nuove tecnologie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Produci(ti), consuma(ti), crepa tra social media e nuove tecnologie https://www.carmillaonline.com/2022/06/23/estetiche-inquiete-produciti-consumati-crepa-tra-social-media-e-nuove-tecnologie/ Thu, 23 Jun 2022 20:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72439 di Gioacchino Toni

Si è visto [su Carmilla] come la carica contestataria dello street style, sempre più globalizzato, sia stata in buona parte assorbita dalle logiche della moda contemporanea dei grandi brand. Continuando a seguire le riflessioni di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), vale la pena soffermarsi sui rapporti che nella contemporaneità intercorrono tra moda, street style, social media e nuove tecnologie.

Se a lungo si è guardato ai media come a “sistemi di vampirizzazione” delle culture giovanili, attorno alla metà [...]]]> di Gioacchino Toni

Si è visto [su Carmilla] come la carica contestataria dello street style, sempre più globalizzato, sia stata in buona parte assorbita dalle logiche della moda contemporanea dei grandi brand. Continuando a seguire le riflessioni di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022), vale la pena soffermarsi sui rapporti che nella contemporaneità intercorrono tra moda, street style, social media e nuove tecnologie.

Se a lungo si è guardato ai media come a “sistemi di vampirizzazione” delle culture giovanili, attorno alla metà degli anni Novanta tale visione molare del sistema mediale ha iniziato a mostrare i suoi limiti ed il dibattito si è tendenzialmente spostato su «un modello dialogico che vede i media e i detentori del “capitale sottoculturale” in un processo di costruzione reciproca delle rispettive identità» (p. 62). Tale cambiamento di prospettiva, sottolinea Barile, non sottovaluta affatto la funzione svolta dai media nel consolidamento di una moda all’interno dell’ambito mainstream.

Se si tiene presente che, rispetto ai legami forti costruiti su uno spiccato senso di appartenenza – che si instaurano nelle comunità e negli ambiti familiari o amicali –, i legami deboli – che si creano tra individui fisicamente e socialmente lontani o che vantano contatti rari e asistematici– conferiscono maggior dinamismo al sistema in quanto si prestano a facilitare aperture a sollecitazioni esterne e ad agevolare cambiamenti, non è difficile comprendere l’incidenza di Internet nel processo di trasmissione e consolidamento delle tendenze. La capacità del Web di moltiplicare i legami deboli e veicolare anche i contesti sottoculturali si presta alla propagazione di trend che, indipendentemente da come e perché si sono originati, vengo agevolmente dirottati verso finalità commerciali manistream.

In risposta al diffondersi negli anni Novanta di segnali di rigetto nei confronti dei grandi marchi, questi ultimi hanno iniziato a ricorrere alla figura del cool hunter per «intercettare i contesti esperienziali ad alto contenuto di autenticità» (p. 64). Si tratta di una figura che osserva, seleziona ed amplifica le tendenze a cui ricorrono i brand nella loro opera di saccheggio delle culture alternative da cui ricavano suggestioni creative da trasformare in esperienze e lifestyle mercificati.

Quella del cool hunter è necessariamente una figura liminale che pur operando per le aziende non può integrarsi pienamente in esse appartenendo al contempo a quegli ambienti creativi alternativi in cui vive ed opera. Si tratta in sostanza di una sorta di “infiltrato” abile nel trasformare esperienze ludiche in occasioni di reddito, una figura capace di cogliere «il valore strategico della “strada” nello sviluppo prima culturale e conseguentemente economico» (p. 66) delle scena urbana.

A cavallo del passaggio di millennio, con l’affermarsi dei social, sostiene Barile, l’epoca “fisica” del cool hunter tramonta e l’interesse si sposta sulle banche dati offerte da Internet sempre più dettagliate ed aggiornate circa le tendenze in atto; alcune piattaforme approfittano della decostruzione del sistema moda operata dalla fast fashion per sviluppare mappature e sistemi previsionali automatizzati dei trend. La disarticolazione del sistema stagionale della moda e la centralità assunta del consumatore fniscono per rendere indispensabile il ricorso a nuove tecnologie.

Da qualche anno sono stati implementati sistemi di previsione delle tendenze tramite il machine learning e l’intelligenza artificiale. Questo perché i social media sono sempre più i contenitori dei trending topics del momento. L’osservazione dei social consente pertanto di monitorare la reazione dei pubblici di un dato brand, di osservare le tendenze in ascesa, di studiare le preferenze degli utenti tramite tecniche quali-quantitative come la Sentiment Analysis, o di conoscere in maniera più approfondita le conversazioni tra membri di una online community sui contenuti o i prodotti di un brand con la netnography. […] L’introduzione del machine learning e della IA ha trasformato la concezione stessa di trend analysis e forecasting. Questo perché la disponibilità enorme di dati, reperibili tramite social media e motori di ricerca, consente di addestrare le Reti Neurali Artificiali (RNA) che, partendo dall’apprendimento di serie storiche di dati quali-quantitativi, sono in grado di formulare previsioni sullo sviluppo dei trend nel futuro (pp. 67-69).

Si attivano pertanto strategie basate sull’elaborazione dei dati raccolti, ad esempio, tra il pubblico di qualche influencer, dall’analisi degli hashtag, dai profili individuali, dai commenti rilasciati ecc. L’anello intermedio tra la figura del cool hunter e quella dell’influencer, suggerisce Barile, può essere individuata nei fashion bloggers che, con il loro intervento da posizione indipendente, contribuiscono a destrutturare il sistema-moda tradizionale sostituendo l’insieme di competenze in esso sedimentate con uno spontaneismo in linea con un generale processo di orizzontalizzazione – reale o percepito che sia – della comunicazione e della società. Esiste pertanto, sostiene lo studioso, «una linea di continuità che, dall’esautorazione del ruolo dello stilista, iniziata negli anni Sessanta, conduce, attraverso l’epoca del cool hunting, agli influencers e ai sistemi customer-centrici gestiti dall’Intelligenza Artificiale» (p. 71).

