti, l’acqua è un elemento di passaggio e la barca il suo sarcofago galleggiante (basti pensare soltanto alla barca di Caronte).

Di Joan Ganhaire vengono prese in esame due opere: L’ultimo dei Lobaterras (Lo darrier daus Lobaterras) e Il sentiero dei ginepri (Lo sendareu daus genebres). La vera protagonista del primo romanzo è la Natura, sotto le vesti della foresta di Feytaud, “santuario di pace e di verde silenzio”. Come dichiara lo stesso autore, uno dei temi principali dell’opera è la rappresentazione delle interazioni fra uomo e natura. La foresta viene descritta come fittissima e impenetrabile e in queste caratteristiche, come nota Longobardi, vi è la volontà consapevole di mettere in rilievo la sua impenetrabilità nei confronti dell’ingerenza umana. Al centro del romanzo vi sono due importanti conflitti: quello fra uomini e lupi e quello fra uomini e bosco. La foresta di Feytaud, in passato, è stata teatro di sanguinosi scontri fra i lupi e gli appartenenti alla stirpe dei Lobaterra, che si sono affrontati in duelli all’ultimo sangue, in “un viluppo inestricabile di fauci spietate e di carni azzannate”. La vicenda si ambienta nella seconda metà del XII secolo, in una fase del medioevo in cui gli uomini avevano iniziato da tempo a disboscare. I dissodatori e i disboscatori sono “la prima macchina da guerra” della penetrazione dell’uomo nella foresta, fino ad allora dominio incontrastato dei lupi. La Natura si vendica delle menomazioni inferte dagli uomini e Gontran il giovane, padre di Jaufre, muore schiacciato da un tronco (“Ma la foresta non si lasciava sempre sopraffare e più di una volta il lavoro dei dissodatori era attraversato dal grido breve di un boscaiolo schiacciato da un tronco caduto male. Così morì, un giorno di dicembre, Gontran il giovane”). Ed è proprio nel momento in cui gli altri boscaioli recuperano il suo cadavere che scorgono per la prima volta “un Gran Lupo Grigio” che li spia, “con il suo unico occhio, dal bordo della radura”. Insomma, come ribadisce anche la studiosa, il vero tema del libro “è il grande libro della Natura”. Si potrebbe dire, quindi, che la prospettiva adottata da Ganhaire è rigorosamente quella dell’ecocritica: problematizzare, cioè, le interazioni fra uomo e natura e, appunto, le sopraffazioni di cui la natura è vittima da parte dell’uomo. Un altro importante conflitto che ritroviamo al centro del romanzo è quello fra Natura e Cultura: la Natura si ribella continuamente a qualsiasi costruzione umana, sia materiale che di pensiero. All’interno di questo insanabile conflitto viene tematizzata la presenza di un’alterità esecranda, sconosciuta e terribile, che appare sotto vesti ferine, come la “Bestia” di d’Arbaud: è la figura di Arnaud, vittima di una maledizione che lo trasforma in uomo-lupo, la quale introduce “l’antico motivo del meraviglioso, il mostro, in quanto ibrido fra uomo e animale”. Il massimo della mescolanza fra uomo e animale lo abbiamo poi nel momento in cui viene rappresentata una danza tribale fra uomini e lupi, la quale “ha una forte valenza di amalgama erotico, di contagio venereo e, finalmente, di un’ibridazione genetica”.

L’altra opera di Ganhaire analizzata, Il sentiero dei ginepri, è invece una favola gotica che molto deve ai racconti di Edgar Allan Poe. I pochi riferimenti alla contemporaneità non riescono a scalfire la “bolla atemporale” in cui la vicenda nera si ambienta. Ci sono tutti gli ingredienti del gotico e della favola: una dimora avita solitaria e inquietante, una Baronessa arcigna (una strega?), un signorino malato, l’ultimo della sua stirpe di aristocratici affetta da tare ataviche, avvicinabili alla licantropia o al vampirismo. E proprio a un larvato vampirismo può essere avvicinata la malattia che mina il giovane aristocratico (presentato come estremamente pallido e dalle vene più volte recise), il quale appare al cospetto del medico narratore durante una battuta di caccia ai margini di un Grande Bosco, regno, come lo stesso palazzo, degli “oggetti desueti” della letteratura, secondo la definizione di Francesco Orlando. Il racconto celebra un vero e proprio trionfo della morte all’interno del quale Eros e Thanatos si stringono in un funereo abbraccio, secondo una visione romantica ampiamente trattata da Mario Praz nel suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica.

