noir – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemica strana https://www.carmillaonline.com/2025/02/14/nemica-strana/ Fri, 14 Feb 2025 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86956 di Giorgio Bona

Remo Bassini, Bastardo Posto, pp. 151, € 15,90, Golem, Torino 2025.

Piccola città bastardo posto sono parole di una celebre canzone di Francesco Guccini (dall’album Radici, ottobre 1972, Columbia) con chiaro riferimento a Modena, piccola città di provincia, “nemica strana”, dove ogni aspettativa è vana e la speranza di realizzarle è praticamente nulla.

Nascere in provincia può rappresentare una disgrazia, una maledizione, il portare addosso una mentalità piccolo borghese che lascerà per sempre un segno indelebile, provocando una disaffezione legata all’ambiente chiuso e al suo orizzonte bigotto?

Guccini scoperchia nelle parole di una canzone i turbamenti e gli [...]]]> di Giorgio Bona

Remo Bassini, Bastardo Posto, pp. 151, € 15,90, Golem, Torino 2025.

Piccola città bastardo posto sono parole di una celebre canzone di Francesco Guccini (dall’album Radici, ottobre 1972, Columbia) con chiaro riferimento a Modena, piccola città di provincia, “nemica strana”, dove ogni aspettativa è vana e la speranza di realizzarle è praticamente nulla.

Nascere in provincia può rappresentare una disgrazia, una maledizione, il portare addosso una mentalità piccolo borghese che lascerà per sempre un segno indelebile, provocando una disaffezione legata all’ambiente chiuso e al suo orizzonte bigotto?

Guccini scoperchia nelle parole di una canzone i turbamenti e gli orizzonti evocati dentro un sogno tra la Via Emilia e il West.

Bastardo Posto. Una piccola città di provincia. Un libro di Remo Bassini. Il titolo del romanzo, qui riproposto in versione riveduta e corretta (rispetto alla prima per Perdisa Pop, 2010) ha qualche assonanza con la canzone, una pietra miliare di quei formidabili anni. È la città di provincia un bastardo posto? Rancoroso? Pieno di risentimento?

Certo c’è un oscuro malessere che attraversa il libro, l’oscuro malessere della provincia italiana in eterno ritorno letterario e in fondo così ben raccontata, un bastardo posto urlato a gran voce, perché Remo Bassini scava nel corpo malato di una terra, quel corpo che ogni tanto affiora in superficie come un cadavere spurgante putridume che non vorremmo mai percepire e che facciamo finta di non vedere. Una realtà tenuta sottocoperta, che si ha quasi paura di narrare.

Un dolore nudo e crudo traspare tra le pagine di questo romanzo, senza scuse, appigli, ricerca di giustificazioni, un dolore che si tocca quasi con mano, che diventa un’ossessione, dove il protagonista cerca lo sfinimento per crollare trovandosi in pace.

Pensieri turbolenti, testa in fiamme. Due pacchetti di Muratti consumati giorno e notte. Fantasmi.

Chi è quel personaggio che si trova sotto i portici di una città di provincia, una città né piccola né grande, davanti a una vetrina dove c’è un manichino? Gesti nervosi, tremanti, sguardo fisso, quasi allucinato. È il protagonista, Paolo Limara, che vaga senza meta convivendo con il suo grande dolore: un lutto da portare per la scomparsa della sua Marina, un lutto che non si spegne, un dolore che non vuol tacere.

Paolo Limara davanti a quel manichino è come se fosse dentro uno specchio. Quel manichino è mutilato, solo, fermo dentro un negozio vuoto che nessuno si è sognato di riempire, a dargli un’identità. La sua identità è in quel manichino, sotto quei portici dove trascorre notti insonni mentre le crepe delle vecchie mura lasciano trapelare qualcosa.

Paolo Limara è stato un giornalista con una carriera in ascesa prima di incontrare Marina. Già vicedirettore de “La Civetta” quotidiano fondato nel dopoguerra da un gruppo di borghesi illuminati, alcuni liberali e altri socialisti, vicini al Partito d’Azione, tra cui il padre di Paolo: il nome del giornale era stato scelto in ricordo di una giovane staffetta partigiana, Maria Paola, violentata e poi impiccata dai fascisti a una trave della sala d’aspetto della stazione.

E con Paolo Limara Remo Bassini dà vita ad altri personaggi che completano il mosaico di questa storia: Tuddìa, figura controversa e misteriosa sul quale circolano strane voci, Viola Rodesi, ex proprietaria del negozio di abbigliamento dove si trova il manichino, un ambiguo funzionario ministeriale e ancor più equivoci commissari di polizia legati da un filo del male che alla fine del romanzo verrà rivelato soltanto in parte.

Bastardo posto. Il rancore trattenuto contro la perfidia dei potenti e contro il male oscuro. Le infiltrazioni mafiose,  l’omertà quando si parla di clero e di pedofilia, la stampa che è lacchè del potere, la corruzione imperante, sono senza pudore visibili agli occhi di tutti.

L’impressione è dunque che Remo Bassini dedichi un romanzo di denuncia a tutte quelle persone di un qualunque bastardo posto che, pur non essendo coinvolte nelle sue brutture, ne restano allo stesso tempo consapevoli e indifferenti. Dunque in qualche modo complici, a rendere ognuno di loro un perdente.

Paolo Limara è un uomo in perenne conflitto dopo il lutto che non riesce a metabolizzare, con poco spirito di reazione e privo del coraggio di affrontare la situazione piombatagli addosso, anche se cade e si rialza senza mai affondare. Questa in fondo è la sua salvezza, tale che non fa di lui un eroe.

Ecco, Franco Limara è una persona normale, ben inquadrato nel contesto di questa città di provincia, un Bastardo posto.

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Strappare la gioia al futuro https://www.carmillaonline.com/2025/01/23/strappare-la-gioia-al-futuro/ Thu, 23 Jan 2025 21:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86527 di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti [...]]]> di Francesco Festa

Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini, Salani, Milano 2024, pp. 319, € 16,90

“Come un grimaldello”: ecco cos’è il romanzo. È una leva che solleva la cappa di ingenuità, perbenismo e omertà che copre la coscienza del lettore borghese. Icastica riflessione dello scrittore marsigliese Jean-Claude Izzo. Ancor prima di affascinare e catturare con la sua trama, il romanzo deve lasciar deflagrare parola dopo parola le certezze consolidate in colui che legge, decostruendone gli stereotipi su cui si adagia, sollevando in lui questioni e domande che lo introducono in arcipelaghi ignoti, in situazioni sconosciute o assai spesso in contesti mediati dalla cronaca di qualche telegiornale se non ricostruiti verosimilmente in fiction per il pubblico pagante, ma sempre tenuti a debita distanza dall’esercizio della critica o dalla presa di coscienza. Insomma il romanzo o smuove le acque della cultura borghese oppure è letteratura inoffensiva, innocua, che non lascia il segno.

Quindi, il romanzo noir come un “grimaldello” ma anche come un dispositivo. Con Gilles Deleuze e Félix Guattari che rileggono Franz Kafka, l’opera letteraria apre molteplici accessi che offrono l’ingresso nella Storia dei subalterni, degli indesiderati, dei “dannati della terra”. Per ciò un romanzo noir insegna giocoforza a “odiare ogni letteratura dei padroni” e prova attrazione per gli ultimi, “i servi e gli impiegati” di Kafka, o altrimenti i reietti, gli “anormali” della società secondo Foucault, gli individui da correggere e destinati alla esclusione, all’esilio, al carcere, alle periferie. Che in realtà sono le zone d’ombra del potere e del capitale, come Izzo ha mostrato, ossia i luoghi del “realismo capitalista.”

È nel solco di tale traccia indicata dai grandi romanzieri noir che si muove la seconda opera di Giancarlo Piacci, Nostra signora dei fulmini. Un noir a tratti thriller – ambientato a Napoli, ma con incursioni su Milano – in cui molti sono i rimandi al suo primo romanzo (I santi d’argento, 2022). Un consiglio: i due libri vanno letti insieme. E non se ne può equivocare la corrispondenza, per lo meno grafica, poiché entrambe le copertine sono disegnate da Zerocalcare.

I due libri sono l’affermazione di un talento: un inconfutabile e originale talento. Il cui genere ha un nitore nello stile e nell’espressione che lo rendono inconfondibile. Che in realtà è uno stile che lo colloca a pieno titolo fra gli autori del “noir mediterraneo”, sulla scia di Massimo Carlotto, Andrea Camilleri, Maurizio De Giovanni, il cui ispiratore è certamente Izzo. Sembra azzardata un’associazione così impegnativa, eppure Nostra signora dei fulmini non lascia dubbi sulla stoffa del suo autore.

