Norbert Trenkle – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Rileggere oggi il “Manifesto contro il lavoro” https://www.carmillaonline.com/2024/02/01/rileggere-oggi-il-manifesto-contro-il-lavoro/ Thu, 01 Feb 2024 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81003 di Paolo Lago

Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00.

È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest [...]]]> di Paolo Lago

Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00.

È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest ebbe in Germania altre tre edizioni, la seconda già nel settembre del 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel 2019. Le teorie esposte nel Manifest appartengono alla corrente di pensiero chiamata Wertkritik, cioè “Critica del Valore”, secondo la quale la crisi che sta investendo il sistema del capitale è irreversibile ed è determinata proprio dalla crisi del lavoro, provocata a sua volta dalle varie ‘evoluzioni’ che esso stesso ha subito nel tentativo di aumentare e rendere migliori le sue applicazioni tecnico-scientifiche. Ciliegina sulla torta è stata la “rivoluzione micro-elettronica”, che ha espulso e reso inutili enorme masse di forza lavoro umana, ormai improduttive dal punto di vista della valorizzazione capitalistica. Naturalmente, come ricorda anche l’autore dell’introduzione, il lavoro che attaccano gli studiosi della “Critica del Valore” non è tanto l’operare umano in sé quanto invece quello che Marx definisce “lavoro astratto”, non finalizzato al benessere degli individui ma all’aumento del profitto e all’accumulazione monetaria in vista di nuovi investimenti.

Gli autori del Manifesto sono tre fra gli studiosi di spicco del Gruppo Krisis: Robert Kurz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff. La presente edizione2 ripropone, insieme al Manifesto, dei saggi significativi di questi studiosi (ai quali si aggiunge un saggio di Anselm Jappe) già presenti nella traduzione italiana del 2003. In più, adesso possiamo leggere un nuovo testo di Norbert Trenkle, Il manifesto contro il lavoro vent’anni dopo che fungeva da postfazione alla quarta edizione tedesca, un’intervista a Robert Kurz in occasione dell’uscita del suo importante saggio Libro nero del capitalismo, un altro scritto di Norbert Trenkle dal titolo Rottura qualitativa. Sull’attualità della critica del lavoro, uscito nel 2022, e, infine, Il duplice Marx di Robert Kurz, uscito in occasione dei centocinquanta anni dall’apparizione del Manifesto del Partito Comunista. Come possiamo vedere, l’attuale edizione è corredata di numerosi altri testi che integrano e chiosano in modo sicuramente interessante le teorie espresse nel Manifesto. Ma che senso ha rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro? E, soprattutto – possiamo chiederci – è sempre attuale? La risposta è sì, senza dubbio, nonostante gli anni siano passati e la situazione sia nettamente cambiata rispetto al 1999. Una rilettura del Manifesto, oggi, va indubbiamente caricata di senso nuovo perché le pagine degli studiosi del Gruppo Krisis hanno ancora tanto da dire e possono diventare delle fondamentali chiavi di lettura per comprendere la contemporaneità.

