Nigeria – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sei personaggi più l’autore https://www.carmillaonline.com/2021/09/06/sei-personaggi-piu-lautore/ Mon, 06 Sep 2021 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67922 di Gianfranco Marelli

Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, Roma 2020, pp. 237, euro 15,90

Anche se, pirandellianamente, in un romanzo sono i suoi personaggi a cercare l’autore, Francesco Staffa – di professione antropologo, collaboratore con diversi musei etnografici, consulente per la trasmissione Rai “Geo e Geo”, nonché per diverse riviste, tra cui Nazione Indiana e Antropologia Museale – ha ricercato nei sei personaggi del suo primo romanzo di formazione, “Akuaba”, di individuare nel turbinio di sentimenti, emozioni, passioni che caratterizzano le loro vicende narrate, la poliedricità schizofrenica della cultura occidentale ogni [...]]]> di Gianfranco Marelli

Francesco Staffa, Akuaba, D Editore, Roma 2020, pp. 237, euro 15,90

Anche se, pirandellianamente, in un romanzo sono i suoi personaggi a cercare l’autore, Francesco Staffa – di professione antropologo, collaboratore con diversi musei etnografici, consulente per la trasmissione Rai “Geo e Geo”, nonché per diverse riviste, tra cui Nazione Indiana e Antropologia Museale – ha ricercato nei sei personaggi del suo primo romanzo di formazione, “Akuaba”, di individuare nel turbinio di sentimenti, emozioni, passioni che caratterizzano le loro vicende narrate, la poliedricità schizofrenica della cultura occidentale ogni qual volta si trova a dover fare i conti con l’Altro da sé, sospesa tra un buonismo pietoso e un razzismo pauroso.

Infatti, più che di “romanzo di formazione”– etichetta utilizzata dalla critica per esortare i debuttanti a migliorare il proprio stile con una successiva prova di maturità – siamo in presenza di un “romanzo di introspezione” in cui l’autore con abilità inusuale descrive e analizza il conflitto fra desiderio e senso di colpa, fra avidità e seduzione, fra speranza e delusione che i sei personaggi [due coppie occidentali e una coppia africana] affrontano in una situazione catastrofica, causata dalla crisi petrolifera che nei primi anni ‘80 del secolo scorso aveva trasformato la Nigeria dal paese di bengodi ad un luogo in cui rimanere o fuggire è altrettanto pericoloso, ma soprattutto foriero di conseguenze nefaste.

Sì, perché la storia raccontata da Francesco Staffa ha come luogo la Nigeria, il paese più popolato del golfo di Guinea, quando nel 1983 il boom petrolifero si interrompe bruscamente, e con la perdita degli introiti altissimi ottenuti dall’estrazione del greggio – grazie ai quali aveva tratto il supporto per avviare uno sviluppo complessivo attraverso i massicci investimenti, il ricorso all’uso della tecnologia straniera e la manodopera a buon mercato proveniente da paesi limitrofi come il Ghana – si scatena la caccia al capro espiatorio, individuando i colpevoli non certo nei responsabili della corruzione economico-politica della classe al potere collusa con le multinazionali straniere (in primis l’italianissima ENI), ma negli ultimi, gli immigrati, costretti repentinamente a lasciare il paese affetto da una forte crisi occupazionale in tutti i settori.

In questo contesto si intrecciano la storia di sei personaggi che, separatamente, vivono le conseguenze di questo dramma economico-sociale che condurrà oltre due milioni di lavoratori clandestini – in gran parte provenienti dal Ghana – ad abbandonare in fretta e furia la Nigeria in un crescendo di sofferenza, umiliazione, sopraffazione. Sennonché le loro sorti collidono contro situazioni disperate le cui singole scelte personali influenzeranno drammaticamente i loro destini. Così, dal paese africano prende il via una vicenda in cui migrazioni, neocolonialismo, corruzione e manipolazione si intrecciano a un groviglio di passioni, desideri, ambizioni inseguite a qualsiasi costo, e dove il privilegio di essere bianchi e occidentali si traduce nella possibilità di disporre dell’altrui vita e di giustificarne moralmente la propria condotta nei confronti di chi è costretto a subirla, senza alcuna ragione, se non quella di avere la pelle di un altro colore.

Ma la storia che l’autore fa interpretare ai sei personaggi, va ben oltre la consueta disamina di chi osserva quanto la vita abbia un “peso diverso” a seconda di dove nasci, di chi frequenti e del ruolo che hai potuto assumere nella società. Certo, Amna e Adebisi – la giovane coppia ghanese costretta a far fronte ad un cambiamento radicale della propria vita a seguito della crisi economico politica che li ha espulsi dalla Nigeria in quanto non più utili allo sviluppo del paese – affrontano il proprio dramma esistenziale confidando nella clemenza dell’altro, non potendo che sottomettersi alle sue disposizioni, nella speranza di essere compresi e pertanto aiutati; ma l’aiuto e la comprensione che ricevono dalle due coppie italiane [Franco/Fabienne e Guido/Ada], sebbene motivate e scaturite da posizioni diverse e apparentemente contrastanti, sono la conseguenza di egoistici interessi che il privilegio di essere bianchi e occidentali non solo giustifica ma legittima storicamente.

Del resto, quali interessi in comune potranno mai condividere i sei personaggi del romanzo “Akuaba” se non la capacità del loro autore di far loro vivere passioni contrastanti di fronte a problemi contingenti, in modo da intrecciare fra loro relazioni che li condurranno a compiere scelte il cui esito influirà sul prosieguo della loro vita, nel disperato bisogno di imporsi, anche a discapito dell’altro da sé?

Così, in un susseguirsi di colpi di scena in cui il romanzo si colora di giallo, Francesco Staffa dipinge un affresco che offre allo sguardo dei lettori e delle lettrici la possibilità di misurarsi con la capacità di comprendere fino a che punto si è disposti a immedesimarsi nei sei personaggi, ma soprattutto nelle sei diverse situazioni in cui essi si trovano, costretti a accettare qualsiasi compromesso pur di sopravvivere e sperare nel domani (Amna e Adebisi), mantenere con ogni mezzo i propri privilegi e la ricchezza conquistata (Franco e Fabienne), soddisfare prioritariamente i loro più ancestrali desideri a scapito della felicità altrui (Guido e Ada).

A tenere insieme queste tre vicende così diverse e distanti, è un ciondolo, un amuleto, diffuso nell’Africa occidentale fra le popolazioni Ashanti, che le donne indossavano come protezione e per favorire la gravidanza e per assicurare salute e bellezza al nascituro. Questo oggetto rituale capace di infondere forza e sostegno si chiama Akuaba, ed è la chiave interpretativa che l’autore gira magistralmente nella toppa del racconto, in un continuo rimando di prolessi/anticipazione e analessi/retrospezione, per mettere in scena – tra Roma e Lagos, tra il litorale laziale e la misteriosa foresta di Osogbo – sei personaggi alla ricerca della propria felicità. Felicità gravida di una figlia, Sonia, che sebbene appaia soltanto alla fine del romanzo ne costituisce l’inizio, in quanto la sua nascita costituirà il legame indissolubile fra i suoi genitori africani (Amna e Adebisi), la coppia venuta dall’Italia per adottarla (Guido e Ada), e un traffico clandestino di statue antiche trafugate durante uno scavo archeologico da Franco, che gli permetterà di conservare la propria permanenza di grand commis in Nigeria, proprio quando la situazione politico-economica è traballante e il “si salvi chi può” si traduce in “morte tua vita mia”.

Sennonché la vita di Sonia scardinerà la felicità condivisa dei sei personaggi e del loro autore, al punto che il precario legame fra le tre coppie, sempre più incasinato, necessariamente obbligherà quest’ultimo ad intingere nuovamente la penna nel calamaio.

]]>
Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria https://www.carmillaonline.com/2017/01/07/calibano-e-la-strega-le-donne-il-corpo-e-laccumulazione-originaria/ Fri, 06 Jan 2017 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35496 federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante [...]]]> federici-calibano-strega[Pubblichiamo la Prefazione al libro di Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2015, pp. 343, € 30,00. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Passando in rassegna le vicende delle lotte contadine e delle eresie medievali, la stagione della caccia alle streghe in Europa e nel Nuovo Mondo tra Cinque e Seicento, Silvia Federici offre, da un punto di vista femminista, un’analisi dell’avvento del capitalismo dando risalto ad eventi e soggetti sociali assenti nella visione marxista della “transizione”. Tale saggio, oltre che fornire un’importante ricostruzione storica, offre un contributo fondamentale alla lettura degli attuali processi della globalizzazione.

Silvia Federici è attivista femminista, scrittrice e docente universitaria tra le protagoniste, negli anni Settanta del secolo scorso, del movimento internazionale per il Salario al Lavoro Domestico. Negli anni Novanta, dopo un periodo di insegnamento e di ricerca in Nigeria, Federici ha partecipato ai movimenti no global e contro la pena di morte negli Stati Uniti, dal 1987 al 2005 ha insegnato politica internazionale, women’s studies e filosofia politica alla Hofstra University di Hempstead (New York). Autrice di numerosi saggi di filosofia e di teoria femminista, recentemente Federici si è impegnata contro i processi di globalizzazione capitalista tenendo conferenze in ogni parte del mondo.

In coda alla Prefazione sono disponibili i link ai video di due interessanti interviste a Silvia Federici: la prima è stata realizzata dal Laboratorio Sguardi sui Generis in occasione della sua presenza in Val di Susa, la seconda (in lingua inglese) è stata effettuata da Gender Links all’uscita del saggio S.   Federici, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), uscito successivamente in lingua italiana S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Verona, 2014, pp. 159, € 15,00 –  ght]


Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria

di Silvia Federici

Calibano e la Strega presenta i temi principali di un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” dal feudalesimo al capitalismo che ho iniziato a metà degli anni ’70, in collaborazione con la femminista italiana Leopoldina Fortunati. I primi risultati sono apparsi in un libro che abbiamo pubblicato qui in Italia nel 1984: Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale.

Il mio interesse per la ricerca era motivato all’inizio dai dibattiti all’interno del movimento femminista negli Stati Uniti, vertenti sulle origini delle particolari forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche che il movimento avrebbe dovuto adottare per la nostra liberazione. Le principali posizioni teoriche e politiche con cui ci dovevamo confrontare a questo proposito erano quelle avanzate dalle due aree più importanti del movimento delle donne: le femministe radicali e le femministe socialiste. Tuttavia, dal mio punto di vista, entrambe non fornivano una spiegazione soddisfacente sulle origini dello sfruttamento sociale ed economico delle donne. Non condividevo la tendenza delle femministe radicali a far risalire la discriminazione sessuale e il potere patriarcale a strutture culturali transtoriche che si presumevano indipendenti dai rapporti di produzione e di classe. Per contro, le femministe socialiste riconoscevano che non si può scindere la storia delle donne dalla storia dei vari sistemi di sfruttamento e nelle loro teorie analizzavano la discriminazione sessuale a partire dal lavoro che le donne svolgono nella società capitalistica. Ma il limite della loro posizione era di non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di plusvalore e quindi di attribuire l’origine della differenza di potere tra donne e uomini all’esclusione delle donne dallo sviluppo capitalistico – un assunto che ancora una volta ci obbligava a ricorrere a schemi culturali per dar conto della sopravvivenza del sessismo nell’universo delle relazioni capitalistiche.

È in questo contesto che ha preso forma l’idea di tracciare la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. La tesi che ha ispirato questa ricerca era stata articolata da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James, oltre che da altre attiviste del movimento per il salario al lavoro domestico, in una serie di documenti che negli anni ’70 apparivano molto controversi, ma che col tempo hanno riformulato il discorso su donne, riproduzione e capitalismo. Fra questi, i più influenti furono Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa e Sex, Race and Class (1975) di Selma James.

Contro l’ortodossia marxista che spiegava l’“oppressione” delle donne e la loro subordinazione agli uomini come un residuo dei rapporti feudali, Dalla Costa e James affermavano che lo sfruttamento del lavoro femminile ha giocato un ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, in quanto le donne sono state le produttrici del bene più essenziale per il capitalismo: la forza-lavoro. Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne è stato la colonna portante su cui si è costruita la “servitù del salario” nonché il segreto della sua produttività (Dalla Costa 1972, p. 31). La differenza di potere tra donne e uomini nella società non poteva quindi essere attribuita né all’irrilevanza del lavoro domestico per l’accumulazione capitalistica – irrilevanza contraddetta dalle strette regole a cui la vita delle donne è stata soggetta – né alla sopravvivenza di atavici schemi culturali. Doveva invece essere letta come l’effetto di un sistema sociale di produzione che non riconosce la produzione e la riproduzione del lavoratore come un’attività socio-economica e perciò come fonte di accumulazione capitalistica, ma al contrario la mistifica come risorsa naturale o servizio personale, approfittando nel contempo della mancanza di retribuzione per il lavoro svolto. Facendo derivare lo sfruttamento delle donne nella società capitalistica dalla divisione sessuale del lavoro e dal lavoro domestico non retribuito, Dalla Costa e James hanno dimostrato che è possibile superare la dicotomia tra classe e patriarcato e hanno dato a quest’ultimo un significato storico specifico, aprendo così la strada a una reinterpretazione della storia del capitalismo e della lotta di classe da un punto di vista femminista. È in questa prospettiva che, alla metà degli anni ’70, con Leopoldina Fortunati ho iniziato a studiare quella che solo eufemisticamente possiamo definire la “transizione al capitalismo”, cominciando a ricostruire una storia che non ci era stata insegnata a scuola, ma che si è dimostrata decisiva per la nostra formazione teorica e politica. È una storia che non solo ci ha permesso una comprensione teorica della genesi del lavoro domestico nelle sue principali componenti strutturali – la separazione della produzione dalla riproduzione, l’uso specifico che il capitalismo ha fatto del salario per comandare il lavoro dei non salariati e la svalutazione della posizione sociale delle donne con l’avvento del capitalismo – ma che ci ha anche fornito la genealogia dei moderni concetti di femminilità e mascolinità, permettendoci così di invalidare l’assunto postmoderno di una predisposizione quasi ontologica da parte della “cultura occidentale” a imbrigliare il genere in schemi binari. Abbiamo infatti scoperto che le gerarchie sessuali sono sempre al servizio di un progetto di dominio che si autosostiene solo dividendo, su basi continuamente rinnovate, coloro che intende dominare.

