Nicola Labanca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaginario coloniale italiano https://www.carmillaonline.com/2019/01/05/immaginario-coloniale-italiano/ Fri, 04 Jan 2019 23:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50505 di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di [...]]]> di Armando Lancellotti

Gabriele Bassi, Sudditi di Libia, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 278, € 24.00

Che cos’è l’immaginario coloniale? Quali fattori intervengono ed interagiscono nella sua elaborazione? Come cambia nel corso del tempo o conseguentemente al mutare di altre condizioni? Quali motivazioni lo sottendono e ne richiedono la formulazione? Quali fini persegue e quali effetti, immediati e temporanei o successivi e permanenti, produce? In che modo l’immagine modifica la realtà e come da quest’ultima è condizionata?

Sono queste alcune delle domande a cui risponde il volume scritto da Gabriele Bassi – dottore di ricerca, storico e studioso del colonialismo italiano – che delimita il campo della sua indagine alla Libia, colonia italiana dall’età giolittiana alla seconda guerra mondiale, dal 1911-’12 al 1943, e al punto di vista coloniale, cioè quello del conquistatore italiano, che elabora l’immagine del “suddito di Libia” del tutto indipendentemente dalla effettiva conoscenza della realtà e della popolazione libiche. Si costruisce aprioristicamente uno stereotipo, lo si applica alla realtà, dando luogo ad un pregiudizio che a sua volta conferma e corrobora lo stereotipo: è questo il circolo vizioso che – spiega Bassi – agisce da meccanismo di produzione di un immaginario coloniale.

L’immagine del suddito coloniale di Libia si forma grazie alla convergenza di almeno tre fattori: lo stereotipo con cui l’italiano conquistatore si accosta al libico da sottomettere; il contatto con la realtà libica e i libici dopo la conquista della colonia; le esigenze della propaganda politica. Inoltre il lavoro di Bassi mette in luce come la rappresentazione del suddito coloniale non sia qualcosa di statico, ma, tutto al contrario, sia un’immagine dinamica e variabile che, sulla base di un sostanziale – e questo sì invariabile – disprezzo razzista dell’altro, si trasforma per alcuni aspetti, anche importanti, a seconda delle particolari circostanze storico-politiche, interne ed internazionali, e delle conseguenti e contingenti esigenze politico-propagandistiche.

In generale, l’immagine del suddito coloniale si regge su una tanto essenziale quanto necessaria ignoranza dell’oggetto della rappresentazione e risponde a finalità e consegue obiettivi funzionali esclusivamente all’interesse del conquistatore. L’ignoranza del soggetto da rappresentare è il prerequisito della costruzione dell’immagine stereotipata del popolo da sottomettere; le finalità perseguite sono la spiegazione e la giustificazione dell’impresa coloniale, la legittimazione della conquista, la riconferma dell’opportunità e della convenienza della sottomissione del suddito al potere del colonizzatore. Si tratta di dinamiche e di fenomeni che non riguardano solo il colonialismo italiano o, ancor più nello specifico, il caso della Libia italiana, ma interessano l’intero macro evento storico dell’imperialismo occidentale tra ‘800 e ‘900 e pertanto, semplificando e sintetizzando al massimo le dettagliate analisi e le approfondite considerazioni di Bassi, si può dire che anche nel caso italiano la costruzione dell’immaginario coloniale declini il paradigma del “fardello dell’uomo bianco” e del diritto-dovere occidentali alla “conquista civilizzatrice”.

A fare da cornice e da punti di riferimento costanti del lavoro di Gabriele Bassi sono gli studi storiografici sul colonialismo italiano, che all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, grazie ai contributi di Giorgio Rochat e Angelo Del Boca prima di altri, hanno sottratto l’argomento alla semplice memorialistica o all’oblio conseguente alla perdita delle colonie; a questi si aggiungono poi i lavori riconosciuti da Bassi come fondamentali di Claudio G. Segré, Federico Cresti e Nicola Labanca. Soprattutto quest’ultimo – sostiene l’autore – «è lo studioso che più sembra avvicinarsi all’utilizzo degli studi culturali, già diffuso all’estero, per comprendere la storia coloniale italiana» (p. 24). Ed è proprio al modello dei “cultural studies” che Gabriele Bassi si ispira per affiancare allo studio dei fatti economici, politici, militari anche quello dei molteplici e complessi fenomeni ed aspetti culturali, che – da Orientalism (1978) di Edward Said in poi – non possono più essere trascurati nello sforzo di comprensione complessiva del fenomeno del colonialismo. Scrive Bassi:

Il nostro studio sull’immagine del libico nella percezione comune degli italiani parte dalle premesse dello stesso Said, verificandone la piena applicabilità anche nell’esperienza coloniale in Libia. Si è cioè sviluppata una ricerca incentrata non solo su “cannoni e soldati – come sosteneva appunto Said – ma anche idee, forme, rappresentazioni, meccanismi dell’immaginario” (p. 26)

Come è noto l’Italia liberale muove i suoi primi incerti passi di politica coloniale, in un contesto di scarso interesse dell’opinione pubblica e di limitato coinvolgimento delle forze economiche del paese, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento e nel Corno d’Africa, dal momento che le mire italiane sul Nord Africa ed in particolare sulla Tunisia, prima ancora che sulle ottomane Tripolitania e Cirenaica, vengono frustrate dall’intervento francese del 1881 nel paese nordafricano. Nonostante ciò, già in quegli anni comincia a prendere forma un’immagine del libico, che Bassi evince soprattutto da resoconti o memorie di esploratori e viaggiatori, che risente di tutti gli stereotipi razzisti europei, propri della mentalità coloniale: i libici, ma più in generale i popoli africani, sono inevitabilmente rozzi, incivili, arretrati, violenti, insomma bisognosi dell’intervento civilizzatore e salvifico di un popolo europeo.

Intorno agli anni Dieci del Novecento poi, in un contesto decisamente più favorevole alla politica coloniale rispetto al precedente, la costruzione dell’immagine del libico, che è in procinto di diventare suddito coloniale, prosegue, per concludersi con una rappresentazione che insieme contiene aspetti sia negativi sia positivi: alle connaturate negligenza e pigrizia e all’arretratezza civile, dovuta anche agli effetti della dominazione ottomana, fanno da contraltare le potenzialità positive, come le capacità di apprendimento e di assimilazione che una guida adeguata – come quella italiana – potrà fare emergere e mettere a frutto. Insomma, la martellante propaganda filogovernativa, filocoloniale e nazionalista assegna alla “Grande Proletaria” una inderogabile missione di civilizzazione e di progresso. La guerra italo-turca inizia a settembre del 1911, ma la presunta “passeggiata militare”, che con la consueta nonché infondata supponenza, che già era costata cara a fine Ottocento in Abissinia, i vertici militari e politici avevano ipotizzato, si dimostra in realtà molto impegnativa e l’appoggio generale della popolazione libica alle truppe turche contribuisce ad una prima significativa variazione nella rappresentazione della propaganda coloniale: viene creata «l’icona del libico quale “bestia”, “traditore”, “barbaro”, e non curante dell’opportunità “civilizzatrice” che gli veniva offerta» (p. 33).

A guerra conclusa – prosegue l’attenta ed interessante analisi di Bassi – cambiano nuovamente le esigenze dalla propaganda, che ritorna ad alternare l’immagine negativa del libico che resiste e si oppone a quella delle grandi potenzialità di una popolazione che, quando avrà compreso le buone e positive intenzioni italiane, collaborerà alla propria emancipazione. Lo scoppio della Grande Guerra nell’estate del 1914 e la decisione italiana di intervenire nel 1915 cambiano drasticamente il quadro della situazione in Libia, perché di nuovo l’Italia è in guerra contro l’Impero ottomano ed è costretta quasi ad abbandonare il territorio, che fatica a controllare e contestualmente la resistenza libica si rianima. «Fu da tutto ciò che ebbe origine l’immagine del libico che caratterizzò il periodo dalla seconda metà del 1914 fino al termine della prima guerra mondiale. Si trattò nuovamente di una forte demonizzazione del “ribelle”» (p. 38). La riabilitazione del suddito libico subentra nel 1919, quando si pensa anche ad un possibile coinvolgimento di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia e alla collaborazione, seppur asimmetrica, tra italiani e libici. Ma la presa del potere del fascismo nel 1922 muta ancora una volta la situazione.

Le differenze tra la politica coloniale dell’Italia liberale e di quella fascista sono più di grado che di sostanza, in quanto aree di interesse ed obiettivi rimangono gli stessi, mentre mutano i mezzi per conseguirli e conservarli; di certo aumentano sia la violenza della politica italiana in Africa sia il coinvolgimento della propaganda che la deve sostenere e giustificare. Pertanto, l’immagine del suddito libico si configura secondo differenti e mutati aspetti e sfaccettature, che risentono di una nuova fase della politica italiana in Libia, quella della “riconquista” della colonia, più semplice e veloce in Tripolitania, decisamente più complicata e difficile in Cirenaica.

Si fece […] una cesura, netta, tra due principali figure. Il libico “lungimirante” e “sottomesso”, che aveva compreso i buoni propositi dell’Italia, e che quindi più o meno attivamente aveva deciso di collaborare […] ed il libico “cieco”, ostinato a combattere una guerra dal risultato ormai scritto in suo sfavore» (pp. 44-45). Una seconda distinzione «avvenne in ambito geografico, ma fra tripolitani e cirenaici. Mentre i primi, per tutti gli anni Venti, si ritennero avviati in un percorso di “redenzione”, i secondi rimasero per l’intero decennio sotto il controllo della Senussia, considerati pertanto quasi indistintamente tutti “ribelli” (p. 45).

