Niente di nuovo sul fronte occidentale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guerra e rivoluzione nell’immaginario cinematografico contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2022/11/12/rivoluzione-e-controrivoluzione-nellimmaginario-tedesco-contemporaneo-note-a-proposito-di-un-recente-film/ Sat, 12 Nov 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74704 di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto [...]]]> di Sandro Moiso

Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (pseudonimo di Erich Paul Remark, 1898–1970) costituisce sicuramente una delle pietre miliari della letteratura anti-militarista del ‘900 e ancora oggi, in tempi di nuove guerre che sembrano ripetere scenari e motivazioni ideologiche e geo-politiche del primo macello imperialista, potrebbe lasciare un segno indelebile in chi volesse leggerlo.

Pubblicato per la prima volta sul giornale tedesco «Vossische Zeitung» nel novembre e dicembre 1928 e in volume alla fine di gennaio del 1929, ebbe subito grande successo e venne successivamente tradotto in 44 lingue. Mentre per il cinema ha visto realizzate tre versioni, uscite grosso modo a quarant’anni di distanza l’una dall’altra: «All’ovest niente di nuovo» (All Quiet on the Western Front) diretto da Lewis Milestone (1930); «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (All Quiet on the Western Front), film TV diretto da Delbert Mann (1979) e, per finire, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» (Im Westen nichts Neues) diretto da Edward Berger (2022) e attualmente disponibile su Netflix.

Ed è proprio su quest’ultimo che vale la pena di tornare a riflettere, dopo la recensione già pubblicata su Carmilla domenica 6 novembre. Unico dei tre ad essere di produzione tedesca, mentre i primi due erano di produzione americana e anglo-americana, porta con sé alcuni elementi di indubbio valore, insieme ad altri che ne limitano l’efficacia, indirizzandone i contenuti più su problematiche di battaglia politica interne alla Germania attuale che alla sottolineatura dell’originario antimilitarismo voluto da Remarque nel suo libro. Vediamo ora perché.

Il romanzo descriveva l’inumanità della guerra in ogni suo aspetto, attraverso la prospettiva di un soldato diciannovenne, Paul Bäumer e si basava, almeno in parte sull’esperienza di guerra dell’autore che, dopo il compimento dei 18 anni, fu chiamato alle armi nell’Esercito imperiale tedesco con la sua classe di leva, nel novembre 1916, ed inquadrato inizialmente nel 78º Reggimento di fanteria.

Nel giugno 1917 fu assegnato al 15º Reggimento di fanteria della riserva e inviato nelle trincee delle Fiandre Occidentali. Il 31 luglio 1917 rimase ferito abbastanza gravemente e dopo essere stato dimesso il 31 ottobre 1918, venne infine congedato il 5 gennaio 1919.
Nella sua opera più famosa, Im Westen nichts Neues, con un linguaggio semplice e toccante descrisse in modo realistico la vita durante la guerra. Nel 1933 i nazisti bruciarono e misero al bando le opere di Remarque, mentre la propaganda di regime faceva circolare la voce che discendesse da ebrei francesi e che il suo cognome fosse Kramer, cioè il suo vero nome al contrario.

Il film di Edward Berger rispetta in parte la trama del romanzo e, va detto subito, è certamente uno dei film più realistici, insieme a Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014), a sua volta tratto da un racconto di Federico De Roberto (La paura) del 1921, sulle condizioni in cui si svolse la guerra di trincea che caratterizzò il primo conflitto mondiale, soprattutto sui fronti europei.

Un film che gronda letteralmente sangue, fango, violenza, paura, fame, orrore e merda. Sia fisica, quest’ultima, che ideologica. Ma che non sa sottrarsi alla vita politica della Germania odierna. E alle sue menzogne. Così, mentre la parte realistica patisce a tratti un eccesso di effetti drammatici che allontanano la narrazione da quella più stringata e per questo più efficace del libro, quella storico-politica, ben poco presente nell’opera di Remarque, avanza giustificazioni sul comportamento della socialdemocrazia tedesca che possono forse far piacere all’attuale cancelliere Olaf Scholz, ma che sicuramente non rispettano gli eventi accaduti in Germani sul finire di quel conflitto. E anche al suo inizio, che segnò la catastrofe della Seconda Internazionale con il tradimento degli ideali internazionalisti e antimilitaristi che avrebbero dovuto caratterizzare il movimento operaio e i partiti socialisti.