Il libro che è nato da questa prima ricerca, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984), si proponeva di ripensare l’analisi dell’accumulazione originaria di Marx da un punto di vista femminista. Ma nel corso di questo lavoro le categorie marxiane si sono rivelate inadeguate. Anzitutto, si è visto che l’identificazione da parte di Marx del capitalismo con l’avvento del lavoro salariato e del lavoratore “libero” contribuisce a nascondere e a naturalizzare la sfera della riproduzione. Il Grande Calibano criticava anche la teoria del corpo di Michel Foucault. Abbiamo infatti rilevato che l’analisi di Foucault delle tecniche del potere e delle discipline a cui il corpo è stato assoggettato ignora il processo di riproduzione, riduce le storie delle donne e degli uomini a un tutto indifferenziato e si disinteressa a tal punto della “disciplina” imposta alle donne da non menzionare uno degli attacchi più orrendi al corpo perpetrato in era moderna: la caccia alle streghe. La tesi principale sostenuta dal Grande Calibano era che, per comprendere la storia delle donne nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, si devono analizzare i cambiamenti che il capitalismo ha introdotto nel processo della riproduzione sociale, soprattutto nella riproduzione della forza-lavoro. Il libro prendeva quindi in esame la riorganizzazione del lavoro domestico, della famiglia, della cura dei bambini, della sessualità e dei rapporti tra uomo-donna e tra produzione e riproduzione nel XVI e nel XVII secolo in Europa. La stessa analisi è riproposta nel Calibano e la strega, ma lo scopo di questo volume è diverso da quello del Grande Calibano in quanto risponde a un diverso contesto sociale e alla crescita della nostra conoscenza della storia delle donne.

Poco dopo la pubblicazione del Grande Calibano, ho lasciato temporaneamente gli Stati Uniti per insegnare all’Università di Port Harcourt in Nigeria dove, a periodi alterni, ho lavorato per quasi tre anni. Prima di partire ho sepolto i miei libri in cantina, pensando che per un po’ di tempo non mi sarebbero serviti. Ma le circostanze del mio soggiorno in Nigeria non mi hanno consentito di dimenticare questo studio. Gli anni tra il 1984 e il 1986 sono stati decisivi per la Nigeria, come per la maggior parte dei paesi africani. Erano gli anni in cui, in risposta alla crisi del debito, il governo nigeriano avviava con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale accordi che risultarono nell’adozione del programma di aggiustamento strutturale, la ricetta universale imposta dalla Banca Mondiale, nel nome della ripresa economica, ai governanti di gran parte del pianeta.

Lo scopo dichiarato di questo programma era di rendere la Nigeria competitiva sul mercato internazionale. Ma si è reso subito evidente che questo programma era lo strumento di una nuova fase di accumulazione originaria e di una razionalizzazione della riproduzione volta a distruggere le ultime vestigia di proprietà e rapporti comunitari, e imporre forme più intense di sfruttamento del lavoro. Ho visto quindi dispiegarsi sotto i miei occhi processi molto simili a quelli che avevo analizzato durante la stesura del Grande Calibano, fra cui un attacco sistematico alle terre comuni e un decisivo intervento dello stato, definito “guerra all’indisciplina”, teso a ridurre le aspettative di una popolazione considerata troppo pretenziosa in prospettiva di un suo inserimento nell’economia globale. Insieme a queste misure, ho assistito all’evolversi di una campagna misogina, che denunciava la vanità e le eccessive pretese delle donne, e allo sviluppo di un acceso dibattito, simile per molti versi alla querelle des femmes del XVII secolo, che investiva ogni aspetto della riproduzione della forza-lavoro: la famiglia (poligama vs. monogama, estesa vs. nucleare), l’educazione dei bambini, il lavoro delle donne, l’identità maschile e femminile e i rapporti tra uomini e donne.

In questo contesto il mio lavoro sulla transizione ha assunto un nuovo significato. In Nigeria ho compreso che la resistenza all’aggiustamento strutturale fa parte di una lunga lotta contro la privatizzazione della terra e contro le “recinzioni”, non solo delle terre comuni ma anche dei rapporti sociali, che risale alle origini del capitalismo. Ho anche capito che la vittoria che la disciplina del lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. Per gli imprenditori, le multinazionali e gli investitori stranieri è proprio questo il problema di paesi come la Nigeria. Ma per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici. Devo questa nuova consapevolezza anche all’incontro con Donne in Nigeria (WIN), la prima organizzazione femminista del paese, che mi ha aiutata a comprendere le lotte che le donne nigeriane stanno sostenendo per difendere le proprie risorse e per rifiutare il nuovo modello di patriarcato, promosso dalla Banca Mondiale, che si vuole loro imporre.

Ben presto il programma di austerità adottato dal governo ha raggiunto anche il mondo accademico e, non essendo più in grado di mantenermi, nell’autunno del 1986 ho lasciato la Nigeria, se non con l’anima con il corpo. Ma non ho dimenticato l’attacco mosso contro il popolo nigeriano e, dopo il mio rientro, il desiderio di tornare a studiare la “transizione al capitalismo” non mi ha più abbandonata. Avevo letto gli eventi in Nigeria con le lenti dell’Europa del XVI secolo. Tornata negli Stati Uniti, è stato il proletariato nigeriano che mi ha riportato alle lotte per le terre comuni e contro il disciplinamento delle donne, dentro e fuori l’Europa. Dopo il mio ritorno ho iniziato anche a insegnare in un programma interdisciplinare per studenti universitari, dove ho dovuto affrontare un tipo diverso di enclosure: quella del sapere, la crescente perdita cioè, da parte delle nuove generazioni, del senso storico del nostro passato collettivo. Ecco perché nel Calibano e la strega ho ricostruito le lotte antifeudali del Medioevo e le lotte con cui il proletariato europeo ha resistito all’avvento del capitalismo. Il mio scopo non è stato solo quello di fornire ai non specialisti la documentazione su cui si basa la mia analisi; ho voluto anche far rivivere fra le giovani generazioni il ricordo di una lunga storia di resistenza che oggi corre il rischio di essere cancellata. Preservare la memoria storica è cruciale se dobbiamo trovare un’alternativa al capitalismo, perché ciò sarà possibile solo se saremo capaci di ascoltare le voci di coloro che hanno percorso lo stesso cammino.


Interviste a Silvia Federici

Il Laboratorio Sguardi sui Generis intervista Silvia Federici, in occasione della sua presenza in Val di Susa. L’intervista è in cinque parti visionabili su YouTube. Prima parte: autodeterminazione dei corpi, delle sessualità e delle scelte riproduttive. Seconda parte: i movimenti, i momenti di socialità e di riproduzione dei movimenti stessi. Terza parte: donne e movimenti. Quarta parte: Politica del Debito. Quinta parte: Femminicidio.

Gender Links recently interviewed Silvia Federici after the launch of her book, Revolution at Point Zero, Housework, Reproduction and Feminist Struggle (2012), inspired by Federici’s organisational work in the Wages for Housework movement. In this interview she provides insight into book and shares her views on women’s on going struggle as well as gender-based violence. In this extended version of the interview she also discusses the importance of the commons, social reproduction, the need for more co-operative forms of organisation, valorising domestic work and how inequality and injustice is fueled by neo-liberal capitalism.

 

 

]]>
Il prezzo del petrolio/4 https://www.carmillaonline.com/2014/11/14/prezzo-petrolio4/ Fri, 14 Nov 2014 00:00:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18720 di Alexik

2013 Dec - Odioama[A questo link il capitolo precedente.]

[Nei giorni scorsi un’orda razzista ha assaltato il centro di accoglienza di Tor Sapienza, che ospitava anche profughi nigeriani. Li  hanno accusati di portare il “degrado”. Nessuno degli artefici del pogrom si è mai chiesto quanto degrado si nasconda dentro un pieno di benzina.]

“Il petrolio è anche in profondità. Quando abbiamo provato a issare le reti il colore dell’acqua è diventato nero … e con le reti é salito anche l’odore del greggio … Quando ci siamo avviati con la barca era [...]]]> di Alexik

2013 Dec - Odioama[A questo link il capitolo precedente.]

[Nei giorni scorsi un’orda razzista ha assaltato il centro di accoglienza di Tor Sapienza, che ospitava anche profughi nigeriani. Li  hanno accusati di portare il “degrado”. Nessuno degli artefici del pogrom si è mai chiesto quanto degrado si nasconda dentro un pieno di benzina.]

“Il petrolio è anche in profondità. Quando abbiamo provato a issare le reti il colore dell’acqua è diventato nero … e con le reti é salito anche l’odore del greggio … Quando ci siamo avviati con la barca era come navigare nel petrolio… il greggio copriva tutto, a perdita d’occhio”1 (Sunday Ayoyo, Odioama, 8 dicembre 2013).

L’onda nera è arrivata dal mare. A Odioama (Nigeria/Bayelsa State), un villaggio Ijaw fra il fiume St. Nicolas e l’Oceano Atlantico, vivono prevalentemente di pesca… o almeno vivevano fino al novembre 2013, quando l’oceano si è tinto di nero. La marea velenosa fuoriuscita dagli impianti dell’Agip di Brass ha stroncato la loro fragile economia, che non si era ancora ripresa dal disastro di due anni prima, provocato dalla falla di un oleodotto della Shell.

Marzo 2014. Ikarama-Kalaba: perdita da un oleodotto dell'Agip nel Taylor Creek.

Marzo 2014. Ikarama-Kalaba: perdita da un oleodotto dell’Agip nel Taylor Creek.

Ma nello Stato del Bayelsa le comunità che hanno maggiormente “beneficiato” della modernità portata dall’Eni sono sicuramente Kalaba e Ikarama, dove gli spandimenti di greggio o semilavorati dalle condutture dell’Agip registrano una frequenza impressionante. Sul territorio di Kalaba passano le tubazioni che portano il greggio dal pozzo “Taylor Creek A” fino ad Oshie. L’oleodotto attraversa il fiume, passa fra le case, le strade, gli stagni, le fattorie.  “Abbiamo subito più di 30 spandimenti di petrolio da quando l’Agip ha installato i suoi oleodotti. Io conosco un solo caso in cui l’Agip abbia pagato i danni” (Roman Orukali, Kalaba, 2 luglio 2012)2.

Nelle cronache del Bayelsa ogni volta si ripete lo stesso scenario di distruzione e disperazione. Si ripete la rovina dei raccolti irrorati a petrolio, raccolti che erano costati così cari: tanti giorni di cammino per procurare le sementi, tanta terra da dissodare a mano sotto il sole, tanta fatica per sopravvivere annullata in un attimo, tanta angoscia per aver perso tutto. Viene distrutto il lavoro delle donne:

“Le nostre fattorie sono state inondate di petrolio o bruciate senza alcuna compensazione. Io stessa ho dovuto abbandonare la mia fattoria più grande, e conosco altre 12 donne della comunità che hanno dovuto fare lo stesso. Tutto questo ci ha scoraggiate a continuare a coltivare, e anche i nostri mariti non vanno più a pesca. Gli spandimenti di petrolio hanno reso inutilizzabili le nostri fonti di acqua pulita e gratuita, compreso il Taylor Creek, perché hanno inquinato in modo persistente ogni specchio d’acqua della comunità. Quest’anno abbiamo visto i pesci morti galleggiare sul fiume e sui nostri stagni” (Ovia Joe, Kalaba, gennaio 2012)3.

Aprile 2014. Kalama: falla in un oleodotto dell'Agip,

Aprile 2014. Kalaba: falla in un oleodotto dell’Agip,

Il rendimento della mia terra  è basso, pochi i prodotti per il mercato a causa degli spandimenti continui. Vivo nell’infelicità perché coltiverò la terra per mesi, fino a quando  uno spandimento di petrolio non distruggerà tutto ciò per cui ho lavorato, senza che il governo o la compagnia  facciano niente. A parte questo, non abbiamo nessun beneficio in termini di strade, infrastrutture, impiego. È la  quinta volta che una perdita di petrolio compromette i miei sforzi, senza alcun compenso o bonifica.  Al massimo arrivano e chiudono la falla scortati da militari armati pesantemente. Quest’ultimo incendio mi ha gettato nel panico, ho pensato solo a cercare i miei bambini. Non ho più denaro. Voglio che loro [l’Agip]  vengano a pulire, che impieghino i nostri giovani e insegnino alle donne altri mestieri, finché non potremo tornare a vivere di agricoltura. Non abbiamo ancora denunciato l’incidente a nessuna autorità, c’è una voce in giro che la compagnia si sta mobilitando per arresti di massa” (Tina Alibi, Kalaba, agosto 2012)4.

“Noi coltiviamo ogni anno questa terra, e andiamo a comprare le sementi di yam molto lontano da qui. Ma puoi vedere che con questo spandimento i miei sforzi e il mio lavoro sono stati vani Io non ho un altro lavoro, io dipendevo dall’agricoltura e dalla pesca per vivere5 (Mary Gold Nwanlia, Kalaba, settembre 2014).