Il noir di Piacci ricostruisce un insieme di storie ai margini: di proletari metropolitani che ostinatamente provano a curvare un destino che per loro è già stato scritto nella culla. L’incastro narrativo è costituito da rompicapi casistici fra il poliziesco e il criminale, mentre l’infrastruttura che unisce i personaggi è il crogiuolo di sentimenti e di passioni. Nel suo stile narrativo l’ambivalenza dei rapporti sociali si esplicita in una dialettica fra la vita e la morte, ove la differenza è intangibile, e la morte si presenta in tutta la sua crudezza di violenza, ferocia e disumanità.

Il punto d’aggancio è un groviglio di fatti e storie, presenti e passati – sullo sfondo della periferia occidentale di Napoli – che ruotano attorno alla vita di Vincenzo, il quale prova a districarsi fra le sue dipendenze, sostanze e amore, e a respingere un passato che non passa. Alcuni morti ammazzati infatti provano a strappargli il futuro e a trascinarlo nei bassifondi della criminalità con cui credeva di aver chiuso i conti.

Lo sguardo adoperato per narrare le vite di questi proletari senza gloria è tanto realistico quanto intimistico. L’autore ricostruisce il contesto in cui si muovono i personaggi, ma al contempo entra nella soggettività radiografandone i sentimenti: cioè, indaga l’estensione dello spazio del reale e delle storie così come l’intensità delle passioni, delle emozioni di quelle vite che provano a strappare la gioia ai giorni futuri.

Lo spazio che allontana questi ragazzi è meno spesso di quello che possa sembrare. La mia adolescenza è coincisa con il fervore degli anni Ottanta. Ovunque imperversava l’idea della scelta come diritto universale inalienabile. Nella maggior parte dei casi, però, la scelta riguardava solo cosa acquistare, e di conseguenza interessava solo chi avrebbe potuto permetterselo.
Per ragazzi come Salvatore la scelta non esisteva. A lui, come a tanti altri, non era dato nessun orizzonte da percorrere, se non la strada. Mi chiedo se ci fossi nato io senza alternative, quale dei due sarei adesso, quello obbligato a implorare di essere mutilato, oppure il suo torturatore. Uccidere o morire, carnefice o vittima, mutilato o mutilatore, forse la sola scelta che quell’epoca ha consegnato ai ragazzi del mio quartiere è stata questa. (p. 193)

Muoversi nelle zone d’ombra fra proletariato e borghesia, nelle terre di mezzo fra polizia, politica e criminalità, in un gioco di rimandi, osservando l’antropologia urbana, significa anche narrare in altro modo la lotta di classe che innerva la città. Infatti, nel flusso di fatti che sostanziano la lettura senza lasciare respiro, con una prosa penetrante, fra storie personali, dipendenze e ammazzamenti, vi è anche la lotta di una cooperativa di pescatori contro una multinazionale che contende la felicità a quella piccola comunità di lavoratori del porto di Bacoli. E se il romanzo è un’invettiva contro il lato oscuro del nostro vivere, i personaggi di Piacci sono dei falliti, ma non vinti, anzi, perennemente alla ricerca di un’altra occasione, anche se succubi di una realtà che non possono cambiare.

Nostra signora dei fulmini cede a quel senso di “appocundria”, quel sentimento di rassegnazione misto a malinconia, messo in versi da Pino Daniele in Terra mia. Eppure, al contempo, il libro restituisce un senso di ribellione e di rivalsa che risveglia il lettore provando a combatterne l’apatia e a farlo schierare. A dirla tutta è un altro modo di militare, quello di Piacci, ossia trasmettere dubbi, angosce, felicità, piaceri. E’ una maniera di condividere.

Pronuncia queste parole con tono neutro, asettico. Con la certezza di una verità scientifica. Se mio padre fosse qui, illuminato dalla luce fioca del sole di ciò che non è mai avvenuto, direbbe senz’altro che Lo Cascio è la prosecuzione dello Stato con altri mezzi. E in effetti lui si sente lo Stato. Giovanni lo guarda sprezzante: “E ti fa sentire forte tutto questo? A me dei tuoi intrallazzi, della politica, degli appalti, non me ne è mai fottuto niente. Parli come se hai capito tutto del mondo e sai campare solo tu, e invece dovresti ringraziare chi ti è sempre stato amico, non sapendo che in realtà eri un infame. (p. 256)

Nei tempi di quelle vite che ritmano lo stile, nell’alternanza umorale delle parole, Piacci racconta in fin dei conti le contraddizioni di Napoli, ché in realtà sono le contraddizioni delle società capitalistiche. Fra tutte, la turistificazione e la gentrificazione della città, ossia, come mercificare e ridicolizzare le pietre, la lingua se non la cultura, a uso e consumo della distrazione di massa e dell’ignoranza funzionale.

Laddove il desiderio di lottare e la voglia di amare convivono secondo «un detto dei banditi [che] suonava così: cospirare vuol dire respirare insieme» (p. 319), si può resistere, trasformare, migliorare. Anche se in ogni caso si è in trappola. Non si può cambiare niente, fondamentalmente. Ma nello spazio a disposizione si può essere felici costruendo comunità che cospirano.

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Una breve stagione che non finisce https://www.carmillaonline.com/2024/12/30/una-breve-stagione-che-non-finisce/ Sun, 29 Dec 2024 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86122 di Luca Cangianti

Serge Quadruppani, La breve stagione, trad. Maruzza Loria, postfazione di Wu Ming 1, Alegre, 2024, pp. 224, € 16,00 stampa, € 8,99 ebook.

Una rapina finita male «decapita» la gioventù di quattro amici dell’ultragauche francese. È il 1975 e il sottoproletario del gruppo, Simon, finisce in prigione. Gli altri, Bruno, Marie e Michel, dotati di maggior capitale culturale ed economico, lo abbandonano al suo destino. Passano diciassette anni, Simon esce. Quali sono le sue intenzioni nei confronti dei vecchi compagni con i quali sognava di cambiare il mondo?

È questo l’innesco della Breve stagione, un romanzo raggelante e al [...]]]> di Luca Cangianti

Serge Quadruppani, La breve stagione, trad. Maruzza Loria, postfazione di Wu Ming 1, Alegre, 2024, pp. 224, € 16,00 stampa, € 8,99 ebook.

Una rapina finita male «decapita» la gioventù di quattro amici dell’ultragauche francese. È il 1975 e il sottoproletario del gruppo, Simon, finisce in prigione. Gli altri, Bruno, Marie e Michel, dotati di maggior capitale culturale ed economico, lo abbandonano al suo destino. Passano diciassette anni, Simon esce. Quali sono le sue intenzioni nei confronti dei vecchi compagni con i quali sognava di cambiare il mondo?

È questo l’innesco della Breve stagione, un romanzo raggelante e al tempo stesso caldo come solo l’abbraccio della rivoluzione sa essere. Firma quest’opera Serge Quadruppani: celebre autore di noir, traduttore in lingua francese di scrittori italiani (Andrea Camilleri, Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Valerio Evangelisti, Alberto Prunetti, Wu Ming e molti altri), saggista, giornalista, militante degli anni settanta che ancora oggi, con un velo d’ironia, si definisce «un ultragauche anarcho-autonome».

Il libro, pubblicato nel 2000 e tradotto in italiano tre anni dopo, come ricorda Wu Ming 1 nella postfazione, torna in libreria per merito delle Edizioni Alegre. Il tema del tradimento («c’è stata talmente tanta gente che se l’è svignata, tutti denunciavano tutti») e dell’eclissarsi dello slancio rivoluzionario, è affrontato con una strumentazione stilistica estremamente originale. Il punto di vista onnisciente galleggia nell’aria come un drone, s’infila nella testa di tutti i personaggi al tempo stesso, ne rivela le meschinerie e i sentimenti più delicati, si rivolge al lettore, s’intrufola negli interni, striscia meticolosamente tra i mobili, indugia sulle fotografie di una rivolta sbiadita e rimossa. Poi schizza all’esterno tra querce e pini marittimi, e ci sommerge con la ricchezza inesauribile della fauna volatile: allodole, capinere, monachelle, regoli, zigoli, aironi, fenicotteri rosa, cigni reali, gallinelle d’acqua, voltolini eurasiatici e persino piro-piro boscherecci e sgarze ciuffetto. Insomma, Quadruppani è un ribelle anche nei confronti della manualistica narratologica, ma lettori e lettrici gli sono grati perché il risultato è sorprendente: gli occhi non si staccano dalla pagina, la suspense non allenta la morsa sulle viscere e nel frattempo noi siamo lì, sul litorale del sudest francese, cementificato e corroso da racket innominabili, con «i piedi che tastano il suolo di terra battuta» oppure nell’interno di un’auto che «sa di sigaretta e di cane bagnato.» Siamo una diciassettenne, Nausicaa, che si schiude alla vita e un uomo che ha passato quasi vent’anni in galera. I loro dialoghi, nell’apparente immediatezza fatta di desiderio, vendetta, amore e rabbia, scavano a fondo. Sono una resa dei conti, ma anche una breccia sulle possibilità di rivolta che sono sempre presenti per chi abbia cuore e intelligenza sufficienti a farsi sorprendere.