La cosiddetta “pacificazione” della Cirenaica, in realtà una guerra cruenta combattuta contro la resistenza locale guidata da Omar al-Muctar, prosegue dal 1929 al 1932 e per avere la meglio dei nemici Badoglio e Graziani adottano i metodi e gli strumenti più spietati: la deportazione della popolazione civile, l’apertura di campi di concentramento, la costruzione di una reticolato invalicabile di filo spinato lungo 270 km, che trasforma una parte della Cirenaica in uno sterminato campo di prigionia. Lo sforzo della propaganda del regime diventa quello di presentare questi provvedimenti, innanzi tutto agli italiani e secondariamente ai libici stessi, non solo come necessari, ma anche come salutari strumenti di realizzazione di un progresso benefico anche per coloro che si ostinano ad opporvisi. L’obiettivo viene raggiunto, rappresentando i sudditi cirenaici come “banditi”, ingrati “traditori”, “barbari” e “violenti”.

L’immagine della realizzazione dei campi di concentramento della Cirenaica offerta dalla stampa coloniale e nazionale fornì un’ultima conferma della definitiva e radicale demonizzazione del ribelle […]. I campi, da mezzo di repressione estremo e disastroso per l’economia e la società libiche, giunsero persino a rappresentare una sorta di vetrina dell’operato del fascismo in colonia. […] Il Regime ebbe piuttosto la necessità di magnificare l’opera del colonialismo fascista e quindi la propaganda non tardò molto ad aggiustare il tiro iniziando a fare leva sulla funzione educativa dei campi. Non si parlò più di semplici strutture detentive, bensì di luoghi in cui l’Italia di Mussolini realizzava la sua missione civilizzatrice (p. 50).

A “pacificazione” avvenuta, ancora una volta la rappresentazione del libico si trasforma, per diventare quella di un suddito, almeno potenzialmente, disposto alla collaborazione e che finalmente e progressivamente va acquisendo coscienza delle opportunità di civilizzazione e progresso a lui generosamente offerte dalla conquista e dal governo italiani. Di nuovo riprendono a circolare ipotesi circa un possibile coinvolgimento dei sudditi nell’amministrazione della colonia, o almeno di una ristretta élite e in mansioni secondarie, ma di certo non viene meno l’atteggiamento paternalistico che percepisce i libici come un popolo inferiore ed arretrato che abbisogna, come un bambino, della guida sicura di un popolo adulto e civile. Si tratta di un paternalismo che ben presto assume i tratti dell’esplicito razzismo, quando, nella seconda metà degli anni Trenta, il regime decide la svolta in tal senso e in concomitanza non casuale con un’altra impresa coloniale, quella “imperiale”, cioè quella abissina. Non si può infatti trascurare il fatto che il fascismo consideri il colonialismo anche alla stregua di un’officina nella quale forgiare il prototipo dell’”uomo nuovo”, dell’italiano fascista consapevole ed orgoglioso della propria superiorità di razza e civiltà e conscio del proprio destino imperiale.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale produce l’ennesima trasformazione della rappresentazione dei libici: da un lato, a seguito delle sollevazioni popolari che tentano di sfruttare le difficoltà belliche italiane, ritorna in auge l’immagine del “suddito ingrato e traditore”, dall’altro si tenta di presentare l’immagine del “libico fedele” che si duole dell’arrivo degli inglesi, al fine di «presentare l’invasione inglese e l’eventuale perdita della Cirenaica come un sopruso che non avrebbe goduto dell’appoggio libico. […] L’intenzione era quella di mettere in rilievo la soddisfazione dei libici rispetto all’amministrazione di Roma nascondendo il loro malcontento e le loro aspirazioni all’autonomia legate alla prospettiva di un cambiamento di governo. Era un ultimo tentativo ci creare un’immagine artefatta, adatta alle esigenze coloniali del momento» (p. 65).

Altre approfondite analisi, analoghe a quelle sopra riassunte per sommi capi e sulla base di un ricchissimo apparato di fonti e di riferimenti bibliografici, Gabriele Bassi le produce anche su ulteriori aspetti del processo di costruzione dell’immaginario coloniale libico. Prendendo le mosse dalla definizione di Bruno Mazzara, secondo la quale «lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio: una serie di informazioni su una categoria di oggetti o di persone che consente la riproduzione e la trasmissione sociale inalterata del pregiudizio» (p. 104), Bassi individua e passa in rassegna i diversi elementi stereotipici che concorrono alla elaborazione del pregiudizio coloniale italiano del “suddito libico” e questi sono: la violenza, il fanatismo, la sporcizia, la pigrizia, la disonestà. È fin troppo evidente come questi stereotipi permangano tutt’oggi nei pregiudizi in circolazione ed in crescente aumento nella società italiana nei confronti di immigrati, stranieri, islamici e rom.

Interessanti sono anche le considerazioni sull’immagine costruita dalla propaganda italiana, tanto liberale quanto fascista, del “libico collaboratore”, cioè, in altri termini, del “buon suddito” sottomesso e disponibile a partecipare al lavoro di civilizzazione italiana della colonia. Si tratta di una rappresentazione del tutto artificiale, in quanto – come dimostra Bassi – una politica di vera integrazione tra metropolitani e libici, salvo qualche sterile tentativo, non viene intrapresa dai governi italiani e a maggior ragione nel periodo fascista, quando si procede, secondo una direzione diametralmente opposta, alla realizzazione della netta separazione tra italiani e libici, anche attraverso lo strumento dell’istruzione e della scuola.

Bassi si sofferma anche su quest’ultimo aspetto di grande interesse, perché le autorità di occupazione italiane, sin dal periodo liberale, vedono nell’insegnamento della lingua italiana, nell’organizzazione della scuola e dell’istruzione gli strumenti più efficaci per avvicinare la popolazione locale ai conquistatori, per coinvolgere i libici nell’amministrazione italiana del territorio, per imporre e consolidare il potere italiano nella colonia. Ancora maggiore si dimostra successivamente l’attenzione riservata a questi aspetti della politica di amministrazione della Libia dal regime fascista e per numerose ragioni: i bambini e i giovani si prestano più facilmente ad essere educati, cioè plasmati, secondo le esigenze italiane rispetto agli adulti e ai vecchi, legati alle loro tradizioni, sospettosi nei confronti degli occupanti e sostanzialmente non disposti alla collaborazione con i conquistatori. Inoltre, esattamente come in patria, il regime assegna alla scuola il compito a lungo termine di modellare in modo fascista le generazioni a venire e nella fattispecie i sudditi sottomessi, ubbidienti e collaborativi del futuro. In terzo luogo, predisponendo un sistema scolastico ed impartendo un’istruzione “italiana” ai libici, si può conseguire il duplice fine di formare le figure professionali che si ritengono necessarie per lo sfruttamento economico del territorio e dimostrare, tanto agli italiani quanto ai libici stessi, che l’Italia realizza pienamente il proprio dovere, la propria missione di civilizzazione.

L’immagine del “libico sul banco di scuola” risente – osserva Bassi – di tutti gli stereotipi negativi sopra ricordati. Il bambino libico viene descritto come indisciplinato, incostante, lento nell’apprendimento, sporco, dotato di inferiore intelligenza e per quantità e per qualità. Ne consegue che le autorità italiane concepiscano come adatta a questo (stereo)tipo di studente un’istruzione esclusivamente basilare, finalizzata al lavoro e all’impiego in una tipologia ben precisa di professioni, semplici ed umili. Di fatto, l’istruzione offerta dagli italiani ai giovani libici si limita a quella della scuola elementare, seppure in alcuni momenti dei quarant’anni di occupazione coloniale della Libia si pensi anche all’eventualità di concedere almeno alle élite locali l’accesso alla scuola secondaria. Ma se da un lato questo consentirebbe un più agevole coinvolgimento collaborativo di una parte della popolazione nell’amministrazione della colonia, dall’altro lato prevale nelle autorità italiane il timore che attraverso l’istruzione superiore possano diffondersi aspirazioni indipendentistiche e spinte in direzione dell’emancipazione nazionale, insomma idee ed ideologie anti-italiane. Pertanto, la scuola italiana in Libia, per tutta la durata del dominio coloniale, conserva una netta separazione di istituti, percorsi didattici, programmi e testi scolastici per i metropolitani – sostanzialmente identici a quelli in uso in patria – e per i sudditi libici, relegati quindi alla condizione di studenti di second’ordine e destinati ad una formazione scolastica strettamente funzionale agli interessi italiani.

Il denso, ricco ed approfondito libro di Gabriele Bassi è un lavoro di ricerca accurato e di grande interesse che attraverso le metodologie e l’approccio dei “cultural studies” contribuisce a fare avanzare gli studi su un argomento e su un periodo della storia italiana – il colonialismo – che ancora oggi è tra i meno conosciuti e divulgati e tra i più trascurati anche dall’editoria e dalla manualistica scolastiche, a conferma, anche in questo caso, di uno stereotipo solidissimo, quello che vuole l’Italia quasi sempre oggetto o vittima e quasi mai soggetto di violenze e soprusi.

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Cent’anni fa a Caporetto https://www.carmillaonline.com/2017/11/12/centanni-fa-a-caporetto/ Sat, 11 Nov 2017 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41468 di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo [...]]]> di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo che fece sentire i suoi effetti per un lungo periodo di tempo successivo alla sua conclusione: la battaglia, la disfatta e la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917.

Lo studio di questa pagina così determinante della storia italiana del ‘900 viene affrontato dallo storico e docente dell’Università di Siena in un saggio volutamente più “agile” e “snello” delle ponderose monografie già disponibili sull’argomento e/o di recente e quasi contemporanea uscita ed attingendo cospicuamente ad un materiale di archivio tanto ricco quanto spesso poco considerato dagli studiosi nei cento anni che ci separano dai giorni dell’attacco austro-ungarico e tedesco alle linee italiane sull’alto Isonzo: i verbali di centinaia di interrogatori di semplici soldati, sottufficiali, ufficiali ed alti ufficiali compiuti dopo la guerra da una apposita Commissione di inchiesta, di cui sono stati spesso esaminati – ricorda Labanca – i due volumi della Relazione finale, ma non tutte le carte e tutto il materiale dalla Commissione raccolti.

Come già nel libro scritto e curato qualche anno fa insieme a Oswald Überegger sulla guerra italo-austriaca [su Carmilla], Labanca intraprende strade di ricerca più originali e meno praticate di altre, riuscendo a ricomporre in sole duecento pagine un quadro della disfatta di Caporetto completo, ricco di spunti per successivi approfondimenti e scritto con una prosa efficace e piacevole.