Per concludere, si può affermare, senza ombra di dubbio, che questo nuovo saggio di Monica Longobardi è uno strumento prezioso per avvicinarsi alla letteratura occitanica contemporanea e, per di più, per sondarla con uno sguardo ecocritico. Il “viaggio in Occitania” che ci propone l’autrice è una vera e propria immersione in un mondo incantato, fantastico, regno del soprannaturale e di un possibile ritorno di antiche divinità pagane rimosse dal cristianesimo. La Provenza diviene allora un territorio dove la Natura è protagonista, dove è necessario, ora più che mai, continuare a preservarla e a difenderla. Ma diviene anche un territorio magico e incantato dove, proprio grazie a una presenza così forte di un paesaggio naturale per certi versi ancora incontaminato (nel quale il Rodano svetta come una regale divinità), si possono incontrare esseri fantastici e ‘pagani’ come fauni e licantropi. Un luogo dove, come nell’antica Grecia, forse è possibile incontrare una presenza divina presso le fonti, i corsi d’acqua, i boschi. E allora comprendiamo che natura e mito, natura e immaginario creativo vanno di pari passo. Se distruggiamo la prima, distruggiamo anche i secondi. Quello di Monica Longobardi appartiene alla categoria di studi critici che, per mezzo della letteratura, per mezzo della rivalutazione di opere letterarie che pongono la Natura al loro centro, ci intendono trasmettere la ritrovata coscienza di un’ecologia del pensiero.

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Per una psicogeografia delle rivolte https://www.carmillaonline.com/2016/09/21/psicogeografia-delle-rivolte/ Wed, 21 Sep 2016 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33335 di Sandro Moiso

700-anni Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, con una prefazione del Collettivo Mauvaise troupe occitana, Edizioni Tabor 2016, pp.330, € 12,00

Le popolazioni sembravano avere acquisito, nel giro di qualche anno di lotta, il gusto della resistenza e della ribellione, già peraltro conforme al loro carattere

Rovesciando l’assunto secondo il quale la piena realizzazione di una nazione e/o di un popolo avviene nel momento in cui questi riescono a dare vita a uno Stato che con i suoi confini e le sue leggi ne delimiti il territorio e suoi cardini linguistici, politici, economici e culturali, si [...]]]> di Sandro Moiso

700-anni Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, con una prefazione del Collettivo Mauvaise troupe occitana, Edizioni Tabor 2016, pp.330, € 12,00

Le popolazioni sembravano avere acquisito, nel giro di qualche anno di lotta, il gusto della resistenza e della ribellione, già peraltro conforme al loro carattere

Rovesciando l’assunto secondo il quale la piena realizzazione di una nazione e/o di un popolo avviene nel momento in cui questi riescono a dare vita a uno Stato che con i suoi confini e le sue leggi ne delimiti il territorio e suoi cardini linguistici, politici, economici e culturali, si potrebbe affermare, come fa Gérard de Sède, che certi popoli e certe nazioni sono esistiti soltanto resistendo.
Il popolo occitano, per esempio, oppure quello curdo. Soltanto per citare due dei più noti.

