Nicoletta Vallorani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un orto politico contro il Potere https://www.carmillaonline.com/2023/02/15/un-orto-politico-contro-il-potere/ Wed, 15 Feb 2023 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76025 di Paolo Lago

N. Vallorani, Noi siamo campo di battaglia, Zona 42, Modena, 2022, pp. 319, euro 15,90.

Con Noi siamo campo di battaglia, Nicoletta Vallorani mette in scena un mondo distopico devastato da un Potere oscuro e terribile che si dirama nei più sottili interstizi della società. Si tratta, del resto, di uno scenario già delineato nei primi due romanzi di quella che si costituisce adesso come una trilogia, Eva (2002) e Avrai i miei occhi (2020). A questo potere si contrappongono singoli personaggi, perduti nelle nebbie di una squallida e metafisica [...]]]> di Paolo Lago

N. Vallorani, Noi siamo campo di battaglia, Zona 42, Modena, 2022, pp. 319, euro 15,90.

Con Noi siamo campo di battaglia, Nicoletta Vallorani mette in scena un mondo distopico devastato da un Potere oscuro e terribile che si dirama nei più sottili interstizi della società. Si tratta, del resto, di uno scenario già delineato nei primi due romanzi di quella che si costituisce adesso come una trilogia, Eva (2002) e Avrai i miei occhi (2020). A questo potere si contrappongono singoli personaggi, perduti nelle nebbie di una squallida e metafisica Milano del futuro oppure, come nel nuovo romanzo – in cui il “noi” emerge fin dal titolo – una comunità di individui i quali, da singoli, sono riusciti a trasformarsi in gruppo, quasi in un unico corpo che può opporsi alle rigide e dolorose norme imposte dal Potere. Come afferma la «prof» (un personaggio attorno al quale si organizzano in una comune i ragazzi protagonisti della storia) nell’Epilogo, «ora io è noi, anche adesso che sono sola in questo giardino». Perché «pensiamo plurale. Siamo noi e non io». Un «plurale» che lotta contro qualsiasi violenza imposta dal potere: violenza di genere, violenza contro la natura e l’ecosistema, violenza come carcere, violenza come sistema dittatoriale costruito su astruse e incomprensibili leggi.

Lo scenario distopico affrescato nel romanzo si ispira alla situazione reale che abbiamo vissuto sulla nostra pelle nei momenti più bui del periodo pandemico: una gestione dell’emergenza infarcita di leggi speciali e autoritarie, contraddittorie, spesso incomprensibili. Un periodo oscuro in cui i più sacrificati ed emarginati sono stati i ragazzi e i giovani, inquadrati come irresponsabili diffusori del virus. Nel mondo futuro allestito da Vallorani, dopo le diverse ondate di una pandemia, ormai i ragazzi sono diventati invisibili al mondo degli adulti, esclusi, emarginati, vittime sacrificali di turno. Con le scuole chiuse e ogni tipo di attività sociale abolita, i giovani sono come spariti di fronte allo sguardo degli adulti: «Chiusi in casa dopo un po’ non ci hanno più voluti. Portavamo il contagio senza essere necessariamente malati. Non ci ammalavamo ma dicevano che infettavamo gli adulti, quelli produttivi, mica dei bamboccioni come noi». L’ostracizzazione dei giovani è stata un grosso sbaglio perché, come afferma Carla Benedetti nel suo pamphlet La letteratura ci salverà dall’estinzione, essi sono capaci di farsi «acrobati del tempo», cioè di vedere ‘oltre’ laddove lo stanco sguardo adulto non riesce ad arrivare. Anche e soprattutto in tema di inquinamento e cambiamento climatico. In una città devastata dai mutamenti del clima, in cui da un’estate torrida si passa ad un inverno rigido, i ragazzi guidati dalla «prof», quando ormai le scuole sono definitivamente chiuse, si riuniscono nella comune chiamata il «Vivaio» perché l’idea è quella di costituire un orto e un giardino:

Ci venne questa idea dell’orto: far crescere qualcosa non era solo una questione di cibo, ma di prospettiva, proiezione verso il futuro. Volevamo farci piante, come Dafne trasformata in alloro, per sfuggire allo stupro che, dentro di noi, sapevamo che sarebbe arrivato. Era già con noi.

