notte – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 11 Mar 2025 22:55:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ricerca di vita: Ayotzinapa 4 anni e i familiari dei desaparecidos in Messico https://www.carmillaonline.com/2018/09/26/ricerca-di-vita-ayotzinapa-4-anni-e-i-familiari-dei-desaparecidos-in-messico/ Tue, 25 Sep 2018 22:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48937 di Fabrizio Lorusso

Attualmente in Messico ci sono oltre 22.000 corpi non identificati nelle fosse comuni del servizio medico forense. La Commissione per i Diritti Umani ha registrato la presenza di 1.306 fosse clandestine con circa 4.000 corpi sepolti dentro. Sono oltre 37.000 i desaparecidos, la maggior parte dei quali sono vittime di sparizione forzata, cioè di un crimine commesso da funzionari pubblici direttamente o da altri criminali con la connivenza o l’acquiescenza di questi.  Il 2017 è stato l’anno più violento della storia recente, superando il 2011 con oltre 30.000 omicidi dolosi, e [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Attualmente in Messico ci sono oltre 22.000 corpi non identificati nelle fosse comuni del servizio medico forense. La Commissione per i Diritti Umani ha registrato la presenza di 1.306 fosse clandestine con circa 4.000 corpi sepolti dentro. Sono oltre 37.000 i desaparecidos, la maggior parte dei quali sono vittime di sparizione forzata, cioè di un crimine commesso da funzionari pubblici direttamente o da altri criminali con la connivenza o l’acquiescenza di questi.  Il 2017 è stato l’anno più violento della storia recente, superando il 2011 con oltre 30.000 omicidi dolosi, e il 2018 non promette bene dato che da gennaio ad agosto gli omicidi sono stati 21.857, il 20% in più rispetto all’anno prima. Viene ucciso in media da tre anni un giornalista ogni mese e sono almeno 360.000 i rifugiati interni, cioè decine di migliaia di famiglie che sono dovute fuggire in altri stati o emigrare all’estero. La cifra accumulata delle vittime di omicidio e femminicidio è di quasi 250.000 grazie a 12 anni di militarizzazione e paramilitarizzazione della sicurezza pubblica con il pretesto di una presunta guerra alla droga, che in realtà è funzionale alla protezione del capitale privato e finanziario e agli investimenti stranieri, durante le presidenze di Felipe Calderón (2006-2012) ed Enrique Peña Nieto (2012-2018). Questo bollettino di guerra non ha tolto la speranza a migliaia di persone che da anni, e in alcuni casi da decenni, lottano per la verità, la giustizia, la riparazione e la non ripetizione dei crimini e per sconfiggere corruzione e impunità.

Tra questi sicuramente ci sono i genitori dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa che da 4 anni lottano incessantemente per riavere i loro figli e sapere cosa è successo veramente perché “Vivi li hanno portati via, e vivi li rivogliamo”, come recita il lemma che dagli anni ’70 accompagna la lotta dei familiari dei desaparecidos in America Latina. Ne ha scritto molto bene Luis Hernández sul quotidiano messicano La Jornada

In un Paese in cui i cadaveri senza nome sono trasportati su dei camion-frigorifero per mesi e mesi[i], e in cui ogni settimana appaiono nuove fosse clandestine, la dignità e la persistenza dei genitori dei 43 sono il seme di un altro Paese. La loro lotta indistruttibile per la verità e la giustizia è un punto critico della salute pubblica nazionale. A Enrique Peña e ai funzionari del suo governo coinvolti nel caso li perseguiterà per sempre il fantasma di Ayotzinapa. Il futuro governo avrà nella “notte di Iguala” una prova del fuoco definitiva. Dalla sua decisione di toccare gli interessi che frenano il chiarimento dei fatti, dalla sua volontà e capacità di risolvere questo crimine di lesa umanità dipenderà, e molto, il giudizio della storia. Più che di commissioni, è l’ora della verità.