Labanca prende a prestito dallo storico militare inglese John Keegan il concetto di “nebbia di guerra”, che efficacemente spiega come per il soldato che combatte la percezione di ciò che accade in battaglia sia qualcosa di confuso, di caotico ed impreciso, essendo il combattente totalmente preso dalla preoccupazione per la propria sopravvivenza, dallo scompiglio della battaglia, dall’impressione provocata dal sangue e dalla morte che lo circondano e lo incalzano. La sua visione delle cose è come quella di chi osserva la realtà a sé circostante avvolta da una fitta nebbia o di chi fissa un oggetto da una prospettiva troppo ravvicinata. Trascende, quindi, le possibilità del soldato direttamente coinvolto nello scontro la comprensione d’insieme della battaglia e a maggior ragione della guerra nel suo complesso; ma l’effetto della “nebbia di guerra” si produce anche per chi comanda la truppa e pure per gli alti ufficiali, che, anche se non partecipano direttamente alla battaglia armi in pugno e la osservano da una diversa prospettiva, spesso non ne colgono però il senso complessivo; anche la loro è una prospettiva “annebbiata” e parziale.

Questo concetto, sostiene Labanca, si può certamente applicare ai soldati italiani coinvolti nella battaglia e nella rotta di Caporetto, dal 24 ottobre fino al 9 novembre 1917, quando l’esercito riuscì a riorganizzare una linea difensiva lungo il Piave, «di essa i combattenti, e spesso i comandanti, conoscevano quello che vedevano, ma avevano difficoltà a raffigurarsi l’insieme» (p. 9).

Per diradare questa nebbia occorre – come sempre richiede il lavoro storiografico – la presa di distanza dall’oggetto, la ricostruzione del quadro complessivo, la composizione delle differenti prospettive, l’accumulo di riflessioni, analisi e studi e la considerazione delle loro diversificazioni e stratificazioni nel corso del tempo. L’idea dell’autore è allora quella di pensare Caporetto a cent’anni di distanza, prima considerando l’infittirsi di quella coltre di “nebbia di guerra” che calò sul tratto di fronte dell’alto Isonzo tra Plezzo e Tolmino e non solo nei giorni della sconfitta, della rotta e della ricostituzione della linea difensiva sul Piave, ma anche per molto tempo ancora dopo la battaglia, per poi procedere al diradamento di quelle brume, reso possibile dal lavoro di un secolo di storiografia.

La prima interessante parte del volume è dedicata proprio alla lettura, all’ascolto, delle tante voci dei protagonisti della battaglia e della rotta di Caporetto – i militari – attraverso il materiale della Commissione di inchiesta. Ne esce un quadro estremamente ricco e diversificato di punti di vista, percezioni e giudizi sull’accaduto, articolato per differenze di grado gerarchico, per estrazione sociale, per istruzione e cultura, per orientamento politico e per livelli di consapevolezza molto eterogenei, sia della battaglia di Caporetto in particolare, sia della guerra italiana ed internazionale nel suo complesso.

L’unico che in quelle convulse giornate sembrò non avere dubbi sulle ragioni dell’accaduto fu Luigi Cadorna, il Comandante supremo delle forze armate italiane, che già il 28 ottobre divulgò un comunicato a tal punto sconcertante che il governo cercò di correggerlo e di edulcorarlo in una seconda versione ufficiale, anche se nel frattempo quella originale era già circolata all’estero e da lì rientrò in Italia. In essa si parlava di soldati “vilmente ritiratisi” ed “ignominiosamente arresisi” al nemico.

Ciò che colpisce – scrive Labanca – del comunicato del 28 ottobre è che «Cadorna sembrava volere dare l’impressione di aver capito e saputo tutto. E di aver trovato subito i colpevoli: non lui stesso, in primo luogo, né il Comando supremo o l’esercito, ma i soldati (di “taluni” reparti, che avevano ceduto, ma in fondo anche delle altre truppe i cui sforzi “non erano riusciti a impedire” la disfatta) e per certi versi il governo (se solo all’esercito, e non a quello, in guerra “sono affidati l’onore e la salvezza della Patria”)» (p. 11). In realtà, come le analisi e le attente ricostruzioni del libro di Labanca dimostrano nei capitoli centrali, le cose non stavano in questi termini e le responsabilità principali della disfatta sono da ricercarsi proprio negli errori e nelle gravissime deficienze dei comandi e quindi di Cadorna in primis. Le ragioni militari, in sostanza, vengono prima di quelle “politiche” (il presunto tradimento e il disfattismo) che, non disinteressatamente, Cadorna lasciava intendere.

Caporetto, seppur quantitativamente non paragonabile alle catastrofiche ecatombi di Verdun o della Somme sul fronte occidentale, per l’Italia fu davvero qualcosa di sconvolgente e pauroso: «Da sole la rottura del fronte e poi la rotta a essa seguita […] portarono all’invasione austrotedesca di più di 20.000 kmq del territorio nazionale e […] arretrarono di 150 km il fronte dal Carso, dall’Isonzo e dalle Alpi Carniche sin giù al Piave. L’Italia lasciò sul campo 11.000 morti e 29.000 feriti. In mano agli avversari restarono 300.000 prigionieri. Forse altri 300.000 uomini rimasero sbandati nella rotta. Dopo l’ottobre del 1917, con Caporetto, la guerra italiana combattuta fin dal maggio 1915 all’offensiva per Trieste e Trento diventò strettamente difensiva» (pp. 86-87).

Anche se «l’immagine che diede origine al più resistente mito di Caporetto: lo “sciopero militare” dei soldati italiani» (p.92), ovverosia la rappresentazione che più si impresse nell’immaginario collettivo fu quella dello sbandamento di una fiumana di soldati che precipitosamente arretravano, spesso gettando il fucile o abbandonando l’uniforme, in realtà le ragioni decisive della disfatta sono da ricercare sul piano strategico-militare, tanto in relazione alla situazione del fronte dell’alto Isonzo nell’autunno del 1917, quanto in relazione all’intera conduzione della guerra da parte dell’alto comando italiano.

È noto che il tratto tra Tolmino e Plezzo era considerato una parte relativamente tranquilla del fronte e che i comandi italiani non sospettavano che gli austro-tedeschi potessero attaccare lì, nonostante che tra settembre ed ottobre fossero arrivate sempre più informazioni circa i preparativi nemici di truppe per un attacco proprio in quel punto. La sottovalutazione del caso particolare si inseriva poi in un quadro strategico generale che considerava il fronte giulio, ma nella sua parte meridionale, come quello centrale e decisivo per le sorti del conflitto italiano e che concepiva ostinatamente la conduzione della guerra sull’Isonzo in un solo modo possibile, che presto trasformò la guerra sul fronte italiano in una assurda carneficina non dissimile a quelle che si consumavano su tutti gli altri fronti: l’offensiva continua, per infliggere al nemico le cosiddette “spallate” (le dodici battaglie dell’Isonzo, l’ultima della quali fu proprio quella di Caporetto). Ma la guerra di trincea dava maggiore «forza alla difesa rispetto ai piani dell’offesa» (p. 99).

Tra gli “errori di valutazione” non vanno certo dimenticati – spiega Labanca – anche la sopravvalutazione delle potenzialità e della forza dell’esercito italiano e la sottovalutazione del fatto che il paese era entrato in guerra tra mille divisioni e contraddizioni politiche. Ancor più nello specifico poi, la ricerca ossessiva della “spallata” offensiva aveva indotto i comandi a concentrare troppe forze sulle prime linee, senza che venissero predisposte truppe di riserva nelle retrovie, linee arretrate ben attrezzate e pronte all’utilizzo in caso di ripiegamento, o che fossero concepiti piani precisi per comandi preparati ad attuarli. Anche gli ordini, tardivi indecisi ed inadeguati, impartiti da Cadorna subito dopo la rottura del fronte lasciano intendere come l’incomprensione della nuova tattica d’attacco degli austro-tedeschi (l’infiltrazione) e l’impreparazione fossero massime. Una inadeguatezza complessiva dell’alto comando italiano che secondo Labanca trovava una spiegazione non secondaria anche nella impostazione data allo Stato Maggiore dal Comandante supremo. «La centralizzazione sulla figura di Cadorna […] della politica di ricompense e promozioni […] contribuiva a creare passività ed induceva al conformismo e al servilismo una parte della più alta ufficialità italiana» (p. 64). Insomma, una scarsa capacità di prendere iniziative indipendenti le cui conseguenze si sarebbero rivelate fatali anche a Caporetto.

Se dal vertice dell’esercito italiano passiamo alla considerazione dei punti di vista e delle prospettive della base del medesimo, il quadro cambia completamente. Dalle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta dai soldati semplici si evince come le trincee italiane fossero «rudimentali, da tracciare, da rafforzare» (p.25) e come fosse di conseguenza forte il malessere patito dalle truppe del Regio Esercito al fronte, che forse anche per questo – osserva ed ipotizza Labanca – nel momento dell’improvviso attacco nemico «cedettero, o non resistettero quanto forse essi stessi avrebbero potuto pensare di saper fare» (p. 25). Nonostante gli sforzi economici, produttivi, industriali per armare adeguatamente l’esercito dopo l’entrata in guerra del ’15, le distanze fra l’esercito italiano e gli eserciti di molte delle altre potenze belligeranti si erano sì ridotte, ma non completamente colmate e di fronte al massiccio, improvviso ed inaspettato attacco nemico, un attacco molto ben preparato e progettato, le truppe italiane si trovarono in grande difficoltà.

