no future – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

]]>
Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici https://www.carmillaonline.com/2021/10/17/estetiche-inquiete-joy-division-e-dintorni-contesto-e-radici/ Sun, 17 Oct 2021 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68686 di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più [...]]]> di Gioacchino Toni

I primi anni Ottanta segnano il passaggio da un ventennio di radicale messa in discussione dell’esistente, contraddistinto da ribellioni e speranze, a un periodo che non può essere derubricato come semplice “ritorno all’ordine”; sono gli anni in cui si pongono le basi di quel neoliberismo i cui risultati, a distanza di decenni, plasmano la contemporaneità palesando cambiamenti epocali. Sono gli anni in cui a Downing Street si insedia quella Iron Lady intenta a smantellare un pezzo alla volta tutti quei legami sociali condsiderati d’impiccio a uno sistema di sviluppo intento a spingere sempre più sull’acceleratore del cinismo più spietato edificando un modello teso a rappresentarsi immodificabile, come Margaret Thatcher non manca di scandire ad ogni occasione: “There is no alternative”.

L’Inghilterra plasmata dalle politiche thatcheriane dei primi anni Ottanta è un Paese afflitto dalla disoccupazione e dalla disgregazione sociale che si abbattono sulla working class tradizionale, dall’individualismo, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza che non sempre riescono a essere celati dietro allo scintillio delle prime avvisaglie di gentrificazione dei quartieri, agli status simbol esibiti da rampanti uomini e donne intenti a sgomitare con ogni mezzo necessario per conquistarsi “il successo”.

Le trasformazioni epocali inaugurate in apertura di quel decennio sono inevitabilmente accompagnate da una generale messa in discussione di identità che sembravano granitiche con cui, del tutto impreparati, si sono trovati a fare i conti individui sempre più atomizzati. Lo scrittore David Peace ha saputo far affiorare le macerie tra le immagini patinate di quel periodo tratteggiando nel ciclo di romanzi Red Riding Quartet il contesto in cui si danno alcuni crimini efferati tra miniere abbandonate, fabbriche chiuse o automatizzate, città in rovina e violente di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, oltre che individui e comunità dall’identità frantumata.

Gli anni Ottanta, in un modo o nell’altro, hanno plasmato l’immaginario contemporaneo tanto da fungere da serbatoio da cui si continua ad attingere, più o meno nostalgicamente, recuperando segni e testi culturali assecondando inclinazioni edonistiche o esistenziali. A questo secondo versante fa riferimento il volume curato da Alfonso Amendola e Linda Barone, Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division (Rogas, 2021) che, analizzando in un percorso trasversale a più voci l’opera del gruppo di Salford, Greater Manchester, ricorrendo a un’ottica interdisciplinare, ricostruisce l’universo Joy Division indagato sia nel contesto in cui è nato che nel lascito da cui l’attualità continua ad attingere più o meno rispettando l’esperienza originaria. [A tale libro sarà dedicato un secondo scritto nei prossimi giorni su Carmilla]

Alfonso Amendola e Novella Troianiello muovono la loro indagine a partire dalla convinzione che un genere musicale non sia esclusivamente il prodotto di un determinato gruppo sociale ma che esso stesso contribuisca a generare delle identità sociali che concorrono a plasmare i confini e a mutare le forme culturali nel corso del tempo.

Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.

Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una

generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32).

Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate.

In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.

In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita ad una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30).

La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.

Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).

Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36).

Nel volume Daniele De Luca approfondisce il rapporto tra i Joy Division e l’area di Machester in cui crescono; una realtà urbana all’epoca in balia della disoccupazione e dal tessuto sociale lacerato in cui figli della classe operaia sembrano trovare per un istante nel punk, arrivato dall’odiata Capitale, un modo per rialzare la testa e dar voce alla rabbia accumulata in corpo.

Ma il punk era stata l’improvvisa scintilla per accendere un fuoco ancor più duraturo. Dopo la pubblicazione in puro stile do-it-yourself, nel gennaio 1977, di Spiral Scratch da parte dei Buzzcocks (con la produzione di Martin Hannett, il creatore indiscusso del suono dei Joy Division), la scena mancuniana stava per partorire qualcosa di nuovo. Nel 1978, il punk si stava trasformando nel post-punk: le idee scaturite dal punk venivano usate per creare un modo diverso di fare musica. Manchester diventerà leader della nuova scena. Il miracolo del riscatto era iniziato. I Magazine, i Warsaw (diventati ben presto Joy Division), i Fall, i A Certain Ratio inaugurarono la strada lastricata di sottile e prezioso alabastro della new wave (p. 43).