In Une histoire personnelle de l’Ultra-gauche, un’autobiografia che meriterebbe d’essere tradotta in italiano, Quadruppani scrive: «Le vecchie storie hanno una loro importanza, vivono ancora in maniera sotterranea, ricche di potenzialità. Si tratta di qualcosa di difficilmente visibile e ancora non realizzato, ma comunque presente.» In un altro passaggio dello stesso libro aggiunge che, a differenza del lungo ’68 italiano finito nella militarizzazione del conflitto sociale, negli arresti di massa, nelle torture e nella repressione, «il Maggio francese non è stato vinto… c’è stata la ripresa del giugno dello stesso anno e una sensazione, che si ripresenterà spesso negli anni seguenti, che i francesi sono sempre pronti a fare la rivoluzione, almeno fino alle prossime vacanze estive.»
Si tratta di concetti che ricordano la poetica di Valerio Evangelisti e il valore delle passate battaglie perse che alimentano l’immaginario di quelle future. La breve stagione, pur non concedendo nulla al buonismo e all’ottimismo, si iscrive in questo orizzonte. Il Maggio francese sarà stato pure breve, ma non è finito.

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…e allora senti cosa fò https://www.carmillaonline.com/2023/12/08/e-allora-senti-cosa-fo/ Fri, 08 Dec 2023 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80257 di Giorgio Bona

Paolo Restuccia, Il sorriso di chi ha vinto, pp. 260, € 17, Arkadia, Cagliari 2023.

Mi ha accompagnato come la melodia e la profondità delle parole della musica di Stefano Rosso Il sorriso di chi ha vinto, nuovo romanzo di Paolo Restuccia. È un sequel del romanzo precedente, Il colore del tuo sangue (Arkadia, 2022), sempre con il medesimo personaggio, la protagonista Greta Scacchi, filmmaker giovanissima e indipendente non soltanto nel lavoro ma anche nella vita. Il vero interesse di Greta è quello di guardare il mondo attraverso un obiettivo, il singolo fotogramma dell’esistenza reale che immortala nel loro [...]]]> di Giorgio Bona

Paolo Restuccia, Il sorriso di chi ha vinto, pp. 260, € 17, Arkadia, Cagliari 2023.

Mi ha accompagnato come la melodia e la profondità delle parole della musica di Stefano Rosso Il sorriso di chi ha vinto, nuovo romanzo di Paolo Restuccia. È un sequel del romanzo precedente, Il colore del tuo sangue (Arkadia, 2022), sempre con il medesimo personaggio, la protagonista Greta Scacchi, filmmaker giovanissima e indipendente non soltanto nel lavoro ma anche nella vita. Il vero interesse di Greta è quello di guardare il mondo attraverso un obiettivo, il singolo fotogramma dell’esistenza reale che immortala nel loro emergere momenti salienti, vivi. E quel mondo è portato dentro il romanzo da Restuccia, scrittore, autore e regista radiofonico conosciuto per il programma satirico di Rai Radio Due “Il Ruggito del Coniglio”.

Mi piace pensare a questo romanzo come un libro le cui parole non sono tanto racconto ma vita concreta. I personaggi vivono più che raccontarsi e questa componente risuona fortissima al lettore.

Ed è per questo che mi è venuto in mente il cantautore romano nato a Trastevere. Ho avuto l’impressione che Paolo Restuccia ne abbia attraversato la strada, perché come nelle canzoni di Stefano Rosso la parola stessa suggerisce che la vita si vive e non si racconta.

Paolo Restuccia ha scelto come protagonista Greta, che gira con una videocamera portatile e riesce a cogliere dettagli e prospettive che a occhio nudo si perdono con facilità. Una ragazza forse superficiale all’apparenza, ma che maschera bene la sua vera personalità e l’intelligenza profonda.

Accanto a lei ritorna un personaggio del libro precedente, Tommaso Del Re, poliziotto sospeso dal servizio e che in questa storia funge da consulente per un canale televisivo, Crime Net. Torna anche Irene Russo, compagna di Greta con un ruolo di comprimaria. Dando prova di un grande talento affabulatorio Paolo Restuccia offre ai suoi personaggi una dimensione di vivida realtà.

Spesso il noir di casa nostra pone in scena la provincia italiana con tutte le sue contraddizioni. Il sorriso di chi ha vinto, ambientato a Roma, metropoli, capitale, si libera di un certo provincialismo ma insieme presenta alcune borgate come terra di frontiera, puzzle etnico dalle mille anime i cui problemi di identità portano il peso e le ferite della storia. Il sorriso di chi ha vinto evoca questa varia umanità, scandaglia il ventre molle di una Roma protagonista in sordina del narrare, offrendo – per così dire – il sorriso aspro di una città.

Interessante vedere Greta all’opera mentre si fa strada nei quartieri movimentati, tra personaggi equivoci, bar di aspetto discutibile e case popolari. La Roma di queste pagine varca i confini del realismo, perché è protagonista di quanto abbiamo perduto e di quello che si andrà dimenticando. E in questa città indifferente e spersa, rivestita di mistero, si rispecchia l’Italia intera: sullo sfondo un’umanità dolente, come un’immensa scacchiera dove si consumi una partita tesa, sinistra.

Indubbiamente l’attività di regista ha lasciato un’impronta sulla narrazione: Greta muove la storia dietro una videocamera in un modo che offre vigore e incisività alla narrazione, e non abbandona un istante il lettore. Come un abile giocatore che sposti i pezzi in modo mirato, giocando con le azioni dei personaggi per arrivare alla conclusione.

Che fine hanno fatto Daria Gentile e Carla Ferrara, due ragazze giovanissime scomparse senza un motivo plausibile nel centro della Città eterna? Il giovane attore Casemiro è morto per un abuso di droghe oppure è stato ucciso – e cosa fa la tonaca di un prete nel suo appartamento? Si trova coinvolto forse uno dei prelati della Chiesa della Perfezione di tutti i santi? Magari proprio il maestro che dirige una scuola di musica e un coro di giovani? A tale interrogativi cerca di dare una risposta Greta insieme all’amico poliziotto.

Mentre l’indagine procede, un oscuro personaggio sta allestendo una cappella per consumare qualcosa di indicibile e sullo sfondo si staglia con un ruolo di rilievo un’azienda farmaceutica… Molte sono le questioni aperte e, tra suspense e colpi di scena ma anche silenzi e allusioni, l’autore raccoglierà tutti i fili attraverso le indagini condotte da Greta: dove ogni immagine, ogni azione sono immortalate da flash istantanei.

Sono arrivato alla fine del libro e inizio a scriverne. Mi accompagnano le parole di Paolo che hanno lasciato il segno, i dialoghi, negli occhi mi restano le immagini mentre risuonano le parole di Letto 26:

 

Via della Scala stava là

ed io dal letto 26

sognavo la mia libertà

cercando fra i ricordi miei

se adesso vado per il mondo

mi guardi tanto strano tu

ma sono sempre un vagabondo

che ha in tasca cento lire in più.

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Una Comédie humaine in noir https://www.carmillaonline.com/2023/08/30/una-comedie-humaine-in-noir/ Wed, 30 Aug 2023 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78575 di Sandro Moiso

Georges Simenon, Delitto impunito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 184, 18 euro

La Commedia umana è il titolo di uno dei più grandi cicli narrativi della letteratura francese e mondiale, con cui Honoré de Balzac (1799-1850) si proponeva di scrivere più di cento romanzi e storie interconnesse che ritraessero la società francese nel periodo trascorso tra la caduta dell’impero napoleonico e la monarchia di luglio(1815-1830). Tale progetto editoriale era giustificata sia dalla popolarità di Balzac come scrittore seriale che dal suo costante bisogno di quattrini. Il progetto fu interrotto [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, Delitto impunito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 184, 18 euro

La Commedia umana è il titolo di uno dei più grandi cicli narrativi della letteratura francese e mondiale, con cui Honoré de Balzac (1799-1850) si proponeva di scrivere più di cento romanzi e storie interconnesse che ritraessero la società francese nel periodo trascorso tra la caduta dell’impero napoleonico e la monarchia di luglio(1815-1830). Tale progetto editoriale era giustificata sia dalla popolarità di Balzac come scrittore seriale che dal suo costante bisogno di quattrini. Il progetto fu interrotto soltanto dalla morte di Balzac, che fino a quel momento aveva scritto 87 romanzi completi e altri 7 non previsti nel progetto, nell’agosto del 1850.