Il troppo umanitarismo, soprattutto mostrato nella figura del ministro che firma l’armistizio con gli alleati, nasconde e ignora gli eventi, prossimi all’esplosione rivoluzionaria, che spinsero nel 1918 il governo tedesco (e probabilmente anche quelli alleati) a cercare una rapida, anche se costosa, soluzione del conflitto. Dimostrando così come nell’immaginario collettivo odierno, pilotato dagli interessi nazionali e dall’ordine costituito, ogni riferimento alla rivoluzione o all’azione dal basso in direzione di un governo dei consigli costituisca il vero, inviolabile tabù.

Come ha scritto lo storico Fritz Fischer, a proposito di quegli eventi:

Con la richiesta di inoltrare immediatamente domanda di armistizio, presentata dal Comando supremo dell’esercito al governo del Reich, la Germania doveva rinunciare alla lotta; non si poteva più parlare seriamente di mire belliche tedesche. La Germania ormai poteva considerarsi fortunata se fosse riuscita a salvare ancora almeno la sua posizione di grande potenz europea e semplicemente cavarsela liscia dall’inevitabile sconfitta […] Come via d’uscita [il ministro degli esteri Paul von Hintze il 29 settembre 1918] fissò la «fusione di tutte le energie della nazione per la battaglia difensiva finale» per mezzo della dittatura o della democratizzazione, della «rivoluzione dall’alto». Il Kaiser e i generali rifiutarono la «dittatura» – per poterla realizzare era necessaria la vittoria – e si dichiararono favorevoli a «incanalare» la democratizzazione secondo laproposta di Hintze. Questa mobilitazione delle ultime forze doveva servire a estorcere un armistizio ed una pace fondati sulle proposte del presidente americano Wilson […] Il Kaiser, il Comando supremo, il governo del Reich erano d’accordo sia con la «rivoluzione dall’alto», sia con i principi di Wilson.[…]
Da questo momento tutti gli sforzi tedeschi per la pace si concentrarono sugli Stati Uniti d’America. In conformità con gli accordi del 29 settembre, il nuovo governo tedesco presieduto dal principe Max del Baden pregò pertanto il presidente Wilson nelle prime de note del 3 ottobre 1918 «di prendere l’iniziativa per stabilire la pace» e per addivenire a un armistizio immediato, dichiarando la volontà della Germania di accettare una pace fondata sui 14 punti1.
Contemporaneamente procedeva la «democratizzazione». Ma nella Germania imperiale la vittoria delle istituzioni parlamentari e democratiche [era] il frutto di una premeditata «rivoluzione dall’alto», per prevenire la «rivoluzione dal basso» e porsi al tempo stesso in una posizione il più possibile favorevole ai fini delle trattative con le potenze vincitrici […] Per la prima volta nella storia tedesca l’ingresso nel governo di capi partito della fama di Erzberger [leader della sinistra del partito cattolico] e Scheidemann [principale esponente parlamentare della Socialdemocrazia tedesca] conferì al gabinetto carattere parlamentare. Il Reichstag sanzionò molto più tardi, il 27 ottobre, con l’approvazione accordata alle leggi di modifica costituzionale presentate dal governo, dietro pressioni di Wilson, la nuova evoluzione che doveva rendere il parlamento titolare della sovranità. Comunque, troppo tardi per arrestare la rivoluzione, che arrivò ancora a scoppiare per via degli indugi nelle trattative d’armistizio e del timore che la guerra avesse a continuare.
Al tempo stesso, la vittoria sulla rivoluzione conseguita grazie all’alleanza tra il capo della socialdemocrazia maggioritaria Ebert e Hindenburg, che era rimasto alla testa dell’esercito dopo l’abdicazione di Guglielmo II, doveva costituire agli occhi delle potenze occidentali la migliore raccomanzazione della giovane repubblica, che sperava di veder mitigare le condizioni di pace per via della sua qualifica di antesignana della lotta contro il bolscevismo. In effetti gli alleati, proprio per via della funzione stabilizzatrice che il governo Ebert- Noske esercitava nel cuore dell’Europa2, permisero con le loro condizioni di armistizio che la Germania continuasse a tenere le sue truppe all’Est contro la rivoluzione rossa, fino a quando non fossero sostituite da forze alleate3.