L’accelerazione online determinata dalla pandemia ha enormemente rafforzato il ruolo delle piattaforme nella «gestione dell’immaginario visuale e fotografico degli influencer» (p. 71). A differenza delle vecchie figure degli opinion leader, gatekeeper ecc, l’influencer si presenta come «una sorta di prosumer “evoluto”, un produttore/consumatore di contenuti online capace di trasformarsi in vero e proprio medium di se stesso» (p. 71) attento nel rapportarsi ai brand di streetwear a non compromettere la propria credibilità. I contenuti esperienziali confezionati dagli influencer hanno a che fare tanto con «la capacità dei social di “scolpire” le identità online» quanto con «la capacità di “confezionare” le identità trasformate in veri e propri prodotti» (p. 71).

Analogamente a quanto avvenuto nella televisione dei reality e dei talk show a sfondo confessionale, anche la comunicazione della moda opera mediaticamente sulla dimensione quotidiana, questa sembra però, soprattutto grazie alla diffusione della versione virtuale degli influencer, spingersi fino al punto di presentare il digitale stesso come “la nuova moda” a compimento di quella logica del simulacro tratteggiata sin dai primi anni Ottanta da Jean Baudrillard a proposito della trasformazione contemporanea dello star system.

Per definizione, gli influencer virtuali sono persone immaginarie generate dal computer, che simulano caratteristiche e personalità degli esseri umani. Il fenomeno riguarda diverse piattaforme di social media […] dove le virtual influencer giocano sulla sostanziale ambiguità tra essere un personaggio reale che veste in modo stravagante ma plausibile, che frequenta luoghi ordinari del quotidiano, ma che allo stesso tempo produce in chi la osserva un effetto di grande straniamento, tipico della cosiddetta “valle inquietante” (“uncanny valley”), teorizzata dagli studiosi di robotica, ovvero il simultaneo effetto di familiarità e di spaesamento suggerito da queste figure. Come già accade nel caso degli influencer umani, le nuove celebrità sintetiche e pressoché riproducibili illimitatamente, vanno a caccia di unicità, di autenticità, di risorse che possono garantire loro un notevole seguito di follower ma anche un loro sostanziale attaccamento (p. 75).

Se da un lato la loro natura artificiale rappresenta un freno al processo di identificazione del pubblico, dall’altro permettono una costruzione identitaria modulare dell’influencer sintetico in funzione di target specifici analizzati puntualmente anche dal punto di vista emozionale: l’influencer artificiale può così svolgere proficuamente la sua funzione a partire dalle personalità dei follower.

Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista. La centralità del consumatore, già paventata nella retorica comunicativa dei marchi anni Novanta, è oggi implementata dal nuovo ecosistema digitale. Per capire meglio tale processo occorre fare un passo indietro, alle origini della mass customization (p.137).

La comunicazione digitale ha stravolto tanto le tradizionali procedure di ideazione, progettazione e confezionamento dei capi di abbigliamento quanto quelle distributive e di reperimento da parte dei consumatori. La centralità di questi ultimi nelle strategie aziendali contemporanee tende a indirizzare verso una “produzione industriale su misura” basata su una «fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati» (p. 140). Ecco allora perché la conoscenza del sistema cognitivo del consumatore diviene centrale: è attorno a questo che si dispiega una strategia di differenziazione volta a soddisfarlo.

Stringendo alleanze con i gradi detentori di dati del Web, le grandi piattaforme on-line dell’abbigliamento stanno sviluppando sistemi di machine learning che operano incrociando quanto disponibile nelle banche dati che raccolgono pareri creativi di operatori del settore e dati offerti dai colossi del Web per proporre configurazioni sempre più individualizzate. «Il sistema si basa su un elevato livello di customizzazione in cui si richiede all’utente di scegliere il proprio mood (triste, allegro, eccitato ecc.), il proprio stile (gotico, rockabilly ecc.) e di tracciare un disegno intorno alla figura umana raffigurata al centro del video, da cui verrà ricavato l’outfit finale proposto dalla piattaforma» (p. 144).

Se il futuro della moda sembrerebbe indirizzarsi verso la sostituzione dello stilista con il consumatore stesso, occorre però interrogarsi non solo a proposito di quale reale grado di libertà disponga quest’ultimo ma anche di quanto sia ulteriormente reso operativo all’interno di una catena produttiva che si estende oltre i terminali dell’ideazione e del consumo del capo acquistato contemplando anche gli aspetti più intimi dell’emotività e della personalità degli individui. Tutto ciò conduce alla creazione di reti che, integrando canali diversi, coniugando esperienza on-line ed esperienza off-line, strutturano un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati capace di relazionarsi con quanto si conosce del cliente con finalità predittive.

È in tale contesto che ha preso piede l’idea di Metaverso, concetto formulato dalla letteratura Cyberpunk negli anni Novanta, visto ora come «occasione di rilancio di piattaforme in crisi; è il collettore di una serie di servizi innovativi e a pagamento come gli NFT [NFT – Non-Fungible Token: modalità di identificazione in modo univoco e certo di un prodotto digitale creato su Internet] e le nuove strategie di gamification; è il punto di raccordo tra mondo fisico e virtuale che implicherà ulteriori problemi di protezione dei dati personali dei suoi utenti» (p. 158).

Negli ultimi anni l’interesse dei brand di moda e delle piattaforme di vendita online nei confronti della virtualità, del gaming, degli NFT e del Metaverso, è cresciuto esponenzialmente. Dalla retorica sulla Realtà virtuale degli anni Novanta e inizio Duemila (come nel caso di Second Life), passando per le applicazioni della Realtà Aumentata come nuova frontiera della Quarta Rivoluzione Industriale, giungiamo oggi al Metaverso che rappresenta un punto di sintesi tra le diverse caratteristiche della Realtà Virtuale e della Realtà Aumentata […]. Il termine non è affatto nuovo ma deriva ovviamente dal Cyberpunk, in particolare dal testo di Neal Stephenson, Snowcrash (1992). Nel testo è suggerito un avvicinamento tra mondo reale e mondo virtuale ma tra i due prevale ovviamente il secondo. […] Il nuovo Metaverso rappresenta un punto di convergenza tra reale e virtuale su cui le aziende puntano per moltiplicare i propri servizi e i propri utili. […] Al di là delle promesse mirabolanti e pubblicitarie del Metaverso proposto come nuova esperienza parallela ed extramondana, in accordo con la sua eredità psichedelica degli anni Novanta, il valore di questa innovazione starà nella sua capacità di accordarsi con il mondo della vita dei consumatori, di integrarsi con la loro realtà quotidiana, di aumentarla in maniera non eccessivamente invasiva (pp. 160-166).