De Luca insiste su come il degrado urbano e lo sfilacciamento sociale di Manchester facciano parte della quotidianità dei Joy Division e di come questi ultimi derivino da un proficuo incontro tra ambiti sociali, luoghi e formazione culturale diversi da cui hanno saputo originare un sound capace di coniugare insicurezze, smarrimenti, energia repressa e, soprattutto, la sensazione della perdita che, insieme al senso di solitudine, pare davvero essere una delle caratteristiche che stanno alla base del gruppo e più in generale del post-punk nelle città dell’Inghilterra settentrionale.

Eugenio Capozzi pone l’accento su come l’esperienza post-punk nasca sull’onda delle grandi differenze che caratterizzano la generazione dei ventenni di fine anni Settanta da quella degli anni Sessanta. Se quest’ultima può dirsi caratterizzata da un’aspirazione a un «nuovo comunitarismo senza repressione, gerarchie, obblighi», la generazione del decennio successivo si contraddistingue per una rabbiosa e distruttiva assenza di progettualità attraversata da una visione del mondo decisamente soggettiva, quando non individualista.

Insomma, la controcultura/cultura hippie prima, il no future del punk dopo. La differenza tra l’atteggiamento assunto dalle punte più inquiete delle due “sub-generazioni” è quella tra utopia spericolata e disillusione; tra la fede misticheggiante in una sorta di ritorno all’innocenza neo-rousseauiano e la presa d’atto di una frammentazione “tribale” delle società occidentali su base “postmaterialista”, del dominio di una “cultura del narcisismo”. […] A partire dal punto di vista periferico della sua Manchester operaia, Ian Curtis appartiene in pieno alla seconda “subgenerazione” […] assimila, dunque, la rabbia nichilista del punk, ma nutrendola di un pessimismo filosofico dalle radici profonde, imperniato su una meditazione intorno al disorientamento dell’individuo rispetto a sistemi sociali, economici, culturali, istituzionali mossi da forze estranee, incomprensibili, crudeli (p. 47).

Se l’esordio dei Joy Division – con l’EP An ideal for living (1978) – sembra derivare da una necessità di estrinsecare una rivolta esistenziale ed etica attraversata da amarezza e disillusione – e quest’ultima rappresenta un’altra delle parole chiave dell’esperienza del gruppo –, con il primo album – Unknown pleasures (1979) – a emergere è soprattutto la solitudine dell’individuo e il senso di incomunicabilità che si manifestano in particolare attraverso «il rimpianto per una condizione ideale di armonia sentita come irrimediabilmente perduta e la domanda di affetto, solidarietà, comprensione» (pp. 48-49). Il senso di radicale distacco dal mondo diviene evidente, così come una certa indifferenza nei confronti della morte dal momento che ogni rapporto affettivo appare ormai come un semplice lontano ricordo. Ian Curtis, sostiene Capozzi, sembra per certi versi avviarsi ad abbandonare ogni impulso teso alla liberazione per trasformarsi in un “giovane vecchio”, intraprendendo un percorso personale che lo vede passare da una “rivoluzione senza utopia” a un “soggettivismo estremo” evitando di percorrere altre strade, all’epoca battute dai più, indirizzate invece verso derive edonistiche.