Nelle cronache del Bayelsa, ogni volta si ripete lo stesso copione di incuria e disprezzo, perché le falle vengono lasciate aperte per giorni, o addirittura per settimane, ampliando il danno ecologico a dismisura prima che una squadra di manutenzione intervenga a chiuderle.

Luglio 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell'Agip.

Luglio 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell’Agip.

Secondo un testimone la perdita è iniziata il 7 febbraio, ma dopo quattro giorni era ancora lì. L’Agip ha mandato diversa gente a controllare, ma è venuta a guardare e poi se ne è andata, lasciando allargare la falla sotto la pressione del greggio6  (Kennet Ibinabo, Egbebiri, febbraio 2014).

Noi abbiamo chiamato l’Agip lo stesso giorno, il 27 maggio, ed informato la compagnia della falla nell’oleodotto. È stupefacente che, nonostante li avessimo avvertiti subito, non si siano mossi fino al 6 giugno7.  (Michael Joseph, Okpotuwari, giugno 2014)

Questa perdita è cominciata il mese scorso [agosto 2014] e noi abbiamo subito informato la compagnia. Ma non era così grave come è ora. Pensavamo che l’Agip si sarebbe mobilitata per venire a investigare e chiudere, ma non sono venuti fin ad ora” (Samuel Oburo, 15 settembre 2014)8.

Luglio 2014. Kalaba-Ikarama: perdita da un oleodotto dell'Agip.

Luglio 2014. Kalaba-Ikarama: perdita da un oleodotto dell’Agip.

Strane cose poi succedono ai verbali di ispezione: “La perdita dall’oleodotto dell’Agip è iniziata il 20 marzo e ha continuato a nebulizzare fino a quando la compagnia non è venuta a chiuderla il 5 aprile…. Loro hanno registrato sul verbale della JIV  che la perdita era iniziata il 3 aprile, per uno spandimento di cui li avevamo avvisati il 20 marzo. Nulla è stato fatto per pulire o evitare che il greggio continuasse a diffondersi. Così ha continuato a spargersi nel lago e deve aver ormai raggiunto Masi, il lago successivo. Ha inquinato oltre 100 stagni, distruggendo la vita acquatica. Se ti avvicini puoi vedere i pesci morti. Puoi vedere le trappole per i pesci, che hanno dato da mangiare alle famiglie, hanno permesso di mandare i loro figli a scuola e di costruire le loro case, ma tutti questi diritti vengono negati nel momento in cui il greggio si spande nel fiume9 (Joe Orukali, Kalaba, 23 giugno 2014).

A volte l’intervento delle squadre di manutenzione dell’Agip aumenta la gravità del disastro: “Ci hanno informati che c’era della gente in tuta da lavoro nella boscaglia, così siamo andati a controllare. Abbiamo visto un militare e 16 addetti della Nigerian Agip Oil Company con una saldatrice, un estintore e un po’ di detersivo, mentre cercavano di bloccare il punto di fuoriuscita. Durante la saldatura il fuoco è partito da una scintilla e ci ha circondati. Siamo scappati tutti in direzioni diverse, lasciando bruciare l’incendio senza nessun intervento di estinzione10 (Nature Nyekefamo, Kalaba, 15 agosto 2012). Da questa descrizione risulta evidente come la squadra dell’Agip non avesse nè le capacità né le attrezzature antincendio necessarie per quel tipo di intervento.

Settembre 2014. Kalaba: falla nelle condutture dell'Agip.

Settembre 2014. Kalaba: falla nelle condutture dell’Agip.

Né l’Agip, né lo Stato predispongono squadre addestrate ed equipaggiate per gli interventi di emergenza negli abitati vicini agli oleodotti. E’ la popolazione stessa che deve provvedere a mettersi in salvo. A Egbebiri (Bayelsa State), nel febbraio scorso, il greggio in forma gassosa fuoriuscito da un oleodotto dell’Agip ha reso l’aria velenosa ed esplosiva. Ad evacuare la zona ha dovuto pensarci il  caposquadra di un cantiere lì vicino: “Questa perdita ha reso insicura l’intera area. Il gas è velenoso, e non posso esporvi gli operai11.

In compenso, in mancanza di vigili del fuoco o addetti alle emergenze, lo Stato del Bayelsa ha inaugurato in maggio il corpo dei ‘Bayelsa Volunteers’, 1.100 “volontari” pagati (si … è un po’ una contraddizione in termini) per combattere il “crimine dei sabotaggi, dei furti di petrolio” e servire da  scorta armata degli addetti delle multinazionali12.

Benché si tratti di giovani del Bayelsa, la loro irruzione in comunità diverse da quelle di provenienza viene vissuta come un atto intimidatorio. A volte, in caso di incidenti agli oleodotti, i “Bayelsa Volunteers” rappresentano l’unica presenza istituzionale assieme ai soldati.

Settembre 2014. Kalaba: fuga di gas da condutture dell'Agip.

Settembre 2014. Kalaba: fuga di gas da condutture dell’Agip.

Sono arrivati di soppiatto il sei giugno per chiudere la falla. Si, di soppiatto, perché non hanno informato in nessun modo la comunità del loro arrivo… Sono arrivati con un soldato e con alcuni membri dei “Bayelsa Volunteer”. Non c’era nessun rappresentante del NOSDRA, o del ministero dell’ambiente o nessun altra delle parti interessate all’ispezione. Ho chiesto personalmente al caposquadra dell’Agip perché fossero venuti senza nessun rappresentante del governo. Si è messo a ridere, e mi ha detto che solo i “Bayelsa Volunteer” girano con l’Agip13 (Michael Joseph, Okpotuwari, giugno 2014). Nessuna ispezione pubblica, quindi, su questo incidente, che sarebbe rimasto sotto silenzio se la comunità non avesse avvertito gli attivisti dell’Environmental Rights Action (ERA).

Teoricamente ad ogni spandimento di petrolio dovrebbe seguire un processo di investigazione (JIV) alla presenza dei rappresentanti delle comunità colpite, dei funzionari della National Oil Spill Detection and Response Agency (NOSDRA), del Ministero dell’Ambiente e del Dipartimento delle risorse petrolifere. Risulta chiaro dalle testimonianze come le comunità siano escluse dalle ispezioni e le istituzioni assenti. In pratica la compagnia si ispeziona da sola, redige una sorta di  autocertificazione, cioè un verbale striminzito di un paio di pagine dove può dichiarare quello che le pare sulla data di inizio della perdita di greggio, sui volumi di inquinanti versati, sulle cause della rottura dell’oleodotto14. In questo modo non ha nessuna difficoltà a sottovalutare il danno arrecato e ad addebitare l’incidente ad un sabotaggio, piuttosto che alla corrosione degli oleodotti, alla scarsa manutenzione, ai guasti degli impianti.

Settembre 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell'Agip.

Settembre 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell’Agip.

Durante l’assemblea ordinaria del 2013, l’Eni ha affermato che “la Nigeria è il Paese con la più elevata incidenza di spill [spandimenti], causati per la quasi totalità da atti di sabotaggio e bunkering [furti di petrolio]”15.

Nel rapporto “Bad information. Oil spill investigations in the Niger Delta” Amnesty International commenta così queste affermazioni: “Nel 2012  si è raggiunta l’incredibile cifra di 474 spandimenti derivanti da operazioni dell’Agip, comparati con i 207 della Shell. L’Agip attribuisce la maggioranza degli spandimenti ai sabotaggi ma non fornisce assolutamente nessuna informazione a supporto. Comunque, un numero così alto di spandimenti, qualunque ne sia la causa, è indifendibile… Amnesty International ha chiesto all’Agip informazioni sull’età delle sue infrastrutture…. Dei 14 oleodotti menzionati, più della metà è stata costruita negli anni ’70, e quattro hanno 40 anni… Questo  rapporto … suggerisce che la compagnia non abbia il controllo delle operazioni nel Delta del Niger. Nessuna compagnia può difendere più di 400 fuoriuscite di petrolio all’anno dando la colpa a sabotaggi e furti16.

Settembre 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell'Agip.

Settembre 2014. Kalaba: perdita da un oleodotto dell’Agip.

Il “sabotaggio” è la formula magica per colpevolizzare le comunità colpite. Serve ad addossargli la responsabilità dell’incidente. È una sorta di criminalizzazione collettiva che prescinde completamente da una qualsiasi inchiesta seria finalizzata all’accertamento dei fatti. È una forma di intimidazione preventiva verso le popolazioni danneggiate. Della serie: “se tu mi accusi di averti creato un danno, io ti accuso di averlo provocato allo scopo di chiedermi il risarcimento”. Ovviamente, se la “colpa” dell’inquinamento è della comunità, non gli spetta nemmeno la bonifica.

“Una volta che attribuiscono la causa dello spandimento al sabotaggio, alla comunità non arriva nessun indennizzo” (Idoniboye Nwalia, Kalaba, febbraio 2013)17.

Qualche rara volta appellarsi al sabotaggio per l’Agip è stato palesemente impossibile, come nel caso della marea nera di Odioama.  Odioama ha ricevuto a titolo di risarcimento ben 24 milioni di naira18. Con la quotazione del naira a 0.0048 Euro la cifra stratosferica equivale a 115.200,00 Euro. Ma la maggior parte delle comunità rischia di aspettare per anni dei soldi che non arriveranno mai. Le tattiche di stallo dei legali delle compagnie petrolifere producono contenziosi lunghissimi, che si perdono facilmente nelle disfunzioni del sistema giuridico nigeriano19.

E dire che le modalità di gestione dei contenziosi sono migliorate rispetto a 15 anni fa. Nel 1999 le comunità del clan Ekebiri (Bayelsa State) chiesero all’Agip il risarcimento per i danni causati in trent’anni di spandimenti di petrolio. L’Agip rifiutò, e il 17 aprile di quell’anno le comunità risposero chiudendo per protesta due collettori. Il giorno dopo l’Agip si presentò con una scorta militare. I soldati aprirono il fuoco sui giovani disarmati e sui capi villaggio di Ekebiri. Spararono per 40 minuti uccidendo otto persone. Due capi villaggio vennero arrestati.20.

Oggi è più facile che le rivendicazioni e le proteste si arenino nelle aule di tribunale. Nel 2009 una ONG nigeriana portò in giudizio il governo e sei multinazionali del petrolio, fra cui l’Eni, per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento petrolifero del Delta. Per le compagnie la corte si dichiarò in difetto di giurisdizione, ma alla fine del 2012 il governo nigeriano venne condannato21. La sentenza non ebbe effetti pratici.

A quanto pare, vale anche in Nigeria quanto sostenuto di recente dal nostro premier  a sostegno dell’Eni: “Aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a uno scoop di mettere in crisi dei posti di lavoro o a un avviso di garanzia citofonato sui giornali di cambiare la politica aziendale di un Paese” (Matteo Renzi, Camera dei deputati, 15 settembre 2014)22. (Fine)

Nota: nella foto di apertura un pesce morto durante la marea nera a Odioama, novembre 2013. Tutte le foto sono tratte dai rapporti dell'Environmental Rights Action.

  1. ERA, Field report n. 346: Agip spill from Brass terminal spreads to Odioama and environs, 8 dicembre 2013. 

  2. ERA, Field Report #304: Fresh oil spills along Agip pipeline pollute Kalaba environment, 2 luglio 2012. 

  3. ERA, Field Report #304: Fresh oil spills along Agip pipeline pollute Kalaba environment, 2 luglio 2012. 

  4. Era, Field Report 314: Poor clamping methods ignites inferno in Kalaba community, 15 agosto 2012. 

  5. ERA, Field Report #285: Fresh Spill from Agip Facility ruins Ponds, Farmlands in Kalaba community, 16 gennaio 2012. 

  6. Kennet Ibinabo, Leaking Agip’s oil well sacks Bayelsa community, 11.Feb 2014 

  7. ERA, Field Report 358: Attempt to siphon crude oil from Agip pipeline causes spill in Okpotuwari, 24 giugno 2014. 

  8. Oil Spill: Kalaba C’ty Sends SOS To Agip, Federal, Bayelsa Oil Spill: Kalaba C’ty Sends SOS To Agip, FederalGovts To Help Plug Leakage, 15 settembre 2014. 

  9. ERA, Field report #357: Agip falsifies date of spill, abandons site for 66 days, 23 giugno 2014 

  10. Era, Field Report 314: Poor clamping methods ignites inferno in Kalaba community, 15 agosto 2012. 

  11. Kennet Ibinabo, Leaking Agip’s oil well sacks Bayelsa community, 11.Feb 2014 

  12. Bayelsa recruits over 1000 youths into state volunteers; to complement security agencies in curbing crime, oil theft, security breaches in communitiesBayelsa New Media Team, 28 aprile 2014. Igoniko Oduma, Dickson inaugurates 1,100 youths as ‘Bayelsa Volunteers, Daily Indipendent, maggio 2014. 

  13. ERA, Field Report 358: Attempt to siphon crude oil from Agip pipeline causes spill in Okpotuwari, 24 giugno 2014. 

  14. Sui verbali redatti dall’Agip: Amnesty International, Bad information. Oil spill investigations in the Niger Delta, 2013, pp. 33/35 e p. 70. 