A fronte di un tale scenario resta da chiedersi quanto siano ancora distinguibili una realtà quotidiana off-line ed una on-line strutturata dalle piattaforme e quali margini di autonomia, autenticità ed identità restino agli individui sempre più mercificati e costretti a mettersi in vetrina producendosi, vendendosi e, per certi versi, anche a  comprarsi,  prima che faccia capolino l’obsolescenza biologica-merciologica. Insomma, dal produci-consuma-crepa siamo passati al produci(ti)-consuma(ti)-crepa. Un bel passo in avanti, non c’è che dire.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

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Storytelling digitale. La fabbrica di immaginari contemporanei https://www.carmillaonline.com/2021/10/05/storytelling-digitale-la-fabbrica-di-immaginari-contemporanei/ Tue, 05 Oct 2021 20:30:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68552 di Gioacchino Toni

Riferendosi alla galassia di modi, forme e pratiche digitali che hanno a che fare con gli audiovisivi, Simone Arcagni, nel suo volume Visioni digitali (Einaudi, 2016), ha fatto ricorso al termine “postcinema” evidenziando il superamento di quello che è stato “il cinema” novecentesco. Ciò non significa certo che il mondo degli audiovisivi del nuovo millennio non paghi un forte debito nei confronti dell’epopea cinematografica del secolo precedente per quanto riguarda il linguaggio, l’esperienza dello schermo (per quanto declinata diversamente) e, ovviamente, l’immaginario, ma è indubbio che “quel cinema” apparteneva a un’altra epoca. Altre tecnologie, altre modalità produttive e [...]]]> di Gioacchino Toni

Riferendosi alla galassia di modi, forme e pratiche digitali che hanno a che fare con gli audiovisivi, Simone Arcagni, nel suo volume Visioni digitali (Einaudi, 2016), ha fatto ricorso al termine “postcinema” evidenziando il superamento di quello che è stato “il cinema” novecentesco. Ciò non significa certo che il mondo degli audiovisivi del nuovo millennio non paghi un forte debito nei confronti dell’epopea cinematografica del secolo precedente per quanto riguarda il linguaggio, l’esperienza dello schermo (per quanto declinata diversamente) e, ovviamente, l’immaginario, ma è indubbio che “quel cinema” apparteneva a un’altra epoca. Altre tecnologie, altre modalità produttive e distributive, altra cultura visiva e, non ultima, altra propensione alla fruizione collettiva.

Il cinema novecentesco sembra quasi porsi come “database” da cui i nuovi sistemi audiovisivi continuano ad attingere rielaborando i dati raccolti in base all’intrecciarsi di nuove estetiche e nuove tecnologie ed annesse nuove modalità di business. Persino il sistema produttivo del cinema tradizionale ha fornito utili esempi all’attuale sistema audiovisivo che ha poi provveduto a rielaborare in funzione delle mutate esigenze. Alla luce del fatto che se le storie continuano ad avere un carattere universale, la tecnologia a cui si ricorre cambia inevitabilmente il modo di raccontarle, lo studioso indaga lo storytelling digitale derivato dall’incontro di professionalità creative e imprenditoriali capaci di rilanciare l’ambito audiovisivo in un contesto digitalizzato, oltre che abili nell’intercettare nuovi pubblici. Il nuovo volume di Simone Arcagni, Storytelling digitale. Le nuove produzioni 4.0 (Luiss University Press, 2021), si preoccupa di aggiornare la mappa dell’universo postcinema passando in rassegna i processi sia produttivi che creativi della “fabbrica degli immaginari contemporanei”.

In un contesto in cui gli ambiti culturale, economico e sociale si rapportano a un sistema di comunicazione, informazione e persino cognitivo fortemente digitalizzato, le narrazioni prodotte da media company, brand, broadcaster, gruppi editoriali ecc. si contraddistinguono per una spiccata propensione all’interattività, all’immersività e alla non-linearità. Riferendosi a tale nuovo contesto si è spesso parlato di transmedialità, crossmedialità e di “convergenza”, termine questo ultimo utilizzato da Henry Jenkis (Cultura convergente, Apogeo, 2007) focalizzandosi su quei modelli produttivi fortemente influenzati “dal basso”, dagli appassionati e dai fan.

Se alcuni festival cinematografici (es. Sundance e Tribeca) già da qualche tempo danno spazio a forme e modalità sperimentali di storytelling audiovisivi basati su tecnologie innovative, il South by Southwest Festival ha esteso le sperimentazioni tecnologiche a forme di storytelling che si intrecciano con gli ambiti della performace, della musica, del design e della comunicazione in generale. Non si creda, puntualizza Arcagni, che si tratti di ambiti “di nicchia”; l’universo affrontato dal festival è il medesimo che plasma le piattaforme social e più in generale gli ambienti interconnessi con cui si ha a che fare quotidianamente.

Lo studio di Arcagni si concentra sul panorama italiano e prende il via esaminando il web giornalism e gli Idocs sottolineando come il mondo delle notizie si trovi a dover adeguare gli storytelling non solo ai nuovi dispositivi attraverso cui passa l’informazione contemporanea – dai social media alle piattaforme – ma anche alla diffusione del mondo mobile – smartphone e tablet – che si appoggiano alla connessione e alla geolocalizzazione, tecnologie centrali nello sviluppo delle potenzialità di un racconto che intenda fuoriuscire dai tradizionali confini istituzionali per raggiungere nuovi spazi e nuovi tempi. Si parala a tal proposito di “pervasive and ubiquitous computing”, di web 3.0 o 4.0. Il racconto può così legarsi agli utenti, ai dati che questi condivodono e alle loro interazioni, ma anche agli oggetti e può sovrapporsi in tempo reale agli spazi fisici. Tale extended reality si struttura attraverso Realtà virtuale (VR), Realtà aumentata (AR) e Realtà mista (MR).