Certo, anche nel testo di Remarque mancano queste riflessioni ma, in compenso, in maniera asciutta ed efficace, i veri mostri si dimostrano essere quelli del nazionalismo o della disciplina militare prussiana, e sono mostrati nella figura del docente liceale che convince gli studenti ad arruolarsi e negli ufficiali rigidi esecutori degli ordini. E ciò basta a delineare il clima in cui Paul, Albert, Haie, Müller e Kat recitano gli ultimi imponderabili atti delle loro esistenze, prima studentesche o proletarie. Mentre uno solo sarà destinato a salvarsi, Tjaden.

Ed è proprio il finale del libro a mostrare tutta la distanza, tra il film di oggi e la scrittura di allora, nel descrivere la morte, un mese prima della fine della guerra, di Paul che ha narrato le vicende in prima persona fino a poche righe prima.

Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era caduto con la testa in avanti e giaceva sulla sul terra, come se dormisse. Quando lo voltarono si vide che non doveva aver sofferto a lungo: il suo volto aveva un’espressione così serena, quasi che fosse contento di finire così 4.

Ma se le differenze a livello di narrazione e drammatizzazione possono essere pienamente comprensibili e spesso condivisibili, soprattutto quando il film mette particolarmente in risalto la miseria della vita dei soldati nelle retrovie e al fronte, in special modo la fame5 e il desiderio di una donna, niente affatto comprensibile e ancor meno condivisibile è la scelta di “esaltare” la figura dei rappresentanti del nascente governo parlamentare e dei socialdemocratici.

Sia per la funzione avuta da questi ultimi, soprattutto all’inizio della guerra, nel votare i crediti governativi in appoggio al nazionalismo tedesco, sia per la funzione autenticamente controrivoluzionaria svolta da quel governo al momento della sua nascita, con la decapitazione del movimento spartachista anche per mezzo dei Freikorps6, l’instaurazione di una politica volta allo stesso tempo a garantire, per la borghesia tedesca, una “pacifica” transizione dall’Impero alla repubblica parlamentare e la sostituzione delle istanze di classe, avanzate dai consigli degli operai, dei soldati e dei marinai che si andavano formando nelle settimane a cavallo della fine della guerra, con le richieste di stabilità e continuità avanzate dalla borghesia industriale, dal comando dell’esercito e dai rappresentanti degli junker e della aristocrazia terriera e militare.

Come il nascente nazismo abbia poi ripagato i rappresentati di quell’esperienza governativa è stata la storia degli anni successivi, fino dall’elezione a cancelliere di Hitler nel 1933, a dimostrarlo. Quello che infastidisce, perciò, ancor di più nel film è il maldestro tentativo di separare con una improbabile linea netta le responsabilità politiche, militari e, perché no, morali della socialdemocrazia tedesca da quelle dell’esercito e dei governi precedenti, creando una figura di riferimento “ideale” dal punto di vista del “male” nella figura del generale che invia a poche ore dalla fine della guerra i propri soldati al massacro, In un’azione insensata, così come si vorrebbe sostenere da sempre che il nazismo non affondasse le sue radici nel nazionalismo, negli interessi economici e militari della borghesia e dell’aristocrazia tedesca, ma soltanto in una distorta e malata concezione del mondo.

Ecco allora che anche i soldati devono essere dipinti come pecoroni, ancor più che pecore, disposti ad obbedire a qualsiasi ordine, anche il più assurdo. Dimenticando, però, che proprio nei giorni finali del conflitto, durante i quali si svolge la maggior parte degli avvenimenti della seconda parte del film, i soldati e i marinai stavano insorgendo, ribellandosi proprio contro quegli ordini, quei generali e quello Stato che la socialdemocrazia fu chiamata a difendere, giuste le considerazioni svolte prima da Fischer. Ancor più, e soprattutto, dopo l’abdicazione del Kaiser e la proclamazione della Repubblica il 9 novembre 1918.

Proiettato sul momento attuale, quel fraintendimento non appare affatto casuale o non voluto. Da una parte la socialdemocrazia odierna, guidata da Olaf Scholz, dall’altra i cattivi dell’AFL, in mezzo la Germania con tutte le sue difficoltà (economiche, energetiche, militari…) che, per senso del dovere e della patria i socialdemocratici di oggi, come quelli di ieri, devono affrontare e risolvere. A costo di far precipitare ancora una volta il paese in una guerra (se a fianco della Nato o meno è ancora da decidere) indiscutibilmente “mondiale” oltre che europea.