  15. Assemblea Ordinaria di Eni SpA, 10 maggio 2013. Risposte a domande pervenute prima dell’Assemblea ai sensi dell’art. 127-ter del d.lgs. n. 58/1998

  16. Amnesty International, Bad information. Oil spill investigations in the Niger Delta, 2013, p. 6, 58 e 65. 

  17. ERA, Field Report329: Multiple points spew crude oil along Agip Pipeline in Kalaba, 28 febbraio 2013. 

  18. ERA, Field report #366 :Minister’s Unannounced visit to Agip Base in Bayelsa a Mere Publicity Stunt, 29 ottobre 2014

  19. Stakeholder Democracy Network, Towards a new oil spill compensation mechanism for Nigeria,  14 ottobre 2014. 

  20. Cyril I. Obi, The changing forms of identity politics in Nigeria under economic adjustment. The case of the oil minorities movement of the Niger Delta, Nordiska Afrikainstitutet, Research report n. 19, 2001, pp. 84/85. 

  21. Court of Justice of The Economic Community of West African States, judgment n° ECW/CCJ/JUD/18/12, 14 dicembre 2012. 

  22. Mario Portanova, Corruzione, Renzi alla Camera attacca i pm su Eni: “Avviso di garanzia citofonato”, Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2014. 

]]>
Il prezzo del petrolio/3 https://www.carmillaonline.com/2014/10/22/prezzo-petrolio3/ Tue, 21 Oct 2014 22:30:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18188 di Alexik

Okpai. Abitazioni vicino alla IPP. Foto: Luca Tommasini 2011.[A questo link il capitolo precedente.]

Kwale e Okpai (Nigeria/Delta State) sono comunità Ndokwa al centro della concessione Eni OML 60. Sui loro territori gravitano una grande stazione di flusso ed una centrale a gas per la produzione di energia elettrica, l’Independent Power Plant (IPP).

Per questi impianti l’Agip si era impegnata con un memorandum del 2000 ad attuare azioni compensatorie verso le comunità ospitanti. Undici anni dopo lo stato di attuazione [...]]]> di Alexik

Okpai. Abitazioni vicino alla IPP. Foto: Luca Tommasini 2011.[A questo link il capitolo precedente.]

Kwale e Okpai (Nigeria/Delta State) sono comunità Ndokwa al centro della concessione Eni OML 60. Sui loro territori gravitano una grande stazione di flusso ed una centrale a gas per la produzione di energia elettrica, l’Independent Power Plant (IPP).

Per questi impianti l’Agip si era impegnata con un memorandum del 2000 ad attuare azioni compensatorie verso le comunità ospitanti. Undici anni dopo lo stato di attuazione dell’accordo era il seguente: “Si sono impegnati ad assumere personale delle comunità, però hanno messo sotto contratto solo due persone. Si sono impegnati a pagare un affitto per la terra occupata, ma dal 1987 ad oggi non abbiamo visto un soldo”1.

L’affidabilità dell’Agip è diventata ormai proverbiale in tutta la nazione Ndokwa, così come la sua promessa di illuminare con l’energia elettrica prodotta ad Okpai le comunità residenti nel raggio di 50 chilometri. Al completamento dell’impianto IPP, dei 480 megawatt prodotti 450 presero la strada delle regioni dell’est, 30 vennero utilizzati dall’Eni stessa, mentre le comunità attorno alla centrale continuarono a rimanere al buio2. Beh, in realtà non proprio al buio … visto che l’Agip provvede ad illuminare Kwale 24 ore su 24 con le torce del gas flaring.

I resti del centro medico di Okpai

I resti del centro medico di Okpai. Foto: Luca Tommasini, 2011.

Oltre alla luce, non si può poi dire che l’Agip faccia mancare l’acqua. Per la costruzione della centrale di Okpai vennero prelevate dal letto del Niger grandi quantità di sabbia, e a questi scavi gli abitanti imputano il cedimento delle sponde. Una volta franato l’argine, la piazza del mercato e le case intorno sono state inghiottite dal fiume, il centro medico distrutto3.

Ma a dispetto di questi dettagli, l’IPP di Okpai rimane il fiore all’occhiello delle politiche verdi dell’Eni in Nigeria. L’impianto ha ricevuto dalla United Nations Framework Convention on Climate Change  lo status di “progetto qualificato a generare crediti di carbonio”, come previsto dal Protocollo di Kyoto. In pratica l’Agip viene premiata con “certificati verdi” (CER), perché utilizza nell’IPP una parte del gas prodotto dalle sue perforazioni petrolifere invece di convogliarlo verso le torce del gas flaring4.
A nulla vale obiettare che il gas in torcia non dovrebbe proprio finirci, perché il gas flaring è formalmente vietato dalla legge nigeriana: l’ Associated Gas Reinjection Act del 1979 aveva fissato infatti al 1° gennaio 1984 il limite ultimo per porre fine a tale pratica. Il validatore del progetto ha già risposto che è vero, la legge c’è, ma visto che tutti se ne fottono è come se non ci fosse5. Pertanto l’Agip va premiata, anche se continua a produrre milioni di tonnellate di CO2 convogliando in torcia il gas a Kwale, Ogbainbiri, Akri, Obama, Ebocha, Oshie6, alla faccia di Kyoto e di tutto il Protocollo.

Del resto anche lo Stato nigeriano, che in teoria dovrebbe essere il garante delle sue stesse leggi, guadagna bei soldi dal gas flaring intascandone le penali. Nel 2012 l’Agip ha pagato penali per circa 682.000 $, di cui nulla è arrivato alle comunità colpite7.

L’Independent Power Plant di Okpai doveva servire anche a spegnere le torce della vicina Kwale. Lo sosteneva anche l’ex A.D. Paolo Scaroni all’assemblea generale dell’Eni del maggio 2011:  “A Kwale sono installate 6 torce di gas flaring, ma dal 2005, quando fu commissionato l’impianto di Okpai, il gas flaring è stato sensibilmente ridotto. Lo “Zero gas flaring” alla stazione di flusso di Kwale è pianificato per giugno 2011”.

Gas flaring a Kwale. Foto: Luca Tommasini 2011.

Gas flaring a Kwale. Foto: Luca Tommasini 2011.

Lo “zero gas flaring” di Kwale possiamo verificarlo anche noi nella foto accanto, scattata nel settembre 2011. L’autore, Luca Tommasini, accompagnava una delegazione di ONG. Questo è il loro report: “Quello che rimane evidente è il chiarore delle enormi fiamme del gas che l’Agip continua a bruciare a cielo aperto nel centro di raccolta e processamento di Kwale. Fiamme alte decine di metri e che, come le altre di Ebocha, fanno un rumore assordante8.  “Gli abitanti di Kwale e Okpai testimoniano che la costruzione dell’IPP non ha ridotto il flaring, che continua 24 ore al giorno, e loro continuano a soffrire dello stesso impatto di prima. La mancanza di controlli ambientali e cure mediche lascia le comunità prive di assistenza istituzionale… la maggior parte delle malattie non sono registrate ufficialmente. I tetti delle case di Okpai e del piccolo insediamento vicino all’IPP sono corrosi dalle piogge acide, che sono cadute continuamente negli ultimi anni”9.

Ormai l’annuncio della fine del gas flaring a Kwale è diventato una sorta di tradizione che si ripete anno dopo anno ad ogni nuova assemblea dell’ Eni. L’unica cosa che cambia è la data, ogni volta spostata in avanti. Attualmente l’ultima promessa è quella di “azzerare entro il 2017 i volumi di gas connessi all’estrazione del greggio e bruciati in torcia” in tutta la Nigeria10. Solo 33 anni in ritardo rispetto ai termini previsti dalla legge nigeriana, e senza nessun cenno alle bonifiche dei territori devastati, ai risarcimenti per le popolazioni colpite, alle cure per chi di questa devastazione muore.

Ma sarebbe ingeneroso ridurre l’attività nigeriana dell’Eni agli inquinanti delle torce, alla carta straccia degli accordi o alla corruzione di politici e militari. Ci sono settori in cui la nostra industria petrolifera si dimostra all’avanguardia, superando di gran lunga i risultati della più agguerrita concorrenza. Per esempio, nonostante l’Agip in Nigeria operi in un territorio molto più ristretto di quello della Shell, gli spandimenti di petrolio dai suoi oleodotti sono praticamente il doppio.

Tabella

E’ successo lunedì … ero andata a controllare le trappole per i pesci.  Tutti nella comunità sanno che è la mia principale fonte di sopravvivenza, perché non ho figli che si prendano cura di me. Quando ho raggiunto l’area attorno all’oleodotto ho sentito come un rumore nell’acqua. Mi sono avvicinata con la canoa e ho visto il petrolio greggio che ribolliva, spandendosi lungo la corrente. Quando mi sono avvicinata alle trappole,  l’intera zona, dove io ed altre donne della comunità andiamo a pescare, era ricoperta di petrolio”.

Settembre 2013: perdita da un oleodotto dell'Agip nel fiume Ikebiri .

Settembre 2013: perdita da un oleodotto dell’Agip nel fiume Ikebiri .

La testimonianza è di Oron Peter, un’anziana della comunità Ijaw di Ikeinghenbiri (Bayelsa state). Non è la prima volta che succede. L’Agip costruì l’oleodotto che passa sotto il fiume Ikebiri nel 1993, e in seguito vi innestò una seconda linea. “C’è già stata una perdita, in passato, nella congiunzione fra le due linee, causata da un errore di una squadra di lavoro. – dice Marshal Amabebe Josiah, presidente del Ikeinghenbiri Community Development Committee – La nostra comunità ha chiesto più volte all’Agip un risarcimento danni, ma la compagnia non ha voluto sentire ragioni. Poi c’è stata un’altra perdita che l’Agip non ha potuto negare. Ci ha dato dei  materiali di soccorso, ma fino ad oggi si è rifiutata di pagare i danni alla comunità e ai singoli. Piuttosto ci ha portati in tribunale.11.

A Emago (Rivers State) il 22 gennaio 2011 dopo la falla nell’oleodotto è divampato l’incendio. L’Agip riuscì a spegnere le fiamme dopo cinque giorni, ma non completamente. Le colonne di fumo continuarono ad alzarsi per diverso tempo. Fuoco e petrolio hanno distrutto campi, fattorie, boscaglia, ma soprattutto hanno contaminato il fiume, l’unica fonte d’acqua.

Puoi vedere quanto casa mia sia vicina al fiume inquinato. E noi viviamo lì con i bambini, davanti a quel veleno giorno dopo giorno. Non è facile, soprattutto se non hai possibilità alternative per vivere, usare l’acqua, respirare. Non è la prima volta che sperimentiamo l’inquinamento petrolifero nel fiume, ormai sarà la decima volta. La compagnia coinvolta non è mai è venuta a ripulire”.

Febbraio 2011 - Perdita da impianto Agip ad Emago.

Febbraio 2011 – Perdita da oleodotto Agip ad Emago.

L’anno scorso ci sono state diverse perdite di petrolio nel nostro territorio. I nostri mezzi di sopravvivenza sono stati seriamente colpiti … Nei fatti, stiamo morendo. L’anno scorso abbiamo perso dei bambini in questa comunità, come risultato dell’inquinamento della nostra unica fonte d’acqua. Sono morti molti bambini con gli stessi sintomi: problemi gastrici”.

“Uno degli aspetti più fastidiosi è la modalità di risposta dell’Agip. La compagnia ispezionerà il luogo con uomini in uniforme militare o con giovani armati, chiuderà la falla e scomparirà fino a quando un’altra perdita non ripeterà il rituale. Non inviteranno mai la nostra gente a presenziare alle ispezioni per accertare le cause dello spandimento, né ritorneranno per bonificare l’ambiente”.12.

Gli stessi scenari, le stesse situazioni si ripetono di continuo nel Delta del Niger, costringendo la vita quotidiana ad adattarsi al disastro ambientale permanente. (Continua)

Nota: La foto di apertura è di Luca Tommasini: abitazione nei pressi della centrale IPP di Kwale- Okpai.

  1. Dichiarazione di Francis Obegbo, in:  Luca Manes, Elena Gerebizza, Il Delta dei veleni. Gli impatti delle attività dell’Eni e delle altre multinazionali del petrolio in Nigeria, Allegato al numero 133 di Altreconomia, dicembre 2011, p. 14. 

  2. Eni SpA, Assemblea degli azionisti Eni –  Domande dell’azionista Osayande Omokaro, Environmental Rights Action Nigeria, 5 maggio 2011. Eni SpA, Assemblea Ordinaria. Risposte a domande pervenute prima dell’Assemblea ai sensi dell’art. 127-ter del d.lgs. n. 58/19981. Domande pervenute dall’azionista Fondazione Culturale Responsabilità Etica (titolare di 80 azioni), 10 maggio 2013 

  3. Luca Manes, Elena Gerebizza, Op. cit., p. 16. 

  4. UNFCCC, CDM – Executive Board, Project design document form. Recovery of associated gas that would otherwise be flared at Kwale oil-gas processing plant, Nigeria, luglio 2004, p. 62. 

  5. Det Norske Veritas, Validation report. Recovery of associated gas that would otherwise be flared at Kwale oil-gas processing plant, Nigeria, Report no. 2006-0813, p. 6. 

  6. L’elenco delle località con torce attive è tratto da: Eni SpA, Assemblea Ordinaria. Risposte a domande pervenute prima dell’Assemblea ai sensi dell’art. 127-ter del d.lgs. n. 58/19981. Domande pervenute dall’azionista Fondazione Culturale Responsabilità Etica (titolare di 80 azioni), 10 maggio 2013, p. 19. 