Oltre agli aspetti tecnico-militari ci sono poi quelli politici che emergono dalle parole pronunciate dai soldati semplici davanti alla Commissione. Non si trattò tanto di uno “sciopero militare” effettivamente e consapevolmente concepito e realizzato (cosa che Labanca tende decisamente ad escludere che sia accaduto), quello “sciopero militare” cioè che rappresentò lo spauracchio principale per lo Stato maggiore dell’esercito, per la classe politica e dirigente italiana, e non solo quella interventista in senso stretto, ma che in realtà – nonostante Cadorna nel suo comunicato del 28 ottobre lasciasse proprio intendere che la rotta fosse dovuta a questo – non si verificò mai, quanto piuttosto si trattò della “stanchezza” dei soldati, del loro scoramento e della loro sostanziale sfiducia o «presa di distanze dall’esercito, dal governo e dallo Stato liberale che li avevano trascinati in quel conflitto» (p. 27).
Al momento della ritirata e del ripiegamento molti soldati erano sbandati, spesso anche per l’impreparazione dei comandi che non seppero come comportarsi nel momento della rottura del fronte e della rotta, in altri casi per scelta spontanea e personale, in altri ancora forse anche con la speranza che questo significasse finalmente la fine della guerra. Di fatto, molti erano arretrati gettando l’uniforme e il fucile lungo i cigli delle strade o dentro ai fossi. «Quei soldati, almeno in quel momento, fra l’Isonzo e il Piave, non volevano più fare la guerra» (p. 29), nonostante che il “pugno di ferro” della più inflessibile disciplina militare, a cui Cadorna aveva da subito fatto ricorso dopo l’entrata in guerra, colpisse implacabile con soppressioni e fucilazioni sommarie, nel tentativo di arginare lo sfaldamento delle truppe.

La Commissione di inchiesta, scrive Labanca, riservò «qualche attenzione […] anche al comportamento degli ufficiali inferiori, tenenti e capitani, perché si voleva essere rassicurati che aveva tenuto la borghesia italiana, la quale aveva riempito i gradi dell’ufficialità di complemento» (p. 34). Dalle testimonianze raccolte – conclude lo storico – risulta chiaro che anche per i sottufficiali di complemento le ragioni della rotta fossero sostanzialmente militari, anche se poi certi aspetti della reazione e del comportamento dei soldati avrebbero potuto anche fare supporre o temere ci fosse dell’altro.

Salendo i gradi della gerarchia militare, Labanca considera le testimonianze rese alla Commissione dagli ufficiali subalterni (sottotenenti, tenenti) e da quelli superiori. In questo caso si trattava di uomini con un sufficiente livello di istruzione e di cultura, che consentiva loro di avere, rispetto alla truppa, una visione d’insieme ben più articolata di quanto accaduto a Caporetto e della guerra in generale, una guerra di cui condividevano le ragioni e di cui sostenevano la necessità, avendo sposato le ragioni dell’interventismo italiano. Nonostante questo, fa notare Labanca, è necessario distinguere tra le posizioni dei subalterni, solitamente più vicine a quelle dei semplici soldati, nonostante qualche accusa “cadornista” di disfattismo o di codardia, e quelle degli ufficiali superiori, nelle quali l’addossamento delle responsabilità ai combattenti ritenuti imbelli e vigliacchi è decisamente più frequente, anche se non mancano lucide analisi tecnico-militari sull’efficacia della nuova strategia dell’infiltrazione messa in atto dagli austro-tedeschi e sulle carenze delle linee difensive italiane. Insomma, mano a mano che si sale di grado nella catena di comando militare, la spiegazione “militare” (cioè innanzi tutto la responsabilità dei comandi) lascia il posto alla spiegazione “politica” (cioè la responsabilità dei soldati disfattisti e di chi ne avrebbe traviato lo spirito patriottico).

La Commissione di inchiesta coinvolse infine anche i generali e gli alti comandi dell’esercito italiano, che direttamente (Cadorna, Capello, Cavaciocchi, ecc) o indirettamente erano stati investiti dalla disfatta e dalla rotta di Caporetto.
Innanzi tutto, fa notare Labanca, i generali facevano parte (e così si consideravano) della élite del paese ed inoltre la loro prospettiva sull’accaduto era di molto diversa e “distante” da quella non solo dei semplici soldati, ma anche da quella degli ufficiali inferiori. In linea di massima, osserva Labanca, nelle dichiarazioni degli alti ufficiali emergono la tendenza alla spiegazione giustificazionista della disfatta di Caporetto, che viene spesso derubricata a livello di una delle tante pesanti sconfitte subite da tutti gli eserciti combattenti, o il ridimensionamento dell’impatto politico della rotta. A questi argomenti si aggiunge poi il tentativo degli alti comandi di “scaricare” verso il basso le responsabilità dell’accaduto, non solo in direzione della truppa, ma anche degli ufficiali di complemento o comunque subordinati.
«È in questo quadro, di una élite militare che, nel segreto della deposizione a una commissione d’inchiesta, prova a scaricare su altri responsabilità anche proprie, che vanno lette le ripetute accuse ai soldati. Qui, il cadornismo si rivela più diffuso di quanto si potesse pensare” (pp. 54-55).

Certo non mancarono anche le voci che registrarono e denunciarono tanto l’efficacia delle strategie nemiche quanto l’insufficienza e le carenze delle forze e delle difese italiane, ma la propensione alla spiegazione cadornista era prevalente. Forse, fa notare Labanca, solo pochi avrebbero sottoscritto le esatte parole dello sconcertante comunicato del Comandante supremo del 28 ottobre, ma l’idea che la disfatta fosse stata facilitata, se non proprio causata, dalla propaganda neutralista o disfattista e da uno strisciante pacifismo, che poteva aver portato se non proprio allo “sciopero militare” quanto meno all’arrendevolezza dei soldati, al crollo morale delle truppe, fino addirittura alla vigliaccheria, emerge dalle parole degli alti ufficiali e dei generali del nostro esercito.

Per quanto riguarda le accuse di ignominia e di viltà di fronte al nemico, gli alti comandi poi divergevano al momento di individuarne la causa scatenante ed il fattore determinante: chi accusava i “rossi”, chi i “neri”, chi cioè i socialisti e chi i cattolici, chi il Psi, che aveva adottato la linea del “né aderire né sabotare” senza mai sposare quella dell’”unione sacra”, chi la Chiesa cattolica, su posizioni di ostruzione verso lo Stato liberale sin dall’unità e neutraliste e critiche verso la guerra, come quelle espresse dal discorso del Papa sull’”inutile strage”. Gli scioperi operai di Torino e la rivoluzione in Russia non facilitavano certo le cose, dal punto di vista dello Stato maggiore.

«Insomma», conclude Labanca, «non si può dire che tutti i generali fossero chiusi in un cieco antisocialismo (o anticlericalismo). Vi erano posizioni differenziate, o quanto meno sfumature importanti, nei loro ragionamenti sulle ragioni della rotta. Qualunque fosse la graduatoria dei sospetti e delle analisi, però, forse tutti questi generali avrebbero condiviso […] la stessa sensazione: “Nell’autunno del 1917 l’esercito era maturo per la disfatta”» (p. 73). Infine, su tutte queste analisi e conseguenti valutazioni sulle cause dell’accaduto «svettavano soltanto i portatori di un giudizio, o meglio di un pregiudizio, convinti di sapere cosa era successo: erano gli interventisti più accesi, i sostenitori della tesi dello “sciopero generale”, Cadorna con il suo comunicato del 28 ottobre. Tra gli alti ufficiali interrogati dalla Commissione a distanza di mesi da quando era stato emesso, e pur consapevoli che Cadorna era stato di fatto ormai destituito e accantonato, non pochi si dimostrarono ancora pienamente convinti della giustezza di quel comunicato» (p. 78).

Il quadro che emerge dalla lettura delle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta è quindi quanto mai composito e complesso, come complessa e difficile era la situazione del paese e non solo della sua parte combattente, ma anche della società civile; Caporetto risvegliò ed acuì contrasti e criticità che attraversavano trasversalmente il paese. Senza pretendere di riassumere in poche righe le ricche argomentazioni e le accurate ricostruzioni del libro di Labanca, ricordiamo che Caporetto, oltre a trasformare la guerra italiana da offensiva in difensiva e a lasciare nelle mani del nemico una quantità ingente di territorio nazionale, di armi e materiale bellico di ogni tipo, col pericolo concreto di perdere definitivamente la guerra qualora gli austro-tedeschi fossero riusciti a sfondare anche sul Piave e a penetrare in Pianura Padana, causò, tra le tante cose, anche la caduta del governo, la sostituzione di Cadorna con Diaz, l’adozione di una nuova strategia militare, la predisposizione di un moderno apparato di propaganda, la radicalizzazione delle contrapposizioni politiche che poi avrebbero contribuito, dopo la guerra, all’avvio del processo che condusse alla crisi e al crollo dello stato liberale.

La disfatta e la rotta di Caporetto toccarono i nervi scoperti di un paese che nella Grande Guerra era entrato tra mille contraddizioni: quelle di uno stato che inviava milioni di uomini, ed in particolare contadini, a combattere per una nazione dalla quale nei precedenti cinquant’anni di vita unitaria quelle medesime masse popolari erano rimaste escluse e non integrate; quelle di un governo e di un capo dello stato che guidavano il paese in guerra attraverso una “forzatura” politica che riusciva a scavalcare l’ostacolo di un parlamento e di una società civile in maggioranza neutralisti. Ovvero quelle di due fronti, neutralisti ed interventisti, non solo tra loro contrapposti, ma estremamente eterogenei al proprio interno, cosicché l’interventismo rivoluzionario, quello irredentista e quello nazionalista, a ben guardare, non potevano aver molto in comune tra loro, come, sull’opposto fronte, il neutralismo cattolico, quello socialista e quello giolittiano. E così poco avevano in comune che alla fine giolittiani e cattolici ad una sorta di molto incompleta “unione sacra” italiana parteciparono (a maggior ragione dopo Caporetto), ma mai i socialisti; mentre nell’altro campo, chi pensava di combattere per Trento e Trieste rischiava la vita e moriva per gli obiettivi imperialistici segretamente fissati dal governo con il Patto di Londra. Lacerazioni che sarebbero riemerse poi nel clima del dopoguerra, infuocato anche dalla questione della “vittoria mutilata”, la cui “mutilazione” – osserva Labanca – fu in buona parte dovuta anche alla pesante disfatta di Caporetto, che poneva l’Italia, agli occhi dei suoi alleati, nella posizione dell’ultima delle potenze vincitrici. E tutto questo, a cui si aggiungevano speranze e delusioni, illusioni e frustrazioni sociali e politiche prodotte dalla guerra, fu un carburante potente ed abbondante per il motore del fascismo che in pochi anni prese in mano il paese.