A mio avviso, tra gli snodi fondamentali della società odierna di cui la stesura del 1999 non ha potuto tenere conto, rientrano la sempre più pervasiva digitalizzazione di massa, la diffusione dell’intelligenza artificiale e gli inediti risvolti sociali e lavorativi, con l’affermazione del cosiddetto smart working, che sono emersi dal truce periodo dell’emergenza Covid. Nel primo capitolo del Manifesto, intitolato Il dominio del lavoro morto, il Gruppo Krisis scrive che “proprio nel momento della sua morte, il lavoro getta la maschera e si rivela come una potenza totalitaria, che non tollera nessun altro dio al di fuori di sé. Il lavoro determina il modo di pensare e di agire fin nelle minime pieghe della vita quotidiana e nei più intimi recessi della psiche”. Ebbene, queste osservazioni sono più che mai attuali anche alla luce della contemporaneità più stringente. Più che mai, oggi, con l’affermazione dell’intelligenza artificiale, dei sistemi di controllo digitali e dello smart working, il lavoro è diventato una “potenza totalitaria che non tollera nessun altro dio all’infuori di sé”. Infatti, come nota Gioacchino Toni nel suo saggio Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, a partire dal 2011 si inizia a parlare di “Industria 4.0”, espressione probabilmente introdotta dall’azienda tedesca Bosch, che indica una nuova, iperconnessa, modalità organizzativa della produzione. Come scrive lo studioso, “dalla fusione tra il mondo reale / fisico degli impianti e quello virtuale / digitale dell’informazione scaturisce un sistema misto cyber-fisico finalizzato, ad esempio, a ridurre gli sprechi, a raccogliere informazioni dal processo lavorativo rielaborandole in tempo reale, anticipare errori e malfunzionamenti attraverso la virtualizzazione dell’azienda, sfruttare al massimo la creatività del lavoratore e incorporare le richieste del cliente nel corso del processo produttivo”3. Nelle “smartificazioni” che avvolgono la società contemporanea (e che nel 1999 sarebbero sembrate frutto di una fantascienza distopica), il lavoro emerge veramente come un idolo totalitario e assoluto, in quanto la diffusione della digitalizzazione è spesso finalizzata al miglioramento della produttività capitalistica e al controllo coercitivo dei lavoratori.

Con lo smart working, questa “potenza totalitaria” penetra persino nella sfera domestica e privata degli individui, in quella “sfera astrattamente privata”, come leggiamo nel Manifesto. Quella “sfera separata dalla vita”, quella cioè dedicata al lavoro, dove, secondo il Gruppo Krisis, “il tempo cessa di essere vissuto”, con i processi di digitalizzazione si unisce e si ibrida con i momenti e gli spazi che dovrebbero essere dedicati, invece, alla “cura di sé” in senso foucaultiano, ad un arricchimento interiore. Non esiste più una “sfera astrattamente pubblica”, dedicata al lavoro, e una “sfera astrattamente privata”, dedicata al “tempo libero” (altra faccia del dominio del lavoro): esse finiscono per ibridarsi in un nuovo, teratologico spazio-tempo. L’individuo dell’epoca del Covid, costretto a stare chiuso in casa e a consumare il suo divertimento sulle piattaforme digitali mangiando cibi più o meno esotici consegnati da rider sottopagati, e lavorando in un altro angolo del soggiorno al suo PC, non appare più “scisso” come scrive il Manifesto. È invece un essere ibrido, meccanizzato, totalmente alienato, un ‘mostro’ che non si era mai incontrato prima d’ora nella storia sociale. D’altra parte, in un altro punto, sembra che il Manifesto preconizzi l’arrivo dell’intelligenza artificiale come uno strumento liberatorio dal giogo del lavoro: “Perché passare tante ore, giorno dopo giorno, nei capannoni delle fabbriche e negli uffici, se robot di ogni tipo possono risparmiarci la maggior parte di queste attività? Perché far sudare centinaia di corpi umani, se bastano alcune trebbiatrici? Perché sprecare energie in compiti di routine che un computer può tranquillamente eseguire?”. Potrebbe apparire una visione sostanzialmente ingenua, del tipo “affidiamo a robot e ‘androidi’ i lavori più pesanti, come nei film Metropolis e Blade Runner”; eppure, come scrive Anselm Jappe nella Prefazione, “la prospettiva del Manifesto in generale non è di certo quella di aspettare un paradiso tecnologico dove le macchine lavorano al nostro posto e noi umani ci possiamo limitare a guardarle”.