I ragazzi, proiettandosi verso il futuro, vogliono ricreare uno spazio naturale e trasformarsi in piante essi stessi, quasi come gli attivisti ambientali protagonisti di Il sussurro del mondo (The Overstory, 2019) di Richard Powers. Il Potere, per evitare il diffondersi della malattia, ha progressivamente cementificato l’intera città distruggendo la natura e le piante. Il «Vivaio», creando e curando il Giardino, mette in circolo una contestazione alle dinamiche imposte dall’alto. Può venire in mente, per certi aspetti, la comunità dei «Giardinieri» di L’anno del diluvio (The Year of the Flood, 2009), di Margaret Atwood, resistente ad una società dominata dalle derive di una scienza che attua continui esperimenti sul DNA. Come nel romanzo di Atwood, anche in Noi siamo campo di battaglia il Potere agisce direttamente sui corpi con una violenza che, per mezzo del carcere, si fa istituzionalizzata. Il carcere è uno spazio rigido e granitico dove si rinchiudono e si torturano gli oppositori a un regime che cerca di mantenere costantemente i cittadini in uno stato di emergenza e di paura. Una situazione che si ripete anche ai giorni nostri, fuori dalle distopie e dentro la realtà: la continua emergenza disposta contro fantomatici ‘nemici’ o contro il «terrorismo» non sta facendo altro che trasformare la nostra realtà quotidiana in distopia. Il «Vivaio», inviso alla macchina statale e burocratica, assomiglia ai centri sociali occupati e autogestiti, odiati iperbolicamente da qualsiasi forma di organizzazione di potere; ma assomiglia anche alle comunità delle periferie delle grandi città, composte soprattutto da giovani abbandonati a sé stessi, spesso stranieri o immigrati, che vengono respinti e ostracizzati con estrema violenza dal centro politico, economico e culturale delle città, come vediamo ad esempio nel recente film Athena (2022) di Romain Gavras.

Se in Avrai i miei occhi, la crudeltà del potere emergeva soprattutto sotto la forma di violenze imposte ai corpi delle donne, siano essi umani, cavie, cloni o cyborg (come nota Giuliana Misserville in Donne e fantastico, la fantascienza femminista ha usato largamente la figura del cyborg, a partire dal Manifesto Cyborg di Donna Haraway), adesso la forma della violenza appare diffusa ovunque, nella durezza delle repressioni delle manifestazioni, nell’annientamento della natura, nel controllo invasivo dei media, in un meccanismo crudele e perfetto: «L’epidemia produce l’emergenza che produce le regole che producono il regime militare che produce la distrazione collettiva. È tutto perfettamente sequenziale e sarebbe persino rassicurante, non fosse che nessuno se ne sta rendendo conto». Il personaggio di Yuri, incarcerato, sarà sottoposto alla tortura unicamente per dimostrarsi, alla fine, sottomesso al Potere: «Non è importante la confessione. Solo la sottomissione, in ogni forma di tortura».