Nella sua improvvisa maturazione, o senescenza, si riflette in maniera deformata ma nel complesso fedele l’effimera fiammata della ribellione punk, la rapidissima involuzione dei baby boomers “maturi” dei medi anni Cinquanta da persone-massa della morente golden age, colpita dalla grande crisi economica degli anni Settanta, a ribelli iper-soggettivisti, privi di una piattaforma ideologica, fino a “soggetti smarriti” di una dinamica storica per loro ancora illeggibile ed incomprensibile: l’embrionale trasformazione dell’Occidente dagli Stati nazionali, dalla guerra fredda e dall’economia “mista” allo stato “liquido” della globalizzazione, la cui nascita sarebbe stata individuata almeno un decennio dopo (p. 50)

Il successivo album – Closer (1980) –, pubblicato dopo la morte di Curtis, appare a tutti gli effetti la resa definitiva di fronte alla sofferenza esistenziale dopo quella che può essere vista come l’ultima flebile e disperata richiesta di aiuto rivolta all’esterno espressa da Unknown pleasures. Quasi una “rinuncia per sfinimento”. Sarebbe però limitativo, suggerisce ancora Capozzi, limitare tutto alla sfera dei rapporti individuali; i testi di Closer evidenziano

la lancinante mancanza di una dimensione comunitaria. Una mancanza che si era già affacciata come nostalgia della gioventù e della “normalità” in Unknown pleasures, e qui si ripropone come una condanna, a cui Curtis fantastica ancora a momenti di poter sfuggire, ma senza crederci più [Non a caso] nel brano conclusivo, Decades, la rassegnazione all’estinzione viene raffigurata non come uno scacco individuale, ma collettivo, e addirittura generazionale […] Quella generazione dipinta spesso come fortunata, superficiale, votata al divertimento e al piacere, insofferente a ogni costrizione. E che invece, nella visione profetica costruita da Curtis sul ritmo di una sorta di reggae ibernato tra i ghiacci, è composta da individui precocemente invecchiati, curvi sotto un peso insopportabile, che nella loro breve vita hanno accumulato tutta la stanchezza e la disillusione di generazioni e generazioni precedenti […] Ha un significato storico inestimabile il fatto che l’ultima parola artistica di Curtis prima dell’atto finale di congedo, l’ultimo suo contatto con il mondo, sia un «noi». In Decades come in Love will tears us apart. Anche la fine dell’amore non è più per lui a questo punto un’esperienza puramente individuale, ma riguarda tutti coloro che condividono con lui l’aspirazione a ritrovarsi in una comunità ormai svanita (pp. 52 e 55).


Decades

Here are the young men, the weight on their shoulders,
Here are the young men, well where have they been?
We knocked on the doors of Hell’s darker chamber,
Pushed to the limit, we dragged ourselves in,
Watched from the wings as the scenes were replaying,
We saw ourselves now as we never had seen.
Portrayal of the trauma and degeneration,
The sorrows we suffered and never were free.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Weary inside, now our heart’s lost forever,
Can’t replace the fear, or the thrill of the chase,
Each ritual showed up the door for our wanderings,
Open then shut, then slammed in our face.
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?
Where have they been?


This video combines the 1980 studio version of this song with images from a live performance at the BBC Something Else Show in September 1979


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

 

 

]]>
The Great Green Capitalism Swindle https://www.carmillaonline.com/2019/09/24/the-great-green-capitalism-swindle/ Tue, 24 Sep 2019 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54873 di Sandro Moiso

Julien Temple nel 1980, con il film The Great Rock’n’Roll Swindle, ci aveva informati, in maniera irriverente e trascinante, del fatto che non solo la musica pop con tutto il suo circo mediatico e mercantile, ma anche il fenomeno punk, apparentemente così trasgressivo e diverso come nel caso degli iconici Sex Pistols, altro non fosse che una ben congegnata truffa ai danni dei giovani consumatori. Anche di quelli più radicali nei gusti e nei comportamenti.

Oggi la grande truffa è diventata green, verde come quel capitalismo che in [...]]]> di Sandro Moiso

Julien Temple nel 1980, con il film The Great Rock’n’Roll Swindle, ci aveva informati, in maniera irriverente e trascinante, del fatto che non solo la musica pop con tutto il suo circo mediatico e mercantile, ma anche il fenomeno punk, apparentemente così trasgressivo e diverso come nel caso degli iconici Sex Pistols, altro non fosse che una ben congegnata truffa ai danni dei giovani consumatori. Anche di quelli più radicali nei gusti e nei comportamenti.

Oggi la grande truffa è diventata green, verde come quel capitalismo che in nome della propria sopravvivenza finge di rinnovarsi affinché nulla realmente cambi, sia nel suo devastante rapporto con l’ambiente che nei rapporti di classe, dominio e sottomissione che le sue regole economiche da sempre sottendono.