Risulta assai interessante e denso di echi negli anni più recenti anche il capitolo 9, intitolato La sanguinosa storia dell’affermazione del lavoro, in cui leggiamo che “non furono i pacifici mercanti sulle antiche vie del commercio i precursori della moderna borghesia, che in fin dei conti fu l’erede dell’assolutismo. Furono piuttosto i «condottieri» dei soldati di ventura agli inizi dell’era moderna, i direttori delle case di lavoro, gli esattori, i sorveglianti di schiavi e altri tagliagole a costituire un fertile terreno sociale per l’«imprenditoria» moderna”. Le guerre di oggi che rimbalzano pervasivamente sui media come tragici sfondi della nostra quotidianità, come ferite lancinanti e presenti, sono quelle portate avanti dal capitale e dalla società del lavoro e, al posto dei condottieri di soldati di ventura e di sovrani sanguinari, ci sono truci fantocci della società capitalistica come i vari Biden, Zelensky, Putin e Netanyahu. E, per fare ancora un riferimento all’emergenza Covid del 2020, mentre innumerevoli lavoratori erano costretti a stare chiusi in casa e a lavorare tramite lo smart working, altrettanti erano invece costretti a andare a lavorare in fabbrica rischiando la vita, mentre i rider erano mandati a solcare le strade deserte per portare le vivande a domicilio come i corrieri della serie tv sudcoreana Black Knight, costretti a muoversi in un ambiente distopico devastato e inquinato per non far rallentare la produzione. Come ha notato Sandro Moiso in un articolo scritto ‘a caldo’ in quel periodo, “le aree industriali d’Italia si stanno trasformando in autentici lager che, esattamente come quelli a cielo aperto in Palestina, non hanno nulla da invidiare o da rimproverare a quelli nazisti”4. Il lavoro continua la sua “sanguinosa affermazione” anche nell’epoca dell’Industria 4.0.

Un altro capitolo del Manifesto che possiede una tragica risonanza contemporanea, soprattutto in Italia, è anche quello intitolato Il lavoro è dominio patriarcale. È infatti la società del lavoro a creare e ad accentuare la sfera separata dal lavoro stesso, quella intima e famigliare, alla cui custodia è assegnata la donna: “Non a caso, l’immagine della donna come essere naturale e istintivo, irrazionale ed emotivo è diventata un pregiudizio universale insieme a quello del maschio lavoratore e creatore di cultura, razionale e padrone di sé”. Soprattutto in Italia perché, recentemente, troppo spesso si sono verificati femminicidi, figli di una cultura patriarcale difficilmente sradicabile, una cultura che si perde nei meandri più oscuri della mentalità maschile e maschilista del “Belpaese”. L’Italia appare un paese fondamentalmente patriarcale, in cui non si risparmiano neppure episodi di razzismo. Altro che “primato civile degli italiani” rispetto all’obbligo di lavorare, come scrive Jappe facendo riferimento ad un’immagine macchiettistica del napoletano o al ladro de I soliti ignoti (immagini stereotipate magari filtrate da uno sguardo prettamente tedesco). In Italia, come negli anni Novanta c’era soltanto la scelta fra D’Alema e Berlusconi (come leggiamo nel Manifesto, perché la democrazia impone scelte non libere ma solo “fra la peste e il colera”), adesso c’è soltanto la scelta fra Schlein e Meloni e la maggioranza degli italiani sembra propendere per la seconda e per i suoi accoliti.

Infine, un altro aspetto interessante messo in rilievo dal testo del Gruppo Krisis, pure se fugacemente, riguarda l’educazione e la scuola, ormai totalmente asservite, anche più che nel 1999 e nel 2003, alla società del lavoro e del capitale. La sfera educativa che riguarda il rapporto con bambini e adolescenti viene introiettata nelle dinamiche aziendali più becere e ciniche, a cominciare dalla cosiddetta alternanza scuola-lavoro (ora PCTO), introdotta in Italia dalla riforma Moratti nel 2003. Non è un caso che tutti i recenti governi (Renzi, Draghi ecc. ecc.) abbiano incentivato le scuole tecniche e promosso percorsi di avviamento al mondo del lavoro. Sulla stessa linea – inutile dirlo – si sta muovendo il governo Meloni. Nelle linee guida di questi governi in fatto di educazione si leggono frasi e parole agghiaccianti come “lavoratori qualificati”, “capitale umano”, “crescita economica” mentre schiere di consulenti digitali del Miur invitavano a “stalkerare gli studenti” che erano restii a seguire la famigerata didattica a distanza durante l’emergenza Covid. Il Manifesto, rifiutando la sfera alienata ed alienante del valore capitalistico, persegue quindi rapporti più autentici fra gli esseri umani, sia in fatto di educazione che di interazione sociale, ponendosi abbastanza vicino, in questo, a certe istanze portate avanti dai situazionisti (pensiamo all’Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem). Come scrive Norbert Trenkle in Rottura qualitativa, “vogliamo riappropriarci del tempo di vita e delle risorse che il capitale ci sottrae in modo permanente e che trasforma in mezzi di distruzione del mondo. Solo così potremo riuscire ad aprire gli spazi per un modo di produzione e di vita che si basi sull’attività libera e autodeterminata, sulla cooperazione e sulla solidarietà”. Probabilmente, una pecca che possiamo imputare al nostro testo è quella di non chiarire fino in fondo come si delineerà questa “vita che si basi sull’attività libera e autodeterminata” ma le basi critiche restano in ogni caso solide e interessanti.