Nella notte del 26-27 settembre del 2014, a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, i ragazzi furono vittime di un attacco orchestrato da differenti autorità, come la polizia locale, la federale, la ministeriale e la statale, con l’acquiescenza e la partecipazione indiretta, per quanto s’è potuto provare finora, dell’esercito messicano, cioè del 27esimo battaglione di stanza a Iguala. Le autorità hanno monitorato gli studenti già dal pomeriggio e tra le 9 e la 1 di notte, per oltre 4 ore, hanno condotto una vera e propria operazione di repressione e di caccia all’uomo, servendosi di corpi speciali paramilitari noti come bélicos e di gruppi del crimine organizzato per portare a termine la strage. 42 studenti sono tuttora desaparecidos e i resti calcinati di uno solo di loro, Alexander Mora, sono stati identificati.

6 persone, tra cui 3 studenti, sono state uccise quella notte e decine ferite. La reazione nazionale e internazionale è stata fortissima e, insieme a scandali di corruzione e alle numerose mattanze delle forze armate che sono vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, ha segnato nettamente la presidenza di Peña. Ome se non bastasse la procura Generale della Repubblica e il governo hanno sostenuto una verità fallace, detta “storica” solo da loro, che è stata ottenuta con la minaccia e la tortura degli indiziati. Inoltre su 130 detenuti per il caso nessuno è imputato per sparizione forzata. Le indagini di esperti internazionali e dei giornalisti e attivisti messicani hanno portato alla distruzione della versione ufficiale, che sostiene che i 43 sono stati rapiti e bruciati da narcotrafficanti nella discarica di Cocula, nei pressi di Iguala, e hanno costruito una versione più realistica, anche se incompleta.

Restano aperte almeno quattro piste per le indagini, non esplorate e anzi occultate dalla procura: la caserma e il ruolo del 27esimo battaglione militare a Iguala, che potrebbe aver occultato i corpi dei ragazzi e forse cremati, vista la tradizione stragista dell’esercito nel Guerrero ed essendo l’unica struttura ad avere forni crematori; la pista dei cellulari di alcuni studenti che sono stati accesi e hanno ricevuto chiamate anche molte settimane dopo la sparizione forzata e che, secondo le geolocalizzazioni, si trovavano in strutture militari come il campo n. 1 a Città del Messico; la possibilità che 25 studenti siano stati portati a Huitzuco dalla polizia locale di quella città e non a Cocula nella notte del 26; il mistero del quinto autobus, nascosto dalle indagini ufficiali ma esistente e occupato dagli studenti la notte del 26, su cui ci sarebbe potuto essere un carico di eroina che potrebbe essere stato uno dei moventi iniziali dell’attacco di polizia e crimine organizzato contro i bus (che sono in totale dunque non quattro come dice la procura, ma cinque).

Viste le grandi irregolarità, le torture ai detenuti e la mala fede nella conduzione delle indagini, la versione costruita dal governo e la conduzione del caso viola il dovuto processo e i diritti umani ed è da rifare. Più o meno è questo il contenuto di una sentenza di un tribunale del Tamaulipas (il Terzo tribunale collegiale del 19esimo circuito) in cui viene seguita una parte del caso giudiziario. La sentenza, emessa il 30 maggio 2018 in risposta ai ricorsi presentati dai detenuti per il caso Iguala, è storica in quanto riconosce la gravità delle irregolarità commesse e chiede la costituzione di una Commissione di Indagine per la Verità e la Giustizia e la possibilità di un intervento internazionale, di uno scrutinio e di un accompagnamento di istituzioni come l’ONU, la Corte Interamericana dei Diritti Umani e il GIEI (gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti), che già aveva investigato e demolito la verità ufficiale tra il 2015 e il 2016. Si chiede quindi a gran voce il ritorno degli esperti e la commissione della verità.