Ecco perché allora l’opera di Berger appare non solo ambigua, ma anche servile nei confronti di interessi che sono ancora gli stessi di quelli che contribuirono a scatenare il primo e, anche, il secondo conflitto mondiale. Autentiche lacrime di coccodrillo che coprono, cercando di annebbiare lo sguardo dello spettatore, quell’atto di eroismo collettivo che andò dalle prime rivolte dei soldati e dei marinai del novembre 1918, che costrinsero governo e comandi militari ad accelerare i tempi dell’armistizio, all’insurrezione di Berlino tra il 5 e il 12 gennaio 19197. Unico, autentico barbaglio di luce in un tempo che oggi, per opportunismo intellettuale o per semplice ignoranza della Storia, si vorrebbe rappresentare soltanto come nero e oscuro.


  1. Si veda qui per i 14 punti di Wilson – NdR.  

  2. Reprimendo l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 e ordinando l’eliminazione fisica, poi avvenuta in quei giorni, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht- NdR.  

  3. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965, pp. 813-815  

  4. E. M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, Oscar Mondadori, novembre 1965, p. 237  

  5. Ad esempio, nel romanzo di Remarque, Kat muore per una scheggia di shrapnel nel cervello invece che per aver rubato delle uova in una cascina.  

  6. Corpi franchi o milizie volontarie irregolari in cui erano arruolati ex- militari e combattenti dall’indirizzo decisamente anti-bolscevico e nazionalista  

  7. Per il susseguirsi degli eventi rivoluzionari in Germania fino al 1923, si consultino: Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino 1977; P. Frolich-R.Lindau-A. Schreiner-J. Walcher, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920, Edizioni Pantarei, Milano 2001; P. Frolich, Guerra e politica in Germania 1914-1918, Edizioni Pantarei, Milano 1995; A. Rosemberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972; D. Authier-J. Barrot, La Sinistra Comunista in Germania, La Salamandra, Milano 1981; E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in Occidente, Dedalo Libri, Bari 1974; V. Serge, Germania 1923. La mancata rivoluzione, Graphos, Genova 2003  

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Un gomitorio e un capolavoro nero https://www.carmillaonline.com/2022/11/05/un-gomitorio-e-un-capolavoro-nero/ Sat, 05 Nov 2022 21:21:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74677 di Mauro Baldrati

Quel gomitorio di Everything Everywhere All at Once

Nel dialetto della latitudine nord della bassa ravennate “vomitare” si diceva “gomitare”; per cui “ho il vomito” diventava “ho il gomito”; e una pietanza dal sapore particolarmente disgustoso si definiva “un gomitorio”. E’ un aggettivo perfetto per definire questo film. Ha avuto recensioni positive, alcune inneggianti al “capolavoro indie”, un “vortice anarchico di generi”, un “favoloso delirio”. Di favoloso c’è ben poco, ma il delirio dilaga. In alcuni punti il frenetico caleidoscopio di rimandi al mondo del “multiverso” raggiunge un parossismo [...]]]> di Mauro Baldrati

Quel gomitorio di Everything Everywhere All at Once

Nel dialetto della latitudine nord della bassa ravennate “vomitare” si diceva “gomitare”; per cui “ho il vomito” diventava “ho il gomito”; e una pietanza dal sapore particolarmente disgustoso si definiva “un gomitorio”. E’ un aggettivo perfetto per definire questo film. Ha avuto recensioni positive, alcune inneggianti al “capolavoro indie”, un “vortice anarchico di generi”, un “favoloso delirio”. Di favoloso c’è ben poco, ma il delirio dilaga. In alcuni punti il frenetico caleidoscopio di rimandi al mondo del “multiverso” raggiunge un parossismo privo di qualsiasi senso, non riscattato da una ricerca multigenere né tanto meno intriso di sperimentalismo estetico e narrativo. Dopo meno di un’ora, in cui il furore orchesco dei due registi/sceneggiatori è abbastanza sotto controllo, la storia inizia ad avvitarsi nello tsunami di grida, mitragliate di immagini provenienti dai vari universi paralleli, tanto che lo spettatore o si addormenta, o si impone di restare per non subire la frustrazione dell’abbandono, preferendo quella di una stoica sofferenza. Oppure, reazione incomprensibile, si diverte.