E comunque, anche da questo necessariamente rapido excursus possiamo comprendere che rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro può offrirci – come già notato – tante chiavi di lettura per capire più a fondo la contemporaneità, per creare inediti ed inaspettati cortocircuiti. Ecco che allora il testo del Gruppo Krisis si può trasformare in una sorprendente “cassetta degli attrezzi” per muoverci criticamente nel nostro tempo. Da quel 1999, lembo estremo d’un altro millennio, grazie alla sua capacità già allora di guardare lontano, il Manifesto oggi ha ancora molto da dire.


  1. Cfr. Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, trad. it. di S. Cerea, DeriveApprodi, Roma, 2003. 

  2. Con le traduzioni dal tedesco di G. Rossi, S. Cerea, A. Jappe e M. Maggini. 

  3. G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone, Roma, 2022, p. 137. 

  4. S. Moiso, Le città verranno distrutte all’alba, in L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, a cura di J. Orlando e S. Moiso, Il Galeone, Roma, 2020, p. 40. 

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Le due facce della modernità secondo Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2018/06/10/le-due-facce-della-modernita-secondo-robert-kurz/ Sat, 09 Jun 2018 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46193 di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a [...]]]> di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a Massimo Maggini e Riccardo Frola – da anni si dedica alla cura e traduzione delle opere di questi autori tedeschi. Non possiamo perciò che essergli grati (ed essere grati all’opera di diffusione portata avanti da questi appassionati, grazie anche alla rivista online “L’anatra di Vaucanson”) per la recente traduzione, per i tipi di Mimesis – editore presso il quale sono precedentemente usciti anche altri testi di tali autori – del saggio di Robert Kurz intitolato Il collasso della modernizzazione (Der Kollaps der Modernisierung), uscito in Germania nel 1991. Kurz è infatti un autore fondamentale per comprendere le contraddizioni della modernità e della contemporaneità, uno studioso che purtroppo è stato spesso trascurato o incompreso. Prematuramente scomparso nel 2012, Kurz è uno dei fondatori della rivista e del gruppo tedeschi “Krisis” e, successivamente, fautore della scissione del gruppo “Exit”. Fra le opere più significative degli autori del Gruppo Krisis è doveroso ricordare il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e, nel 2003, in traduzione italiana per “DeriveApprodi” [su Carmilla].

La tesi centrale di questo libro di Robert Kurz di recente traduzione italiana è basata su una interpretazione della modernità come una specie di “Giano bifronte”, a due facce. Giano, infatti, era il dio “degli inizi” (nonché il dio della porta) della religione romana, raffigurato con due volti perché può guardare il passato e il futuro, l’interno e l’esterno. In un saggio uscito qualche anno fa per Mimesis (ma successivo a Il collasso della modernizzazione), Ragione sanguinaria, sempre tradotto dallo stesso Cerea, la razionalità illuministica del capitalismo borghese è interpretata come dispensatrice di irrazionalità e di violenza: «Il Capitalismo sta trionfando fino alla morte, sia sul piano materiale che su quello ideale. Quanto più brutalmente questa forma di riproduzione, trasfigurata a società globale, devasta il mondo, tanto più micidiali sono le ferite che si autoinfligge e tanto più seriamente essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza».