Se il Potere si struttura nelle forme del carcere, del controllo emergenziale e della famiglia istituzionale, le cui modalità sono imposte da schemi predefiniti, la contestazione si articola nelle modalità della libera comunità e del giardino, uno spazio ‘eterotopico’ (come direbbe Foucault) in cui le radici delle piante si espandono e si diffondono. Alla rigidità del Potere, irreggimentato nelle sue astruse geometrie, si contrappone la fluidità del divenire. Emblema di questa fluidità sono appunto i ragazzi, portavoce di un mondo ancora possibile, un po’ come i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010) di Paolo Zanotti, i quali, in un mondo futuro devastato dal mutamento climatico, si allontanano dalle loro dimore durante la stagione delle piogge – nel momento in cui gli adulti si rintanano timorosi in casa – fino a intraprendere un viaggio iniziatico dalle connotazioni ecologiste. Tale fluidità fa sì che, nel romanzo di Vallorani, i ragazzi quasi si trasformino essi stessi in città fin dal titolo, in cui il «noi» si fa coincidere con un «campo di battaglia» che non è né più né meno che la città stessa devastata dalle maglie del Potere: nel corso della narrazione, infatti, si ripete più volte il sintagma «noi città». I ragazzi, per «fertilizzare» il futuro, diventano anche «creature compost», humus vivificatore per la diffusione dell’orto e del giardino nelle strade ormai cementificate dello spazio urbano (e allora, «noi siamo giardino»). I loro corpi, come già notato, sono soggetti a una metamorfosi continua per sfuggire alla violenza di un Potere irreggimentato in granitiche pose, «un nemico asettico e professionale, che indossa la scienza invece della crudeltà».

Un’altra espansione del Potere appare infatti una scienza asservita, in fin dei conti, agli interessi del Capitale: una scienza che diviene sinonimo di crudeltà. La creatività, la comunità, la pluralità si oppongono in maniera netta a tutto questo. Ecco che, anche in un panorama devastato da una gelida e allucinata distopia, c’è sempre spazio per la speranza. L’orto, il giardino, il «Vivaio» sono forme espressive che si contrappongono alla devastazione, all’annichilimento delle volontà, ai muri e alle barriere eretti nelle vie cittadine, alla disumanizzazione che non permette, in tempi di pandemia, di piangere i propri morti. L’orto e il giardino sono sinonimo di comunità, di un «noi» che lotta contro una scienza-crudeltà, contro il carcere, contro il controllo e la famiglia rigida e istituzionale. Anche a livello formale, Noi siamo campo di battaglia appare pervaso di una scrittura fluida e ‘nomadica’, in continuo movimento, in continua fuga dalle subordinazioni a un genere definito. La narrazione di Vallorani valica i generi, dalla fantascienza fino al thriller con incursioni anche nell’horror e nel fantastico, perché quando «il cielo è rosso sangue sui tetti della città», «è una serata da vampiri» (e allora si potrebbe pensare ad un’altra scrittura femminile, quella di Chiara Palazzolo con la sua «trilogia vampira»). La scrittura ‘plurale’ è sinonimo di comunità, di orto, di giardino, di vivaio ed è essa stessa politica, come quella attuata dal personaggio della «prof»; una scrittura che salva e si trasforma in una lotta che non finisce.

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Resistenza femminile fra immaginario fantastico e letteratura https://www.carmillaonline.com/2020/03/21/resistenza-femminile-fra-immaginario-fantastico-e-letteratura/ Sat, 21 Mar 2020 22:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58826 di Paolo Lago

Giuliana Misserville, Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi, prefazione di Loredana Lipperini, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 128, € 12,00.

Per affrontare un discorso su donne e letteratura fantastica, un ottimo punto di partenza può essere rappresentato dall’opera di Angela Carter, in cui si mescolano femminismo e fantastico e, soprattutto, dalla sua raccolta di racconti La camera di sangue (The Bloody Chamber, 1979). Il libro, che reinventa alcune celebri fiabe, ci offre dei personaggi femminili che compiono delle scelte e riescono a sottrarsi al destino loro assegnato dalla tradizione. Se, come scrive Franco Pezzini, il fantastico si può [...]]]> di Paolo Lago

Giuliana Misserville, Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi, prefazione di Loredana Lipperini, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 128, € 12,00.