Il Corriere della Sera, ad esempio, sta sperimentando con Corriere360.it un tipo di racconto giornalistico realizzato con camere a 360°. Altri esempi di giornalismo/informazione che sperimentano le potenzialità narrative delle nuove tecnologie possono essere individuati in ambienti come Will e Instagram. Se nei confronti del reale il digitale permette inediti “sguardi d’autore” e consente forme di attivismo partecipativo dal basso, le nuove tecnologie hanno dato vita anche a webserie strutturate su modalità di storytelling complesse – crossmediali, transmediali, convergenti – che si estendono ai territori social.

Tra i tanti esempi riportati nel libro vale la pena citae la serie fantascientifica Lost in Google, prodotta da The Jackal, in cui gli utenti sono chiamati a partecipare attivamente alla sceneggiatura delle puntate. Altre serie, come Days di Flavio Parenti, ricorrono a una narrazione ramificata secondo modelli combinatori in modo da consentire all’utente di vedere la storia dal punto di vista dei differenti personaggi o cambiare le modalità di visione, innescando così una nuova combinazione di eventi. Ad essere citato da Arcagni è anche Perfect Circles di Dennis Cabella, un hypergame film interattivo, pensato per il tablet, di genere horror, in cui agli utenti è richiesto di assistere il protagonista cerando indizi e tessendo trame. Nell’ambito delle produzioni “machinima” (machine-cinema / machine-animation), spicca in Italia TheProud, che vanta oltre 500mila iscritti sul suo canale YouTube.

Le possibilità offerte dal digitale permettono non solo inediti scambi tra webserie e game sempre più personalizzabili ed espansi, ma anche di intrecciare gli audiovisivi con una nuova spazializzaizone del racconto sfruttando la geolocalizzaizone, dunque la mappatura dei luoghi, come nel caso di 6 1 MITO Diana, prodotto da Komplex: un progetto in Realtà Aumentata localizzato all’Eur che consente agli utenti di puntare il proprio smartphone sugli edifici del quartiere seguendo un percorso narrativo dedicato alla dea Diana grazie ai contributi multimediali presenti nella piattaforma. «Lo spazio del cinema diviene il quartiere che non viene più “ripreso” bensì “geolocalizzato”, “mappato” digitalmente. La app funziona allora come porta dimensionale che permette l’accesso a una nuova superficie doppia e virtuale. Lo spazio narrativo si arricchisce, sia della possibilità immersiva offerta dall VR, sia di quella interattiva che contraddistingue gli Arg, e infine di quella esplorativa dell’ambiente fisico circostante che invece appannaggio del videomapping» (pp. 92-93).

Altro ambito su cui si sofferma Arcagni riguarda le cosiddette live media experience come il live cinema (es. allestimento di scene di film famosi in ambienti reali), rimusicazioni (es. colonne sonore performate in sala per film originariamente muti ) o intersecazioni tra gli ambiti cinematografico e artistico (es. perfomance, installazioni, videoarte ecc.).

Si tratta, insomma, di un universo digitale “postcinema” complesso e variegato che sta riscrivendo le modalità narrative e partecipative e con esse, è bene sottolinearlo, il ruolo autoriale che, per certi versi, potrebbe oscurarsi sempre più all’ombra dei sistemi tecnologici che promettono agli utenti un’inedita libertà di partecipazione su cui però, al di là delle mirabolanti potenzialità ludiche e di entertainment, varrebbe la pena riflettere bene anche dal punto di vista critico-qualitativo. Pur facendo attenzione a non scivolare nel determinismo tecnologico, non è possibile ignorare, riprendendo Laura DeNardis, come nella composizione dell’architettura tecnica risieda anche una composizione del potere: «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici sono concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione» (L. DeNardis, Internet in ogni cosa, Luiss University Press 2021, p. 32.) [su Carmilla]. Valutare quanto il come incida sul cosa si comunica/racconta resta indispensabile se si vuole affrontre criticamente la fabbrica degli immaginari contemporanei.

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Il reale delle/nelle immagini. L’immagine condivisa https://www.carmillaonline.com/2017/07/14/reale-dellenelle-immagini-limmagine-condivisa/ Thu, 13 Jul 2017 22:02:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38911 di Gioacchino Toni

André Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, Contrasto edizioni, Roma, 2016, 176 pp. € 21,90

Attorno alla metà degli anni Novanta, negli ambienti intellettuali e tra i professionisti della fotografia, è dilagato un vero e proprio panico in concomitanza con quella che è stata percepita come una vera e propria invasione barbarica: l’arrivo della fotografia digitale. Se una rivoluzione c’è stata, questa non si è data, come erroneamente in tanti credevano, nella fotografia in sé, quanto piuttosto nelle possibilità di una sua facile ed immediata condivisione su larga scala.

Se il timore era quello di giungere ad un’era [...]]]> di Gioacchino Toni

André Gunthert, L’immagine condivisa. La fotografia digitale, Contrasto edizioni, Roma, 2016, 176 pp. € 21,90

Attorno alla metà degli anni Novanta, negli ambienti intellettuali e tra i professionisti della fotografia, è dilagato un vero e proprio panico in concomitanza con quella che è stata percepita come una vera e propria invasione barbarica: l’arrivo della fotografia digitale. Se una rivoluzione c’è stata, questa non si è data, come erroneamente in tanti credevano, nella fotografia in sé, quanto piuttosto nelle possibilità di una sua facile ed immediata condivisione su larga scala.

Se il timore era quello di giungere ad un’era “postfotografica” dominata da immagini prive di referente credibile, di assenza di legame col mondo fisico, ebbene tutto ciò non è avvenuto. Come sostiene Michele Smargiassi nella Prefazione del libro di André Gunthert, L’immagine condivisa, «la perfida realtà si è incaricata di guastare la tragedia» (p. 8); il regime di veridicità fotografica non ha che fare col fatto che una fotografia sia analogica o digitale ed il caso delle immagini di Abu Ghraib ne offre una concreta dimostrazione.