Émile Zola, tra il 1871 e il 1893, si sarebbe riproposto qualcosa di simile con il ciclo di venti romanzi dei Rougon-Macquart che, come ebbe a definirlo l’autore stesso, avrebbe dovuto costituire «una storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero» (Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire).

In realtà, però, l’autore che più si è avvicinato a rappresentare la grande commedia della società umana in tutte le sue sfaccettature è stato Georges Simenon. Un intento in cui è riuscito senza dichiararlo, e forse anche in maniera non del tutto consapevole, attraverso centinaia di romanzi e novelle, pubblicati spesso per esigenze commerciali sotto vari pseudonimi, soprattutto agli inizi della carriera.

Se è vero, però, che quasi tutti i grandi autori della letteratura mondiale hanno finito col creare, attraverso le loro opere, un unico grande romanzo oppure un unico grande ciclo narrativo, allora nel far ciò il belga Georges Joseph Christian Simenon, nato a Liegi nel 1903 e morto a Losanna nel 1989, uno dei più prolifici scrittori del XX secolo con una tiratura complessiva di diverse centinaia di milioni di copie delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta Paesi, ha ridisegnato la società del ‘900 scavando in profondità nel male di vivere che l’ha caratterizzata, esplorandone ogni anfratto psicologico e comportamentale, a ogni livello di classe, dal più infimo al più elevato.

Cercando, in qualsiasi modo e a differenza di Balzac e Zola, di tracciarne non un percorso di cambiamento e trasformazione ma, piuttosto, di delinearne le componenti immutabili e la fissità dei sempre discutibili valori, delle frustrazioni, delle disillusioni e delle illusioni, che ne hanno costituito e, probabilmente, ancora costituiscono la trama tutt’altro che occulta e soltanto apparentemente nascosta e segreta.

Le edizioni Adelphi, che hanno intrapreso la pubblicazione dell’opera integrale dell’autore, a partire dal 1985, oggi, con la ripubblicazione di un romanzo già apparso in Italia diversi anni fa con il titolo Delitto senza castigo e ora riproposto nella traduzione di Simona Mambrini con un titolo più fedele a quello originale, aggiungono un altro tassello al gigantesco mosaico umano e sociale cui lo scrittore ha dato “vita”.

L’autore, che come si è già detto in una precedente recensione (qui) pur avendo visto la sua opera divisa tra i 75 romanzi e i quasi trenta racconti polizieschi che hanno come protagonista il commissario Maigret e tutti gli altri, spesso sistemati dalla critica sotto l’aggettivo di duri, ha scandagliato ogni aspetto dell’esperienza umana; soprattutto il lato più buio dello scontento e del crimine come espressione casuale dell’insoddisfazione, delle frustrazioni, della coscienza del fallimento individuale e dell’incapacità/impossibilità di esistere senza essere soverchiato da forze altrettanto inconsapevoli seppur tanto più potenti del singolo e meschino individuo lodato da un immaginario borghese tanto fasullo quanto incapace di spiegare la realtà delle cose.

Scritto da Simenon nel 1953, nella tenuta di Shadow Rock Farm, situata in un villaggio del Connecticut, durante l’”esilio americano”1, il romanzo si divide in due piani temporali ben distinti e separati dalla distanza di un quarto di secolo, pur mantenendo inalterati i due personaggi principali, Élie Waskow e Michael o Mikhail Zograffi. Originario della Polonia il primo e della Romania il secondo, entrambi ebrei: povero il primo, ricco il secondo.

La prima parte si ambienta a Liegi, alla metà degli anni Venti, in una modesta pensione, gestita da una vedova di guerra con una figlia probabilmente ammalata di tubercolosi ossea, che ospita studenti poveri provenienti dalla Polonia, dalla Russia e da altri paesi dell’Europa orientale. In cui l’arrivo di Zograffi, ricco e inconsapevolmente felice, porterà lo scompiglio con uno stile di vita e una moralità decisamente diversa. Soprattutto da quella di Élie, autentico fulcro del romanzo.

Bello e affascinante, il ricco Michael sconvolgerà il brutto anche se geniale Waskow, possibile promessa della ricerca universitaria. Lo sconvolgerà prima involontariamente poi in maniera sempre più aperta, fino a spingerlo all’ideazione di un crimine efferato. Anche se il vero motore dell’insoddisfazione, dell’odio e dell’inconsapevole gelosia di Élie, trova dimora nella solitudine che lo accompagna da tutta la vita insieme all’impossibilità di trovare negli altri null’altro che un’ombra di pietà.

In certi momenti, per esempio, aveva l’impressione di sdoppiarsi. Il suo corpo rimaneva rannicchiato sotto le lenzuola, con le coperte tirate su fino al naso, mentre nel testone coronato di capelli rossi si agitavano pensieri tumultuosi. Al tempo stesso vedeva, esaminava quel corpo con una specie di ribrezzo, studiando con distacco quei pensieri che si susseguivano come grani di un rosario. Non era certo più bello da vedere della sua faccia gonfia, con quegli occhi da pesce o da rospo. Forse era proprio perché lo trovava brutto da fuori e da dentro che sua madre non gli aveva voluto bene, che non aveva mai avuto amici, che nessuna donna l’aveva guardato come una donna guarda un uomo.
Di che cosa era geloso? In quella casa era un pensionante come gli altri, anzi nemmeno quello, perché era il più povero e la signora Lange doveva guadagnarci ben poco ad averlo come affittuario. Approfittava del tepore della cucina e della sala da pranzo. Approfittava della presenza di tutti, del suono delle loro voci. Era lui che, deliberatamente, si aggrappava a loro, giacché in fondo, anche se non lo avrebbe mai confessato a nessuno, e men che meno a se stesso, aveva paura della solitudine2.

Al contrario Mikhail ottiene dalla vita tutto ciò che vuole, con estrema facilità, anche il corpo smagrito di Louise, la figlia della signora Lange, che si lascia trascinare dal ricco e affascinante studente rumeno in un vortice erotico di cui Élie sarà il voyeuristico e ossessivo testimone.

La seconda parte si svolge più di venticinque anni dopo, in Arizona, in una città che porta lo stesso nome del proprietario delle locali miniere che rischiano di chiudere. Città in cui Élie svolge la funzione di ragioniere e receptionist nell’unico hotel della città, di proprietà della stessa società mineraria, e dove è arrivato dopo esser fuggito prima da Liegi, poi dall’Europa e aver rinunciato ad ogni sogno di carriera universitaria.

Ha anche accettato di vivere con una donna messicana che non lo ha mai attratto, Carlota, ancora e soltanto per paura della solitudine, nell’intento di sfuggire alla legge, che forse non lo ha mai davvero ricercato, e ai suoi fantasmi. Che, però, lo raggiungono ancora una volta sotto le sembianze di un Michael, invecchiato e deturpato nel volto e menomato nell’uso della parola, sotto le sembianze del nuovo proprietario delle miniere e di tutte le attività ad esse collegate. Compreso l’hotel di cui è dipendente Élie .

Questa volta però lo scontro non può più essere tra “povero” e “ricco”, ma tra individuo declassato e capitale finanziario; tanto impotente e privo di coscienza di classe il primo quanto determinato, spietato e apparentemente indifferente il secondo. Per tale motivo il finale non potrà essere altro che quello che Élie pensa fino all’ultimo di poter evitare. Una tragedia prodotta da un immaginario populista, paranoico e miserabile; una tragedia dei nostri giorni.