Per affrontare un discorso su donne e letteratura fantastica, un ottimo punto di partenza può essere rappresentato dall’opera di Angela Carter, in cui si mescolano femminismo e fantastico e, soprattutto, dalla sua raccolta di racconti La camera di sangue (The Bloody Chamber, 1979). Il libro, che reinventa alcune celebri fiabe, ci offre dei personaggi femminili che compiono delle scelte e riescono a sottrarsi al destino loro assegnato dalla tradizione. Se, come scrive Franco Pezzini, il fantastico si può configurare come una vera e propria “resistenza culturale” alla banalità quotidiana, Claudia Durastanti, a proposito dell’opera di Carter, nota che una delle cose più belle che si impara dai suoi racconti è “ciò che la fantasia e l’immaginazione possono fare a una creatura ferita, per darle un’altra vita”. E continua affermando che Carter, “con la sua scrittura, ha sempre dato una seconda possibilità a una vittima, facendola sentire più di questo: come se la vittima fosse un ruolo sfortunato e temporaneo, ma non definitivo”.

Non a caso, uno dei sicuri punti di partenza del bel saggio di Giuliana Misserville, Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi, uscito recentemente per Mimesis, è proprio la raccolta di racconti di Carter della quale l’autrice ribadisce l’importanza: “Dopo Carter il rapporto col ‘mostro’ o col ‘perturbante’ verrà agito – e più avanti vedremo come – e non più subito. Le donne diventano soggetto”. Prendendo le mosse dalle opere di Carter e di Ursula Le Guin, un’importante autrice di fantascienza, per addentrarsi all’interno della narrativa femminile italiana, Misserville nota che un ostacolo che pesa in maniera significativa è il fatto che il fantastico non venga considerato “a pieno titolo espressione della narrativa tout court, ma rimane piuttosto in una condizione di zoo minoritario lasciando insondata la questione del suo rapporto con la letteratura mainstream, quella con la L maiuscola che viene insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado, struttura corsi di laurea e viene premiata da più e meno gloriose istituzioni letterarie del bel paese”. Una condizione di minorità all’interno della quale le autrici sono penalizzate in un mercato librario prevalentemente maschile. Eppure, come giustamente nota Valerio Evangelisti, citato da Misserville, “viene il sospetto che il fantastico, e in particolar modo la fantascienza, rappresentino il solo modo per descrivere adeguatamente, in chiave narrativa, il mondo attuale”.

Il volume di Giuliana Misserville, esordendo con un capitolo introduttivo intitolato Le di lei “Terre di mezzo” con un riferimento all’immaginario di Tolkien, come se, appunto, queste “terre di mezzo” rappresentassero dei territori di resistenza di un fantastico tutto al femminile, si concentra soprattutto su sei autrici: Chiara Palazzolo, Nicoletta Vallorani, Nadia Tarantini, Viola Di Grado, Laura Pugno, Loredana Lipperini.

All’interno della narrativa della prima scrittrice studiata, Chiara Palazzolo, assume un ruolo sicuramente rilevante la trilogia fantastica (Non mi uccidere, 2005; Strappami il cuore, 2006; Ti porterò nel sangue, 2007), declinata verso l’horror, dedicata alla figura di una giovane vampira, Mirta / Luna, una ragazzina morta per un’iniezione letale di eroina praticatale dal suo amante, Robin; risvegliatasi dalla tomba, Mirta diventa Luna e si unisce ai sopramorti che per sopravvivere devono divorare i viventi. Come afferma la stessa Palazzolo, il periodo in cui nascono e prendono forma le storie della vampira è quello successivo all’attentato terroristico dell’undici settembre 2001 che trasforma le Twin Towers di New York in due gigantesche torce. L’attacco terroristico alle Torri, in cui persero la vita migliaia di persone, innesta negli individui un senso generale di vulnerabilità e una paura diffusa nei confronti dell’altro. Come bene osserva Misserville, questo momento di vulnerabilità e paura segna il ritorno in grande stile, in ambito letterario, della figura del vampiro, vero e proprio interprete dei periodi di crisi fin dal diciottesimo secolo. Ma c’è di più. Il vampiro, infatti, nella trilogia di Palazzolo, è anche un acuto e distaccato osservatore che si interroga sul senso dell’umano, come nel film di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013): qui, il vampiro Adam, malinconico collezionista di chitarre d’epoca e autore di musiche apocalittiche, mentre accompagna la sua Eva in giri notturni in una spettrale Detroit, esprime dei giudizi sugli esseri umani che appaiono come una sorta di zombie, degli esseri abulici dediti al rapido consumo di ogni cosa.