Probabilmente, sostiene ancora Smargiassi, troppo a lungo gli studiosi hanno insistito nell’affrontare la fotografia per il suo aspetto estetico e/o etico, trascurando il fatto che essa è un insieme di pratiche sociali, un «oggetto comunitario attivo» che si trasforma insieme ai suoi contesti. Soltanto allontanandosi dalle teorie ontologiche e riduzionistiche che la intendono come mero canone artistico-autoriale, è possibile affrontare la fotografia nelle sue pluralità perché ciò che conta davvero, continua lo studioso nella Prefazione, è come essa incide concretamente sulle nostre esistenze.

Secondo Gunthert la vera rivoluzione della fotografia digitale è data dalla sua fluidità, dunque dalla conversione dell’informazione visiva in dati facilmente archiviabili, manipolabili e condivisibili. Molti professionisti della fotografia e studiosi hanno faticato a cogliere le novità introdotte dal digitale focalizzando i loro timori sulla perdita del contatto col reale. Per certi versi, sostiene Gunthert, il fatto che il digitale compaia in un momento di crisi, ha fatto sì che in molti hanno guardato alla svolta tecnologica come ad una causa del degrado perdendo di vista il fatto che non è certo la tecnologia digitale ad aver scatenato il degrado. Se il progresso ha cessato di incarnare, postitivisticamente, sempre e per forza la misura della civiltà, facilmente ogni innovazione tende ad essere letta aprioristicamente come strumento di dominio, perdendo di vista il fatto che l’innovazione può anche derivare da una spinta dal basso o può essere piegata, sempre dal basso, a nuove funzioni. Che poi il sistema tenda a ricondurre l’innovazione a proprio favore, mettendola a profitto, è un altro – e parziale – discorso.

Il digitale non ha trasformato tutti in fotografi ma ha diffuso il ricorso alla registrazione visiva facendola interagire con i nuovi strumenti di comunicazione comportando un livello di partecipazione ed accessibilità alle immagini senza precedenti e che ciò abbia finito per eliminare alcune figure professionali e col generare profitto dal desiderio di partecipazione e condivisione degli esseri umani è un dato di fatto che non può sminuire la spinta e l’uso dal basso.

Secondo la tesi dell’indicalità fotografica, ogni fotografia analogica deriverebbe da un’impronta fisica della luce su una superficie sensibile ma, sostiene Gunthert, il diffondersi del digitale ha dimostrato come la “verità dell’immagine” non dipenda dalla sua ontogenesi; non è stata messa in discussione la veridicità delle immagini delle torture di Abu Ghraib nonostante queste siano digitali. Nessuno ha negato la possibilità di annoverare tali immagini nell’ambito della registrazione del reale. Ovviamente, come qualsiasi altro documento, una fotografia non è una prova sufficiente e la sua veridicità deriva dalla sua coerenza globale. Non è, pertanto, la tipologia di registrazione a rendere credibili le fotografie delle torture americane ma, piuttosto, il fatto che queste siano inserite all’interno di un processo d’inchiesta e che la loro pubblicazione derivi dalla medesima logica utilizzata per le immagini analogiche.

I sorrisi dei carnefici in mostra davanti ai torturati non sono molto diversi da quelli che si ritrovano sulle cartoline postali statunitensi dei primi del Novecento che avevano come soggetto scene di linciaggio. Ciò che muta nel passaggio dall’analogico al digitale è la scomparsa del valore dello scatto; il momento privilegiato immortalato dall’analogico perde la sua aurea. Le fotografie di Abu Ghraib non sono state fruite dagli osservatori in maniera insensibile, come prevedevano tanti detrattori della “deriva digitale”, od almeno di certo non in maniera più insensibile di coloro che osservavano le cartoline dei linciaggi di inizio Novecento.

Un altro terrore circolato attorno all’arrivo del digitale riguarda la perdita del monopolio dei giornalisti sull’informazione. Vi sono state grandi discussioni circa la pubblicazione da parte dei media ufficiali di fotografie scattate da “non professionisti” come testimonianze di tragici fatti accaduti (attentati, incidenti…). Sarebbe sbagliato, secondo lo studioso, pensare che i cittadini nello scattare una fotografia intendano rivaleggiare con i professionisti; per molti la fotografia rappresenta un modo di porsi nei confronti dell’evento, inoltre la decisione di pubblicare o meno le immagini sui media ufficiali appartiene sempre e comunque a questi ultimi. Semplicemente la temuta invasione degli amatori nei media non si è data e quando le immagini amatoriali arrivano sui canali ufficiali è perché sono questi ultimi ad aver “saccheggiato” archivi di immagini postate dai non professionisti. Sono le circostanze a trasformare o meno le immagini amatoriali in un supporto d’informazione ed in casi eccezionali, soprattutto quando i grandi network tendono a proporre letture ed immagini omologate, non è difficile che i contenitori di immagini amatoriali si trasformino in fonti di informazione alternativa volta a soddisfare l’interesse di chi non si accontenta delle versioni e delle coperture ufficiali.

La digitalizzazione del processo fotografico, secondo Gunthert, ha determinato quattro conseguenze principali: la modificazione dell’archiviazione; una maggiore possibilità di modificare a posteriori le fotografie; la facilitazione della telecomunicazione istantanea e la possibilità di integrarla in contenuti diffusi dalla rete.
Buona parte degli spazi su cui viaggiano le fotografie amatoriali si fondano sull’autoproduzione, sulla diffusione/consultazione diretta da parte degli utenti. Ciò che è avvenuto è il passaggio da una distribuzione controllata ad un’autogestione dell’abbondanza e ciò modifica, inevitabilmente, il rapporto dell’individuo con l’immagine. Oggi, il vero valore dell’immagine sembrerebbe risiedere nella sua condivisibilità.

L’utopia del contributo amatoriale, derivante dall’idea di un lavoro creativo emancipatore, è stata in buona parte contraddetta dalla realtà. Secondo lo studioso si è palesato nel tempo come la cultura della condivisione non privilegi tanto i contenuti, quanto piuttosto la loro appropriabilità e, per certi versi, la cultura della condivisione può anche essere vista come una sorta di rivincita delle masse.