La vicenda in sé non è particolarmente originale, ma neanche troppo banale. Una famiglia americana di immigrati cinesi gestisce una grande lavanderia a gettoni in crisi finanziaria. La moglie è la vera imprenditrice, sempre esasperata e sgridante, mentre il marito è un debole, sottomesso e, scopriremo, stufo del matrimonio con una virago sempre spazientita, per cui ha chiesto il divorzio. Entrambi sono contrariati dalla decisione della figlia di affermare palesemente la propria omosessualità. Tutto procede quasi come nel quadretto di uno Spielberg nevrastenico, la rappresentazione della middle class americana molto poco edificante ma segnata dalla crisi, dalla perdita dei valori eccetera. Il tutto veicolato da una recitazione e da un flusso narrativo sempre sopra le righe. Poi iniziano le incursioni. Per mezzo di una specie di cuffia, e di varie madeleine disseminate qua e là – lo sgabuzzino delle scope, farsi la pipì addosso e così via – si aprono dei gates coi vari universi del Multiverso, dove ognuno di noi vive esistenze differenti, con qualità e talenti diversi. Due alter ego multiversiani interferiscono coi due protagonisti: una specie di agente segreto prende il posto del marito, cercando di rendere cosciente la moglie, che sarebbe l’eroina prescelta per fronteggiare una creatura del male che viaggia attraverso gli universi ed è arrivata fino a noi. Da qui in poi, inesorabile, parte la macchina scalena della follia metanfetaminica, così poco favolosa ma così aggressiva nei confronti del povero, ignaro, ingannato dalle recensioni, spettatore.

Un aspetto interessante, forse l’unico, sono i combattimenti di arti marziali. Davvero spettacolari, con soluzioni tecniche mai viste prima. Ma non bastano, purtroppo, per risarcire, neanche in parte, il senso di insopportabile inutilità che pervade tutta l’opera. (In sala.)

Quel capolavoro nero di Niente di nuovo sul fronte occidentale

La guerra, questa compagna inseparabile della specie umana, ha offerto moltissimi spunti per la cinematografia, producendo opere importanti, opere di denuncia per questa follia senza fine. Una fra tutti, ambientata nella Grande Guerra, la prima guerra moderna: Orizzonti di gloria, di Stanley Kubrick. Ci sono molti punti in comune, la trincea come sprofondamento nella malattia, nella morte lenta, la disperazione ma anche l’istinto di sopravvivenza, la pazzia criminale dei generali. Questo film accetta la sfida, avventurandosi, con una solida guida estetica e politica, nell’immensa, feroce giungla dell’Inferno.

Notevole è l’inizio, la ricostruzione dell’ambiente tedesco anteguerra, il furore interventista che ebbe, come interfaccia speculare, lo stesso fanatismo italiano. I giovani maschi, irretiti dalla propaganda, dalla promessa di gloria e onore, come gli antichi guerrieri greci e romani fremevano per arruolarsi, per la patria. Il protagonista Paul, poiché è ancora minorenne, arriva addirittura a falsificare la firma dei genitori per avere l’assenso. E mentre partono, quanta allegria, quanta esaltazione, quante aspettative.

E quanto dolore, quanta disillusione quando arrivano al fronte. E quanto orrore nella trincea, in inverno, piena d’acqua lurida e di fango, dove affondano e si congelano, sempre affamati e assetati. Ogni tanto arriva l’ordine, “attacco!”, e nessuno sa se tornerà vivo nella orribile cloaca paludosa del dolore e dell’impossibile. Sbucano fuori dalla fossa, come topi, e si gettano nella terra desolata crivellata di buche e di alberi morti, flagellati dalla mitragliatrice, cadendo come birilli, smembrati dalle granate. Attacchi privi di senso, prodotti dal delirio di potenza di generali felloni, indifferenti alla tragedia dei loro sottoposti, indignati perché la brioches che l’attendente ha loro servito non è abbastanza fresca. Il generale capo dell’esercito tedesco, un fanatico guerrafondaio, non volendo accettare la resa della Germania, arriva a ordinare l’ultimo attacco, poiché mancano alcune ore all’entrata in vigore dell’atto, provocando altre migliaia di morti.