La narrativa di Nicoletta Vallorani, la seconda scrittrice affrontata nel saggio, si indirizza verso le tematiche del posthuman, in uno scenario narrativo cyberpunk. Nella seconda metà degli anni Ottanta, infatti, sulla scia del Manifesto cyborg di Donna Haraway, la fantascienza femminista ha utilizzato molto la figura del cyborg eleggendolo a simbolo politico in grado di superare la condizione di subalternità della donna rispetto all’universo maschile. Il cuore finto di DR, romanzo insignito del premio Urania nel 1992, mette in scena la detective cyborg Penelope De Rossi alle prese con il mistero della sparizione del marito dell’erede di un’importante industria farmaceutica che fabbrica e smercia il sintar, la droga del futuro. Lo scomparso, in realtà, è un transfuga di Entierres, un pianeta in cui il sintar cresce naturalmente e di cui si vorrebbero impadronire i terrestri. Un sicuro punto di riferimento nell’opera di Vallorani è Cuore di tenebra di Joseph Conrad, all’interno del quale la figura di Kurtz diviene il “simbolo della peggiore ideologia coloniale e polo estremo e oppositivo di tutta la narrativa che le analisi postcoloniali prendono in esame” . Il personaggio di Conrad risulta di notevole importanza anche in un altro romanzo di Vallorani, Eva (2002), che Misserville acutamente definisce come “una distopia scritta in tempi non sospetti, prima che questa assumesse la risonanza che abbiamo davanti agli occhi”. La distopia di Vallorani “spinge il pedale sull’alterazione politica e emotiva del tessuto urbano”: l’ambientazione del romanzo è infatti “una Milano che è una fantasia confusa di Belfast, Kabul e Ground Zero”.

Il primo romanzo di Nadia Tarantini è del 2017, Quando nascesti tu, stella lucente, una storia sospesa tra fantascienza e fantasy che delinea una società del futuro sopravvissuta al “Grande Disastro”, attraversata da lotte per impadronirsi del potere. Due, secondo Misserville, sono i temi che assumono maggiore rilevanza nelle pagine di Tarantini. Uno è la memoria, la quale è strettamente correlata all’identità degli individui (la memoria individuale è anche uno dei temi cardine della società del futuro tratteggiata in Blade Runner di Ridley Scott). Uno degli obiettivi del governo totalitario della società affrescata nel romanzo è quello di gestire e impedire le emozioni degli umani, in modo da renderli più felici e soprattutto totalmente governabili. Il secondo tema “riguarda la questione di cosa sia il potere per le donne, non il potere dei rapporti interpersonali ma quello vasto che permette di conquistare regni e imperi”. Soltanto il corpo può custodire memorie private e memorie collettive, una dimensione corporea che diviene assai rilevante in una prospettiva di genere. Non è un caso, infatti, che i gender studies rivestano di grande importanza il personal criticism, un atteggiamento critico in cui la dimensione del corpo assume un ruolo di primo piano.