  7. Idem. 

  8. Luca Manes, Elena Gerebizza, Op.cit. p. 14. 

  9. CEE Bankwatch Network, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Environmental Rights Action, Les Amis de la Terre, The Corner House, The reality behind EU “energy security”. The case of Nigeria, novembre 2011, p.8 

  10. Celestina Dominelli, L’ Eni porta a zero il “gas flaring”, Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2013. 

  11. Environmental Rights Action, Field report n. 342, 18 settembre 2013 

  12. Le testimonianze di Fubi Robin, J.O. Walters-Imodo, Adiembo Nwadighi Maestepen, sono tratte da: Environmental Rights Action, , Field report n. 259, 8 aprile 2011; Environmental Rights Action, Field report n. 255, 4 febbraio 2011 

]]>
Il prezzo del petrolio/2 https://www.carmillaonline.com/2014/10/07/prezzo-petrolio2/ Mon, 06 Oct 2014 22:16:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17822 di Alexik

A bird flies near the roaring column of flame.[A questo link il capitolo precedente.]

“L’aria è calda e secca, prende alla gola. Le fiamme bruciano giorno e notte, lasciano cicatrici sulla terra e sulla mia pelle. Vesciche secche mi ricordano che avrei dovuto mantenere le distanze. Mentre continua a bruciare attraverso un’altra alba, mi chiedo, quante altre saranno sfigurate prima che il fuoco si sazi. (G. Gilliam, Oshie flare)

“Le torce del gas flaring sono ovunque nella regione del delta del Niger, ma poche sono drammatiche [...]]]> di Alexik

A bird flies near the roaring column of flame.[A questo link il capitolo precedente.]

“L’aria è calda e secca, prende alla gola. Le fiamme bruciano giorno e notte, lasciano cicatrici sulla terra e sulla mia pelle. Vesciche secche mi ricordano che avrei dovuto mantenere le distanze. Mentre continua a bruciare attraverso un’altra alba, mi chiedo, quante altre saranno sfigurate prima che il fuoco si sazi. (G. Gilliam, Oshie flare)

“Le torce del gas flaring sono ovunque nella regione del delta del Niger, ma poche sono drammatiche come l’Oshie flare, di proprietà della compagnia petrolifera italiana Agip”. (C.Hondros, The price of oil)

Quando l’Agip arrivò ad Akaraolu (Nigeria/Rivers State) nel 1972, gli abitanti danzarono in suo onore. La compagnia petrolifera avrebbe costruito una nuova stazione di flusso, e soprattutto la strada di accesso all’impianto: un miglioramento notevole per i trasporti e i commerci con i paesi vicini. Ma nessuno degli emissari dell’Agip diede al Consiglio degli Anziani una definizione chiara di “gas flare”, o li mise in guardia sui potenziali effetti sul villaggio.

Nessuno gli disse che “gas flare” significa bruciare in atmosfera il gas prodotto dalle perforazioni petrolifere, quando l’investimento per convogliarlo, liquefarlo o ripomparlo nel sottosuolo viene ritenuto troppo oneroso.

Akaraolu. Foto: Chris Hondros 2003.

Akaraolu. Foto: Chris Hondros 2003.

Nessuno gli disse che non avrebbero più visto il buio, che non avrebbero più dormito, che avrebbero dovuto gridare per parlarsi, che l’aria sarebbe diventata rovente. Nessuno gli disse che gli sbalzi di pressione del flusso del gas che alimenta la fiamma fanno tremare la terra e crepare i muri delle case.

Da quando è stata eretta l’Oshie flare, una torcia alta 300 piedi, i 2.000 abitanti di Akaraolu non hanno più conosciuto la notte: quando il sole tramonta, ci pensa l’Oshie flare a soppiantarne la luce col suo bagliore, ad offuscare le stelle.

Greg Campbell, giornalista freelance, descriveva così la situazione nel 2001:  “Le temperature possono superare le massime giornaliere da 10 a 30 gradi, e diventano mortali se ci si avvicina troppo alla fiamma. …..Nel raggio di 200 yarde le palme sono marroni e fragili, e l’acqua è troppo calda per la vita dei pesciGli abitanti dicono che il calore e il rumore allontanano la fauna selvatica …. e che anche i suoli sono danneggiati, e producono ogni anno raccolti di cassava e patate sempre più magri. Le donne abortiscono con maggior frequenza per lo stress e il calore … e gli uomini pisciano sangue, una patologia non diagnosticata che gli abitanti attribuiscono alla fiamma … L’inquinamento corrode i tetti di zinco. Molti edifici, inclusa la scuola, hanno buchi rugginosi spalancati sui tetti, che trasformano le stanze in docce durante i sei mesi della stagione delle piogge. Ironicamente, la torcia brucia energia in atmosfera davanti ad un villaggio che non ha la corrente elettrica… C’è un solo generatore ad Akaraoulo, e funziona quando c’è la benzina per alimentarlo1.

Dagogo Joel. Foto: Chris Hondros 2003.

Dagogo Joel. Foto: Chris Hondros 2003.

Prima di andare a morire in Libia anche Chris Hondros, fotoreporter di guerra, documentò gli “effetti collaterali” dell’Oshie flare: “Il braccio di Dagogo Joel venne bruciato dall’Oshie flare quando era bambino. La torcia, adiacente ad Akaraolu, il villaggio di Joel, ogni tanto vomita liquidi in fiamme nelle campagne, e così ha bruciato il braccio di Joel che stava pescando con suo padre”.

“Il paese è schiacciato da una completa povertà, nonostante i milioni di dollari del petrolio che sgorga dalla sua terra ogni anno2.

Alla fine degli anni ’90, dopo aver richiesto invano l’attenzione dell’Agip e del governo, gli abitanti di Akaraolu hanno provato a ribellarsi occupando la strada che porta all’impianto. L’attenzione in questo caso è arrivata in fretta, sui blindati dei reparti antisommossa. Gli uomini di Akaraolu sono rimasti in galera per mesi. Ora, nelle interviste raccolte da  Patrick Naagbanton per Sahara Reporters, sembra prevalere la rassegnazione:

Nel corso degli anni Eunice ha guidato diverse proteste pacifiche contro la compagnia petrolifera italiana. Le proteste volevano costringere l’azienda a fornire loro l’acqua, un centro medico e altre infrastrutture di base. Ha detto che si era stancato di lottare perché non hanno ottenuto nulla dalla società o dal governo…  Segni di frustrazione e rabbia erano molto visibili sul suo volto”.

Il reportage di  Naagbanton del settembre 2013 continua descrivendo le condizioni di degrado, inquinamento, militarizzazione:

Akaraolu. Foto: Chris Hondros, 2003.

Akaraolu. Foto: Chris Hondros, 2003.

La strada stava cadendo a pezzi, rendendo così il tragitto poco confortevole. Avevamo percorso circa due chilometri, quando un enorme camion militare ha accelerato verso di noi in senso opposto. L’uomo in moto era spaventato… mi ha consigliato di non parlare con loro perché così non ci avrebbero uccisi… Stavano tornando dalla stazione di flusso Agip di Akala-Olu alla loro base per farsi sostituire da un’altra squadra

Ad un chilometro dalla comunità i cartelli “Restricted Area. Vehicles not allowed” sono dappertutto, fra la strada ed i terreni fertili. E’ pieno di condutture disseminate tutt’intorno. Due grossi tubi, uno dei quali vomita costantemente nuvole di fumo nero, mi hanno portato al villaggio di Akala-Olu

La notte di Akala-Olu cade dall’atmosfera come una piaga. I tre pesanti generatori utilizzati per la produzione di petrolio, la turbina e la fiamma selvaggia provocano un inquinamento acustico shoccante e rilasciano un calore senza precedenti”.3

La stessa situazione viene descritta da un abitante ad Al Jazeera: “Quando piove beviamo gas, e la comunità di Akaraolu vive sotto il fuoco. Il mondo intero deve sapere che la comunità di Akaraolu sta vivendo nel fuoco, sta vivendo in servitù per colpa dell’Agip4.

Torce dell'Agip a Ebocha. Foto: Luca Tommasini, 2011.

Torce dell’Agip a Ebocha.
Foto: Luca Tommasini, 2011.

A Ebocha, un paese di agricoltori e pescatori in territorio Ogba, nella regione del Rivers State, l’Agip cominciò ad estrarre petrolio nel 1970. Quarant’anni dopo queste sono le testimonianze degli abitanti:

“Prima vivevamo in un paradiso che ci forniva tutto quello di cui avevamo bisogno, adesso le cose continuano a peggiorare, l’ambiente si deteriora e la povertà è in aumento”.

Ora nemmeno con tre o quattro semine riusciamo a far fronte ai nostri bisogni. Basta vedere che prima per raccogliere la cassava dovevi tagliarla, ora le radici sono così piccole e avvizzite che si può prendere con le mani senza fare il minimo sforzo5.

La maggior parte di questi oleodotti – dice Dandy Mgbenwa, del Community Development Committee – è qui da più di 30 anni, per questo necessita di urgenti riparazioni perché le perdite sono dappertutto. Ci sono più di 100 falle fra Ebocha e l’Orashi River. In cento metri puoi contare sei perdite, che hanno causato l’ultimo incendio. L’incendio è il risultato della perdita dall’oleodotto che va dal campo petrolifero di Obiafu all’impianto di Obi-obi, una perdita che è rimasta lì per un sacco di tempo, molto vicina alla strada usata dalle donne per andare nei campi e al mercato. Uno dei veicoli che trasportano le donne, passando sul petrolio è uscito di strada. L’autista é morto e i passeggeri sono rimasti feriti. L’Agip deve sostituire subito queste tubazioni”6.

Ebocha gas flare. Foto: George Osodi 2007.

Ebocha gas flare. Foto: George Osodi 2007.

All’ingresso del paese, le torri dell’Agip bruciano, da più di 40 anni e per 24 ore al giorno, il gas di scarto dell’estrazione del greggio. Come ad Akaraolu, avvicinandosi alle torce il calore e il rumore si fanno insopportabili. Il rumore impedisce il sonno, e il fetore di idrocarburi prende allo stomaco.

La gente che abita in quell’area, quando viene qui, dice di avere un bruciore interno … e che non dorme per il rumore…. Dicono ogni volta che è come se la casa dovesse esplodere”, racconta Anthonia Chioma, dell’ Ebocha-Egbema’s General Hospital. “Puoi sentire il rumore da qui … è come qualcosa che sta cadendo dall’alto7.

Il gas flaring produce tonnellate di CO2, monossido di carbonio e metano, provoca la ricaduta sul villaggio di particolato tossico: composti organici volatili, biossido di zolfo, anidride solforosa, metalli pesanti, benzene, toluene, xylene, idrocarburi policiclici aromatici, nero fumo. La Canadian Public Health Association ha inventariato 250 tossine prodotte dal gas flaring, praticamente l’intero repertorio delle nocività: cancerogeni, mutageni, teratogeni, tossici per il sistema nervoso, per il cuore e per i filtri del corpo8. La pioggia di Ebocha li raccoglie e diventa corrosiva. Rovina tutto, acidifica e inaridisce i suoli9, distrugge i tetti di lamiera, figuriamoci i polmoni e la pelle degli umani.  Gli effetti hanno un ampio raggio e arrivano anche nelle comunità vicine di Mgbede, Okwizi, Agah, Ekpeaga.

I suoli di Ebocha sono intrisi di metalli pesanti: nichel, vanadio, cadmio, rame e piombo che bioaccumulano negli organismi di piante e animali entrando nella catena alimentare10. Anche l’acqua è inquinata, la pesca è diventata impossibile. Una ricerca pubblicata lo scorso giugno rileva nelle acque del fiume Ebocha una concentrazione di nichel superiore ai limiti FEPA per l’acqua potabile, e notevoli livelli di idrocarburi policiclici aromatici (12,4 μg/l, cioè 124 volte superiore al valore di parametro UE per l’acqua potabile), con prevalenza di benzo (b) fluorantene e benzo (1,2,3-cd) pirene11.

Ebocha. Selina Eta e la piccola Justice all'età di 14 mesi.  Justice ha sofferto dalla nascita di crisi respiratorie. Foto: Edmund Sanders, 2007.

Ebocha. Selina Eta e la piccola Justice all’età di 14 mesi. Justice ha sofferto dalla nascita di crisi respiratorie.
Foto: Edmund Sanders, 2007.

A Ebocha il dottor Elekwachi Okeyla addebita al gas flaring la dimensione epidemica delle affezioni respiratorie (bronchite e l’asma) e oftalmiche12, così come Elder Dandy, coordinatore dell’Host Community Network: “Ieri abbiamo tenuto due funerali di persone decedute in maniera prematura, d’altronde le malattie della pelle e quelle respiratorie, nonché le morti dei neonati dopo il parto, sono ormai una costante13. “Da quando è iniziato il gas flaring – dice Tom Chukwudi, segretario dell’ Ebocha Council of Chiefs – ha cominciato a causare molte deformità14.

La vicinanza alle torce provoca l’aumento delle temperature corporea, disidratazione, ipertensione, affezioni renali, disturbi del ciclo sonno/veglia, alterazioni del metabolismo dei lipidi15.

Quanto agli effetti cancerogeni, i dati raccolti dal reparto oncologico di Port Harcourt, riferiti a comunità del Delta esposte alle stesse nocività di Ebocha, chiamano in causa direttamente la Shell e l’Agip per l’eccesso di tumori all’apparato riproduttivo (maschile e femminile), al fegato e all’apparato gastrointestinale16.

Ovviamente tutto questo all’Eni non risulta. Rispondendo alla denuncia di Amnesty International sulla situazione a Ebocha, la compagnia sostiene che “al momento non abbiamo nessuna evidenza in merito ai problemi di salute causati dal gas flaring. Questa è la prima lamentela che riceviamo, e non ne abbiamo mai ricevute da altre comunità che vivono vicino al gas flaring”. E ancora: “Le lamentele riguardo agli impatti negativi sulla salute non sono supportate da nessuna statistica medica17. Forse perché su Ebocha non esistono statistiche mediche, o perchè la maggior parte dei malati sfugge ad ogni possibile rilevazione, visto che non ha i mezzi per curarsi e non accede ai servizi sanitari. A Ebocha molte famiglie vivono con meno di 100 naira (0,50 euro) al giorno, in un territorio dove l’Eni estrae ogni giorno  50mila barili di petrolio.