  1. La fine della guerra aveva coinciso in Francia con la caccia ai collaborazionisti, in cui furono coinvolti anche scrittori come Jean Giono e Louis-Ferdinand Céline. Accuse che sfiorarono Simenon, per poi rivelarsi infondate, ma che a quel punto lo spinsero a trasferirsi negli Stati Uniti, prima in Texas poi nel Connecticut, per qualche anno, prima di tornare, una volta calmatesi le acque, in Europa negli anni cinquanta, in Costa Azzurra e successivamente in Svizzera  

  2. G. Simenon, Delitto impunito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 82-83  

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Un mondo ridotto all’osso https://www.carmillaonline.com/2023/08/03/un-mondo-ridotto-allosso/ Thu, 03 Aug 2023 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78235 di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a tratti impenetrabile, una miseria diffusa che contrasta con il potere e la ricchezza di chi sta in cima alla catena alimentare sociale, un capitalismo finanziario che, negli ultimi decenni, ha trovato nell’affare delle droghe un valido strumento per contenere e rinviare gli effetti di ciò che l’analisi economica marxiana individua come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e si avrà, a grandi linee, la dimensione narrativa dell’ultimo romanzo di un autore che, nato nel 1979, è già stato acclamato come nuovo talento del genere noir sia in patria che all’estero. Con il romanzo presentato in Italia e pubblicato in Francia nel 2022, infatti, ha vinto il Prix 813 ed è stato finalista al Grand Prix de Litérature Policière e la Prix SNCF du Polar. Oltre a questi riconoscimenti “The Devil Himself” (titolo originale) è stato proclamato miglior romanzo straniero al Beaune International Film festival.

Anche se, talvolta, tali premi e riconoscimenti sono “spinti” dai giochi e accordi tra case editrici, c’è da dire che l’opera “al nero” di Farris non delude mai in alcun momento le aspettative del lettore, trasmettendogli l’immagine di una città del Sud di cui “Sua Eccellenza il Sindaco” sa che:

era un luogo spezzato, e i guadagni illeciti non finivano mai. Il deficit di bilancio era enorme, il sistema fognario sull’orlo del collasso. La disoccupazione era alle stelle, la rete dei trasporti in rovina, la criminalità in aumento e la contea in guerra. In più c’erano gli attriti tra l’amministrazione statale quella della città, un miliardo e più di dollari di mancati finanziamenti per i fondi pensionistici. Accuse di concussione, per cui il suo capo dell’ufficio approvvigionamento aveva appena patteggiato. La polizia locale aveva sparato ad una donna di novant’anni durante un blitz antidroga nella casa sbagliata. Perfino il tempo faceva schifo.
Ma il suo compito era trasformare il caos in speranza. Mettere una faccia contenta su quella che sapeva essere l’insidioso inizio di un collasso totale.
Sirene. Fumo. Fame. Spari. Il mondo ridotto all’osso1.

Come sempre accade, però, in questi casi il lettore si rende rapidamente conto che tale condizione raffigura non soltanto l’immaginaria contea di Trickum in Georgia ma, come quella altrettanto immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner ambientò la maggior parte dei suoi romanzi e racconti, un po’ tutta quell’America povera, bianca, corrotta fino in fondo all’anima nella quale è difficile salvarsi. Se non attraverso autentici bagni di sangue e in cui, alla fine, nessuno è veramente buono, a meno che non si accontenti di recitare soltanto la parte della vittima sacrificale.

La citazione biblica serve a giustificare la vendetta o la semplice furia; la legge copre il marciume e se ne fa complice; i contadini sono orgogliosi delle loro misere proprietà e di un lavoro che richiede investimenti maggiori dei rendimenti che se ne potranno trarre ma, allo stesso tempo, non vedono l’ora di liberarsene per un po’ di quattrini, mentre il progresso si rivela non essere altro che la marcia verso la catastrofe sociale, economica e morale.

Oltre all’ombra di un Faulkner in chiave minore, aleggiano sulle vicende narrate anche quelle del cinema di Clint Eastwood e Don Siegel, della scrittura di Daniel Woodrell e Cormac Mc Carthy e dell’etica di John Dutton, il protagonista della serie televisiva Yellowstone, interpretato da Kevin Costner: Se volete il progresso non votate per me (Stagione 4). Tutte rappresentate e riassunte nella figura di Leonard Moye, il vecchio, spietato e solitario “diavolo” che, solo, può contrapporsi al Male, al Vizio e all’Ingiustizia. Dopo aver sfatto la propria vita e quelle di coloro che gli stavano più vicini.

Ma, come sottolinea la traduttrice del romanzo, nel noir di Peter Farris sono il paesaggio e/o la natura a costituire «la figura più dettagliata, quella dalla personalità più forte e invadente. Nulla, in questo romanzo è determinante quanto la terra, che non solo è oggetto delle mire criminali dei villain ma è complice dei protagonisti in molti modi: nasconde, inghiotte, divora, magari sotto forma di un alligatore che arriva a far giustizia»2.

Un paesaggio crudele e assurdo in cui anche la tecnologia sembra avere poca cittadinanza poiché, come afferma ancora Valentina Daniele, «la modernità non svolge alcun ruolo in questa storia». Se non forse, e indirettamente, mettendo a confronto il vecchio modo di produzione artigianale e illegale di alcolici e whiskey delle distillerie clandestine nelle grotte naturali della regione del Piedmont con quello più moderno, ma comunque altrettanto sotterraneo e illegale, delle raffinerie di cocaina messe in piedi dall’industria delle droghe.


  1. P. Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 52-53  

  2. V. Daniele, Nota della traduttrice in P. Farris, op.cit., p. 261  

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Simenon: la maschera e il vuoto https://www.carmillaonline.com/2023/03/08/la-maschera-del-vuoto/ Wed, 08 Mar 2023 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76239 di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare [...]]]> di Sandro Moiso

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 147, € 18,00

“Sarebbe stato un errore, però, sostenere che la sua segretaria avesse preso il posto di sua moglie. Non aveva preso il posto di nessuno. Aveva riempito un vuoto. Quanto alla causa di quel vuoto…” (L’orsachiotto, G. Simenon)

Prosegue, con l’uscita di questo romanzo, la pubblicazione da parte delle edizioni Adelphi dell’opera integrale di Georges Simenon (1903-1989). Autore sicuramente tra i più importanti del ‘900 di lingua francese che troppo spesso, grazie ad una critica abituata a ragionare per generi e sottogeneri, è stato ricordato e/o celebrato soltanto per i 75 romanzi e i 28 racconti (scritti e pubblicati tra il 1931 e il 1972) che vedono come protagonista il celebre commissario Jules Maigret.

In realtà Simenon, autore tra i più prolifici, ha scritto, spesso utilizzando numerosi e svariati pseudonimi per poter pubblicare in contemporanea presso differenti editori, centinaia di romanzi e racconti che fuoriescono dal ciclo del commissario francese. Romanzi che spaziano tra storie d’ambiente piccolo borghese, se non proletario, e altre ambientate tra la ricca borghesia, sia della ville lumière che della provincia profonda della Francia del XX secolo. Con qualche deviazione spaziale verso il Belgio, in cui Simenon era nato, e altre parti del mondo.

Storie che, come vedremo anche a proposito del romanzo qui recensito, sono ascrivibili nella maggioranza dei casi al noir più classico, senza per forza con ciò voler definire un genere specifico di appartenenza. Piuttosto l’uso del termine serve, in questo caso, a delineare un ambiente psicologico e morale, prima ancora che sociale.

Tanto si è dibattuto nel corso degli ultimi decenni sulla sostituzione del romanzo realistico e sociale avvenuta per mezzo dei romanzi noir, ma anche se ciò è sicuramente vero, è vero altrettanto che non per questo i romanzi dall’anima nera debbano per forza descrivere ambienti sociali degradati economicamente (le periferie delle metropoli o la Marsiglia di Jean-Claude Izzo ad esempio) o le perverse trame del potere politico ed economico (come avviene nei romanzi di Dominique Manotti o Massimo Carlotto) oppure, ancora, gli ambienti e gli affari della “mala” (descritti puntualmente da André Héléna, Léo Malet o Auguste Le Breton).

Simenon ci guida a comprendere che il male del noir pur essendo, come del resto tutto, un prodotto sociale, può annidarsi ovunque. Come capita in questo romanzo, pubblicato originariamente nel 1960, che narra le vicende e l’inverno dello scontento di Jean Chabot: ginecologo di fama, comproprietario di una clinica per puerpere benestanti e responsabile della Maternità di Port-Royal, un appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne, una moglie, tre figli e una segretaria-amante, Viviane, che si è assunta il compito di «evitargli ogni minima seccatura».

Eppure, eppure…
Lo scontento e l’amarezza sono filtrati nella sua vita. Un goccio alla volta oppure per vaste crepe che sono andate aprendosi sempre più nel suo animo, soprattutto dopo l’aver appreso della morte per suicidio di una giovanissima inserviente della clinica, “l’orsacchiotto” del titolo, di cui lui aveva approfittato sessualmente diverse volte durante i lunghi turni di notte nella stessa, tra l’urgenza di un parto e quello successivo.