Il corpo è estremamente presente anche nei romanzi di Viola Di Grado e, fra di essi, il saggio si concentra soprattutto su Cuore cavo (2013). In esso riveste un ruolo di primo piano il tema della maternità. Si ricorda, del resto, che le tematiche che affrontano i vari aspetti del materno, oltre ad avere una sicura rilevanza nella narrativa degli ultimi anni, sono anche state oggetto di una particolare attenzione da parte delle elaborazioni teoriche delle femministe riunite attorno alla Libreria delle Donne di Milano e alla comunità Diotima di Verona. La protagonista del romanzo, Dorotea, dopo la morte, inizia una nuova vita, fra i vivi e i morti e ritorna in modo ossessivo nella casa dove si è uccisa e dove ancora vive la madre, “perno attorno al quale gira la sua ricerca di affettività”. Le figure di madri messe in scena da Di Grado nei due primi romanzi (Settanta acrilico, trenta lana, del 2011 e, appunto, Cuore cavo) sono creature dolenti e fragili che cercano di proteggere figlie spaesate dalla mancanza di un sicuro riferimento materno. Nel primo romanzo, lo spazio in cui si muovono i personaggi è quello di una città inglese, Leeds, immersa in uno squallore simile a quello della attuale condizione postindustriale, regno dello scarto e dell’abbandono, e che può ricordare la Detroit in cui si muovono i vampiri del già citato Solo gli amanti sopravvivono di Jarmusch. In Bambini di ferro (2016), i “bambini di ferro” del titolo sono sottoposti a un programma di accudimento materno artificiale affidato a “Unità Materne Virtuali” che, contagiate da un virus informatico, li lasciano “emotivamente guasti”: “Attraverso le vicende di due bambine di ferro, una adulta e l’altra di pochi anni che ha perso i genitori in un incidente, si affaccia il richiamo di un affetto che è l’eco del ritmo segreto della natura, l’adesione buddista al respiro del mondo”. Come scrive la stessa scrittrice, “i bambini di ferro, alienati in un mondo alienato, sono coloro che più si avvicinano a una dimensione affettiva autentica”.

L’opera narrativa di Laura Pugno, la successiva autrice affrontata, si concentra soprattutto sull’ “ossessione per il confine fra naturale e umano, appassionate strategie per combattere l’apocalissi, la scomparsa, la perdita” (secondo le parole della stessa Pugno). Basti pensare al suo esordio narrativo: Sirene (2007). La figura letteraria della sirena, spesso utilizzata dalla critica femminista, è qui al centro di una vicenda di sopraffazione e violenza: “Le sirene, esseri a metà strada tra l’animale e l’umano, sono allo stesso tempo prede sessuali e cibo prelibato e vengono allevate in grandi vasche per la riproduzione. Il rapporto di totale rapina dell’uomo nei confronti della natura è portato alle sue estreme conseguenze, l’appetito sembra aver divorato ogni sentimento residuo; eppure Samuel, uno dei sorveglianti che si è accoppiato di nascosto con una sirena, darà la sua vita per mettere in salvo l’essere nato da quell’unione interspecie”. E comunque, la natura messa in scena dalla scrittrice non è assolutamente un paesaggio idilliaco e rassicurante ma si tratta di qualcosa di primordiale, di selvatico e animale allo stato puro. Una natura che sovrasta l’uomo e le sue fragili strutture, come ne La caccia (2012) in cui il protagonista, appunto, è impegnato in una caccia a una Bestia che ha già ucciso diverse persone: “Gli animali sono dunque i messaggeri di qualcosa che abbiamo condiviso e che non ricordiamo più; sono messaggeri residui, deprivati del senso del sacro, inascoltati, cacciati, divorati e divoranti. Noi viviamo accanto a loro ma non siamo più in grado di decifrare il messaggio che recano. Non li vediamo nel loro tremendo splendore. Non li temiamo e non li adoriamo più come facevano i nostri antichi progenitori quando ancora credevano nei miti, perché erano parte della costruzione del mito”.