Comunque, dal tenore della risposta. sorge il dubbio che l’Eni non legga neanche i propri documenti interni, che parlano di “effetti del gas flaring a lungo termine e irreversibili”, e di un impatto significativo di tale pratica a livello di inquinamento atmosferico, acustico e termico18. Evidentemente è un po’ distratta. Del resto non le risulta neanche che il gas flaring ad Ebocha continui ad esistere.

Durante l’assemblea del 5 maggio 2010, i vertici del gruppo assicuravano agli azionisti di aver completato con successo il progetto “Gas Ebocha Early Recovery” per per il recupero e la compressione del gas19. La stessa versione è leggibile nel pamphlet propagandistico ENI for 2012, dove si attribuisce particolare rilievo al “progetto di “Ebocha gas Recovery” che ha comportato il flaring down della stazione nel 2010”.

Torce dell'Agip a Ebocha. Foto: Luca Tommasini 2011.

Torce dell’Agip a Ebocha. Foto: Luca Tommasini 2011.

Peccato che gli abitanti di Ebocha non se ne siano accorti. Non se ne è accorto il fotografo Luca Tommasini, che nel settembre 2011 ha filmato le torce mentre continuavano a bruciare allegramente (guarda il suo documentario “Oil for nothingqui), e nemmeno i ricercatori dei dipartimenti di chimica delle Università di Lagos e Kwararafa, che nel 2014 hanno misurato ad Ebocha gli effetti del gas flaring sul PH della pioggia. Lo studio ha rilevato come “i campioni raccolti in luoghi e tempi differenti mostrino un significativo livello di acidità che causa danni alle proprietà e alle colture”, acidificando i suoli e abbattendone la flora batterica20. Intervistati nel corso della stessa indagine, gli abitanti di Ebocha continuano caparbiamente ad affermare che “il gas flaring gli sta rovinando la vita e togliendo i mezzi di sussistenza”. (Continua)

Nota: La foto di apertura è di Chris Hondros: A bird flies near the roaring column of flame.


  1. Greg Campbell, That giant, roaring, gas torch next door,The Christian Science Monitor, 1 maggio 2011; Greg Campbell, The Price of a Barrel of Oil, The Earth Times 14 maggio 2001;  Greg Campbell,  No amount of crying extinguishes a single flare in Niger Delta, Africaservice, 8 giugno 2001 

  2. C.Hondros, The price of oil 

  3. Patrick Naagbanton, A Night in Akala-Olu Fire, Part 2, Part. 3, Sahara Reporters, 16 e 17 settembre 2013. 

  4. Nigeria’s gas flaring: complaints of pollution and illness,Al Jazeera English, 4 luglio 2010. 

  5. Luca Manes, Elena Gerebizza, Il Delta dei veleni. Gli impatti delle attività dell’Eni e delle altre multinazionali del petrolio in Nigeria, Allegato al numero 133 di Altreconomia, dicembre 2011, p. 32. Le testimonianze riportate sono frutto della missione sul campo realizzata nel settembre 2011 dalla Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, da The Corner House, e da CEE Bankwatch Network, con l’aiuto del Environmental Rights Action. 

  6. Environmental Rights Action, Field Report #243 : Agip pipeline leaks gas in Ebocha Community22 ottobre 2010 

  7. Ofeiba Quist-Arcton, Gas Flaring Disrupts Life in Oil-Producing Niger Delta, National Public Radio, 24 luglio 2007. 

  8. Canadian Public Health Association, CPHA resolution n. 3 2000: Gas flaring

  9. Nwaogu, L.A., G.O.C. Onyeze, Environmental Impact of Gas Flaring on Ebocha-Egbema, Niger Delta, Nigeria Journal of Biochemistry and Molecular Biology, 25(1), pp. 25/30. 

  10. Osuji, L. C., and C. M. Onojake, Trace heavy metals associated with crude oil: A case study of Ebocha-8 oil-spill-polluted site in Niger Delta, Nigeria, Chemistry & Biodiversity. 

  11. Ujowundu, C. O., Ajoku C.O. Nwaogu L. A., Belonwu, D. C., and Igwe K.O., Toxicological Impacts of Gas flaring and Other Petroleum Production Activities in Niger-Delta Environment, Journal of Advances in Chemistry, Vol. 10, n. 2, giugno 2014, pp. 2297/2304 

  12. Charles Piller, Edmund Sanders , Robyn Dixon, Gates Foundation money works at cross purposes, Los Angeles Times, 7 gennaio 2007.  

  13. Luca Manes, Elena Gerebizza, op. cit. p. 10 

  14. Ben Ezeamalu, Decades of gas flaring is harming Nigerians, Premium Times, 17 maggio 2014. 

  15. S. Iwuji, J.N. Egwurugwu, Nwafor A., Effects of prolonged exposure to gas flares on the lipid profile of humans in the Niger Delta region, Nigeria, 2013. Egwurugwu, Jude Nnabuife, Nwafor Arthur,  Prolonged exposure to oil and gas flares ups the risks for hypertension,  American Journal of Health Research, 2013; 1(3): 65-72. 

  16. R. N. P. Nwankwoala and O. A. Georgewill, Analysis of the occurrence of cancer and other tumors in Rivers and Bayelsa States, Nigeria from december 1997 – december 2000, African Journal of Applied Zoology and Environmental Biology, 2006, Vol. 8, pp. 48/33. 

  17. Amnesty International, Nigeria: petroleum, pollution and poverty in the Niger Delta, 2009, p. 36. 

  18. NAOC, Environmental Impact Assessment of Idu field further development project by Nigerian Agip Oil Company, settembre 2005. 

  19. Assemblea degli azionisti Eni – 5 maggio 2011. Domande dell’azionista Osayande Omokaro, Environmental Rights Action Nigeria

  20. Ayejuyo O. Olusegun, Biobaku C. Babajide, Osundiya M. Olubunmi, Achadu O. John, The impact of gas flaring and venting in Nigeria and management options: a case study of oil producing areas, Journal of Biodiversity and Environmental Sciences (JBES), Vol. 4, No. 2, p. 27-36, 2014. 

]]>
Il prezzo del petrolio https://www.carmillaonline.com/2014/09/28/prezzo-petrolio/ Sat, 27 Sep 2014 22:10:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17611 di Alexik

George Osodi Nigeria1I politici li uso come i taxi: mi faccio portare dove voglio. Io pago la corsa”.

Mi suona particolarmente attuale questo vecchio adagio di Enrico Mattei, ora che l’AD dell’ENI Claudio Descalzi si ritrova indagato per una nuova maxi-tangente da 200 milioni di dollari, destinata ad “agevolare” l’acquisto della concessione del giacimento nigeriano “Opl-245”.

Oltre a Descalzi, nominato qualche mese fa da Renzi ai vertici dell’Ente Nazionale Idrocarburi, l’inchiesta coinvolge anche gente ben più navigata – come l’ex AD dell’ENI Paolo Scaroni e il [...]]]> di Alexik

George Osodi Nigeria1I politici li uso come i taxi: mi faccio portare dove voglio. Io pago la corsa”.

Mi suona particolarmente attuale questo vecchio adagio di Enrico Mattei, ora che l’AD dell’ENI Claudio Descalzi si ritrova indagato per una nuova maxi-tangente da 200 milioni di dollari, destinata ad “agevolare” l’acquisto della concessione del giacimento nigeriano “Opl-245”.

Oltre a Descalzi, nominato qualche mese fa da Renzi ai vertici dell’Ente Nazionale Idrocarburi, l’inchiesta coinvolge anche gente ben più navigata – come l’ex AD dell’ENI Paolo Scaroni e il faccendiere Luigi Bisignani . Gente che si è fatta le ossa ai bei tempi di tangentopoli, e nonostante le condanne è sempre rimasta al potere1. Ma presenta un curriculum di tutto rispetto anche il principale beneficiario nigeriano della stecca, quel Dan Etete che fu ministro del petrolio durante la dittatura del generale Sani Abacha, e che poco prima della destituzione, come “trattamento di fine rapporto” si autoassegnò gratuitamente (in società con Abacha junior) la concessione dell’ “Opl-245”, il più grande giacimento off shore della Nigeria.

Per capire di che soggetti stiamo parlando basta ricordare che fu Sani Abacha, al potere in Nigeria dal 1993 al 1998, a disporre l’impiccagione di Ken Saro Wiwa e di altri 8 militanti del MOSOP (Movement for the Survival of Ogoni People). Queste le istruzioni dell’epoca per l’esercito nigeriano: “Operazioni della Shell ancora impossibili in mancanza di uno spietato intervento militare che consenta un’agevole ripresa dell’attività commerciale… Raccomandazioni: azioni di distruzione durante raduni MOSOP che giustificano l’intervento dell’esercito. Eliminare gli obiettivi in tutte le comunità e a ogni livello di potere, in particolare i soggetti più attivi all’interno dei vari gruppi2.

Dan Etete

Dan Etete

Difficile pensare che Dan Etete, all’epoca ministro del petrolio, non fosse corresponsabile di tutto questo. Ecco, l’ENI paga la stecca a questa gente qui.

E non parlo dell’inchiesta di oggi (per carità … c’è la presunzione di innocenza), ma dei tempi in cui la TSKJ – una joint ventures partecipata dalla Snam, dalla francese Technip e dalla statunitense KBR/Halliburton – si occupò sistematicamente di corrompere i vari regimi nigeriani succedutisi dal 1994 al 2004, per ottenere l’appalto della costruzione del gassificatore di Bonny Island. In totale militari e politici nigeriani, fra cui Sani Abacha, Dan Etete, e i successivi presidenti Abdulsalami Abubakar e Olusegun Obasanjo, si spartirono in quell’occasione $180 milioni, in cambio di contratti alla TSKJ per sei miliardi di dollari.

L’appalto andò a buon fine, e l’ENI riuscì pure ad assicurare all’Agip una fetta della gestione successiva dell’impianto di compressione del gas. Perciò, se avete dei dubbi su chi abbia interesse a riempire il suolo italico di degassificatori, ora potrete chiarirvi le idee.

La maximazzetta di Bonny Island ha già avuto i suoi strascichi giudiziari in Nord America3, Francia4, e finalmente qui da noi, con la condanna della Saipem/Snam (difesa dall’avvocato, nonchè ex ministro della giustizia, Paola Severino) a 600.000 euro di multa e 2,4 milioni di risarcimento alla Nigeria 5. L’Eni se la sarebbe dunque cavata relativamente a buon mercato se avesse dovuto fare i conti solo con la legge italiana. Peccato per lei che gli stessi fatti fossero oggetto di inchiesta negli USA, dove per evitare la condanna ha dovuto sborsare soldi grossi: 240 milioni di dollari al U.S. Department of Justice e 125 milioni alla Securities and Exchange Commission6 (la Consob americana).

Questo per aver introdotto interferenze nelle sacre leggi del mercato danneggiando la concorrenza con metodi sleali …non certo per aver sostenuto e consolidato il potere di un branco di macellai sanguinari.

Concentrarsi solo sull’aspetto corruttivo, astratto dal contesto, è un esercizio fuorviante. Le tangenti sborsate da tutte le corporations petrolifere, per quanto onerose, rappresentano la “giusta mercede” pagata ai vari regimi nigeriani per l’accondiscendenza dimostrata di fronte allo stupro della propria terra e per i servizi resi in termini di repressione dei movimenti popolari.

Ogoniland.

Ogoniland.

Da più di 40 anni, dall’inizio delle estrazioni, le popolazioni del Delta del Niger sono sprofondate in un inferno industriale, che ha distrutto le foreste, i campi, le acque del fiume, tutti i loro mezzi di sussistenza, per lasciarsi dietro solamente fame, malattie, miseria e morte. E violenza, tanta violenza.

Impossibile contare tutti gli eccidi subiti da quella gente, nel corso delle lotte per l’ambiente e per la vita, da parte dell’esercito e dei reparti speciali della polizia nigeriana.

“Nel luglio 1981 oltre 10.000 abitanti di Rukpokwu, nell’area di Pourt Harcourt, bloccarono l’accesso a cinquanta pozzi della Shell di Agbada. Contemporaneamente gli abitanti di tre villaggi Egbema occupavano la seconda più importante installazione petrolifera dell’Agip, espellendone i lavoratori e fermando la produzione per tre giorni. Gli Egbema protestavano contro la mancata assunzione di indigeni, la mancata elettrificazione e fornitura d’acqua nei villaggi e perché fosse garantita scolarizzazione ai bambini. La rivolta fu sedata dalla polizia antisommossa….

Nel 1987 gli abitanti di Iko, un’isoletta di pescatori in Adoniland, organizzarono una marcia pacifica di fronte agli impianti della Shell a cui, già da anni, chiedevano un risarcimento e la restituzione del diritto all’acqua e all’ambiente pulito. I reparti speciali della polizia arrivarono a bordo di motoscafi della Shell, attaccarono il villaggio uccidendo due persone e distruggendo decine di abitazioni….

Nel 1990, a Umuechem, nella zona degli Igbo, una comunità vessata dalle continue confische di terre da parte della Shell organizzò una manifestazione di protesta: I reparti speciali fecero un massacro: ottanta persone furono uccise, centinaia le case distrutte, tutti gli animali ammazzati” .