Fin qui pare l’ennesimo film sulla guerra horror, già segnato da molti capolavori. Non è così. Riesce a produrre un altro step verso l’originalità, nella discesa agli inferi della follia, e della paura che questo possa essere il nostro immutabile destino, la nostra maledizione atavica: un predatore maligno che avanza nel presente e nel futuro come un immenso serpente velenoso per ingoiarci tutti. E mentre precipitiamo nel pozzo nero dell’incubo, dei fantasmi e dei non morti, avvertiamo anche l’alito gelido del demone successivo, quando sia in Germania sia in Italia, a guerra non terminata ma solo sospesa, un altro predatore affiancò il serpente, un mostro che si nutriva di povertà, di rabbia e di sconfitta: si chiamò nazi-fascismo. Pronto per scatenare un’altra mostruosa guerra di sterminio. (Su Netflix.)

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Bob Dylan tra Buddy Holly, Leadbelly, Melville e Omero https://www.carmillaonline.com/2017/12/14/bob-dylan-buddy-holly-huddie-leadbetter-melville-omero/ Wed, 13 Dec 2017 23:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41968 di Sandro Moiso

Bob Dylan, The Nobel Lecture, Feltrinelli 2017, pp.45, € 6,00

La lettura registrata da Bob Dylan nel giugno di quest’anno e inviata all’Accademia di Svezia, pochi giorni prima dello scadere del termine ultimo dei sei mesi che possono intercorrere tra la cerimonia ufficiale di assegnazione del Premio Nobel e la lecture che il premiato deve tenere per poter ricevere il premio in denaro, occupa soltanto venti pagine di testo, ma sono pagine densissime e utilissime per comprendere non soltanto l’itinerario di uno degli artisti più significativi degli ultimi sessanta anni ma anche il processo creativo insito nella [...]]]> di Sandro Moiso

Bob Dylan, The Nobel Lecture, Feltrinelli 2017, pp.45, € 6,00

La lettura registrata da Bob Dylan nel giugno di quest’anno e inviata all’Accademia di Svezia, pochi giorni prima dello scadere del termine ultimo dei sei mesi che possono intercorrere tra la cerimonia ufficiale di assegnazione del Premio Nobel e la lecture che il premiato deve tenere per poter ricevere il premio in denaro, occupa soltanto venti pagine di testo, ma sono pagine densissime e utilissime per comprendere non soltanto l’itinerario di uno degli artisti più significativi degli ultimi sessanta anni ma anche il processo creativo insito nella letteratura, i grandi miti che la sottendono e la sfuggevolezza di ciò che ci permette di contraddistinguere immediatamente un capolavoro da tutte quelle opere, apparentemente simili, che al suo confronto risultano essere da subito inferiori o insignificanti.

Il mito sembra costituire il centro dell’attenzione dell’ormai settantaseienne menestrello di Duluth e di tutto il suo processo di rielaborazione poetica e musicale non solo del patrimonio folklorico nordamericano, ma anche di quello letterario occidentale.
Sia che tratti inizialmente dello sguardo lanciato da Buddy Holly dal palco di Duluth ad un non ancora diciottenne Dylan il 31 gennaio 1959 oppure della scoperta, avvenuta pochi giorni dopo la morte del rocker texano nel febbraio dello stesso anno, della tradizione della musica nera americana attraverso un disco di Leadbelly, Dylan proietta immediatamente gli ascoltatori/lettori in una dimensione mitica.

Buddy scriveva canzoni che avevano belle melodie e versi pieni di immaginazione. E cantava in modo grandioso, cantava con più di una voce. Era l’archetipo, era tutto quello che io non ero e volevo essere […] Era potente, elettrizzante, e aveva una presenza che incuteva rispetto. Io ero a soli due metri da lui. C’era da restare ipnotizzati. Guardavo la sua faccia, le sue mani, il modo in cui batteva il ritmo con il piede, i suoi grossi occhiali dalla montatura nera, gli occhi dietro gli occhiali, il modo in cui teneva la chitarra, il modo in cui stava sul palco, il vestito curato. Sembrava avere più di ventidue anni. C’era qualcosa in lui che pareva eterno e mi riempiva di sicurezza.1

Il viaggio musicale e poetico di Dylan inizia con l’incontro con una sorta di semidio, destinato a morire ancora giovanissimo di lì a pochi giorni. Incontro che riproduce però anche l’eterno tema dell’incontro rivelatore con un giovane eroe apparentemente destinato a salvare e redimere il genere umano, da Gilgamesh a Gesù Cristo. L’eternità sembra accompagnarli illusoriamente mentre la morte e già in agguato, in attesa di donar loro l’ultimo e fatale abbraccio.