Gérard de Sède, nom de plume di Géraud Marie de Sède de Lieoux, nato nel 1921 a Parigi e morto nel 2004, è stato un giornalista ed autore francese, oltre che membro del gruppo surrealista a partire dal 1941, che ha scritto più di 40 libri, spesso collegati alla storia del Midi francese, in particolare della Linguadoca, o ai suoi misteri. Il testo appena tradotto dalle edizioni Tabor era apparso originariamente in Francia nel 1970 ed è stato più volte ristampato nella lingua originale.1

L’autore ripercorre nel libro una storia plurisecolare di ribellioni, in cui la questione identitaria e linguistica si è mescolata molto spesso con quella di classe e ci regala, tra le altre cose, una storia alternativa della formazione dello stato e della società francese, che proprio nella soppressione della lingua d’Oc e delle autonomie politiche che accompagnavano l’esistenza delle comunità che l’avevano prodotta aveva posto le sue fondamenta. Compresa l’affermazione di quella lingua d’Oil che da allora avrebbe caratterizzato e costituito la lingua ufficiale del paese. Una lingua nazionale che avrebbe iniziato a prendere il sopravvento fin dai roghi sui quali erano stati bruciati i rappresentanti del catarismo.

Il testo prende inizio proprio a partire dalla sconfitta definitiva di quel vasto movimento religioso di rinnovamento dell’ecumene cristiana. Da quel 16 marzo 1244 in cui la fortezza di Montségur era stata espugnata dall’armata del re di Francia Luigi IX, poi conosciuto come il Santo proprio per i roghi cui aveva condannato gli ultimi difensori di Montségur e per i provvedimenti presi contro gli ebrei del regno oltre che per le due crociate, entrambi fallimentari, da lui indette: la prima in Egitto e la seconda contro l’emirato di Tunisi, durante la quale trovò finalmente la morte. Per dissenteria.

Ma a ripercorrere questa prima fase albigese o catara della storia dell’Occitania è il curatore della recente edizione italiana, tratta da quella francese del 1982, mentre de Sède ci trascina in una appassionante, e talvolta provocatoria, ricostruzione che vede susseguirsi i principali movimenti di rivolta della parte meridionale dell’esagono francese. Tutti sconfitti e tutti destinati a rinascere. Da quello del monaco Bernard Délicieux, che fin dalla fine del XIII secolo sfidò i poteri dell’Inquisizione, del re di Francia e del papa Bonifacio VIII, che aveva da poco canonizzato Luigi IX, proprio nei territori che si pensavano definitivamente liberati dal pericolo ereticale ai Tuchini del XIV secolo, una associazione clandestina di operai, artigiani e contadini che, all’urlo “Rei de Fransa, rei de figas, rei de merda!”,2 erano riusciti a cacciare dalla Linguadoca fin il luogotenente generale del Re. Rivolta, quest’ultima, che inserendosi nel periodo della Guerra dei Cent’anni condotta contro la presenza inglese, sfata il mito dell’unità del popolo francese tutto unito nel difendere la madrepatria, magari sotto la guida della Pulzella d’Orléans.

occitania A seguire arriveranno la rivolta dei Croquants, che presero il loro nome dal paese di Crocq in cui ebbe inizio, nel 1594, la protesta popolare contro una tassa molto esosa, la taglia, che solo i plebei erano tenuti a pagare e la cui azione, anche militare, si prolungò fino ai primi decenni del secolo successivo, mettendo più volte in difficoltà il governo, i suoi condottieri e, naturalmente, anche i rappresentanti dell’alto clero.

Dopo i disordini che si diffonderanno, a fasi alterne, su buona parte del territorio occitano fino al 1646, giungerà poi il momento dell’Ormée e delle rivolte urbane che, a partire dalla città di Bordeaux, sconvolgeranno la Francia agli inizi del governo del Re Sole. Come sottolinea l’autore: “Per tre secoli, la gran parte degli storici ha minimizzato l’importanza della Fronda; considerata, come suggerisce il nome, una rivolta ridicola: brontolio senza conseguenze del parlamento di Parigi, ultimo sussulto dei grandi feudatari contro la monarchia assoluta che, dopo Richelieu, imponeva loro con ferocia l’autorità dello Stato. […] Ma il Parlamento e i principi non furono i soli attori della Fronda: si può anzi dire che non furono gli attori più importanti. Contrariamente a ricostruzioni leggendarie, fu una serie di insurrezioni popolari che diffuse la fronda su Parigi e province, facendone un movimento profondo, serio e possente, non certo riducibile a una mera combinazione tra una lotta corporativista di alti magistrati e un complotto di principi di sangue […] Durante la Fronda, l’insurrezione si accompagnò a un ribollire senza precedenti di idee rivoluzionarie […] E’ dunque comprensibile il dilagare della paura nelle fila dei detentori del potere, tanto che in seguito si applicarono a cancellare le tracce degli avvenimenti: nel 1668, Luigi XIV ordinò di alterare o distruggere i documenti ufficiali relativi al periodo della Fronda” (pp. 129 – 130)