Insomma se il 1917, come si è soliti affermare, fu un cruciale anno di svolta all’interno di quell’evento, la Grande Guerra, che viene assunto come punto di inizio del “secolo breve”, allora il 1917 italiano il suo punto di non ritorno lo conobbe sull’alto Isonzo, tra Tolmino e Plezzo, ed è forse corretto dire che il “secolo breve” italiano sia iniziato con Caporetto.

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La smania fascista per l’impero: a ottant’anni dalla guerra d’Etiopia https://www.carmillaonline.com/2016/03/11/la-smania-fascista-per-limpero-a-ottantanni-dalla-guerra-detiopia/ Fri, 11 Mar 2016 22:30:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29017 di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7) Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un [...]]]> di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7)
Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un angolo remoto e buio, momenti al contrario fondamentali, essenziali del proprio vissuto, cioè della storia di questo Paese.

La dimenticanza qui presa in considerazione dallo storico riguarda la guerra d’Etiopia, scoppiata e combattuta esattamente ottant’anni fa (1935/’36), ma a differenza di altre ricorrenze dell’anno 2015, come l’inizio della Grande guerra italiana e il settantesimo della Liberazione, sostanzialmente trascurata, se non addirittura ignorata, dall’opinione pubblica, cosa che più in generale accade per l’intera storia del colonialismo italiano otto-novecentesco, affrontata, ricostruita ed interpretata dagli studiosi e da analisi sempre più attente e specifiche, ma sostanzialmente ignorata dall’opinione pubblica, soprattutto nelle sue manifestazioni più brutali ed imbarazzanti; ma non per questo meno pronta a riemergere da dietro le quinte della nostra coscienza storica collettiva, dove abita latente, per modellare luoghi comuni, pregiudizi e giudizi del modo italiano di pensare l’altro, lo straniero, l’africano in particolare.

Il “vuoto di memoria” collettivo risulta in questo caso particolarmente problematico perché riguarda una guerra che, per numerosi – e da Labanca con precisione considerati – motivi, ebbe un’importanza fondamentale per l’Italia fascista, produsse effetti incisivi sugli equilibri internazionali della seconda metà degli anni Trenta, fu organizzata e combattuta in modo per molti aspetti diverso dalle altre guerre coloniali europee e portò alla formazione di un impero coloniale africano fascista e razzista.
Innanzi tutto, come il titolo del libro lascia subito intendere, essa non fu la “guerra dei sette mesi” celebrata dal regime, ma durò molto di più, ben oltre il maggio del 1936 e l’entrata di Badaglio ad Addis Abeba, in quanto proseguì fino all’autunno del 1941, quando le truppe del Commonwealth britannico conquistarono l’AOI (l’Africa orientale italiana), evidenziando quanto velleitari fossero stati i sogni di grandezza imperiale di Mussolini. Una guerra quindi che inizia quattro anni prima del secondo conflitto mondiale, ma la cui conclusione costituisce un episodio di quest’ultimo.
Come scrive Labanca, «essa era iniziata almeno tre volte, e per tre volte dichiarata finita. […] Partita come guerra d’aggressione dello Stato fascista a uno Stato africano indipendente, era iniziata di nuovo ora da parte delle istituzioni ormai dell’Africa orientale italiana contro le popolazioni che non volevano accettare il nuovo dominio coloniale», fatto questo che diede luogo a ininterrotti cicli di operazioni di “polizia coloniale” contro oppositori e resistenti etiopi, «infine era ripresa di nuovo, come capitolo e campagna di una più ampia guerra mondiale». (p. 219)

Ma la guerra italiana in Abissinia fu anche un “evento globale”, sia per gli intrecci gravidi di nefaste conseguenze che stabilì con i contemporanei avvenimenti di un quadro politico internazionale che andava rapidamente predisponendosi per l’esplosione del 1939 – per questo, scrive Labanca, da storici africani ed africanisti è stato sostenuto che la guerra italiana del 1935/’36 sia da considerare come il primo passo della seconda guerra mondiale – sia perché fu osservata con attenzione preoccupata ed ostilità in tutto il mondo e non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, nell’Urss di Stalin, fino alla Cina e al Giappone. Ma nonostante la preoccupazione internazionale dinanzi alla smania mussoliniana per l’impero, le due grandi potenze coloniali europee (Inghilterra e Francia) – e si tratta di un ulteriore motivo di importanza di questa guerra – applicarono quella politica dell’appeasement, che avrebbero poi replicato nei confronti della Germania hitleriana fino alla Conferenza di Monaco compresa.

Labanca copertina EtiopiaMa allora perché a fronte di una così evidente rilevanza, tanto per la storia d’Italia quanto per quella mondiale, la guerra d’Etiopia occupa uno spazio così ridotto della nostra memoria nazionale collettiva? Ci sembra in realtà che la situazione di marcata divergenza tra analisi e ricerche sempre più numerose e sempre più puntuali di studiosi e storici prodotte negli ultimi decenni, da un lato e consapevolezza collettiva vaga ed approssimativa che facilmente muta in sostanziale ignoranza, dall’altro riguardi non solo o in particolar modo la guerra fascista all’Abissinia, ma anche altre pagine rilevanti del nostro passato, come la conquista “liberale” prima e la riconquista fascista poi della Libia, o le campagne di Grecia, Jugoslavia e Russia, la cui memoria storica è altrettanto vaga o quasi esclusivamente concentrata su alcuni aspetti, di solito quelli meno negativi o imbarazzanti per il popolo italiano.

Sul piano dello stato di avanzamento degli studi, Labanca – coerentemente con l’indirizzo dei suoi più recenti interessi che guardano in direzione di un approccio storiografico transnazionale [su Carmilla] – denuncia l’assenza, per il momento, di «una storia della guerra d’Etiopia radicalmente transnazionale, basata sulla conoscenza dell’intreccio della parte italiana e della parte etiopica (e, pro quota, eritrea, somala, araba, ecc)» (p. 21), ma è sulla ricostruzione dei meccanismi e delle ragioni delle dimenticanze e delle lacune della memoria collettiva che il libro si sofferma e si concentra.

Nell’interessante nono ed ultimo capitolo – Ricordare la guerra d’Etiopia – Labanca sostiene che affinché il ricordo di un evento storico si fissi nella memoria collettiva di un popolo occorre un contesto complessivo e generale che lo contenga, un «macro-ricordo (una categoria, una cornice) entro cui poter inserire quello specifico oggetto». (p. 220) Nel caso italiano della guerra in Abissinia, una prima “cornice” di riferimento fu il fascismo stesso, dal 1936 fino alla sua caduta, che la guerra l’aveva voluta e combattuta, ma dopo il 1945 essa risultò del tutto inutilizzabile, eccezion fatta – ovviamente – per i nostalgici più o meno dichiarati. A ciò si aggiunga che la guerra africana rimase schiacciata, finendone ridimensionata, dalla memoria di altri avvenimenti decisamente più importanti per il Paese, come la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione, il passaggio alla Repubblica. Ricordi questi che molto meglio si acconciavano al nuovo presente post fascista, repubblicano e democratico rispetto ad una guerra fascista, imperialista e razzista, seguita da una perdita dell’impero che Labanca definisce efficacemente come una «decolonizzazione senza decolonizzazione» (p. 221), essendo avvenuta per mano dei nemici della seconda guerra mondiale (gli inglesi) e non come conseguenza delle mobilitazioni ed insurrezioni popolari degli altri casi di decolonizzazione post ’45.

Anche la mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè di un processo internazionale per crimini di guerra, che riguardò non solo la guerra d’Etiopia, ma l’intera seconda guerra mondiale italiana nonostante le richieste dei paesi aggrediti, contribuì ad ottundere la nostra memoria o quanto meno non risvegliò ricordi di un recente passato che conveniva lasciar trascorrere in silenzio. Come conveniva, considera l’autore, anche ai nuovi alleati dell’Italia democratica e in particolare al Regno Unito e alla Francia, ancora a capo di imperi coloniali, per quanto in via di disfacimento. Cosa sarebbe accaduto se le richieste abissine di consegnare i responsabili italiani di crimini di guerra, come Badoglio e Graziani, fossero state accolte? Questo «avrebbe rischiato di aprire un diluvio di analoghe richieste da parte di movimenti anticoloniali o stati decolonizzati. Per salvare se stessa Londra (e di fatto Parigi) salvò anche Roma, dannando Addis Abeba». (p. 222)

Della memoria pubblica della guerra d’Etiopia Labanca propone poi un’analisi e “sistematica” e “diacronica”, individuandone rispettivamente «tre tratti peculiari» e «tre diverse fasi», prima di una quarta, quella di oggi. Il primo tratto specifico consiste nel «silenziamento», cioè – spiega Labanca – nell’aver messo a tacere il più possibile il ricordo della guerra africana, come di altri aspetti e momenti del fascismo; il «secondo tratto è consistito nel guardare al conflitto in Etiopia in un’ottica quanto più possibile di “italiani brava gente”, secondo l’immagine che il Paese si è più volte autoattribuito» (p. 232) e che ha prodotto la distorsione o la dimenticanza anche delle responsabilità italiane nello scatenamento del secondo conflitto mondiale, delle leggi razziali e della collaborazione nello sterminio ebraico, del ricorso all’uso dei gas nell’Etiopia stessa, della costruzione di campi di concentramento in Cirenaica, ma anche altrove, ecc. Il terzo tratto, infine, è il «ridimensionamento», cioè un atteggiamento riduzionistico che tende a minimizzare le responsabilità e la portata storiche, politiche, etiche dei fatti accaduti, «in un quadro di ricordi nostalgici, di tipo nazionalista o parafascista, con venature persino “vittimistiche”». (p. 232)

Passando di seguito alla articolazione in fasi della memoria collettiva della guerra d’Etiopia – fasi la cui variazione è strettamente legata a quella dei contesti politici internazionali e nazionali – Labanca individua la prima nel ventennio che va dall’immediato dopoguerra fino alla grande decolonizzazione internazionale degli anni Sessanta e la ritiene caratterizzata da un sostanziale silenzio che calò sul recente passato coloniale, argomento monopolizzato, di conseguenza, dalla memoria di reduci e nostalgici. Concause di questo atteggiamento omertoso furono, tra le altre, l’incapacità e l’indisponibilità a fare i conti col passato fascista, la mancata epurazione e defascistizzazione del Paese e dell’apparato burocratico, militare e ministeriale, il tentativo di riottenere le vecchie colonie e l’assunzione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960, le direttive strategiche di politica economica energetica che vedevano l’Italia impegnata a stabilire buoni rapporti col Medio Oriente.