Greta Thunberg è sicuramente un personaggio ispiratore di grande simpatia e i giovani che si sono mossi dietro di lei e con lei sicuramente hanno molto a cuore il destino di questo pianeta e della nostra specie. Ma il discorso sulla casa comune, come ho già affermato la settimana scorsa proprio su Carmilla (qui), rimane profondamente inficiato dal fatto che in una società divisa in classi c’è ben poco in comune tra chi sta in alto (pochi) e chi sta in basso (la maggioranza, soprattutto nelle aree esterne all’Occidente o ai paesi del G dai vari numeri che lo accompagnano a seconda delle occasioni). Molto spesso, infatti, mentre le case di molti bruciano o vengono travolte dal fango o da altri disastri naturali (dall’Amazzonia a New Orleans fino ai nostri Appennini), in altre case si festeggia: non lo scampato pericolo come sarebbe lecito supporre, ma il guadagno che tali disgrazie altrui possono portare nelle tasche di pochi fortunati.

Pochi fortunati che dalla loro hanno a disposizione capitali, media, stati con i loro apparati repressivi e di intervento. Strumenti che di volta in volta vengono utilizzati per investimenti e ricostruzioni, per propagare l’idea di un futuro di sviluppo sostenibile oppure reprimere, con vari gradi di interdizione, tutti coloro o i movimenti che a queste situazioni di disagio e disuguaglianza economica e sociale cercano di opporsi con la controinformazione e con i fatti (là dove ciò è possibile).

Stati che almeno in una parte del mondo si dichiarano oggi preoccupati dall’attuale situazione di emergenza ambientale e/o climatica, proponendo di fatto soluzioni che più che provvedere a tirare immediatamente il freno a mano dell’inversione di tendenza immediata sul piano della produzione e dei consumi, oltre che della proprietà dei mezzi di produzione (uno dei più importanti dei quali è rappresentato proprio dalla terra e dalle risorse naturali contenute sopra e sotto di essa), propendono nel trovare nuovi territori di investimento proficuo e di rinnovamento economico e tecnologico per la macchina capitalistica e il modo di produzione che l’ha generata, e che ne consegue allo stesso tempo, affinché la stessa non si fermi. Sia nella produzione che nell’accumulo di profitti che ne derivano.

In numerosi scritti degli anni Cinquanta, sia in occasione delle alluvioni del Polesine che di fronte al rapporto che lega lo sfruttamento intensivo dei suoli alla rendita fondiaria, Amadeo Bordiga aveva già affrontato il problema. Fu forse l’unico comunista novecentesco a non avere paura di affrontare la fasulla realtà dello sviluppo proposto dal capitalismo e dai suoi funzionari, denunciandone l’avidità tutta tesa a lucrare sui cosiddetti “disastri ambientali” e, allo stesso tempo, senza ritenere, però, che il discorso sull’ambiente fosse soltanto un espediente per fermare lo sviluppo della classe operaia e delle sue forze organizzate (come taluni “estremisti” odierni sostengono, appellandosi truffaldinamente a Marx e al Manifesto del Partito comunista e alle vestigia di un’analisi imbastardita dal marxismo-leninismo staliniano che dello sviluppo industriale aveva fatto il nerbo del proprio discorso, sia in Unione Sovietica che in tutte quelle aree in cui fosse rappresentato dai cosiddetti partiti comunisti del Novecento).1

Tale necessità di introdurre il discorso di una critica del capitalismo, e dei disastri ambientali che ne conseguono inesorabilmente, fondata su reali istanze di classe resta tutt’ora valida e urgente. Valida perché anche se le teorizzazioni del comunismo novecentesco ispirato dall’esperienza sovietica si sono rivelate insufficienti e dannose nel concepire un società diversamente organizzata, in cui troppo spesso la visione del progresso ha finito col coincidere in tutto e per tutto con quella ispirata dallo sviluppo economico di stampo capitalistico, la società è rimasta ferreamente divisa in classi e il numero degli espropriati e dei diseredati è aumentato in maniera esponenziale, man mano che si riduceva vistosamente il numero di coloro che da tale espropriazione economica, politica e culturale traevano beneficio e profitto. Urgente perché effettivamente la situazione attuale del pianeta non farà ulteriori sconti alla nostra specie, in un contesto in cui i processi devastanti indotti dal mutamento climatico saranno probabilmente ancora più rapidi del timing che la scienza ha già previsto (qui).