Ogoniland

Ogoniland

Da allora fu un crescendo. Negli anni ’90 la dittatura di Sani Abacha scatenò contro gli Ogoni in rivolta un’inaudita violenza, inviando provocatori a fomentare “scontri etnici” che causarono centinaia di morti, torturando e impiccando le avanguardie del movimento, disponendo l’occupazione militare dell’Ogoniland, l’incendio dei villaggi, lo sterminio degli abitanti. Reagiva così, il regime militare, a un movimento che spaventava per estensione, capacità organizzativa e politica, tale da costringere la Shell a sospendere le attività sul territorio.

Gli Ogoni non furono le uniche vittime di Abacha. Nel maggio 1998 più di cento ragazzi di 42 villaggi dell’Ilajeland occuparono una piattaforma della Chevron per protestare contro la devastazione ambientale. Bola Oynbo, un attivista che era presente, racconta: “Non ci aspettavamo quello che poi seguì. I soldati saltarono giù in fretta (da quattro elicotteri guidati da piloti stranieri della Chevron) sparando. Sparavano come fossero stati in guerra. Sparavano dappertutto. Trenta giovani vennero feriti, due uccisi. Anche coloro che cercavano di soccorrere quelli che stavano morendo furono colpiti”.

Il successore di Abacha sul podio della dittatura, Abdulsalami Abubakar, si distinse per il massacro di Warri. Nel dicembre 1998 giovani provenienti da 500 villaggi della nazione Ijaw si erano incontrati a Kaiama per discutere su come riprendere nelle mani il proprio destino. Il documento finale, la “Dichiarazione di Kaiama”, chiamava tutti i popoli del Delta del Niger all’unità e alla lotta comune contro la devastazione ambientale, la rapina delle risorse, l’occupazione militare. Il Consiglio giovanile Ijaw esigeva il ritiro dei soldati e l’interruzione dell’attività delle compagnie petrolifere in tutto il territorio dello Ijawland entro il 30 dicembre. Quel giorno a Warri una grande manifestazione pacifica venne attaccata dai soldati. “Oltre duecento persone vennero uccise, altre vennero torturate e trattate in modo disumano; molte altre vennero arrestate; ragazzine di dodici anni vennero torturate e violentate”. “Poi ci furono i saccheggi, gli stupri e le esecuzioni sommarie. Duecento persone Ijaw subirono l’amputazione di un arto, soprattutto mani e braccia” .

Massacro di Odi.

Massacro di Odi.

Il regime di Abdulsalami Abubakar fu breve ma intenso: “ai primi di gennaio i militari attaccarono sparando a vista due villaggi, Opia e Ikenian, i morti e i dispersi si contarono a decine. Questa volta le lance da cui sbarcarono e da cui proveniva la richiesta di intervento provenivano dall’americana Chevron. Pochi giorni dopo, altri ragazzi venivano uccisi dai soldati, ma questa volta nei pressi di un impianto dell’Agip” .

Nel maggio ’99 in Nigeria arrivò finalmente la democrazia (!!!), le libere elezioni videro il prevalere di Olusegun Obasanjo, che alla presidenza dello Stato nigeriano volle subito distinguersi dai suoi predecessori …. per intensità dell’eccidio nell’unità di tempo: nel novembre di quell’anno, infatti, provvide a far radere al suolo la città di Odi, causando 2000 morti in un solo giorno. Obasanjo si dimostrò poi capace anche di stragi meno pretenziose, come quella dell’ottobre 2000, quando 10 manifestanti vennero uccisi durante una protesta contro l’Agip7.

Abacha, Abubakar, Obasanjo….. si, proprio quelli sul libro paga della Snam.

Visti i risultati delle mobilitazioni pacifiche, non provoca particolare stupore il fatto che la metodologia di lotta delle popolazioni del Delta del Niger abbia subito nel tempo una notevole revisione. Revisione di cui anche l’ENI (così come le altre compagnie) ha dovuto, suo malgrado, prendere atto:

La "revisione": militante del MEND.

La “revisione”: militante del MEND.

23/01/06 – Assaltata una piattaforma dell’Agip nel Delta del Niger. 24/01/06 – Uomini armati camuffati da poliziotti assaltano la tesoreria dell’impianto Agip di Port Harcourt. Svaligiano la banca interna e lasciano 11 morti (9 agenti di sicurezza). 8/03/06 – L’oleodotto dell’Agip che collega Tebidaba al terminal di Brass viene fatto esplodere con una carica di dinamite. L’ENI stima una perdita di 13.000 barili al giorno. 11/05/06 – Sequestro lampo di tre dipendenti della Saipem, sembra per l’opposizione della comunità di Boguma al passaggio di un oledotto. 13/07/06 – Due esplosioni danneggiano stabilimenti Agip. 26/07/06 – Occupata una stazione di pompaggio dell’Agip a Ogboimbiri. Dodici persone, fra soldati e dipendenti Agip sono tenuti in ostaggio. L’azione è condotta da giovani della comunità locale che chiedono il rispetto di un memorandum disatteso dall’Agip sull’assunzione di giovani del posto e la promozione di programmi di sviluppo della comunità. 24/08/06 – Tre dipendenti Saipem vengono rapiti davanti al complesso del gruppo italiano a Port Harcourt. 04/10/06 – Abbordaggio contro un convoglio di sei battelli dell’Agip diretti a Brass. 28/10/06 – Occupata la stazione di pompaggio dell’Agip di Clough Creek. 06/11/06 – L’irruzione di un gruppo armato presso la stazione Agip di Tebidaba-Brass blocca la produzione di 50.000 barili al giorno. L’occupazione continua per vari giorni da parte della popolazione locale che tiene in ostaggio una trentina di addetti. Vogliono il risarcimento dei danni causati al territorio dalle perdite di petrolio dalle condutture. 12/11/06 – Riassaltato e rioccupato per un giorno l’impianto dell’Agip di Clough Creek. 22/11/06 – Abbordaggio della nave-piattaforma Mystras, gestita dalla Saipem, al largo di Port Harcourt. Rapiti un tecnico italiano e 6 lavoratori stranieri. Un blitz delle forze dell’ordine provoca 4 morti, fra cui un ostaggio britannico. L’italiano rimane gravemente ferito.7/12/06 – Rapiti 3 tecnici petroliferi italiani e un libanese in una stazione di pompaggio dell’Eni nella zona di

Militante del MEND.

Militante del MEND.

Brass. L’azione è rivendicata dal MEND (Movement for the Emancipation of the Niger Delta) 21/12/06 – L’irruzione di un gruppo armato presso la flow-station Agip di Tebidaba blocca la produzione di 40.000 barili al giorno. 3/05/07 – Assaltata una piattaforma off shore dell’Agip. Sequestro lampo di sei dipendenti. 5/05/07 – Attaccato un terminal dell’Agip. 8/05/07 – L’attacco di tre impianti costringe l’Agip a tagliare la produzione di 98.000 barili al giorno. 14/05/07 – Rapito vicino a Port Harcourt il responsabile dell’Ufficio Risorse Umane dell’Agip. 17/06/07 – Viene occupata la stazione di pompaggio Agip di Ogbaimbiri dopo una strage di civili da parte di una pattuglia dell’esercito di guardia all’impianto. Quattro giorni dopo un blitz provoca 12 morti fra gli occupanti. Il Times of Nigeria accusa le guardie private dell’ENI. 8  27/09/07 – Guerriglieri travestiti da soldati attaccano una piattaforma dell’Eni. Nel conflitto a fuoco muore un tecnico Saipem, altri due vengono portati via per un paio di settimane. 26/10/07 – Attacco del MEND alla piattaforma Mystras. Sei dipendenti vengono sequestrati per 4 giorni. 8/01/08 – Attacco all’Agip e alla Shell di Buruturo, accusate dai residenti di sversare liquami tossici. 21/01/08 – Incendiato un oleodotto dell’Agip. 13/04/08 – Incendiate due installazioni petrolifere Agip nell’area di Beniboye. 17/07/08 – Salta in aria un oleodotto dell’ENI. 24/07/08 – Rapiti per quattro giorni 5 tecnici Saipem. 07/09/08 – Arrembaggio ad una nave dell’Agip. Un marinaio ucciso e uno rapito. 8/07/09 – Il MEND rivendica il sabotaggio di un oleodotto dell’Agip. 16/03/11 – Il MEND rivendica l’esplosione di una bomba nella stazione di pompaggio dell’Agip di Clough Creek. 04/02/12 – Il MEND rivendica il sabotaggio di un oleodotto dell’Agip nello Stato di Bayelsa. 13/04/12 – Il MEND rivendica la distruzione di un pozzo e di un condotto dell’Agip. 27/07/12 – Il MEND attacca un trasporto di petrolio Agip al largo della costa dello Stato di Bayelsa. Un marinaio ucciso. 30/12/12 – Il MEND attacca una chiatta Agip nel Rivers State, 20/03/14 Attacco del Mend ad oleodotto e gasdotto Agip ad Ikarama9.

Data la frequenza e continuità degli attacchi potrebbe sorgere il dubbio che la multinazionale nostrana in Nigeria abbia fatto incazzare più di qualcuno. E qualche incazzatura è plausibile l’abbia destata dalle parti di Akaraolu, Ebocha, Kalaba, Ikarama, Ikienghenbiri, Odioama, Kale, Okpai, Okashikpa,  tutti luoghi che stanno pagando a caro prezzo la “modernità” portata dall’ENI. (Continua)


  1. Scaroni inaugura la sua carriera tangentizia in qualità di amministrato delegato della Techint. Nel 1992 viene arrestato nell’ambito di Mani Pulite per una grossa mazzetta al PSI, che doveva servire ad assicurarsi un appalto da parte dell’Enel. Patteggia un anno e 4 mesi, e come premio nel 2002 …. viene promosso ai vertici dell’Enel, cioè il destinatario dell’atto corruttivo. Finisce sotto inchiesta per l’inquinamento della centrale Enel di Porto Tolle, la Cassazione ne riconosce la responsabilità penale, ma i reati si sono prescritti. Nel frattempo passa a dirigere l’ENI, dove colleziona un avviso di garanzia per una presunta tangente pagata ad esponenti del governo algerino allo scopo di favorire la controllata Saipem e la stessa Eni in appalti da 11 miliardi di dollari. Il nome di Luigi Bisignani viene trovato nell’ ’81 negli elenchi della P2 in casa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Secondo gli inquirenti non è un iscritto qualsiasi, ma un reclutatore, un “colonnello”. Nel 1994 viene arrestato nel corso dell’inchiesta Enimont. E’ lui – ai tempi responsabile delle relazioni esterne del gruppo Montedison e fiduciario di Andreotti – ad aprire presso lo Ior il conto dove transiterà una parte della “madre di tutte le tangenti”, in viaggio verso le fauci ingorde dei principali esponenti del pentapartito. Per l’affare Enimont si becca una condanna a due anni e sei mesi e l’espulsione dall’Ordine dei giornalisti. Nel 2007 viene coinvolto nell’inchiesta Why Not sull’attribuzione illecita di commesse pubbliche e fondi europei, e quattro anni dopo nell’ambito dell’inchiesta sulla P4, viene accusato di aver instaurato un “sistema informativo parallelo” finalizzato alla “illecita acquisizione di notizie e di informazioni, anche coperte da segreto, alcune delle quali inerenti a procedimenti penali in corso nonché di altri dati sensibili o personali al fine di consentire a soggetti inquisiti di eludere le indagini giudiziarie ovvero per ottenere favori o altre utilità”. Vanta amicizie altolocate (Gianni Letta e Lamberto Dini furono suoi testimoni di nozze), entrature all’ENI, alla RAI e nei Servizi. 

  2. Manoscritto di Paul Okuntimo, capitano del Rivers State Internal Security Force dell’esercito nigeriano, scritto in data 5 Maggio 1994, pubblicato su Harpais, Giugno 1996, e in Naomi Klein, No Logo, Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pag. 466. 

  3. Nel 2009 il dipartimento di giustizia americano, in base al Foreign Corrupt Practices Act, ha condannato la Halliburton/KBR e i suoi funzionari al pagamento di $ 1,7 miliardi, coinvolgendo nello scandalo anchel’ex vice presidente USA Dick Chaney, che ai tempi della corruzione ricopriva la carica di AD dell’ Halliburton. Vedi: Halliburtonwatch, Halliburton and Nigeria: A Chronology of Key Events in the Unfolding Bribery Scandal. Elisha Bala-Gbogbo , Nigeria files charges against Dick Cheney, Halliburton over bribery case, Bloomberg.com, 8 dicembre 2010. 

  4. Nicholas Ibekwe, Halliburton bribe: Paris court sentences Technip executives for bribing Nigerian officials, Premium Times, 1 febbraio 2013. 

  5. Angelo Mincuzzi, Corruzione in Nigeria, Saipem condannata a Milano. Confiscati 24,5 milioni, Il Sole 24 Ore,11 luglio 2013. 

  6. U.S. Securities and Exchange Commission, Securities and Exchange Commission v. ENI, S.p.A. and Snamprogetti Netherlands, B.V., Case No. 4:10-cv-02414, S.D. Tex. (Houston)

  7. Le informazioni sui massacri sono tratte da: Daniele Pepino, Delta in rivolta. Pirateria e guerriglia contro le multinazionali del petrolio in Nigeria. Suggerimenti da una insurrezione “asimmetrica”, Porfido, 2009, p. 142;  Oil Change International, All for Shell: A brief history of the struggle for justice in the Niger Delta, p. 8. 