Subito dopo il giovane Dylan, attraverso la canzone Cotton Fields, incontra un’altra fonte della sua ispirazione artistica: il folk e le radici afro-americane della musica popolare statunitense.

Quel disco, in quel preciso momento, cambiò la mia vita. Mi trasportò in un mondo che non avevo mai conosciuto, fu come un’esplosione. Avevo camminato nell’oscurità e tutto a un tratto l’oscurità si era riempita di luce. Fu come se qualcuno avesse imposto le mani su di me.[…] Ero ancora legato alla musica con la quale ero cresciuto, ma in quel momento me ne dimenticai, non ci pensai più.2

In questo caso il tono diventa biblico, richiamando quella immensa tradizione religiosa compresa non soltanto in tanti spiritual e gospel della musica afro-americana, ma anche nella tradizione degli incendiari discorsi del populismo americano dall’Ottocento fino ad oggi. Un richiamo obbligato in ogni passaggio dell’autentico messianesimo dylaniano. Presente come annuncio e rivelazione fin dagli inizi della sua carriera, da Blowin’ in the Wind a Masters of War. Un territorio ancora raramente esplorato, motivo per cui gran parte della critica e del pubblico si scandalizzò, in realtà immotivatamente, all’epoca della presunta conversione religiosa di Dylan durante il periodo “gospel” tra il 1979-1981.3

Bob Dylan nel procedere della lettura ci trasmette consapevolmente e cripticamente, come sempre da Tarantula in avanti,4 il filo rosso per comprendere l’immenso pastiche che compone la sua intera opera, attraverso la rielaborazione costante dei miti letterari e popolari della cultura dell’estremo occidente.
In effetti le tre opere letterarie che il premio Nobel per la letteratura cita nella sua lezione sono Moby Dick di Herman Melville, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Enrico Maria Remarque e, infine, l’alba del mito letterario dell’Occidente: l’Odissea di Omero.

Nel richiamare queste tre opere Bob Dylan disvela come tutta la grande letteratura si basi su una rielaborazione costante di atti, simboli, figure e situazioni che si ripetono all’infinito, ma sempre in maniera differente, all’interno della narrazione, sia essa colta o popolare, religiosa o laica.
Motivo per cui morte, amore, guerra, dolore, astuzia, malvagità, coraggio, ostinazione, riso, illusione, natura, avventura, sangue, amicizia, ribellione e viaggi diventano elementi mitopoietici fondamentali, destinati a loro volta a dar vita, attraverso la rielaborazione del poeta scrittore e aedo, ad altri archetipi emblematici della cultura occidentale quali Ulisse, Achab o Stagger Lee.

Un lavoro di continua rielaborazione testuale che richiama il metodo di lavoro dell’attore su se stesso proposto da Stanislavskij che affermava che il numero delle trame possibili è assolutamente limitato e che ciò che cambia è soltanto il modo di narrarle o interpretarle.
Un lavoro in cui lo stile espressivo diventa importante quanto, e forse più, del contenuto stesso poiché costituisce il primo fattore destinato a rendere ogni volta nuova e interessante la narrazione e la sua rappresentazione.

Il paragone qui appena fatto non è assolutamente casuale poiché nella forma canzone e nella poesia, che ne costituisce uno degli aspetti, lo stile è determinante affinché un’opera “d’arte” sia tale, mentre le fonti di ispirazione per l’autore possono essere infinite così come le loro differenti reinterpretazioni.
Ecco allora che lo sguardo ipnotico di Buddy Holly si fonde con la memoria collettiva contenuta nella musica blues e gospel e, allo stesso tempo, l’inferno del fronte narrato da Remarque si confonde con i versi danteschi in cui calabroni e vermi tormentano coloro che sono destinati a non lasciare alcuna memoria di sé, suggendone il sangue mescolato al fango.