Una interpretazione siffatta della modernità deve naturalmente molto agli studi di Horkheimer e Adorno e alla loro Dialettica dell’Illuminismo. Tuttavia, Kurz si spinge al di là delle teorie dei due filosofi, cercando, con sguardo critico, di ‘scavalcare’ il loro pensiero. In conclusione del volume, Kurz afferma infatti che non si tratta di realizzare una sorta di «uomo nuovo» «come pensavano Horkheimer e i suoi», ma di esercitare «una ragione pratica assolutamente immanente, che dovrà quindi limitarsi al superamento di questa specifica situazione storica, senza più rivendicare la pretesa assolutistica dell’ormai irreale “ragione universale” borghese-illuministica».

Ma procediamo con ordine. Il libro, scritto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta (è uscito in Germania nel 1991), all’indomani del crollo del regime sovietico, vuole essere una lucida e spietata analisi della struttura sociale ed economica di questo regime, il quale altro non è, appunto, se non l’altra faccia dello statalismo occidentale e, successivamente, della società capitalistica. Kurz analizza abilmente il crollo economico del regime per dimostrare come, alla fine, la crisi investa l’intera società capitalistica e come lo stesso capitalismo, ormai, non sia solamente preda di una crisi passeggera, ma sia invece entrato in un processo inesorabile di autodistruzione e autodissolvimento. Lo strale critico dello studioso è dapprima scoccato contro il «lavoro astratto come macchina fine a se stessa». Il lavoro astratto (marxianamente, in contrapposizione al «lavoro concreto», un lavoro umano slegato dagli aspetti qualitativi e dall’utilità, unicamente volto alla realizzazione del valore di scambio), infatti, non fu una prerogativa esclusiva dell’ideologia borghese, ma caratterizzò anche il marxismo del movimento operaio. A questo proposito, Kurz ricorda anche una significativa frase di Thomas Mann il quale, riflettendo nei suoi Diari sulla composizione del suo romanzo La montagna incantata, osserva che «la differenza etica tra il capitalismo e il socialismo è irrilevante, poiché per entrambi il lavoro è il principio supremo, l’assoluto». Non c’è quindi da meravigliarsi «che nel socialismo reale ricompaiano tutte le categorie capitalistiche di base: salario, prezzo e profitto (guadagno aziendale)». Il modello concreto di capitalismo di stato, cui guarda l’Unione Sovietica, è la Germania di Bismarck, dalla quale deriva anche la militarizzazione della società. Contemporaneamente, un altro modello tenuto presente è il giacobinismo della rivoluzione francese, per cui – osserva Kurz – «la violenza eccezionale della modernizzazione borghese sovietica è dovuta al fatto che essa concentrò un’epoca bisecolare in un intervallo di tempo estremamente breve: mercantilismo e rivoluzione francese, processo di industrializzazione ed economia di guerra imperialista, tutto in un colpo solo». E, in questo processo, la Germania orientale fu «più sovietica dei sovietici»: «Nella Repubblica Democratica economia al passo dell’oca e socialismo da caserma diedero vita a un’evoluzione aberrante della modernizzazione capitalistica; in termini biologici, un vero e proprio “incubo darwiniano”».

La vera crisi per il socialismo sovietico (come il movimento operaio marxista, incapace di «percepire con chiarezza» la testa di Giano della modernità) iniziò dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’entrata in crisi del sistema capitalistico fordista e con l’introduzione di sempre nuovi processi di automazione, fino ai più recenti sviluppi della microelettronica e dell’informatica. La profonda irrazionalità del sistema capitalistico è stata profondamente introiettata dal socialismo reale e dalla sua «economia di guerra». Un produttore può produrre indifferentemente torte al cioccolato, ordigni nucleari o scavare buche per poi riempirle: tutto ciò non è importante, ciò che conta è solo l’astratto interesse monetario. Vincitore è perciò chi sperpera forza-lavoro e materiale manifestando la massima indifferenza per i propri prodotti, creando la maggior quantità possibile di valore. Specchio di questo sistema, nell’economia di Stato sovietica, è la costruzione di ‘cattedrali nel deserto’, di edifici grandiosi perfettamente inutili «la cui realizzazione si trascina indefinitamente nel tempo, come per le cattedrali medievali». Ma di questo non dobbiamo stupirci se anche nel sistema capitalistico – si potrebbe aggiungere – questa è la norma. Per ricordare esempi vicini a noi, basti citare la costruzioni di inutili infrastrutture la cui realizzazione si prolunga indefinitamente, come ad esempio la realizzazione della TAV in Val di Susa.