Urgenza cui gli Stati e i grandi interessi finanziari ed imprenditoriali internazionali fingono soltanto di rispondere con opzioni (tasse destinate a colpire indistintamente i consumi popolari, fasulli tagli alle emissioni, promozione di grandi opere destinate a “migliorare i trasporti”, provvedimenti contro l’uso della plastica e dei carburanti fossili che richiedono tempi lunghissimi e che sono destinati a rivelarsi come inutili e, quasi sicuramente, dannosi sul lungo periodo) che sono autentica sabbia gettata negli occhi di chi si sforza di comprendere ciò che succede o che si illude di poter salvare la società senza modificarla radicalmente.

Illusione che anima, non per cattiva fede, un movimento come Friday for Future e i giovani che in maggioranza lo compongono, anche se la fiducia che alcuni di loro dimostrano ancora nei confronti dei concetti di sviluppo e progresso potrebbe portarli ad essere involontari portavoce non dell’interesse della maggioranza, ma di un ulteriore rafforzamento della profittevole bestia dello sfruttamento della Natura e dell’Uomo come specie.

Va qui poi notato come la stessa definizione di antropocene, adottata per definire le modificazioni che la nostra specie avrebbe indotto sul clima e sull’ambiente, tanto da diventare il fattore che maggiormente li influenza, è riduttiva e troppo generalizzante allo stesso tempo.
E’ un modo di produzione preciso quello che, a partire dal 1500 e dall’espansione del capitalismo mercantile, e poi estrattivista, europeo2 ha iniziato a modificare pesantemente il clima e l’ambiente su scala planetaria, motivo per cui il termine capitalocene è di gran lunga preferibile al primo. Non generalizza la colpa, ma indica precise e perseguibili responsabilità storiche e socio-politiche. Lasciamo perder il primo e usiamo il secondo, ogni discorso ne guadagnerà in chiarezza.3

C’è stato un gran can can mediatico in questi giorni sulla presenza di Greta alle Nazioni Unite, sulle grandi manifestazioni che hanno preceduto nei giorni scorsi l’apertura dei lavori del Youth Climate Summit all’ONU dal 21 settembre e, soprattutto, sul Climate Action Summit che è iniziato il 23 settembre presso lo stesso palazzo di vetro. Vetro che non ha però permesso di nasconder come dei 193 paesi che compongono l’assemblea generale, soltanto 66 di essi abbiano preso parte all’iniziativa, con la significativa auto-esclusione degli Stati Uniti (con una fugace e insignificante comparsata di Donal Trump e del suo vice), del Brasile e del Giappone (solo per citare alcuni dei più importanti assenti).
Mentre nuove e più devastanti guerre si delineano all’orizzonte per il controllo delle energie fossili, questa è la misura reale dell’interesse che il capitalismo e i suoi servi nutrono davvero nei confronti del cambiamento climatico, della salvaguardia dell’ambiente e degli esseri umani, soprattutto dei meno abbienti.

No future recitava uno degli slogan tipici del punk, molto prima che Greta lo denunciasse alle Nazioni Unite. Parole, quelle di Greta, che hanno allarmato il Presidente francese Macron tanto da fargliele subito denunciare come troppo radicali e destinate ad antagonizzare la società (qui). Ma, effettivamente, non ci sarà futuro per i giovani e per l’intera nostra specie se il modo di produzione capitalistico non sarà rovesciato a partire dal basso. Non esiste un modello di sviluppo sostenibile in ambito capitalistico. In tale contesto infatti lo sviluppo, inteso nei termini economici attuali, è sempre di più insostenibile, mentre il cosiddetto sviluppo sostenibile non può costituire altro che un fuorviante ossimoro.
Quasi quanto la protesta autorizzata dal Ministro della Pubblica Istruzione Fioramonti in occasione di venerdì prossimo 27 settembre, poiché, sempre secondo il ministro, tale protesta non può avere una controparte o qualcuno cui opporsi politicamente. Ovverosia una protesta disarmata in partenza, privata di qualsiasi capacità di individuare gli avversari reali.