L’inizio della seconda fase viene fatto coincidere con la pubblicazione nel 1965 del libro di Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia, «nel clima generale dell’entusiasmo per la decolonizzazione» (p. 235). Ebbero così inizio studi critici e scientifici sul colonialismo italiano e sul fascismo più in generale e alle ricerche di Del Boca si aggiunsero quelle di altri storici, tra i quali è doveroso ricordare Giorgio Rochat, che se da un lato impostarono un primo dibattito, anche pubblico, su questi temi, dall’altro però non furono in grado di scalfire il coriaceo mito riduzionistico ed autoassolutorio degli “italiani brava gente”, che connotò la lettura più diffusa del passato coloniale italiano nel ventennio tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta. Si tratta di una «visione del fascismo e del colonialismo “da brava gente”» che, seppur in misura minore rispetto al passato e nonostante gli esiti della ricerca storica, «continua ad essere accreditata in più sedi». (p. 233)

Ancora un altro gruppo di scritti di Del Boca ha dato inizio – sostiene Labanca – alla terza fase della memoria collettiva nazionale della guerra in Abissinia, fase contraddistinta da un atteggiamento più critico e dialettico. Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re (1995), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (1997), Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (2004) sono gli scritti di Del Boca che innescarono, accompagnarono e seguirono la dura polemica pubblica tra Del Boca stesso ed Indro Montanelli, polemica che a sua volta diede un contributo determinante alla decisione del Ministro della Difesa Domenico Corcione di ammettere per la prima volta l’uso da parte italiana di gas e altri aggressivi chimici durante la guerra d’Etiopia. Poteva così prendere il via un «percorso di riconquista della memoria e di maturazione del paese rispetto al passato coloniale nazionale. Il senso di tale percorso sta nella progressiva accettazione da parte degli italiani di un passato complesso, non solo da brava gente, in Etiopia e in genere nel colonialismo». (p. 238)

E con i primi anni del XXI secolo si apre la quarta fase, quella attuale, che Labanca definisce “postcoloniale”, sia perché le generazioni di coloro che la guerra d’Etiopia l’hanno combattuta o che hanno vissuto in un’Italia “imperiale e coloniale” sono per lo più scomparse, sia perché l’assetto politico mondiale ha quasi superato il ciclo storico plurisecolare del dominio coloniale europeo del resto del pianeta, sia perché – scrive Labanca – «da un paio di decenni si è ormai affermata una visione della storia che si è appunto definita e proclamata postcoloniale» (p. 241), la quale muove dall’esigenza di operare una profonda decostruzione critica della cultura e del pensiero coloniali. Un approccio che, tra l’altro, intende muovere alla ricerca dei lasciti, dei residui, delle eredità palesi o implicite che il passato coloniale ha tramandato all’immaginario e alla mentalità odierni. Residui del passato che, sottolinea l’autore, è possibile trovare un po’ ovunque: «nella politica, per come essa tratta oggi i migranti; nei media, per come essi trasmettono e moltiplicano lo scontro di civiltà; nelle menti degli italiani, per come essi siano ancora impregnate di stereotipi e di pregiudizi razziali, chiaro retaggio dell’epoca coloniale». (p.242)

All’interno di questa cornice complessiva, il cui perimetro è dato dal riconoscimento dell’importanza storica fondamentale della guerra d’Etiopia e dall’esame delle modalità e delle ragioni della costruzione della sua memoria storica collettiva, Labanca colloca il suo articolato studio sulla guerra italiana in Abissinia, la cui tesi di fondo ci sembra possa essere colta nella affermazione del carattere essenzialmente fascista di questa guerra, delle sue motivazioni, delle sue finalità, delle modalità con cui fu combattuta, degli effetti che produsse.
È una smania per l’impero quella che spinge Mussolini e il regime verso la guerra d’aggressione all’antico impero africano e per ragioni di prestigio sia internazionale sia interno: negli anni Trenta del Novecento, l’Italia fascista, che «era tanto un latecomer quanto un junior partner dell’imperialismo coloniale europeo» (p. 36), voleva la “grande impresa”, per trionfare laddove l’Italia liberale aveva fallito, che riportasse – per dirla con Mussolini stesso – “l’impero sui colli fatali di Roma”, che consentisse di gettare un ponte lungo un paio di millenni tra la Roma dei Cesari e la Roma fascista. Per tutti questi motivi la guerra all’impero del Negus non poteva essere una “normale” spedizione coloniale, ma doveva assumere un chiaro ed inequivocabile carattere fascista.

La scelta almeno iniziale dell’anziano quadrumviro della marcia su Roma, De Bono, poi sostituito dal più esperto Badoglio, come comandante dell’intero corpo di spedizione e del fronte nord in particolare a cui si aggiungeva sul fronte sud, quello somalo, il generale Graziani, modello del soldato e dell’ufficiale che il regime avrebbe voluto replicare e diffondere, dichiaratamente fascista, a tal punto distintosi per ferocia nella “riconquista” della Cirenaica da meritarsi l’epiteto di “macellaio degli arabi”, dimostra come quella in Etiopia non avrebbe dovuto essere una piccola guerra coloniale, ma una grossa guerra fascista e poi nazionale e moderna.
Da grande guerra moderna fu il dispiegamento imponente di forze che tra soldati dell’esercito, reparti della MVSN – la cui presenza accentuava il tratto politico-ideologico dell’impresa – e ascari arrivò a circa 5/600.000 uomini: «[…] grosso modo 300 mila soldati regolari, 100 mila camicie nere, 100 mila lavoratori italiani militarizzati, 100 mila e più ascari (truppe indigene regolari)». (p. 87) «Non vi era stata nessuna precedente guerra coloniale che fosse costata un simile impegno alla potenza europea che l’aveva lanciata. L’unico possibile paragone può andare alla guerra sudafricana (1899-1902), o guerra angloboera […]. Ma in quel caso era in gioco una posta straordinaria per Londra: il più grande impero coloniale europeo, all’apice del suo potere […]». (p. 75)

Tutt’altra era la situazione italiana, che intraprendeva nel 1935 una guerra “anacronistica”, proprio nel momento in cui l’espansionismo coloniale europeo si era fermato, stava avvenendo il passaggio dalla conquista alla valorizzazione economica e dalla gestione militare a quella civile dei territori coloniali e i governi europei dimostravano qualche disponibilità alla concessione di limitate autonomie per fronteggiare la crescita dei movimenti nazionalisti ed indipendentisti delle colonie. Questa guerra “anacronistica” doveva essere anche “nazionale”, nel senso che doveva coinvolgere l’intera nazione e per questo fine si prodigò l’apparato propagandistico del regime totalitario fascista, che diede un fondamentale contributo alla attribuzione di caratteri e contenuti precipuamente fascisti al conflitto: «un’impostazione dichiaratamente razzista, un’accentuazione nazionalistica e classicistica (con le pretese di riallacciarsi all’antica Roma), un’intonazione populistica (le colonie come luogo dell’espansione del lavoro italiano)». (p. 61)

Una “guerra fascista”, quindi, di cui Labanca individua almeno sei tratti distintivi ed innanzi tutto il ruolo determinante ricoperto da Mussolini sia per quanto riguarda la progettazione e la decisione del conflitto sia per quel che concerne la sua conduzione, come le direttive inviate dal duce stesso a Lessona, Badoglio o Graziani e contenenti l’assenso all’uso massiccio di gas ed aggressivi chimici dimostrano. Il secondo tratto essenziale è individuato nel carattere “totalitario” di una guerra per combattere la quale il regime si era scontrato con la Società delle Nazioni, per quanto blande e sostanzialmente ininfluenti fossero state le sanzioni da questa imposte all’Italia, e con la quale «metteva in chiaro il proprio programma di politica estera: bellicista, revisionista, antipacifista, “antisocietario”, in guerra con il “wilsonismo democratico” e con il nazionalismo che stava emergendo dai paesi colonizzati. Più che di un conflitto coloniale si trattava, insomma, di una guerra altamente ideologica». (p. 85)

Il terzo punto rilevante è colto da Labanca nel razzismo che fa da denominatore comune a tutta la guerra, all’imponente campagna propagandistica che l’accompagnò e ai cinque anni di governo italiano del territorio. Un quarto elemento distintivo, conseguenza dei due precedenti – il “totalitarismo” della guerra e il disprezzo del nemico – consiste nella volontà di annientare l’impero del Negus, non solo abbattendo quest’ultimo, ma anche smantellando le strutture del paese: la classe dirigente, la chiesa, l’intellettualità, ecc. Il quinto tratto peculiare Labanca lo individua – come già spiegato prima – nell’impiego di un esercito e di mezzi da grande guerra moderna e non da limitata impresa coloniale; infine, il sesto elemento propriamente fascista della guerra d’Abissinia fu il tratto “popolare” che il regime voleva attribuire all’impresa, sia dal punto di vista del consenso che intendeva raccogliere attraverso propaganda e repressione, sia dal punto di vista della effettiva partecipazione “nazionale”, di “massa” alla spedizione: un paese, l’Italia, che contava circa 42 milioni di abitanti, ne inviava pressappoco 500 mila in Africa.