Così come in Moby Dick:

Tutto si mescola. Tutti i miti; la Bibbia giudeo-cristiana, miti indù, leggende britanniche, San Giorgio, Perseo, Ercole – sono tutti balenieri. La mitologia greca e il mestiere sanguinoso di fare a pezzi una balena. Ci sono molti fatti in questo libro, informazioni geografiche, olio di balena – buono per l’incoronazione di altezze reali -, famiglie nobili nell’industria baleniera. Con l’olio di balena si ungono ire. Storia della balena, frenologia, filosofia classica, teorie pseudoscientifiche, giustificazioni della discriminazione – tutto gettato alla rinfusa e nulla di davvero razionale. Stile alto, stile basso, a caccia di illusioni, a caccia di morte, la grande balena bianca, bianca come un orso polare, bianca come l’uomo bianco, l’imperatrice, la nemesi, l’incarnazione del male.5

Basta questo esempio per comprendere che la lecture di Dylan riproduce i temi, i tempi e i modi dei suoi talking blues. Non a caso nella registrazione si è fatto accompagnare al pianoforte da uno dei musicisti che lo accompagnavano già nel 1978: Alan Pasqua. Richiamando in questo modo le letture poetiche di Jack Kerouac che in Poetry for the Beat Generation (1959)6 si era fatto accompagnare al piano da Steve Allen.

Nelle preziose Note ai testi, curate da Alessandro Carrera (Che è anche il traduttore della Lecture oltre che dei tre volumi delle complete Lyrics dylaniane editi sempre da Feltrinelli tra il 2016 e il 2017) che chiudono il volumetto, si ricorda un episodio in cui alla domanda di John Lennon se potesse e volesse davvero usare tutto ciò che gli passava per la mente, Dylan avrebbe risposto affermando: “Posso usare qualunque cosa, John. Non ha importanza”.

L’Odissea è un libro straordinario e i suoi temi sono presenti nelle ballate di molti autori: Homeward Bound, Green Green Grass of Home, Home on the Range e anche nelle mie canzoni.7

L’affermazione è secca, il richiamo esplicito così come, ancora parlando del romanzo di Remarque, Dylan nel suo stile ellittico afferma, a proposito delle sofferenze dei soldati:

Sei davvero su una croce di ferro e un soldato romano ti avvicina alle labbra una spugna imbevuta di aceto.8

Non a caso la chiusura richiama ancora una volta Omero quando il poeta cieco recita: Canta in me, o Musa, e dalla mia bocca narra la storia.

Cosa significa tutto questo? Io e molti altri autori di canzoni siamo stati influenzati dagli stessi temi che possono voler dire molte cose diverse. Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che importa. Io non so qual’è il significato di una canzone, ho scritto qualunque cosa nelle mie canzoni e di sicuro non mi preoccupo di quale sia il loro significato. Quando Melville ha fuso il Vecchio Testamento, riferimenti biblici, teorie scientifiche, dottrine protestanti e tutta la conoscenza del mare, delle navi a vela e delle balene in una storia credo che nemmeno lui si sia preoccupato di sapere che cosa volesse dire.9

L’arte per Dylan, ed è l’autore stesso a suggerircelo, si manifesta attraverso le pieghe dello stile e non vi può essere novità se non nella costante reinvenzione e rielaborazione di un motivo, di una trama o di un mito. Tanto in ambito colto quanto in quello popolare, sia nelle culture scritte che in quelle orali.
L’originalità assoluta non esiste e i grandi artisti lo riconoscono e amano rinnovare e rielaborare miti e opere del passato, come volle riaffermare significativamente Pablo Picasso, nel 1957 quando era anche lui ultrasettantenne, rielaborando e dipingendo per ben 58 volte il quadro di Velàzquez Las Meninas. Lasciando agli absolute beginners l’illusione di essere nuovi, autentici e genuini.

Con buona pace di coloro che non capirono nel 1966 la svolta elettrica e di chi oggi condanna nello stesso modo il fatto che Dylan abbia dedicato gli ultimi tre dischi alla riproposizione del grande songbook americano da Stormy Weather a Come Rain or Come Shine.


  1. Bob Dylan, The Nobel Lecture, pag. 16  

  2. op. cit. pag. 17  

  3. Oggi ben documentato dal film Trouble No More e dal cofanetto di 8 cd dallo stesso titolo edito dalla Columbia/Legacy nell’autunno di quest’anno. Si confronti anche La bibbia di Bob Dylan di Roberto Giovannoli, Áncora edizioni 2017, di prossima recensione su Carmillaonline.  

  4. Bob Dylan, Tarantula, Feltrinelli 2007 (prima edizione americana 1966)  

  5. Dylan, cit. pag.23  

  6. Oggi riascoltabile in uno dei tre cd contenuti nel cofanetto The Jack Kerouac Collection, edito dalla Rhino Records nel 1990  

  7. op. cit. pag.31  

  8. pag. 29  

  9. pag. 34  

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