Il prossimo presidente, eletto con una maggioranza inedita nella storia democratica del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha promesso la creazione della Commissione e la risoluzione del caso in un comizio proprio a Iguala in cui hanno partecipato sul palco i genitori dei 43. Sarà per il nuovo governo, che per la prima volta è sostenuto da una maggioranza di sinistra e ha promesso una lotta dura contro corruzione, disuguaglianze e privilegi, un banco di prova importantissimo. Ciononostante in questi ultimi mesi di governo, Peña ha fatto di tutto per invertire gli effetti della sentenza e fermare la Commissione sul caso: vari ministeri, tra cui la difesa, ovviamente, e la presidenza hanno interposto circa 200 ricorsi contro il tribunale del Tamaulipas.

Ma il 19 settembre un tribunale gerarchicamente superiore ha confermato la sentenza e ha quindi dato una svolta al caso e all’inizio di un processo di verità e giustizia per Ayotzinapa. Il futuro governo sta promuovendo in questi mesi una serie di incontri pubblici, stato per stato, per formulare proposte per la pacificazione e la riconciliazione nazionale, un esperimento difficile e anche controverso che però sta generando iniziative e discussioni sulla guerra interna, il ruolo dello Stato e dei poteri economici, sul narcotraffico, le vittime e la giustizia transizionale che da tempo il Messico meritava. Le aspettative sono forse troppo alte, ma almeno qualcosa si muove. Di certo la lotta dei collettivi di cercatori e di familiari dei desaparecidos, come quella dei genitori di Ayotzinapa e delle storiche organizzazioni degli anni della cosiddetta “Guerra sporca” degli anni ’70 e ’80, non si fermano e non si limitano alle belle parole. Le manifestazioni e le iniziative, chiaramente, non si fermano per questo motivo e questo 26 settembre 2018 di nuovo i movimenti sociali accompagneranno i genitori dei 43 studenti al grido di ¿Dónde están? e !Justicia¡ per cui si possono seguire e organizzare le azioni globali mediante l’hashtag #Ayotzinapa4años.

La ricerca di vita per i familiari dei desaparecidos

Possiamo intendere la “ricerca di vita” come la risposta immediata alla domanda: “Che cosa stanno cercando i familiari delle persone scomparse?”. Le indagini, le esplorazioni sul campo e le ricerche instancabili, che realizzano i familiari in un’infinità di luoghi diversi in lungo e in largo nella difficile geografia nazionale con il fine di trovare in vita o anche morti i propri cari, si riassumono in un concetto emergente e potente, derivato del discorso stesso delle vittime e delle organizzazioni in lotta per i desaparecidos in Messico.

Tutto questo è quotidianità terribile per migliaia e migliaia di persone nel contesto della cosiddetta “guerra al narcotraffico”, un conflitto interno che non è altro che una strategia di militarizzazione dei territori e di controllo sociale simile a una guerra civile, combattuta tra diversi attori armati per ottenere rendite economiche e politiche, quote di potere e di traffici leciti e illeciti, protezioni e business di ogni tipo.

Mediante la onnipresente violenza fisica, simbolica e strutturale il corollario della guerra diventa il controllo biopolitico dei corpi, delle menti e dei gruppi sociali potenzialmente trasformatori, così come la repressione delle domande di giustizia sociale e di redistribuzione che provengono dai settori più marginali e vulnerabili che, guarda caso, sono anche quelli più colpiti dalla violenza imperante, militare, di polizia e paramilitare: sono i giovani, i poveri, le donne, le comunità rurali e indigene, i custodi delle risorse naturali, i giornalisti e gli attivisti. La società messicana è incastrata tra i fuochi della guerra, dell’impunità, della corruzione, delle disuguaglianze, del mercato inselvaggito, dell’individualismo consumista e ideologizzato e dell’accumulazione per espropriazione e spoliazione, rilanciata dal modello neoliberista globalizzato e dalle riforme strutturali degli ultimi anni.