Ma non è un rimestamento morale legato al senso di colpa quello che accompagnerà il protagonista fino alle ultime, drammatiche pagine delle vicende narrate. No, sarebbe troppo semplice, soprattutto per un autore come Simenon, attento osservatore dei vizi privati e pubblici, altrui e propri.
Al massimo la scomparsa della giovane affogatasi nella Senna, dopo aver saputo di essere incinta e dopo esser stata cacciata dalla stessa clinica rimanendo senza lavoro, può costituire per Chabot una lieve riverniciatura di moralità e un blando senso di colpa destinati a mascherare il ben più profondo malessere che si annida nell’animo di un uomo che pur si è autenticamente fatto da sé.

E non costituisce un vero problema nemmeno l’enigmatica figura di un giovane, probabilmente coetaneo, fratello o amante, della giovane suicida, che perseguita il professore lasciando sul parabrezza della sua automobile dei biglietti sgrammaticati su cui sono scritte, solo e sempre, tre parole: «Io ti uciderò».
No, la vendetta dal basso non può preoccupare e non può spaventare un uomo che si sente morto da tempo. In cui anche i rapporti sessuali sono vissuti come compulsivi, destinati soltanto a riempire un vuoto esistenziale incolmabile.

Aveva preso dei farmaci. Li aveva provati tutti. Aveva persino cercato di distrarsi facendo sesso in modo compulsivo, e per un certo periodo non aveva fatto che andare a donne, approfittando di infermiere compiacenti, e due o tre volte di pazienti che si offrivano, il che gli aveva complicato l’esistenza. Questo era durato fino a Viviane e ogni tanto, se andava in crisi, ci ricascava1.

Vi è indubbiamente molto dell’autore, come per ogni scrittore che meriti davvero questo appellativo, nella figura di Chabot e, forse, proprio per questo Simenon riesce a portarci al cuore di ogni scontento, di ogni male, alla causa ultima di ogni azione registrata in un noir. Il vuoto dell’alienazione che scorre sul fondo della psiche, in maniera conscia o non conscia non importa ai fini dell’analisi ultima, di ogni individuo, maschio o femmina che sia. Insomma, parafrasando insieme Hannah Arendt e Raoul Vaneigem, “la quotidianità e la banalità del male”.

Alienazione che è sicuramente sociale e che è più profonda di qualsiasi semplice causa economica o politica. Nelle pagine dell’autore belga, così come in tutto questo romanzo, la separazione dell’individuo da se stesso e dalla sua vita, o da quella che egli riterrebbe dover esser tale, è totale.
Ed è totale proprio perché il protagonista, ma insieme a lui qualsiasi altro membro, grande o piccolo, del milieu cui appartiene, tutto sommato non sa con sicurezza cosa sia la sua “vera” vita e, soprattutto, cosa davvero vorrebbe al posto di ciò che già ha, o non ha.

Chabot stava dunque fingendo? Il proprio viso lo affascinava. Continuando a guardarsi, levò il bicchiere e lo vuotò d’un fiato, con una smorfia sulle labbra.
Poi, tanto per vedere, per rendersi conto, lentamente tirò fuori di tasca la pistola, più lentamente ancora ne portò la canna alla tempia, l’appoggiò come si appoggia la lingua su un dente che duole.
Evitò di toccare il grilletto. Non aveva intenzione di sparare. Voleva solo fare una prova e, adesso che aveva fatto il gesto, credeva di sapere. Meglio non continuare, non indugiare lì nello studio; l’immagine successiva era il «dopo», con il suo corpo sul pavimento.
Rimise l’arma in tasca, la bottiglia nell’armadio e andò a prendere cappello e cappotto nel guardaroba. In boulevard de Courcelles non si cenava prima delle nove. Per il caffè, non occorreva arrivare prima delle dieci2.

Come teorizzava Anton Čechov a proposito del teatro, se un’arma compare nel corso delle vicende prima o poi sparerà e starà soltanto al lettore scoprire dove, quando e contro chi o cosa.
E’ «l’uomo nudo» quello di cui ci parla Simenon nei suoi romanzi. Nudo davanti a se stesso, prima di tutto, poiché, pirandellianamente, tutto sommato la società gli fornisce un’abbondanza di maschere dietro cui nascondere l’alienazione che lo pervade completamente.

Funziona la scrittura di Simenon, sia sul piano narrativo, secca e spogliata di qualsiasi banalità o parola non necessaria, ma soprattutto come “guida” al noir, di cui rivela implacabilmente come il male, che può nascondersi in ognuno e in ogni vicenda umana, non ha bisogno di complicate trame e complotti per esplodere e manifestarsi. E neppure ha bisogno di esser compreso attraverso descrizioni minuziose di ambienti degradati che finiscono col giustificarne le azioni e le esplosioni.

No, per Simenon basta la vita di ogni giorno.
E questa è la sua lezione più importante, dai romanzi di Maigret a tutti gli altri.
Compreso, naturalmente, quest’ultimo.


  1. G. Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi Edizioni, Milano 2023, p. 83  

  2. G. Simenon, op. cit., p. 85  

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Il resto è mancia https://www.carmillaonline.com/2021/07/05/il-resto-e-mancia/ Mon, 05 Jul 2021 21:55:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66989 di Nico Maccentelli

Michelangelo Ingrassia, Il resto è mancia, pp  172, ed. Pendragon, 2020  € 15,00

Bologna in noir, se ne è parlato tanto con i personaggi e le storie di Loriano Machiavelli, in parte Carlo Lucarelli, che però è da Mordano, più Romagna che altro. Ma devo dire che il noir più appassionante è quello dove i commissari, gli ispettori, i vari tutori dell’ordine e depositari dell’anticrimine, tutti nipoti dell’Ingravallo gaddiano o colleghi del sornione Montalbano, se ne stanno allegramente fuori dalla storia.

Un romanzo “come mala comanda”, quindi [...]]]> di Nico Maccentelli

Michelangelo Ingrassia, Il resto è mancia, pp  172, ed. Pendragon, 2020  € 15,00

Bologna in noir, se ne è parlato tanto con i personaggi e le storie di Loriano Machiavelli, in parte Carlo Lucarelli, che però è da Mordano, più Romagna che altro. Ma devo dire che il noir più appassionante è quello dove i commissari, gli ispettori, i vari tutori dell’ordine e depositari dell’anticrimine, tutti nipoti dell’Ingravallo gaddiano o colleghi del sornione Montalbano, se ne stanno allegramente fuori dalla storia.

Un romanzo “come mala comanda”, quindi non certo un poliziesco: questa è l’opera di Michelangelo Ingrassia Il resto è mancia. Un romanzo da leggere tutto d’un fiato che sicuramente chi non ha il mito del distintivo può apprezzare e di molto.

Largo ai delinquo dunque, quelli veri, quelli che con la loro morale “quasi niente sbagliata” come cantava Faber, riempono le pagine di gialli che si tingono di un nero e di un rosso sangue giustizialisti. Come gli anarchici. Ed è qui che introduco un romanzo noir ben riuscito, all’ombra di una turrita fatta di quartieri popolari, soggetti boderline, permanenze in carcere, esecuzioni meditate per vendetta, quella giungla del non detto ma rispettato da tutti, dei codici d’onore sotto traccia, ma di quella criminalità che non ama la mafia. I delinquo cani sciolti del colpo in banca, della fuga banditesca.
Lo spaccato bolognese, una Bolognina Chinatown, i bar un po’ malfamati ma con paste trabordanti di crema (forse una citazione della Luisona di Benni?), e periferie con un serial killer mammone in azione, la mala pugliese e la mafia cinese ti fanno saltare da un capitolo all’altro in un plot che porta avanti storie in parallelo.

Di polizia neanche l’odore: resta sullo sfondo, a brancolare nel buio, evocata solo dai titoli di giornale. E non ne si sente la mancanza.
Il gruppo anti-eroico di Alex e Uccio, due amici conosciutisi nel caracere minorile, fa tutto: risolve situazioni, commina punizioni proporzionate alla gravità del reato sulle persone, rende migliore un mondo selvaggio senza mene giustizialiste, ma solo seguendo il saggio codice della malavita.

Siamo lontani anche dal Malaussene di Daniel Pennac, che tutto sommato descrive nella sua Belleville una banlieu mitigata da buoni sentimenti conciliatori. Qui non si concilia nulla e tutto è guerra tra soggetti e per bande. Anche tra i protagonisti stessi e antagonisti di loro stessi, c’è conflitto, sentimenti contrastanti, emozioni spesso incontrollate. E si va dal progetto ragionato dei due amici alla furia di Mara, la loro complice boliviana che non risparmia nessuno. E infatti se vogliamo vedere una morale di vita e un codice di comportamento nel romanzo, Il resto è mancia, che dà il titolo all’opera, è proprio il lato oscuto dell’agire, il lasciarsi prendere dall’odio e dai sentimenti della vendetta, l’impulsività, la perdita della dimensione dell’atto praticato.