«Come le istituzioni politiche ed economiche, le cui sorti sono legate, il giornalismo tradizionale si rivolge ormai a un ristretto numero di lettori: coloro che si sentono parte integrante del mondo descritto dai grandi media e votano saggiamente seguendone le raccomandazioni» (p. 129). Secondo lo studioso, che una parte considerevole della società tenda ad abbandonare le fonti autorevoli in favore di un’informazione desunta dai social network e, non di rado, di carattere ironico-satirico, non dipende soltanto dalle trasformazioni tecnologiche. L’allontanamento dei giovani e degli strati popolari sarebbe legato alla trasformazione politico-economica degli anni Settanta, che ha determinato l’abbandono di quelle forme di protezione proprie delle società evolute. «Dietro la rivendicazione ostentata del “vivere comune”, l’aumento delle diseguaglianze tocca oggi il mondo dell’informazione e favorisce un universo sempre più segmentato e individualizzato e una ricezione ironica delle ingiunzioni provenienti dalle élite» ed il successo di queste formule parodiche starebbe a testimoniare uno «sguardo sempre più distante, come se l’unica percezione pertinente dell’informazione possa essere solo quella ironica» (p. 130).

Nel panorama dei social network i principali fornitori di materiale sono gli utenti stessi e ciò avrebbe determinato il mescolarsi, in forma di conversazione, di contenuti personali e risorse mediatiche. Alla consultazione dei media si sarebbe sostituita la raccomandazione amichevole al fine di avere informazioni di attualità. Fonti private e fonti mediatiche vengono ad avere la medesima visibilità.

Se la legittimità delle fonti d’informazione deriva dal loro rispondere alle esigenze degli individui e tra queste vi è il bisogno di confronto e di partecipazione, i media tradizionali risultano incapaci di rispondere a tali esigenze e non basta di certo aggiungere la possibilità di un commento alla fine di un articolo steso con la vecchia logica per cambiare le cose. Resta in questo caso in piedi la logica che presuppone una fonte autorevole ed un ricevente a cui viene giusto data la possibilità di scrivere due righe a commento. I social network risultano invece in grado di integrare informazione e conversazione e, forse, una parte del loro successo è dovuta alla capacità di dare risposta alla voglia di protagonismo e partecipazione. Gunthert introduce il concetto di “fotografia conversazionale” per riferirsi ad un uso della fotografia (non importa se scattata appositamente) decisamente maggioritario oggi. Certo, affinché tali modalità di condivisione potessero darsi era necessario che la fotografia divenisse digitale.

Un grande limite della conversazione sui social network è determinato dall’elevato numero di partecipanti, che, non di rado, provoca l’ingestibilità del confronto vero e proprio e la conversazione si risolve sovente in un’enunciazione puramente dichiarativa: è il trionfo degli slogan e delle affermazioni roboanti, le uniche in grado di ottenere un minimo di visibilità. «Se il giornalismo delle notizie è stato lo strumento di un capitalismo regolato, la sregolatezza mediatica è lo specchio dell’esplosione di un modello di società. Le modalità del giornalismo di domani accompagneranno l’emergere di nuovi equilibri, molti dei quali restano ancora da scoprire» (p. 134).

La fotografia tradizionale si dava in corrispondenza di una gamma di eventi ben codificata all’esterno della quale lo scatto veniva giudicato inopportuno; occorreva essere turisti per potersi permettere scatti altrimenti mal tollerati. Per certi versi, secondo Gunthert, lo smartphone contemporaneo sembra aver trasformato ogni individuo in “un turista del quotidiano”, dunque al cospetto del cellulare-fotografico si è ampliata enormemente la quantità di quotidianità fotografabile (e condivisibile).

La parte conclusiva del volume si sofferma sulla pratica del selfie. Secondo lo studioso occorre immediatamente sgomberare il campo da un fraintendimento: il selfie non è un ritratto nel senso attribuitogli dalla tradizione pittorica prima e fotografica poi. La vocazione documentaristica è parte integrante della storia della registrazione visiva ma questa concerne usi specialistici. Per quanto riguarda la fotografia privata, questa ha solitamente lo scopo di custodire un ricordo e lo smartphone permette di «tradurre una situazione in forma visiva» (p. 147), di proporsi come reinterpretazione sintetica, non di rado ironica, del quotidiano.

André Gunthert, nel comparare la fotografia privata dei primi del Novecento a quella contemporanea, segnala che mentre nel passato i ceti popolari tendevano a copiare le pose e gli atteggiamenti delle celebrità, ora sembra accadere il contrario; le celebrità non disdegnano di riprodurre modelli derivati dal grande pubblico e ciò è particolarmente evidente nel ricorso al selfie. Su tale fenomeno riflette anche Elio Ugenti (Immagini nella rete, 2016), come abbiamo visto [su Carmilla].

Nonostante la pratica del selfie sia in uso sin dal 2000, è soltanto nel 2013 che è divenuta argomento di conversazione da parte dei media e degli studiosi. In rapida successione il selfie viene prima investito dall’accusa di palesare, amplificandolo, il narcisismo di una generazione e di un’epoca e poi viene incolpato di indurre i giovani ad imitare le pratiche autofotografiche delle star. Gunthert si sofferma in particolare sull’interpretazione che imputa alle nuove tecnologie l’impoverimento morale contemporaneo. Secondo lo studioso, tale interpretazione «si basa sul cambiamento di paradigma costituito dalla psicanalizzazione dei fatti sociali» (pp. 164-165). Una spinta in tale direzione è stata data dai saggi di Christopher Lash (The Culture of Narcisism, 1979) e di Jean M. Twenge (Generation Me, 2006 e The Narcisism Epidemic, 2009). In particolare quest’ultima individua la causa di tanto narcisismo nell’educazione all’autostima diffusasi negli anni Ottanta. Se da una parte le spiegazioni semplicistiche della studiosa conquistano facilmente i media, dall’altra la sua lettura viene attaccata ferocemente dagli specialisti. «Per spiegare la cultura contemporanea, la psicoanalisi ha gettato a mare la sociologia – almeno sulle pagine delle riviste, che applicano senza troppo pensarci i riflessi individualistici propri dell’ideologia neoliberale» (p. 166).