Un’aprioristica depoliticizzazione e sterilizzazione della protesta giovanile che non impedisce allo stesso ministero di far sì che le scolaresche siano invitate ed accompagnate a visitare autentiche cattedrali della devastazione ambientale, come nel caso dei maxi-cementificio oppure degli impianti di rigassificazione, che con uno stile comunicativo greenwashing cercano di presentarsi come amici dei territori che contribuiscono a devastare.

Uno stile greenwashing che sembra accompagnare le promessi del capitalismo verde sia a livello nazionale che planetario, quando ad esempio si ripromette di eliminare le emissioni dannose entro il 2050 (come è stato fatto in questi giorni all’ONU), fingendo di ignorare che gli scienziati ci concedono ancora undici anni al massimo per agire nei confronti dell’emergenza climatica.

Una comunicazione che più che rivelare un nuova sensibilità delle imprese e dei capi di governo nei confronti dell’attuale devastazione ambientale, rivela il tentativo di rendere più sensibili i giovani e i lavoratori nei confronti dell’utilità e insormontabilità del modo di produzione capitalistico e dei suoi interessi, eternizzandone il modello di sviluppo e lo stile di vita.

Depoliticizzazione, sterilizzazione del conflitto e difesa di un ben preciso modello di distruzione della specie e dell’ambiente che i giovani che hanno preso la testa del corteo per il clima di Parigi di sabato 21 settembre hanno saputo concretamente rifiutare e rovesciare nel loro contrario. Così come d’altra parte il movimento NoTav continua a fare ormai da trent’anni.


  1. Di Amadeo Bordiga si vedano almeno gli assunti del Programma immediato della rivoluzione, meglio noto come Tesi di Forlì, del 1951; Mai la merce sfamerà l’uomo, oggi riproposto dalle edizioni Odradek di Roma e poi i testi (fili del tempo) contenuti in Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, http://www.fondazionebordiga.org/Drammi-1.pdf  

  2. Andrebbe approfondita, in altra sede, l’origine della credenza popolare diffusa in varie aree del mondo secondo la quale si crede che colui che scopre una miniera, è destinato a morire in breve tempo. Si confronti: Mircea Eliade, I riti del costruire, Jaca Book 1990-2017, p.53  

  3. Si veda Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre corte, Verona 2017  

]]>
L’incubo dello Squartatore dello Yorkshire e di un’Inghilterra in disfacimento. Red Riding Quartet di David Peace https://www.carmillaonline.com/2018/07/23/lincubo-dello-squartatore-dello-yorkshire-e-di-uninghilterra-in-disfacimento-red-riding-quartet-di-david-peace/ Mon, 23 Jul 2018 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47292 di Gioacchino Toni

Nineteen Seventy-Four, Nineteen Seventy-Seven, Nineteen Eighty e Nineteen Eighty-Three, usciti originariamente in lingua inglese tra il 1999 ed il 2002 furono tradotti in italiano per la prima volta da Meridiano Zero i primi due (1974 e 1977) e da Tropea gli ultimi (Millenovecento80 e Millenovecento83). Nel 2017 l’editore Il Saggiatore ha pubblicato in un unico ed enorme volume la tetralogia di David Peace incentrata su Peter William Sutcliffe, lo Squartatore dello Yorkshire, che tra la metà degli anni Settanta e i primi Ottanta ha seviziato e ucciso almeno tredici donne.

L’Inghilterra in cui sono ambientati i crimini dei [...]]]> di Gioacchino Toni

Nineteen Seventy-Four, Nineteen Seventy-Seven, Nineteen Eighty e Nineteen Eighty-Three, usciti originariamente in lingua inglese tra il 1999 ed il 2002 furono tradotti in italiano per la prima volta da Meridiano Zero i primi due (1974 e 1977) e da Tropea gli ultimi (Millenovecento80 e Millenovecento83). Nel 2017 l’editore Il Saggiatore ha pubblicato in un unico ed enorme volume la tetralogia di David Peace incentrata su Peter William Sutcliffe, lo Squartatore dello Yorkshire, che tra la metà degli anni Settanta e i primi Ottanta ha seviziato e ucciso almeno tredici donne.