Dei vari argomenti Labanca tratta poi nei diversi capitoli del libro, come per esempio nel § 2, La propaganda e la questione del consenso, del cap. IV, oppure nel cap. VI, L’impero e le leggi razziste, 1936-1937 e nel cap. VII, I cicli operativi di grande polizia coloniale, 1936-1940.
Il discorso sull’allestimento della campagna propagandistica a sostegno della guerra non può prescindere dall’analisi della conosciutissima “giornata della fede” (18 dicembre 1935) e conseguente “dono dell’oro alla patria”. Anche in questo caso, come in quello del dispiegamento della forza militare, per estensione ed intensità lo sforzo propagandistico del regime fascista è da paragonarsi a quello sostenuto dalle maggiori potenze nei due conflitti mondiali più che alle politiche più modeste di mobilitazione dell’opinione pubblica a sostegno delle imprese coloniali di paesi quali la Francia o l’Inghilterra. Insomma il fascismo fece di tutto per forgiare una nuova mentalità che fosse capace di concepire il ruolo dell’Italia dal punto di visto del suo presunto nonché preteso “destino imperiale”.

Ma la parte più interessante del discorso di Labanca riguarda il sintetico richiamo al dibattito storiografico sul problema del “consenso” alla guerra d’Etiopia, in particolare e al regime, più in generale, con il quale l’autore ridiscute la tanto dibattuta tesi defeliciana del 1975 (Intervista sul fascismo) della guerra in Abissinia come “capolavoro del consenso”, giudicato dallo storico reatino come crescente nell’arco temporale che andò dai Patti lateranensi alla guerra africana. In realtà, senza negare che vi sia stata nel 1935-’36 una «emozione grande e collettiva» (p. 115), cioè un coinvolgimento diffuso del popolo italiano nelle vicende belliche, le ricerche degli ultimi decenni dimostrano – sostiene Labanca – come la categoria del “consenso” debba essere applicata al caso abissino in particolare e più in generale al fascismo, come ad ogni altro totalitarismo, con estrema cautela ed in modo altrettanto articolato e critico. Occorre pertanto tener conto di alcuni fattori: la predisposizione degli italiani ad assorbire una propaganda filocoloniale (e razzista), resa possibile dalle precedenti campagne d’opinione già dell’Italia liberale a supporto delle imprese africane (da questo punto di vista il caso della guerra italo-turca per la Libia è il più emblematico); la diversificazione nel tempo e nello spazio e per classe sociale del consenso alla guerra abissina, che variò a seconda dei momenti tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, che fu differente da regione a regione e presso i diversi ceti o classi sociali; infine la consapevolezza che la misurazione della “spontaneità” del consenso in un regime totalitario, portato per sua natura a produrlo forzatamente, ad estorcerlo ed imporlo, è quanto mai complessa.

Di certo, però, anche la macchina della propaganda e del consenso predisposta dal fascismo per accompagnare la conquista dell’impero del Negus contribuì a costruire quella mentalità da “razza superiore”, quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti della popolazione indigena che a sua volta fece da supporto alle efferatezze e ai crimini compiuti, sia a guerra in corso (ancora ricordiamo l’uso dei gas), sia dopo la guerra, con le “operazioni di polizia coloniale”, ossia la violentissima repressione della resistenza locale e con la legislazione razziale.

Finita la guerra di conquista con l’entrata ad Addis Abeba, ne cominciava (o continuava) un’altra contro l’insorgere di un movimento di resistenza abissino e, almeno inizialmente, il principale protagonista fu il generale Graziani, a cui Badoglio, rientrando in Italia, lasciava le cariche di viceré d’Etiopia e governatore generale dell’AOI. E «Graziani dette la caccia alle formazioni resistenti. Comandate da alcuni noti ras, queste disturbavano le comunicazioni, tenevano rapporti con le popolazioni, rendevano ancora presente a livello locale quel “vecchio ordine negussita” che il fascismo affermava di aver sradicato. Per ottenere i loro scopi le colonne italiane ebbero carta bianca: villaggi incendiati, raccolti distrutti, contro le formazioni di resistenti e contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra regolare e irregolare. […] Quando non furono i fucili o le mitragliatrici delle esecuzioni sommarie, furono le carceri e i campi di internamento a lavorare. Fra questi, tristemente noto divenne quello di Danane, in Somalia, in cui si dice che abbiano perso la vita migliaia di internati». (p. 156)

L’episodio tanto più noto quanto più efferato fu certamente la mattanza scatenata dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937 e conclusasi solo tre mesi dopo, a fine maggio, con un numero ancora incerto, ma di diverse migliaia, di vittime e che culminò nella strage di Debrà Libanos. [Oltre alle pagine del libro di Labanca, per la ricostruzione delle vicende legate a Debrà Libanos ci permettiamo di rimandare al nostro Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica] All’inizio del 1938, Mussolini, irritato per l’inefficacia della campagna di sradicamento della resistenza etiopica condotta da Graziani, decise di richiamarlo e di sostituirlo con un rappresentate della famiglia reale: il duca Amedeo di Savoia-Aosta. Con l’arrivo di quest’ultimo alcune cose cambiarono e migliorarono e alle «fucilazioni sommarie si sostituirono i processi, Danane fu lentamente svuotata, gran parte dei notabili deportati in Italia furono fatti tornare: si sperava che il tempo lavorasse per la solidità dell’impero». (p. 184) Non si può però tacere il fatto – osserva opportunamente Labanca – che fu proprio durante il periodo di governo del duca d’Aosta che la legislazione razziale fu messa in atto nell’AOI e che le operazioni di polizia coloniale continuarono, con le conseguenti violenze, in alcuni casi trasformatesi in strage, come in occasione della «feroce repressione condotta fra il 1° marzo e il 15 aprile 1939 di fronte a una grotta a Zeret, […], circa 200 chilometri a nord di Addis Abeba». (p. 193)

La legislazione razziale, appunto, introdotta con r.d.l del 19 aprile 1937, di seguito tradotto in legge il 30 dicembre 1937, e recante il titolo: Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Labanca, facendo riferimento a suoi precedenti studi in materia come a quelli di Enzo Collotti e Michele Sarfatti, osserva come la legislazione razzista in AOI, non solo abbia introdotto un odioso regime di apartheid, del tutto simile a quello sudafricano, non solo abbia perseguito l’intento di impedire il meticciato, la mescolanza per via sessuale e coniugale tra italiani ed africani, non solo abbia applicato i principi del peggior razzismo biologico, ma abbia anche fatto da presupposto teorico e pratico al successivo r.d.l del 17 novembre 1938, cioè ai Provvedimenti per la difesa della razza italiana e al conseguente antisemitismo. Aspetto, quest’ultimo, di fondamentale rilevanza in sede di analisi della genesi e dello sviluppo del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, in quanto consente di ostacolare le tesi “riduzionistiche” che vorrebbero leggere l’antisemitismo italiano come conseguenza di una imposizione o dettatura da parte dell’alleato tedesco.

Per concludere, come dimostra il libro qui proposto di Labanca, un’opera che in relativamente pochi capitoli e pagine riesce a trattare con grande ampiezza di prospettiva, ricchezza di temi ed aspetti trattati, profondità di analisi una questione storica così complessa come la guerra italiana contro l’Etiopia, lo stato di avanzamento degli studi su questo argomento è ormai molto avanzato e sicuramente si arricchirà ulteriormente nei prossimi anni; ma, allora, ancor più grave e problematica risulta la sostanziale ignoranza collettiva e pubblica di queste pagine di storia italiana. Infatti, scrive l’autore, «mentre l’opinione pubblica e gli italiani appaiono sempre più distanti e meno informati, gli studiosi hanno invece riscoperto la dimensione coloniale della storia d’Italia». (p. 242)
A questa divergenza sempre più profonda e non certo positiva tra ricerca storica e coscienza storica collettiva si aggiunge poi un fenomeno recente che Labanca registra in conclusione del suo lavoro e che è da ritenersi preoccupante, anche alla luce della situazione politica internazionale attuale e cioè il fatto che «in questi ultimi anni si è diffuso nelle opinioni pubbliche europee degli stati già potenze coloniali un sentimento vagamente ma corposamente nostalgico nei confronti dell’ormai lontano passato imperiale. Attraverso la “nostalgia coloniale, la “colonial-algia”, l’Europa ricorda così quando in effetti era potente e dominava il mondo, cosa che non avviene più oggi». (p.243)

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Una trincea, molte prospettive: per una storia transnazionale della Grande guerra https://www.carmillaonline.com/2015/07/30/una-trincea-molte-prospettive-per-una-storia-transnazionale-della-grande-guerra/ Thu, 30 Jul 2015 21:00:59 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24134 di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale [...]]]> di Armando Lancellotti

Labanca Uberegger grande guerraNicola Labanca, Oswald Überegger, a cura di, La guerra italo-austriaca (1915-18), il Mulino, Bologna, 2014, 379 pagine, € 25,00

La novità – per certi versi, l’originalità – del volume curato da Nicola Labanca e Oswald Überegger non consiste tanto nell’argomento – la guerra italo-austriaca del 1915-‘18, affrontata negli anni del suo centenario – e nemmeno nel titolo, che lo stesso Labanca nell’Introduzione definisce volutamente “desueto” e neppure nella periodizzazione «apparentemente superata (1915-‘18) per parlare di un conflitto che ormai la storiografia vede come una guerra totale e mondiale, se non addirittura globale, e dalla periodizzazione più ampia (la guerra combattuta 1914-1918 all’interno della più lunga crisi 1907/1911 – 1923)» (pp.14-15). Consiste piuttosto nell’approccio con cui il gruppo di storici italiani e austriaci, coordinato dai due curatori, ha affrontato il tema della Grande guerra sul fronte sud-occidentale e nelle finalità che si è proposto di conseguire.