Contro la tirannia del cardinale Mazzarino, il movimento dell’Ormée aveva rivendicato l’instaurazione della democrazia politica e in uno dei suoi manifesti aveva dichiarato che la causa reale della sedizione e della lotta politica “è l’eccessiva ricchezza di qualcuno” (pag. 139)
L’unione dell’Ormée aveva un approccio rivoluzionario. In uno dei suoi libelli, la Généreuse résolution des Gascons, si legge: «Quando nella struttura statale qualche pezzo si usura senza trascinare con sé tutto il corpo, si può puntellare, ma quando tutto crolla e le fondamenta sono compromesse, bisogna posarne delle nuove sulle rovine dell’antico edificio»” (pag.143)

Poi, tra la fine del XVII secolo e l’inizio di quello successivo, sarebbe venuta l’ora dei Camisards, guerriglieri e profeti, che con il loro coraggio reagirono, proprio a partire dalla regione delle Cèvennes, al tentativo cattolico e monarchico di sradicare definitivamente il protestantesimo dal territorio francese. Reazione che, però, a guardar bene non fu solo religiosa ma, principalmente di classe, essendo i suoi protagonisti spesso espressione della parte più povera della società locale.

Tra i Folli di Dio, come venivano anche chiamati quei ribelli:“Improvvisamente, l’ispirazione si impossessava di un uomo, una donna, un adolescente o un bambino, che fino a quel momento nulla distingueva dagli altri. Come le sibille dell’antichità, l’ispirato entrava in trance e parlava in uno stato di alterazione della coscienza. Da notare che quasi sempre si esprimeva in francese, pur non sapendo che l’occitano. E quando infine taceva e tornava in sè, non ricordava più ciò che aveva detto. […] Il profetismo popolare delle Cévennes fu innanzitutto l’esplosione di energie troppo a lungo represse. « In quest’ottica, – scrive Philippe Joutard in Les Camisards – convulsioni e tremori diventavano un vero e proprio linguaggio della persona che non potendosi più esprimere utilizzava la sola parola che gli restava; il suo corpo». Fu uno scatenamento, nel senso proprio del termine, un rifiuto dei limiti, una accorata affermazione di libertà, persino, in un certo numero di casi, di libertà sessuale, anche da parte delle donne. «questo comportamento dei protestanti del 1703, – continua Joutard – si fondava , nel caso degli abitanti delle Cévennes, sui caratteri originali della loro cultura contadina, attenta al gestuale e al meraviglioso, e benevola nei confronti della sacra follia»”. (pp.161 – 162)

Dopo l’autentica guerra delle Cévennes, i cui capi militari erano sorti quasi tutti tra i ranghi degli “ispirati”, ancora altre rivolte segneranno i territori del Sud della Francia nel periodo della Rivoluzione e poi, ancora, negli anni venti del XIX secolo; altre saranno in seguito vicine e contemporanee alla Comune di Parigi e segneranno la prima parte del XX secolo, fino al periodo della Resistenza antifascista e antitedesca, marcata anche quest’ultima da forti contenuti di classe. Non si può qui, per motivi di spazio, riassumere dettagliatamente tutte le vicende di un percorso di speranze e di lotte ricostruite in un testo che, oltre che ad essere molto interessante, si legge anche come un appassionante libro di avventure e che, magari indirettamente, pone comunque almeno due importanti questioni di ordine teorico. La prima riguarda lo sviluppo reale delle lotte di classe, mentre la seconda quali siano gli strumenti metodologici più adatti per interpretare e ricostruire fenomeni sociali di grande portata, ma rimossi dalla Storia ufficiale poiché segnati dalla sconfitta.