L’Inghilterra in cui sono ambientati i crimini dei romanzi di Peace è un Paese afflitto dal disastro economico, dall’odio, dal sessismo e dalla violenza e le macerie di quell’epoca, nonostante i centri commerciali scintillanti e le mirabolanti architetture moderne, restano tragicamente presenti ancora oggi.

Le opere dello scrittore raccolte nelle quasi millecinquecento pagine del monumetale Red Riding Quartet tratteggiano la disgregazione sociale che affligge l’Inghilterra a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, un Paese in cui la società sembra davvero dissolversi così come si era ripromessa quella Margaret Thatcher che ha abitato il 10 di Downing Street dal 1979 al 1990 all’insegna di un motto – la società non esiste, ci sono solo individui – di cui ancora si pagano le conseguenze. Lo Yorkshire dei racconti di Peace riflette l’Inghilterra indirizzata verso quell’individualismo che il neoliberismo thatcheriano, spingendo sull’acceleratore, nel giro di un decennio, ha portato a compimento.

David Peace, Red Riding Quartet, Il Saggiatore, 2017, pp. 1481, € 45.00

Così Il Saggiatore introduce il lettore nelle atmosfere narrate da Peace: «Il Nord del paese è un’allucinazione di miniere abbandonate, fabbriche abbandonate, fabbriche automatizzate, fabbriche come cattedrali, ciminiere più alte di campanili, cieli neri, orizzonti di cemento armato. Le sue città in rovina, misogine e brutali, sono un incubo di villette unifamiliari in cui si consumano esistenze senza luce, di edifici scuri nella pioggia fredda, di case vuote come teschi scarnificati. Magazzini come occhi, fabbriche come sguardi. Le luci rosse degli stop che si allontanano come piaghe. Il ronzio ruvido e reiterato della radio vomita la sua cantilena: bombe dell’Ira, scioperi dei minatori, scioperi della fame, Maggie Thatcher, le Falkland. E poi bambini violentati e uccisi, prostitute violentate e uccise: lo Squartatore dello Yorkshire è tornato, la polizia non lo trova, forse non lo ha mai cercato davvero. Il Red Riding Quartet è la tragedia di un universo psicotico e terminale, in cui la follia di un serial killer è la follia di tutti, e i suoi delitti sono la violenta determinazione storica di un male ormai ubiquitario. Un mondo di bambini il cui grido rimbomba nel vuoto come la preghiera ignorata da un Dio assente, di donne spaventate e uomini divenuti prede che si dibattono in una lotta ossessiva con il dolore e la sconfitta. Creature postumane che non potrebbero vivere altrove se non nell’inferno oscuro, gelido e meccanizzato dello Yorkshire».

All’interno di tale scenario si incrociano le vicende, i pensieri, i punti di vista e gli incubi di personaggi come Bob Fraser, sergente della omicidi ormai incapace di distinguere tra buoni e cattivi, il giornalista Jack Whitehead, tormentano dai fantasmi delle vittime prive di giustizia ed Edward Dunford, corrispondente di cronaca nera per lo «Yorkshire Post».

Nel leggere Peace sembra davvero di percepire l’afa dei pub popolari di periferia alle soglie della campanella che annuncia l’ultimo giro, quando l’odore greve del sudore si mescola al puzzo della birra che ha impregnato la moquette. Sullo sfondo sembrano fare da colonna sonora i rumori delle bottiglie e dei bicchieri andati in frantumi e le sonorità disperate del punk in cui le ruvide parole urlate si mescolano a giri di basso semplici ma efficaci, ai distorsori delle chitarre suonate alla meglio e ai tonfi sordi delle batterie pestate come si trattasse di una rissa. Non a caso, nel secondo romanzo, Nineteen Seventy-Seven, i titoli dei capitoli richiamano le canzoni di band come Sex Pistols e The Clash.

Insomma, quella raccontata da Peace è la vecchia e fottuta Inghilterra, quella con le unghie sporche, le dita unte e magari un occhio nero, ma che resta pur sempre un Paese in cui, più che altrove, nel bene e nel male, le cose continuano a essere chiamate col loro nome, senza vergognarsi.

]]>