Il resto è mancia ti porta nel lato selvaggio dei territori degradati, ma comunque lo fa con quella vis poetica mai da facile redenzione, che solo i cantori dei “quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi”, come i Faber e i Jean Genet, sanno esprimere.

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Solo danni colletarali https://www.carmillaonline.com/2020/06/28/solo-danni-colletarali-di-pier-bruno-cosso/ Sat, 27 Jun 2020 22:10:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60588 di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare [...]]]> di Anna Fresu

Pier Bruno Cosso*, Solo danni collaterali, Marlin Editore, Cava de’ Tirreni, 2020, pp. 204, € 11,92.

Immagina che qualcuno mangi un pipistrello, o che una farfalla batta le ali in qualche parte del mondo; o un lutto improvviso, una disgrazia…

O, magari, che un plotone di carabinieri irrompa all’alba di un sabato qualunque nella tua casa. Immagina che quel sabato volevi andare a mangiare al mare, in un ristorante ad Alghero, con la tua famiglia, sul SUV che hai appena comprato.

Immagina di crederti felice, di fare il lavoro che hai sempre voluto, di avere una moglie che ami e che ti ama, una figlia adolescente che cresce bene, di ricevere stima per quel che sei e per quel che fai, di possedere una bella casa, di aver raggiunto un benessere che sai meritato. Immagina di avere una vita.

Immagina di essere il dottor Enrico Campanedda, di Sassari.

È la sua vita ad essere sconvolta quel sabato mattina da un’irruzione dei carabinieri con un’accusa assurda.

È Enrico Campanedda la voce narrante del romanzo Solo danni collaterali, di Pier Bruno Cosso, recentemente pubblicato da Marlin editore. È lui che ci tira dentro la sua storia facendocene condividere l’angoscia, la frustrazione, il senso di impotenza di fronte a un’accusa da cui sembra impossibile difendersi, al punto di chiedersi dove ha sbagliato, se è davvero colpevole, e di che cosa. Tante domande alle quali è difficile trovare una risposta.

È lui, siamo noi, che crolliamo, che entriamo in depressione, che guardiamo sfumare tutte le nostre certezze, che ci troviamo da un giorno all’altro senza lavoro, che dobbiamo rinunciare alla nostra sicurezza economica, che rischiamo -forse- di perdere gli affetti, di dubitare di tutti, di lasciarci andare.

La colpa è delle ali della farfalla o forse, sì, la colpa è dell’Autore. Che con capitoli serrati, una scrittura pulita e affilata come lama di coltello, con un ritmo che toglie il respiro… ci chiama in causa, accusati/accusatori, a volte troppo sicuri, dimentichi di essere fragili, sospesi sulla corda sottile dell’esistenza, incapaci di dare ascolto alle nostre inquietudini. E quel che resta dietro sono solo “danni collaterali”. O vite spezzate.

E allora tocca farsi coraggio, ritrovare fiducia, iniziare a lottare. Forse andrà bene, forse no. Sarà tutto come prima? O potrebbe essere meglio? Dipenderà da quanto avremo imparato.

Il romanzo si ispira a una storia vera, quella di un medico – come il protagonista del libro – che ha vissuto gli stessi eventi traumatici, in un luogo imprecisato della Sardegna. I personaggi, le vicende narrate, le ambientazioni sono però frutto della fantasia dell’autore che ci tiene a precisare:

“In ‘Solo danni collaterali’ tutto quello che sembra assurdo, che ti pare impossibile, è vero! L’intreccio con amori, passioni e tradimenti, invece è più attinente al mondo della fantasia. Anche per proteggere la vera identità del protagonista reale che ne ha passate abbastanza…” (intervista rilasciata a Massimiliano Perlato, per “Tottus In Pari”.

C’è uno sguardo rivolto anche alle vicende giudiziarie di cui fu vittima Enzo Tortora. Come nella realtà, anche nel libro si parla di un giudice che monta un caso clamoroso per far carriera, con la complicità di altre figure che perseguono i loro interessi personali. Il romanzo non vuole essere un atto d’accusa contro la magistratura, bensì una riflessione sul ruolo che ambizione e invidia possono giocare nella vita di un cittadino comune.

 

*Pier Bruno Cosso è nato nel 1956 a Sassari, dove vive tuttora e che è la sola città in cui vorrebbe vivere. Ha pubblicato i romanzi Il giorno della tartaruga (2013) e Dannato Cuore (2015), entrambi Parallelo45; la raccolta di racconti Fotogrammi slegati (2018), Il Seme Bianco (Gruppo Elliot–Castelvecchi). Solo danni collaterali (Marlin Editore 2020) è il suo ultimo romanzo.

 

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Il Mostro di Modena https://www.carmillaonline.com/2020/03/05/il-mostro-di-modena/ Thu, 05 Mar 2020 22:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58307 di Giovanni Iozzoli

Giovanni Iozzoli, Il Mostro di Modena. Otto femminicidi ancora irrisolti, Edizioni Artestampa, Modena, 2020, pp. 208, € 18,00.

[È uscito in libreria Il mostro di Modena, sesto romanzo di Giovanni Iozzoli. Si tratta di una trasposizione narrativa delle drammatiche vicende che insanguinarono Modena tra il 1985 e il 1995: otto femminicidi, presumibilmente riconducibili allo stesso ambiente criminale se non, addirittura, alla medesima mano omicida. Il Mostro di Modena è un romanzo con un suo sviluppo narrativo che prescinde dalla cronaca pur essendo stato scritto ricorrendo alla consulenza preziosa di Pierluigi Salinaro, vecchio responsabile delle pagine di “nera” della [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Giovanni Iozzoli, Il Mostro di Modena. Otto femminicidi ancora irrisolti, Edizioni Artestampa, Modena, 2020, pp. 208, € 18,00.

[È uscito in libreria Il mostro di Modena, sesto romanzo di Giovanni Iozzoli. Si tratta di una trasposizione narrativa delle drammatiche vicende che insanguinarono Modena tra il 1985 e il 1995: otto femminicidi, presumibilmente riconducibili allo stesso ambiente criminale se non, addirittura, alla medesima mano omicida. Il Mostro di Modena è un romanzo con un suo sviluppo narrativo che prescinde dalla cronaca pur essendo stato scritto ricorrendo alla consulenza preziosa di Pierluigi Salinaro, vecchio responsabile delle pagine di “nera” della “Gazzetta di Modena” e primo a ipotizzare, quasi in solitudine, la verità che tutti, anche gli inquirenti, per alcuni anni provarono a esorcizzare: tra i viali notturni della “piccola città”, per un decennio, si aggirò un killer seriale freddo e spietato. Una verità scomoda, che costrinse la città a guardarsi dentro, a interrogarsi sulle sue zone d’ombra, le sue disperazioni silenziose. Il Mostro colpiva solo giovani donne del circuito eroina-prostituzione: il risvolto notturno di una città troppo impegnata a decantare le sue eccellenze diurne, i suoi successi civici, i suoi fatturati. Fu infatti la marginalità sociale delle vittime, a giustificare per anni il carattere raffazzonato e inconcludente delle indagini.
Un invito a non ignorare le ordinarie “mostruosità” che anche oggi la provincia padana riesce a celare tra le sue pieghe perbeniste. Di seguito si propone un breve estratto del capitolo “Il mostro nella testa” – G.I.]