In questo calderone irrazionale, guardare all’Ovest, per il socialismo sovietico, si trattò soltanto di passare dalla padella alla brace: «La crisi dell’Est si mescola in maniera diabolica alla crisi dell’Ovest e in questo dilemma tra Scilla e Cariddi si evidenzia con cupa chiarezza come per il sistema produttore di merce non esista più alcuna via di scampo». Collassato una volta per sempre il vecchio sistema, quello nuovo si dimostra essere ancora più disumano: l’apertura all’esterno di questi mercati vedrà come unica conseguenza la distruzione delle industrie locali e la loro invasione da parte degli imprenditori occidentali. Mentre in Occidente si manifestava per la prima volta il limite di sfruttamento astratto di forza-lavoro e si determinava una crescente disoccupazione di massa, l’Unione Sovietica dovette «trasformare l’intera società in una macchina da lavoro astratto, governata in modo quasi militare, così da imporre la logica del capitale». Gli ex cittadini dell’est, aspirando quindi ad una nuova forma di ‘libertà’ economica e sociale, non possono fare altre che unirsi a quei soggetti del denaro senza denaro che compongono la gran parte della popolazione mondiale, costrette a vivere in un lazzaretto sociale che si sta estendendo su tutto il pianeta.

Il saggio di Kurz, in alcuni momenti, suona anche lucidamente e terribilmente profetico, quando leggiamo, ad esempio, una frase come questa: «Il “mondo unico”, finalmente realizzato e riconosciuto come tale, confinato nella forma feticistica del sistema della merce in dissolvimento sotto i colpi della crisi, getta la maschera, rivelando il volto orribile e terrorizzante di una guerra civile mondiale ai suoi inizi, senza più fronti ben definiti, ma solo esplosioni di violenza cieca ad ogni livello». Ed è doveroso riportare anche quest’altra riflessione, un po’ più lunga:

Ma le istituzioni, i poteri e i rappresentanti (o i portabandiera politici) di questo «mondo unico» non sembrano affatto intenzionati a mettere in discussione l’automatismo del processo del mercato mondiale. Essi invece vogliono imporre la conservazione di queste regole mediante l’ultima ratio della forza militare. Ora però non possono più legittimarsi mediante il vecchio conflitto sistemico con il presunto «impero del male». Devono intervenire, come forza di polizia internazionale, contro le rivolte della fame, le esplosioni di disperazione, le campagne di vendetta e gli attacchi terroristici della schiera dei miliardi di perdenti, ma anche contro tutte quelle forze e quelle figure, tutt’altro che filantropiche che, nella battaglia globale per la spartizione della sempre più esigua massa di valore, perseguendo interessi particolari, si spacceranno per vendicatori degli oppressi.

L’immagine tratteggiata è alla fine quella di una sorta di Impero romano in piena decadenza, con le sue frontiere settentrionali e orientali invase da migrazioni di popoli. All’interno di questo quadro (in cui tra l’altro, osserva Kurz, «il fondamentalismo islamico conquisterà il potere in altri paesi», pronto a devastare con armi anche atomiche le metropoli occidentali), delineato nel 1991 dal lucido studioso tedesco, hanno poco senso, quindi, nel 2018, le politiche xenofobe di un Trump o di un Salvini o dei movimenti e regimi destrorsi e xenofobi forti anche in Europa. Si tratta inequivocabilmente di una condizione reale che non si può modificare, tutto sta a prenderne lucidamente atto. È necessario, inoltre, prendere atto del fatto che i settori vincenti, in Occidente, non fanno altro che scavarsi la fossa da soli anche a causa del potenziale di distruzione ecologica del sistema della merce. La dialettica tra Stato e mercato, fra statalismo sovietico e mercato capitalista – che ha percorso le riflessioni più pungenti di questo saggio – non ha più ragione di essere: entrambi sono inesorabilmente falliti. E l’invito a una lucida presa di coscienza di questo stato di cose ci viene adesso da queste spietate e profetiche pagine di Robert Kurz.

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