Una nuova ondata di attacchi al selfie deriva dalla diffusione in rete, nel 2013, di una serie di immagini in cui diversi adolescenti, incuranti del momento e del contesto, si esibiscono sorridenti in maniera del tutto analoga a quanto emerge dalle celebri fotografie realizzate dai carnefici americani di Abu Ghraib. L’accusa all’autofotografia è quella di incoraggiare comportamenti disdicevoli irrispettosi delle più elementari regole di comportamento da tenere nei luoghi e nei momenti più sacri. «L’autofotografia raggiunge lo smartphone nel simboleggiare al massimo livello l’ideologia della disconnessione dalla realtà, esemplificando l’assurdità di una vita documentata di continuo e la vanità di una comunicazione diventata self-branding» (p. 168). Ovviamente, come sempre accade in questi casi, la polemica ha contribuito ad estendere la pratica ed a questo punto si è assistito allo sfruttamento della moda del selfie da parte della pubblicità e del marketing. Nel 2014 la Samsung ha pianificato il famoso selfie delle celebrità nel corso della cerimonia degli Oscar per lanciare il suo nuovo modello di smartphone e, a proposito di gente priva di scrupoli, nel medesimo anno, durante le esequie di Nelson Mandela, il primo ministro danese Helle Thorming-Schmidt non ha resistito a scattare un selfie insieme a Barack Obama e David Cameron.

Il volume di Gunthert si chiude con l’aneddoto del principe Henry che, durante un viaggio in Australia, rifiuta un selfie ad una ragazza. «No, detesto i selfie. Davvero, lasci perdere. Lo so che lei è giovane, ma i selfie non sono belli. Faccia piuttosto una foto normale» (p. 172). L’invito del rampollo della casa reale è chiaro. «Fare una fotografia normale significa: restare al proprio posto, rispettare le regole non scritte che ergono uno schermo protettore tra il soggetto dell’attenzione e coloro che sono venuti per ammirarlo, talvolta materializzato da transenne o forze dell’ordine. Un mondo ci separa, dice il principe: ci sono quelli che guardano e quelli che sono guardati. La fotografia non è fatta per contraddire questa distinzione, ma per rafforzarla» (pp. 172-173). Insomma, un sussulto di sangue blu poco incline ad accodarsi alle modalità di ricerca di consenso dispiegata dalle nuove leve del potere borghese che invece non lesinano di ricorrere ad ogni mezzo necessario, selfie compreso.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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Neurocapitalismo. Dalla sussunzione reale alla sussunzione vitale https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/neurocapitalismo-dalla-sussunzione-reale-alla-sussunzione-vitale/ Wed, 13 Apr 2016 22:01:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29643 di Giovanni Iozzoli

neurocapitalismo_coverGiorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 260 pagine, € 20,00

Negli ultimi trent’anni la categoria marxiana della “sussunzione reale” è stata spesso utilizzata come cartina di tornasole per leggere materialisticamente molti passaggi epocali che l’avvio della rivoluzione tecnologica e la globalizzazione ci ponevano davanti. Nel suo ricchissimo Neurocapitalismo Giorgio Griziotti argomenta, con grande efficacia, l’avvenuto inveramento/superamento di quella stessa categoria: la transizione dalla sussunzione reale alla “sussunzione vitale”. L’epoca in cui la valorizzazione capitalistica riesce a mettere in valore non [...]]]> di Giovanni Iozzoli

neurocapitalismo_coverGiorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 260 pagine, € 20,00

Negli ultimi trent’anni la categoria marxiana della “sussunzione reale” è stata spesso utilizzata come cartina di tornasole per leggere materialisticamente molti passaggi epocali che l’avvio della rivoluzione tecnologica e la globalizzazione ci ponevano davanti. Nel suo ricchissimo Neurocapitalismo Giorgio Griziotti argomenta, con grande efficacia, l’avvenuto inveramento/superamento di quella stessa categoria: la transizione dalla sussunzione reale alla “sussunzione vitale”. L’epoca in cui la valorizzazione capitalistica riesce a mettere in valore non solo le forme del lavoro e della cooperazione sociale, ma la vita stessa, nella sua intelligenza, nelle sue potenzialità relazionali, nel suo portato di desideri e aspettative, finanche nella sua nuda essenza.

Il Neurocapitalismo è la fase bio-cognitiva della valorizzazione: la connessione mente, corpo, dispositivi e reti appare inestricabile e definisce la onnipervadenza della mediazione tecnologica. Il soggetto, i suoi desideri, le sue potenzialità, sono integralmente “messi in valore” dentro la dimensione di iperconnessione globale in cui tutta l’umanità, dalle savane alla metropoli, con gradi differenti, è ormai pienamente immersa.
Per scrivere un testo così necessitavano due condizioni: una grande competenza scientifica sulle rivoluzioni tecnologiche in atto da 30 anni e una mai spenta propensione verso la prospettiva della liberazione anticapitalistica; la biografia dell’autore, militante autonomo nel 77 milanese e poi ingegnere per grandi multinazionali delle comunicazioni, risponde a entrambe queste condizioni (ce ne fossero di più di “rossi ed esperti”, in un’epoca in cui scarseggiano gli uni e gli altri…).

Griziotti parte dalle categorie marxiane classiche – la “sussunzione reale”, il general intellect, la scienza come forza produttiva centrale e la legge del valore/lavoro come orizzonte in perenne forzatura, quindi il Marx dei Gundrisse e del “Frammento sulle macchine” (che come tutti i testi profetici si è prestato in 100 anni a ogni genere di interpretazione) – per connettere queste macro categorie ai mutamenti concreti, tecnologici, che hanno scandito l’egemonia della meta macchina informatica. E (passaggio non scontato) come tutte queste soglie tecnologiche abbiano segnato i grandi eventi politico-economici a cavallo dei due secoli: la fine del sistema di Bretton Woods, l’avvio della rivoluzione liberista, l’egemonia del capitale finanziario, la sconfitta operaia in occidente e la gigantesca ridislocazione della divisione internazionale del lavoro che – proprio grazie alla rivoluzione tecnologica – consente la convivenza della vecchia produzione di massa nelle periferie del mondo (mai così tanti operai nella storia) con le nuove forme dello sfruttamento “cognitivo”, quello in cui, appunto, non le braccia ma l’intelligenza, le attitudini cooperative, il sapere sociale consolidato dentro l’esperienza singolare dell’umano, costituiscono la base moderna di estrazione del plusvalore.