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Non aveva mai smesso di pensare a Lui. Per trent’anni. Non era riuscito a lasciarselo dietro, chiuso nei cassetti della sua scrivania in redazione, quando era andato in pensione. Non era riuscito, Salinaro, a sommergere il killer nel mucchio dei ricordi di tutta la cronaca nera che aveva infestato la provincia e la sua carriera. Certo, i promemoria, negli anni, non erano mancati: qualche trasmissione televisiva lo aveva convocato, qualche commemorazione giornalistica lo aveva citato, qualche collega giovane continuava ad interpellarlo come illustre esperto del caso; ma non si trattava solo di quello – esercizi di memoria o lezioni di mestiere. Il Mostro stava dentro la sua testa, dentro la sua storia, dentro il suo presente. E il motivo principale di questa persistenza, è che il killer non era mai stato scoperto. Non era mai passato dalle pagine della cronaca nera a quelle della giudiziaria. Nessuno aveva mai visto i suoi polsi ammanettati, nessuno aveva mai visto la sua faccia sgomenta al momento dell’arresto, nessuno l’aveva mai interrogato. Questo lo rendeva raro, interessante, come certi esemplari animali di cui si favoleggia ma che nessun etologo è mai riuscito a catturare. Un killer seriale che ammazza con regolarità per un quarto di secolo senza lasciare tracce apprezzabili dietro di sé. E poi sceglie di inabissarsi, consapevolmente, dimostrando un potente autocontrollo: non era un disperato che cercava di essere scoperto, come molti colleghi assassini; questo era un uomo che voleva preservare se stesso, la sua libertà, la sua identità sociale. Non era un reietto, un uomo dei margini, che vedrebbe la galera come una specie di fine della sofferenza. Questo era uno che aveva sfidato la società e la morale, ma con freddezza, per vincere la sfida, senza altri doppi fini che la affermazione di sé, il trionfo solitario della sua volontà.
– Ma chi era, anzi chi è, stó canchero di assassino? Ed è ancora in giro? È vivo? È anziano? Si è pentito? Può essere che un giorno racconterà la verità: a tutti, alla città, alla legge, a se stesso?
Anche Salinaro, professionista predigitale, aveva un suo archivio cartaceo dove andava ogni tanto a razzolare. Faldoni, fogli, appunti. Quasi tutti dedicati al mostro. Li sfogliava raramente, soprattutto quando aveva bisogno di riconnettersi lucidamente a quelle storie.
– Ma se lo conoscessi? Potrebbe essere benissimo. Conosco mezza Modena – conoscevo galeotti, prostitute e marchesi; niente di più normale che abbia anche stretto la mano, di questo signore. Non impossibile che anche oggi io stia continuando a stringerla, quella mano. Potrebbe essere chiunque, dai sessanta in su. Potrebbe essere un poveraccio o un professionista altolocato, un muratore in pensione o un avvocato di grido.
Non riusciva a contemplare l’idea che fosse morto, gli sembrava banale come epilogo.
– Morto di che? Di vecchiaia? Di malattia? Un suicidio anonimo, magari dopo molti anni, per tacitare una coscienza lacerata?
No. Decisamente questo mostro modenese non era il tipo da rimorsi o ripensamenti. E in qualche modo sentiva anche che Lui era ancora in circolazione, mescolato all’esercito della brava gente, perfettamente mimetizzato, difeso dal tempo che affievolisce i ricordi e stinge il desiderio di giustizia negli uomini.
Negli anni in cui Salinaro – più o meno dopo terzo omicidio – aveva battuto con forza la pista del killer seriale, qualche segreta inquietudine aveva cominciato invaderlo. Forse l’assassino non aveva piacere che si montasse un battage giornalistico intorno alle sue gesta; forse non voleva che le indagini si orientassero in un senso ben preciso; forse questo Salinaro poteva risultare indigesto, al mostro della via Emilia. Era il caso di preoccuparsi? Era il momento di pensare anche alla sua famiglia, solitamente trascurata eppure così preziosa? Se il mostro avesse deciso di vendicarsi dell’acume e della caparbietà di Salinaro? Se avesse provato a infilarsi Lui nella vita dell’indagatore?
Pensieri segreti, paure, sensazioni – e quello strano invisibile filo che Salinaro sentiva essere, all’altro capo, connesso con il killer.
Fortunatamente l’assassino non lo cercò mai, non gli lanciò segnali o minacce. Non era il tipo.
– Non bisognerebbe mai mollare le indagini. Con tutta la tecnologia di oggi si potrebbe fare molto. Ma ci vorrebbe la volontà: investire tempo, risorse, metterci la faccia. Qualcuno in Procura ha voglia di farlo sul serio? Non credo. Il tempo non sarebbe un problema. Ci sono stati dei casi che hanno richiesto anche trent’anni, per essere sbrogliati. Allora la gran parte delle indagini fu fatta a cazzo di cane. E chissà quanti reperti sono stati smarriti. O occultati.

Stava passeggiando da solo, lungo uno dei corridoi luminosi del Grandemilia, Salinaro, gettando occhiate distratte a questa o quella vetrina.
Non ricordava quasi più cosa fosse venuto a comprare, quei posti lo avevano sempre disorientato e irritato. La gente imbambolata o nevrotica, le luci esagerate, gli echi striduli di pianti di bambini, risate di ragazzini, recriminazioni di vecchi che questionano con i dipendenti. Tutto come un eco attutita, ovattata, fuori sincrono, rispetto ai suoi sensi.
In questi periodi di ricordi arrembanti, non faceva altro che sovrapporre il presente alle memorie passate, come tutti gli anziani nelle loro giornate di malinconia.
– Qua era tutta campagna. E non era neanche zona di prostituzione. Forse qualcuna di quelle povere ragazze fu portata proprio qui, in mezzo ai rovi, agli sterpi, ai casolari abbandonati che si affacciavano sulla via Emilia. Forse qualcuna di loro è stata ammazzata qua, dove siamo adesso, per essere trasportata poi nei luoghi prescelti per il ritrovamento.
Lo sfavillio della plastica, le alte volte del centro commerciale, non potevano fargli dimenticare che sotto i suoi piedi, più giù, sotto le grandi mattonelle lisce, oltre i locali caldaie e i depositi interni, ancora più sotto, c’era la terra nera, fredda, dura, sporca. Sotto le bugie del presente c’è un fondo ignoto, oscuro, arcaico. E ci camminiamo sopra.
– Perché quella messa in scena delle siringhe? Non era un depistaggio, sarebbe stato troppo banale, troppo facilmente smascherabile. Era un segnale, un codice, un simbolo? Quel pazzo voleva ripulire Modena dalle sue tossiche, dalla droga, dalla sporcizia, dal degrado? Era un killer moralista, un epuratore, uno che voleva tornare ai bei tempi andati, quando questo era un paesone senza droghe e senza forestieri? Ce n’erano di tipi così, in giro per Modena. Odiavano i meridionali, che erano parassiti e portavano la delinquenza. Odiavano i giovani, che erano ribelli e pronti al buco. Le puttane non le odiavano – perché quei tizi lì sono i clienti più assidui; ma quell’attività andava regolata e nascosta, non esibita sulla pubblica piazza. Quando a Modena cominciano a girare davvero dei soldi – meccanica, tessile, ceramiche, alimentari –, quando Modena comincia a diventare una città moderna, parecchia gente subisce questa cosa come uno stupro. Anche quelli che ci stanno facendo i soldi. E allora? Che c’è di più naturale che andare ad ammazzare ragazzine tossicodipendenti che battono? Sono la quintessenza della modernità. Sono l’esempio lampante, agli occhi dei moralisti, di quello che Modena non sarebbe mai dovuta diventare.

Però questa spiegazione non ha mai convinto Salinaro. Troppo facile. Il movente qua sarebbe quasi ideologico – una specie di Ludwig in salsa emiliana. Ma questo killer gli sembra più sottile, più contorto, meno decifrabile. Non si è mai tolto dalla testa, Salinaro, l’idea che ci fosse una ritualità, nella disposizione dei cadaveri. È per quello che il filo elettrico tra lui e l’assassino è rimasto teso e sotto carica: perché non è mai riuscito a capirlo.
Ogni cosa, anche la più turpe, deve avere le sue ragioni. Istinti, pulsioni e tutto il campionario psichiatrico non lo hanno mai soddisfatto: Salinaro è uomo da 2+2. Qual è la storia di questo assassino che sta invecchiando in santa pace, dopo essersi lasciato una scia di sangue giovane alle spalle? Perché lo faceva? Cosa pensava di ricavarne?
Salinaro si ritrova nell’aria un po’ fumosa di una delle uscite posteriori, è arrivato fuori quasi senza accorgersene. Non ha comprato nulla, non gliene frega niente. Davanti a sé ha la via Emilia, rattoppata e stanca – trafficata come sempre.
– Forse quel figlio di buona donna era lì dentro, insieme a me a fare la spesa. La faranno anche i mostri la spesa, no? In questi 25 anni non avrà vissuto d’aria. Avrà avuto una vita normale – buongiorno dottore buonasera signora –; gli amici a cena nella tavernetta il sabato sera, il prato da tagliare la domenica mattina, mentre i vicini lo salutano rispettosi. Questa è l’essenza della faccenda: la normalità modenese, il tran tran quotidiano sotto il cielo di piombo, quest’aria avvelenata che ci soffoca, che ci sta uccidendo tutti mentre continuiamo a dire – buonasera signora, i miei rispetti dottore – e dietro l’allestimento di scena c’è il mostro, silenzioso, placido, che guarda e sorride, sornione.

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