Mi ha colpito ed emozionato molto leggere della búsqueda de vida (ricerca di vita) nell’introduzione del libro Memoria de un corazón ausente. Historias de vida (Memoria di un cuore assente. Storie di vita) (lo trovi qui in PDF LINK), scritta dal difensore dei diritti umani e cofondatore nel 2009 dell’organizzazione, oggi nazionale, FUNDEC (Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila), Jorge Verástegui González. Il volume, illustrato dall’artista e attivista Alfredo López Casanova e pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll Stiftung è una collezione di storie di donne che raccontano la vita dei loro cari scomparsi e, in questo modo, invertono le narrazioni che si focalizzano solo sui familiari “che restano” e che cercano i desaparecidos e ridanno vita e contenuto agli assenti e al loro vissuto prima della sparizione.

Come segnala la stessa introduzione, il libro “cerca di cambiare la narrativa, restituendo la storia di persone scomparse in base al concetto di ricerca di vita, il quale sorge analizzando che cosa c’è dietro alle azioni di ricerca di un desaparecido e comprendendo che la relazione intima tra chi sta cercando e la persona cercata è un vincolo profondo che va oltre la fisicità, la materialità e la corporalità per trasferirsi alla affettività, la soggettività e al vissuto. In un senso fisico, ma anche in uno soggettivo, ciò che si cerca è vita, visto che i nessi possono essere biologici, “di sangue”, e allo stesso tempo affettivi, come succede tra fratelli o tra madre e figlio, ma possono essere solo affettivi, come tra coniugi o amici, per cui “la connessione affettiva è quella che riveste di vita la ricerca di chi è desaparecido” ed è sintetizzato dalla metafora per cui l’assenza significa che “sparisce una parte del cuore”.

Esistono due possibilità di rincontro che sono la localizzazione in vita o senza vita della persona scomparsa e, anche se in quest’ultimo caso pare paradossale parlare di una “ricerca di vita”, in realtà succede che la vita è intesa come battito fisico di cuore e polmoni, ma anche soprattutto come affettività e soggettività singolare da recuperare. Addirittura i resti ossei di un proprio caro, estratti da una fossa clandestina, rappresentano una vita soggettivamente presente per chi la sta cercando ed eventualmente per chi la trova dopo aver percorso tante strade in senso fisico come in senso metaforico, dopo aver solcato sentieri della memoria in cui l’assente ha lasciato le sue orme. I cercatori e le cercatrici di fosse clandestine trovano tesori di inestimabile valore, non solo ossa, resti o semplici indizi.

La desaparición rompe il vincolo fisico ma soprattutto quello affettivo, provocando di conseguenza un impulso irrefrenabile al movimento, alla ricerca e anche all’azione collettiva, a qualunque costo e rischio, con il fine di ritrovare i vincoli e avviare un processo di chiusura del lutto che, fino a quel momento, era rimasto congelato o sospeso, aperto indefinitamente. In molti collettivi di familiari questo dolore si può socializzare e il lutto diventa condiviso e più sopportabile, spingendo all’azione e alla ricerca di vita.

“Los otros buscadores: buscando vida entre los muertos”(Gli altri cercatori: cercando vita tra i morti) è il nome emblemático del nuovo collettivo di Mario Vergara, cofondatore del collettivo de Los otros desaparecidos de Iguala nel 2014 che continua a lottare a cercare suo fratello Tomás, sequestrato nel 2012 a Huitzuco, stato del Guerrero.

Nel 2016 uscì un reportage di Juan Flores Mateos centrato sulla figura di Mario ma anche di altri uomini e donne che in Messico intraprendono la ricerca dei loro cari e denunciano la complicità o l’inerzia delle autorità. Il titolo del pezzo era, giustamente: “Encontrar a los muertos para darle vida a los vivos” (Trovare i morti per dare vita ai vivi).