Ben narrata, anche per i profani, è la lunga sequenza storica che porta il capitalismo cognitivo ad appropriarsi del movimento del freesoftware e dell’innovazione che l’intelligenza socialmente diffusa è in grado di produrre solo se libera: una dinamica appropriativa che parte dall’epopea di Unix, il primo grande sistema operativo (sviluppato dal basso) e arriva fino alla persistente e raffinata capacità di captazione dei grandi gruppi, a partire da quello di Steve Jobs, che continuano a “recintare” e mettere in valore ciò che nasce come sapere comune.

La storia del capitalismo, ricorda Griziotti, è da sempre il tentativo di “sussumere” saperi e qualità del lavoro vivo dentro la Macchina, fin dal tempo dei telai a vapore; con l’elettronica, negli anni 60/70 il passaggio segna un salto di qualità (simboleggiato dalla macchina a Controllo Numerico e dalle prime linee automatizzate), con l’uomo che cede alla macchina parte dei suoi saperi e si sposta “al fianco” del processo produttivo, con una funzione di sorveglianza e controllo. Da lì, anche sulla spinta del conflitto operaio, si innesterà la formidabile rivoluzione delle comunicazioni nell’ultimo trentennio: un salto quantico nella messa in valore dei saperi, del linguaggio, dei sensi e finanche della sfera emozionale.

La tesi dell’autore è che le nuove tecnologie – nella loro devastante capacità di impatto sull’umano – vadano oltre la dialettica storica macchina/lavoro vivo e definiscano una rivoluzione antropologica in cui viene demolita e rifondata l’essenza stessa della soggettività e ridefinito il bios, la nuda vita. In quest’epoca non solo viene a mancare la tradizionale distinzione tra lavoro e non lavoro, sfera produttiva e non produttiva, non solo la giornata lavorativa si diluisce in un continuum in cui sei perfettamente produttivo anche mentre gironzoli sui social, alimentando i colossali big data che lavorano sui nostri desideri e su come trasformarli in input compulsivi, ma è il confine tra umano e macchina che tende a sfumare: dove finisce e dove comincia la nostra mente/coscienza, dentro l’immersione nel flusso della bioiperconnessione continua? C’è “qualcuno” dentro e distinto da questo flusso? E che cos’è propriamente l’umano, dentro questo scenario, appunto post-umano?
Domande terribili. L’autore cerca di sottrarsi al consueto schieramento tra apocalittici e integrati: tra gli ottimisti che da 20 anni vedono un potenziale di liberazione nella rivoluzione tecnologica (le macchine lavoreranno al posto nostro e noi svilupperemo le facoltà umane liberi dall’assillo del lavoro) e quelli che temono un’irreversibile dittatura digitale totalizzante ormai in atto. Per l’autore il terreno dello scontro è il capitalismo cognitivo, così come è storicamente dato, e anche nel cybertempo e nel cyberspazio continuamente rimodificati dal potere, non possiamo sottrarci a questo terreno, nella necessità di costruire sempre nuove “vie di fuga” in cui un sapere cooperante e costituente, riesca a sottrarsi al comando e alla valorizzazione. Non se ne vedono grandi segnali, al momento, solo qualche potenzialità. Il vecchio militante degli anni 70 ricorda il devastante impatto dell’eroina sui movimenti e lo paragona all’effetto alienante della connessione continua che dà un’illusione di apertura globale e invece isola l’individuo dalla realtà e dalla prossimità umana, nella più brutale delle alienazioni.

L’ultima sezione del libro, la più problematica, è quindi dedicata all’organizzarsi: esistono percorsi e processi reali e attuali, attraverso cui il comune, la cooperazione diffusa, possono riappropriarsi della loro autonomia? Lo scenario è desolato. Nomadismi esistenziali, perenni attraversamenti verso il nulla, che rifiutano le appartenenze (o si rifugiano in quelle più effimere), disegnano un individuo senza approdi nella sfera bio-ipermediatica, dai sensi perennemente saturi, dentro uno spazio tempo continuamente ridefinito da algoritmi e automatismi di sistema studiati per classificare e valorizzare miliardi di singolarità e le loro pratiche.

L’autore sa bene che senza conflitto, le potenzialità del comune (soprattutto sui temi centrali dell’energia e della comunicazione) non si libereranno mai, alla faccia dei profeti alla Rifkin che narrano di transizioni dolci e dell’avvento inevitabile del mondo nuovo dell’abbondanza, della sharing economy e della conoscenza comune.
Ma cosa c’è nell’agenda del presente, come si organizza il lavoro salariato oggi, mentre permangono le sue vecchie modalità di prestazione lavorativa? L’operaio fordista assumeva nella sua figura un intero ciclo di emancipazione ed egemonizzava un largo spettro di figure: programma e composizione di classe marciavano insieme, ma oggi, quale settore di “proletariato cognitivo” è in grado di ripercorrere la moderna filiera del valore – dal facchino al programmatore? E’ il problema dei problemi dell’oggi: la definizione di una nuova cartografia dei soggetti reali in cui “infilare le mani”, al di là delle macro-narrazioni sistemiche.

Decenni di conricerca, l’antica grana operaista, la passione del militante e il sapere accumulato “sul campo”, rendono il lavoro di Griziotti ricco, denso e utile. Neurocapitalismo è un libro poderoso, che apre squarci nuovi e allo stesso tempo produce giusta sintesi su quella che ormai è una massa sterminata di letteratura sulle derive del capitalismo cognitivo.

Mentre mezza Europa si interroga terrorizzata sulla possibile “sottomissione” alla Houellebecq (moloch sapientemente agitato per terrorizzare i popoli europei), così poco ci preoccupiamo della “sottomissione reale” (sinonimo della sussunzione) della nostra esistenza alla merce e al profitto, ormai totalmente dispiegata in ogni ambito della nostra esperienza quotidiana e del nostro spazio-tempo. Nessuna sharia potrebbe condizionarci più brutalmente. Più che un futuro a centralità teocratica, si intravede un orizzonte di nichilismo tecnologico efficacissimo, iperproduttivo e disperato.

 

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