occitania-2 Per quanto riguarda la prima, diventa da subito evidente come il radicamento storico di una tradizione di lotte all’interno di un territorio è destinato a proiettarsi sul suo stesso futuro. Le idee di rivolta e le rivolte nascono, soprattutto, su un terreno favorevole. Sostanzialmente già vangato e seminato dalle lotte ed esperienze precedenti. Ed ecco allora che la parola tradizione acquista un senso diverso da quello che spesso i conservatori hanno voluto tramandare e che, ancor più spesso, il movimento operaio istituzionalizzato nei partiti e in forme diverse di statalismo ha specularmente e passivamente accettato e trasmesso.

La tradizione storica delle lotte nel, sul e del territorio, dall’Occitania alla Valle di Susa, per fare un esempio attuale, sta alla base di forti ed originali movimenti di resistenza che nell’unità di diverse componenti della società e nei loro comuni obiettivi trovano il motivo della loro forza e della loro novità. Anche nella comunicazione dei contenuti. Una novità costituita dalla diversità delle società e delle stesse classi sociali che le compongono, a seconda delle epoche e delle aree geografiche cui appartengono. Lotte quindi che non derivano da un’immaginaria unità ideale ed ideologica che deve sostituire, quasi monoteisticamente, tutte le altre verità o ipotesi, ma che derivano da un bisogno e da un sentire sociale comune e condiviso, fosse anche solo o almeno apparentemente di carattere religioso. Direttamente “dal basso” e dal territorio e non soltanto attraverso un partito, un sindacato o una generica rappresentanza parlamentare più o meno “democratica”.

L’altro problema, quello della metodologia della ricerca e della ricostruzione delle vicende della Storia e delle lotte dal basso, è implicito nella stessa affabulazione condotta dall’autore e dalla scarsa presenza di note, anche bibliografiche, che ne accompagnano l’opera. Metodo che ha fatto arricciare il naso a molti storiografi e critici e che ha fatto sì che a proposito delle sue opere si parlasse di pseudostoria.3

Certo l’autore racconta, ricostruisce, ricollega tra di loro fatti ed esperienze lontane nel tempo e ogni tanto il lettore vorrebbe avere a disposizione qualche riferimento bibliografico e documento storico in più. Ma, questo, è il problema: non è forse fatta anche la Storia ufficiale di rimozioni costanti delle esperienze che non appartengono alle ragioni della sua ricostruzione e non è forse vero che, quasi sempre le classi in rivolta, quelle più diseredate e deboli, non hanno avuto altra testimonianza scritta che quella dei loro giudici e carnefici? Dai registri dell’Inquisizione agli archivi di Stato? Non è forse una leggenda anch’essa quella dell’obiettività della ricerca storica (e di quella scientifica)? E allora non è forse tutta la Storia ufficiale, scritta da e per i vincitori che giustifica sempre i regimi e i governi e che si insegna nelle scuole, altro che pseudostoria, così come è stata definita nell’ultima nota? Soprattutto quella di un paese, la Francia, che della propria immaginaria unità sociale e linguistica ha fatto un monumento destinato a calpestare i diritti di tutti colo che non si adeguano?

Dedicato a Nicoletta Dosio, militante no tav che non si adegua.


  1. Gérard de Sède, 700 Ans De Révoltes Occitanes, Éd. Plon, Paris 1970; poi ancora per le edizioni Plon nel 1982 e, successivamente, per i tipi di Le Papillon Rouge, Villeveyrac, nel 2013  

  2. “Re di Francia, re da ridere, re di merda!”  

  3. Il termine pseudostoria designa abitualmente uno studio che si presenta come un lavoro storico, ma che non rispetta le regole della metodologia storica. L’opera può perseguire un fine politico, religioso o ideologico; non è pubblicata da una rivista di carattere scientifico e non è stata convalidata da altri studiosi. I principali fatti menzionati e le tesi del libro sono di carattere speculativo, controversi e le fonti non sono citate correttamente e interpretate in maniera parziale  

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