L’ultima autrice trattata è Loredana Lipperini, scrittrice, saggista, giornalista e ‘voce’ di Fahrenheit di Radio Tre, la quale firma anche la prefazione del saggio. Lipperini scriverà molti suoi romanzi sotto l’eteronimo di Lara Manni, con il quale si sentirà più libera di dedicarsi al fantastico. Esbat esce dapprima come una fan fiction a puntate dal giugno al settembre 2007: il romanzo mette in scena un fantasy in cui al posto degli hobbyt ci sono le adolescenti italiane e la Terra di Mezzo è un quartiere di Roma. Successivamente, il romanzo, ispirato al manga della disegnatrice giapponese Rumiko Takahashi, diventa la prima parte di una trilogia che comprende Sopdet. La stella della morte (2011) e Tanit. La bambina nera (2012). Nella trilogia emergono i motivi che resteranno quelli più tipici della narrativa di Lipperini, come il debito della narrazione letteraria verso altre espressioni artistiche (la musica, il disegno), i giochi col tempo e gli sbalzi temporali. Importante è inoltre il tema del doppio, del quale l’autrice ha parlato in un incontro pubblico alla Casa internazionale delle donne a Roma, tenutosi nel luglio 2018. Con L’arrivo di Saturno (2017), la scrittrice mescola reale e fantastico per generare sempre più nuova linfa narrativa, in una sinergia tra fantasy e quotidianità che può ricordare certi film di Guillermo del Toro, soprattutto Il labirinto del fauno (2006) e La forma dell’acqua (2017). L’ultima prova narrativa di Lipperini è costituita dalla raccolta di racconti Magia nera, uscita nel 2019. Sono dodici racconti suddivisi in quattro sezioni dedicati ai temi Matrimoni, Madri, Ribellioni e Doni: le protagoniste sono donne normalissime inserite all’interno di una scontata quotidianità. Come scrive Giuliana Misserville, “i racconti di Magia nera percorrono il sentiero stretto che da un lato ha la vita quotidiana e dall’altro la realtà alterata da uno sguardo in grado di registrare gli inceppi nelle dinamiche degli esseri umani e utilizzarli come accensione della narrazione fantastica”.

Il saggio di Misserville, insomma, spalanca una interessante finestra sul fantastico femminile italiano contemporaneo ma non solo. Frequenti, infatti, sono i richiami alla letteratura internazionale, in cui vengono chiamate in causa molte altre scrittici contemporanee: è il caso della già citata Angela Carter, di Ursula Le Guin, di Margaret Atwood. L’interdisciplinarietà con la quale è allestito il saggio permette poi diverse aperture verso altre espressioni artistiche oltre quella letteraria, come quella figurativa o cinematografica. E si potrebbe concludere con l’immagine suggestiva che ci offre la stessa Misserville: la narrativa delle sei autrici analizzate, intrisa di un desiderio inesausto che impregna non solo le narrazioni fantastiche ma anche la saggistica femminista, potrebbe essere assimilabile quasi al “Dono oscuro” di cui è dispensatore il vampiro Lestat in Intervista col vampiro, romanzo di Anne Rice pubblicato nel 1976, poi portato sullo schermo da Neil Jordan nel 1994. Il Dono oscuro è la capacità di creare nuovi vampiri, di diffondere uno sguardo ‘altro’ capace di osservare la limitatezza e la parzialità dello sguardo mortale, un po’ come quello del protagonista del già citato film di Jarmusch. Ebbene, conclude Misserville, “la lente del fantastico costituita dalla produzione letteraria delle sei scrittrici qui riunite sembra essere in grado di funzionare da insieme ‘contagioso’ e fecondo di molteplici letture e ulteriori scritture a venire, di essere per noi insomma simile a un Dono oscuro, che rinnovi la visione che abbiamo del mondo, trasformandola, e aprendoci il passaggio a dimensioni impreviste”. Un “Dono oscuro”, uno sguardo vampiresco pieno di inesausto e infinito desiderio, una resistenza del fantastico e dell’immaginazione al femminile contro la più banale e scontata normalità.

Riferimenti bibliografici:

Claudia Durastanti, Le mille e una Angela Carter, “La Repubblica”, 8 marzo 2017.

Valerio Evangelisti, Distruggere Alphaville, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2005.

Franco Pezzini, Le lenti, lo specchio e i vetri della finestra. Il fantastico come linguaggio-laboratorio e macchina per pensare, in AA.VV., Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 49-73.

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