  8. «Giovedì 21 giugno 2007- scrive il Times of Nigeria- su richiesta della oil Company [cioè l’Eni], forze armate della Sicurezza, che sembra che lavorino per il gigante petrolifero italiano, hanno attaccato e ucciso 12 giovani Ijaw di Ogboinbiri che stavano protestando contro la criminale uccisione dei loro parenti, avvenuta la settimana prima da parte delle forze armate». Sulla questione è stata presentata un’interrogazione parlamentare

  9. L’elenco, che si limita alle azioni contro l’ENI tralasciando i numerosi attacchi alla Shell, Chevron, Exxon, ecc., è tratto da: Daniele Pepino, Delta in rivolta. Pirateria e guerriglia contro le multinazionali del petrolio in Nigeria. Suggerimenti da una insurrezione “asimmetrica”, Porfido, 2009, p. 142; Wikipedia alla voce MEND; rassegna della stampa italiana e nigeriana. 

]]>
Chi vince e chi perde a Gaza https://www.carmillaonline.com/2014/08/01/vince-perde-gaza/ Fri, 01 Aug 2014 21:40:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16523 di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome. A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del [...]]]> di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome.
A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del sionismo più aggressivo.
A Gaza non si può guardare soltanto con gli occhi dell’umanitarismo becero del cattolicesimo e del generico pacifismo.
A Gaza si sta giocando una partita mondiale.

Partita che si è aperta ormai da molti anni e che, con buona pace di chi predicava circa vent’anni fa la fine della storia, vede venire al pettine tutti i nodi della storia del novecento e della crisi del dominio occidentale (economico, politico e militare) sul globo.
Gli Stati Uniti non sono più credibili e l’Europa Unita è un puro concetto filosofico di scarso valore ed entrambe questa realtà non hanno più la forza di risolvere le crisi internazionali. Né con la diplomazia, né e tanto meno con gli eserciti.

Su questo non c’è alcun motivo per versare lacrime, come alcuni infausti democratici ed intellettuali più sinistri che di sinistra, vorrebbero forse fare.
Il capitalismo e l’imperialismo occidentali stanno declinando rapidamente dopo essersi illusi di aver sconfitto la lotta di classe e dei popoli soltanto perché alcune sigle e definizioni sono scomparse essendo diventate obsolete e prive di significati reali.

Ma la lotta di classe, all’interno di un sistema diviso ed organizzato per trarre profitto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può scomparire. Così come non possono sparire a comando, e nemmeno in seguito alla più terribile repressione, le richieste dei popoli oppressi di veder riconosciuti i propri diritti inalienabili. Poiché, in ultima analisi, la lotta di classe e l’anti-imperialismo non sono soltanto patrimonio del marxismo, del comunismo o dell’anarchismo, ma delle contraddizioni reali, radicate nella storia e nell’economia del sistema mondo.

Allo stesso tempo le contraddizioni del dominio e della spartizione imperialistica del globo stanno venendo a galla. In maniera sempre più evidente e proprio grazie all’indebolimento, non solo di immagine, dell’imperialismo occidentale.
Costretto ormai a delegare, anche contro voglia, ad altri il proprio ruolo di controllore planetario.
Il falso trionfo del 1989 mostra ora le sue drammatiche conseguenze e la spartizione del mondo tra due sole superpotenze è stata sostituita da un intricatissimo gioco di grandi e medie potenze locali con aspirazioni planetarie.

Ma tagliamo subito la testa al toro: oggi a Gaza non sta vincendo Israele.
Come già non aveva vinto nella guerra libanese del 2006, condotta con lo stesso dispiegamento di forze, mezzi e violenza distruttiva. Anzi, l’immagine dello stato ebraico ha iniziato a sfaldarsi anche là dove, per esempio presso l’opinione pubblica americana, era sempre risultata più convincente e vincente.

Non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele.

Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi) e l’Arabia Saudita. Nemica di ogni emancipazione sociale, politica e nazionale in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa e, soprattutto, dell’Iran.

Ne abbiamo già parlato altre volte su Carmilla: non si può capire cosa è avvenuto in Nord Africa e Medio Oriente, dalla caduta del regime di Gheddafi alla guerra in Siria e fino all’attuale “califfato iracheno”, se non si considera l’azione lenta ed inesorabile dell’Arabia Saudita e di alcuni suoi concorrenti degli Emirati per accaparrarsi le riserve petrolifere dell’area e il controllo politico e militare delle aree geografiche interessate

Infatti tra i vincitori dell’attuale scontro a Gaza vanno annoverati, in primo luogo, i sauditi.
Dalla Libia alla Siria, giù forse fino al Mali e alla Nigeria, le milizie integraliste che si scontrano tra di loro e con i rimasugli del potere statale superstite, lo fanno in nome dell’Arabia Saudita e del Qatar ovvero del petrolio. Occorre dirlo: Al Qaeda di Osama Bin Laden era al confronto una sorta di internazionale progressista, con l’idea di rovesciare il regime saudita, nazionalizzarne le risorse e le ricchezze e non abbandonare, almeno a parole, i vari popoli in lotta al loro destino.

Il progetto visionario, e per molti versi reazionario di Bin Laden, era, nonostante tutto, altra cosa da quello che si sta realizzando tra Iraq e Siria. Da quest’ultimo e dalle milizie jihadiste presenti in Libia e Siria non è mai giunta nemmeno una voce a difesa dei palestinesi. Anzi nei primi giorni del dramma si è cercato di distrarre l’attenzione degli arabi da Gaza attraverso la distruzione della moschea e del mausoleo di Giona.

Certo se si segue con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti dal 2010 in avanti ci si accorge che lentamente ed inesorabilmente le milizie jihadiste si sono progressivamente impegnate, non solo nelle aree petrolifere del continente africano e del Medio Oriente, a coinvolgere in uno scontro militare senza fine tutte quelle forze che, in un conflitto locale o allargato, avrebbero potuto prestare il loro appoggio all’Iran: Hezbollah, Siria e Hamas.

L’obiettivo di indebolire i potenziali alleati del principale nemico comune di Israele e Arabia Saudita è stato infatti raggiunto con l’aggravante, se vogliamo così dire, di aver diviso tra di loro anche alcune di queste forze. Per esempio proprio Hamas e Fratelli musulmani che dopo aver preso le distanze, in maniera opportunistica e becera, dal regime di Assad, sperando in un riconoscimento occidentale, si sono trovati poi alla mercé del colpo di stato militare egiziano (di cui il principale sponsor è stata proprio il capitale saudita) e dell’attacco israeliano (con poco o nessun appoggio militare dai cugini di Hezbollah, già fin troppo impegnati sul fronte siriano).

Cosa quest’ultima che ha spinto e spinge i militanti di Hamas ad intensificare l’azione di “bombardamento” del territorio israeliano per dimostrare la propria esistenza in vita.
Certo la resistenza dei militanti del suo braccio militare ha dell’eroico e il fatto stesso che Israele abbia dovuto richiamare altri 16.000 riservisti, facendo arrivare a quasi 100.000 i militari impegnati nell’operazione di invasione e controllo territoriale della striscia di Gaza, lo dimostra.

D’altra parte fino ad ora le truppe di terra sono state maggiormente impegnate nelle aree agricole e più scoperte della Striscia. Le aree urbane possono essere devastate , distrutte e massacrate, ma difficilmente conquistate come dimostra tutta la storia del ‘900 da Leningrado a Varsavia fino a Grozny. Le vittime dell’esercito di Israele aumenterebbero in maniera sproporzionata e il costo potrebbe risultare troppo alto anche per i più famigerati sostenitori israeliani dell’operazione.

Ma, nonostante ciò e a differenza di Hezbollah nel 2006, molto probabilmente anche Hamas non risulterà nel novero dei vincitori di questo conflitto: troppi morti e troppi sacrifici costerà il tutto ai Palestinesi di Gaza e questo sicuramente significherà un indebolimento delle sue posizioni, politiche e militari.
Mentre l’ipocrisia pacifista ed umanitaria che finge ancora che si possano fare guerre senza coinvolgere i civili e le strutture pubbliche (scuole, ospedali, abitazioni civili, infrastrutture di vario genere) nella distruzione, raggiungerà sicuramente il risultato di confondere ulteriormente le idee sul conflitto e sulle sue cause.

ONU, Ban Ki Moon, Obama, democratici di sinistra e di vario genere, pacifisti cattolici e mille altri pensano che sia possibile limitare i danni, pur mantenendosi equidistanti e riconoscendo il diritto all’autodifesa di Israele. Stupidi, arroganti e ignoranti che pensano, con parole di cordoglio, di nascondere che ogni difesa non può essere che attacco e che, nel caso di Israele, tale difesa può usufruire di mezzi di offesa straordinariamente efficaci e distruttivi.

Dimenticano, tutti e senza distinzione, che già nel 1921 proprio un teorico italiano, Giulio Douhet, nel suo testo “Il dominio dell’aria” (poi divenuto a livello internazionale una vera bibbia della guerra aerea) teorizzava l’uso dell’arma aerea come strumento di distruzione totale delle infrastrutture economiche e civili e di vero e proprio terrorismo nei confronti della popolazione soggetta ai bombardamenti. Infatti l’aviazione militare, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale e dal Vietnam all’Iraq e a Gaza non è stata mai utilizzata per la guerra intelligente (che già di per sé costituisce un curioso ossimoro), ma solo e sempre in chiave terroristica.

Scoprirlo ogni volta, con pianti e strepiti istituzionali e privi di conseguenze, è assolutamente ridicolo e fuorviante. La guerra è la guerra ed è diritto degli oppressi denunciarlo ed opporsi ad essa con ogni mezzo necessario. Altrimenti si rischia di tornare ancora una volta a giustificarla sotto forma di “operazioni di polizia” oppure di “pacificazione” oppure, ancora, con le mille altre formule elaborate dall’opportunismo immarcescibile nel corso degli anni.

Israele, l’abbiamo già detto, anche se dovesse radere al suolo la striscia di Gaza e massacrare tutti i suoi abitanti non vincerà mai questa guerra. Non solo per l’immagine, ma anche perché attraverso di essa e, soprattutto, con una possibile futura guerra all’Iran si sarà totalmente messa nelle mani dei suoi peggiori nemici/amici. Prima di tutto l’Arabia Saudita che, quando avrà acquisito il controllo di quasi tutte le aree petrolifere più importanti dell’Africa e del Medio Oriente avrà buon gioco a ricattare gli USA e ad utilizzare i regimi jihadisti e califfati vari contro Israele stessa.

Nel disastro del Medio Oriente, dopo aver distrutto i movimenti classisti e laici e gli stati nazionali nati da moti anti-coloniali, gli occidentali non hanno più che una carta: la forza militare di Israele.
Dopo aver alimentato il mostro integralista pur di troncare qualsiasi appartenenza di classe e dichiaratamente anti-imperialista dei movimenti in Africa del Nord e Medio Oriente oggi scoprono che dal califfato islamico iracheno e siriano, giù fino alla Palestina, passando per il Libano, e fino a gran parte dell’Africa essi hanno coltivato, da un lato, forze incontrollabili legate agli interessi e agli investimenti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi e dall’altra, e questa la cosa più interessante per l’antagonismo sociale, dei momentanei contenitori per una rabbia che non può più essere ulteriormente compressa.

Una rabbia che affonda le sue radici nelle contraddizioni di classe e nella miseria, ma anche, e forse soprattutto, in quelle ridicole divisioni territoriali legate agli interessi, prima, europei e, poi, americani che, a partite dalla spartizione dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, e dalla dichiarazione Balfour del 1917 hanno riempito il Medio Oriente di linee di confine verticali ed orizzontali che non hanno mai tenuto conto delle reali esigenze dei popoli coinvolti. Come già il Congresso di Berlino del 1885 aveva fatto con il continente africano.

Lasciamo pure piangere i filistei, soprattutto di sinistra, sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.

Tutti i nodi stanno venendo al pettine e l’Occidente è debole come non mai. Mickey Mouse Obama ne è la migliore esemplificazione. E tutti, ma proprio tutti, corrono a mettersi al riparo delle bombe israeliane, sperando che queste li salvino un giorno da ben altri missili sparati contro di loro e da ben altri conflitti, militari e di classe.

Ma i calcoli degli “occidentalisti”, quelli che sventolano in questo contesto le bandiere della democrazia greca, del femminismo di facciata e del cristianesimo di papa Francesco, sono errati e nascondono solo il vuoto politico, esattamente come i discorsi del bulletto di Firenze, e la paura. Di perdere. Tutto.

Anni fa, quando cominciarono le guerre afgane, chi scrive ebbe modo di affermare che la potenza militare statunitense si sarebbe rivelata un colosso d’argilla nei confronti dei combattenti che portavano solo sandali ai piedi e un kalashnikov a tracolla. Mi sembra che nulla abbia contraddetto quella affermazione. Anzi.
Oggi a Gaza è lo stesso. Gli israeliani potranno uccidere migliaia di palestinesi: combattenti, donne e bambini. Ma non vinceranno mai.

La specie nel suo insieme vuole continuare a vivere e non potrà sopportare in eterno una suddivisione dei beni, dei territori e delle risorse che implica una condanna alla miseria e alla morte per miliardi di individui da Sud a Nord e da Est a Ovest.
Nelle sue sempre più spaventose convulsioni il modo di produzione capitalistico, soprattutto qui in Occidente, non ha più altre risposte che la repressione, lo strozzinaggio finanziario e i bombardamenti. Così oggi, non solo per scelta ma neanche solo per necessità, siamo tutti Palestinesi davanti alle forze del capitale.
Ma alla fine la risposta di “quei piccoli uomini e di quelle piccole donne”, di cui ha parlato recentemente Valerio Evangelisti in un articolo, “chiamati a compiti molto più grandi di loro e delle loro capacità”, sarà adeguata e giustificata e ne decreterà la fine insieme a quella di tutti i suoi servi.

]]>