Parlando dei dolori e le conseguenze fisiche e psicologiche della ricerca nel caso dei genitori dei 43 studenti di Ayotzinapa, Luis Hernández Navarro spiega:

La sofferenza non diminuisce con gli anni. Né la sua, né quella del resto dei genitori e fratelli degli studenti scomparsi. La sparizione forzata è uno dei delitti più atroci. Le famiglie soffrono in un primo momento per il terribile colpo rappresentato dall’assenza. Poi soffrono l’afflizione della ricerca e dell’incertezza. Non hanno modo di processare il lutto. Non hanno modo di dire addio.

La sofferenza, i sensi di colpa, i cattivi momenti hanno avuto effetti devastanti sulla salute dei familiari. Le patologie che già avevano sono peggiorate, mentre ne emergono di nuove. In 16 famiglie su 43 ci sono malattie molto gravi, in maggioranza legate al diabete, l’ipertensione e la cattiva alimentazione. Il febbraio scorso è morta Minerva Bella Guerrero, madre di Everardo Rodríguez bello, il quarto di sette figli. La zia Mine, come la chiamavano i suoi cari, era una donna allegra, che amava ballare, fino a che la tristezza causata dalla sparizione forzata di suo figlio non l’ha spenta. Nel letto di morte ha chiesto a sua figlia di trovare suo fratello e di abbracciarlo più forte che può.

Francisco Rodríguez, marito di Minerva, usa una maglietta con scritto: Muoverò montagne per stare con te. Neanche lui s’arrende. Ha promesso a sua moglie che avrebbe trovato sua figlio Everardo e non si fermerà finché non avrà adempiuto la sua promessa. Le famiglie degli altri ragazzi l’hanno salutata con un bollettino di guerra: è morta combattendo il cancro e l’impunità di un governo che non le ha mai dato risposta circa il destino di suo figlio. Riposi in pace.

La chiusura del lutto sospeso implica che, secondo Verástegui, “solamente con il rincontro delle due persone esiste la possibilità di andare avanti e transitare da uno stato di incertezza a un nuovo senso di vita”. Cercare resti della vita fisica, allora, significa fare un salto, una rotazione, nella comprensione normalizzata e comune sulla morte e recuperare una parte importante della vita di chi si sta cercando. Implica anche ritrovarsi nel “non-senso delle sparizioni forzate” e intraprendere un viaggio di ritorno allo stato precedente.

L’interiorizzazione della búsqueda de vida è un elemento di costruzione di nuove identità individuali e collettive, aspetto fondamentale nei movimenti sociali, a partire dalla reazione contro l’aggravio, l’ingiustizia e l’abuso, e soprattutto dinnanzi a quello stesso dolore, quel dolore comune, che provano tutti e tutte le vittime e che le unisce in communitas. Il lavoro di Memoria de un corazón ausente usa il metodo della storia orale per ridare voce e vita agli assenti mediante la narrazione di chi li sta cercando e, così facendo, ricostruisce scampoli di senso dentro l’incertezza limbica e dolorosa della desaparición.

Leggi su Carmilla l’archivio “Ayotzinapa” LINK

@FabrizioLorusso

[i] Il riferimento è alla notizia diffusa la settimana scorsa di un camion-frigorifero enorme pieno di cadaveri (157 corpi) che deambulava per il territorio dello stato di Jalisco per via della mancanza di spazio nelle strutture preposte alla conservazione e identificazione dei cadaveri. Il “camion della morte”, parcheggiato in una di zona periferica di Guadalajara, visto l’odore di putrefazione che emanava, ha suscitato le proteste degli abitanti ed è stato spostato. Questa pratica è proibita dal 2013 ma viene ancora realizzata i varie località. http://www.eluniversal.com.mx/estados/lo-que-sabemos-de-los-cuerpos-hallados-al-interior-de-un-trailer-en-jalisco

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Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

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