Infatti il libro si prefigge di studiare il primo conflitto mondiale «da una prospettiva, se non inedita, certamente innovativa, e per la prima volta perseguita in maniera consapevolmente sistematica, quanto meno nelle intenzioni e nelle modalità» (p.15). La prospettiva è quella di “una storia transnazionale”, che sia in grado di abbandonare e oltrepassare gli approcci nazionali e soprattutto i nazionalismi che quegli approcci motivano e di cui si alimentano. Un punto di vista diverso non solo e non tanto perché mette a confronto voci di studiosi provenienti dalle due parti di un confine che fu un fronte della Grande guerra, ma soprattutto perché non intende tener conto dei confini nazionali, o degli steccati storiografici tradizionali, considerandoli irrilevanti e procedendo ad una ridefinizione dell’approccio e del campo di indagine affinché questi siano, insieme, italiani e austriaci, transnazionali appunto.
Ma, procedendo con ordine, per prima cosa la Grande guerra, sostiene Labanca sulla scorta della storiografia più recente, va intesa come un conflitto europeo, mondiale, globale e totale.
Europeo perché, nato da una crisi regionale (balcanica) sfociata – come è noto – nella dichiarazione di guerra di Vienna a Belgrado, si trasformò in poche settimane in una guerra europea e subito mondiale, disponendo le grandi potenze continentali immediatamente coinvolte – ad eccezione proprio dell’Austria-Ungheria – di estesissimi imperi coloniali. Ebbe così inizio «una guerra in cui i processi di globalizzazione e totalizzazione si fecero immediatamente evidenti» (p.9) e per cui è opportuno aggiungere al concetto di guerra mondiale quello di “guerra globale”, che non si limita a qualificare l’estensione quantitativa del conflitto a più continenti, ma definisce il tipo e la modalità del coinvolgimento dei paesi belligeranti, che fu appunto “totale”, riguardando ed attraversando in tutte le direzioni l’intera società, le istituzioni politiche e gli apparati economico produttivi come mai prima d’allora.
Per quel che riguarda la periodizzazione, il libro lascia intendere che la più corretta sia quella che vede il conflitto del 1914-1918 come il momento più tragico e cruento di una ben più lunga crisi che parte con la rivalità franco-tedesca per il Marocco (1905/1911) e prosegue con la crisi economica del 1907, con l’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina del 1908, con la guerra italo-turca per la Libia del 1911 e le due guerre balcaniche del 1912 e 1913, con la corsa anglo-tedesca agli armamenti navali nel Mare del Nord e che non si conclude definitivamente con il novembre del 1918, ma solo con il trattato di Losanna del 1923 tra la Turchia e le potenze dell’Intesa.
Passando dalla periodizzazione generale a quella particolare, cioè italiana, per un verso risulta più corretto considerare anche per l’Italia la datazione 1914/’18; nonostante, infatti, il conflitto sul fronte carsico-alpino-trentino inizi solo il 23 maggio del ’15, l’Italia, pur non combattendo, era stata già in precedenza profondamente coinvolta nella guerra e l’aspro scontro interno al paese tra neutralisti ed interventisti che precedette la dichiarazione di guerra lo dimostra chiaramente. Per un altro verso, però, la datazione 1915/’18, che compare nel titolo del libro, risulta più efficace nel focalizzare l’attenzione sulla guerra degli italiani e degli austriaci sul fronte sud-occidentale, che ancora oggi è il più trascurato dalle grandi ricostruzioni storiche internazionali della prima guerra mondiale, prevalentemente concentrate sul fronte franco-tedesco. Inoltre, quella tra il 1915 e il 1918 fu per l’Italia “la guerra”, non essendo le truppe italiane impegnate, se non in misura limitatissima e trascurabile, su altri fronti, a differenza dei soldati degli altri più importanti paesi belligeranti, Austria-Ungheria compresa.
Così definito e delimitato il campo d’indagine, gli autori lo affrontano – lo si diceva sopra – con un approccio transnazionale, che vuole superare gli stereotipi, i pregiudizi e le deformazioni nazionali e più spesso nazionalistiche, ma anche le contrapposizioni, create proprio nel periodo bellico e poi conservate e rafforzate per molto tempo dopo la guerra. Inoltre, l’assunzione di un’ottica transnazionale passa attraverso la consapevolezza che nelle relazioni tra stati, istituzioni, popoli diversi, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, esiste sempre una zona di scambio e di intreccio, come l’area comune tra due insiemi in parte sovrapposti e cioè un territorio che non è quello definito, diviso, circoscritto da frontiere, dogane e confini, poiché li trascende, in quanto essi risultano sostanzialmente irrilevanti per la mappatura di questa regione intermedia, su cui si esercita lo sforzo di indagine di questo volume di storia transnazionale.
Lavoro oltremodo necessario se è vero, come sostiene nelle Conclusioni l’altro curatore del volume, Oswald Überegger, che, sul piano degli studi storici, Italia e Austria vivono “schiena contro schiena” come due vicini che vicendevolmente si ignorano ed in particolare ciò accade per la storia contemporanea, preferendo gli italianisti austriaci occuparsi quasi esclusivamente dei territori italiani ex asburgici, trascurando lo studio della storia del resto del paese e privilegiando, invece, i contemporaneisti italiani lo studio della storia della Germania. La ricerca storica bilaterale o comparata, pertanto, non ha compiuto molti passi avanti negli ultimi decenni, rimanendo un interesse limitato quasi esclusivamente alle regioni di confine tra i due paesi e non andando al di là del format culturale tradizionale del convegno di esperti, poco capace di produrre effetti duraturi o interessi allargati ai non specialisti. Una reciproca ignoranza, quindi, che conserva e tramanda gli stessi stereotipi formatisi durante la guerra e che, per la parte austriaca, consistono nella lettura dell’intervento italiano a fianco dell’Intesa come un “tradimento”, nel mancato riconoscimento della vittoria italiana, che va a confluire nella leggenda dell’esercito imperial-regio “invitto sul campo” e della “pugnalata alle spalle”, distorsioni della realtà negli stessi termini prodotte e diffuse, durante e dopo la guerra, anche in Germania. Ovviamente alle storture e ai pregiudizi austriaci fanno da contraltare quelli italiani, che amplificano ed estremizzano l’astio di origine risorgimentale verso l’Austria eterno “nemico oppressore” e “carcere dei popoli” o che producono la leggenda per la quale i soldati italiani avrebbero sempre combattuto in condizioni di inferiorità numerica e di minore disponibilità di mezzi; luogo comune utile certamente per esaltare l’eroismo bellico, ma che capovolge la realtà dei fatti.
E ancora, risulterà forse quasi incomprensibile per un lettore italiano che questioni ampiamente trattate, anche nella semplice manualistica del nostro paese, come quella delle differenze interne e della complessità degli schieramenti interventista e neutralista, in termini di motivazioni e scopi dell’una o dell’altra scelta e come quella della netta prevalenza dei neutralisti, sia nella società sia tra le forze politiche, a fronte però di una scelta interventista del governo e della corona, continuino invece ad essere argomenti sostanzialmente ignorati dal lettore austriaco (il libro, infatti, è pubblicato in entrambe le lingue) e – secondo Überegger – anche da qualche storico.
Proprio nella rimozione di tali incrostazioni si esercita un approccio storico comparativo, multilaterale e transnazionale, che a seguito della convergenza, dell’intreccio e della integrazione di prospettive e sguardi diversi intende dare il via ad un lavoro che produca nuove e più complete letture di una materia che viene al contempo risagomata e ridefinita, grazie all’abbandono di confini e steccati nazionalistici, per troppo tempo rispettati e replicati.
Con questa metodologia e con questi obiettivi, si articolano e si susseguono le sei sezioni del libro, ognuna focalizzata su un aspetto particolare della Grande guerra e composta di due capitoli, uno “austriaco” ed uno “italiano”, per complessivi dodici contributi di altrettanti storici, specialisti del primo conflitto mondiale, i cui nomi vengono indicati solo nell’Indice, ma non in corrispondenza dei singoli capitoli, quasi che si intenda presentare il libro come il frutto del lavoro di un autore collettivo, di un vera e propria attività di équipe.
E così, di capitolo in capitolo, metaforicamente attraversando più volte il fronte ora in una direzione ora nell’altra, si conoscono analogie, parallelismi, divergenze o convergenze tra Italia e Austria-Ungheria riguardo alle scelte politiche e di governo, alle modalità di organizzazione e di mobilitazione bellica dell’economia, alle condizioni dei soldati, ai cambiamenti culturali e all’organizzazione della propaganda di guerra, ecc.
Per esempio, nella prima sezione (I governi e la politica) Martin Moll e Daniele Ceschin, rispettivamente per la parte austriaca e per quella italiana, affrontano il tema della deriva autoritaria e della militarizzazione della politica e dei governi verificatesi in entrambi i paesi, seppur con modalità e tempi diversi. Moll sostiene che fin dal 1914 sia stata imposta una vera e propria dittatura militare e governativa attraverso l’emanazione da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe di numerose ordinanze speciali, che attribuivano immediatamente forza di legge agli atti dell’imperatore stesso, sospendendo l’attività legislativa del Reichsrat (il Parlamento), che limitavano le libertà fondamentali dei cittadini, che sottoponevano a stretto controllo le associazioni e i partiti politici, che comprimevano i diritti sindacali, che censuravano la stampa e la pubblicistica in genere. Ma tutto questo avvenne in Cisleitania, cioè la “parte austriaca” e sotto governo viennese dell’Impero austro-ungarico dopo l’Ausgleich dualistico del 1867, non in Transleitania, cioè la “parte ungherese” dell’impero, dove il governo continuò ad operare prevalentemente su base parlamentare. Un giro di vite repressivo che colpì anche gruppi etnici considerati inaffidabili, soprattutto in zone vicine al fronte: è il caso dei ruteni della Galizia, che sospettati di essere filorussi, vennero massacrati e degli sloveni della Bassa Stiria, che, nonostante la distanza della regione dal fronte, furono sottoposti ad arresti di massa, perché accusati di essere filoserbi. Da ciò si evince che i vertici militari e governativi austriaci nutrivano una sorta di aprioristica sfiducia nei confronti di certi segmenti della popolazione, nonostante la mobilitazione nell’estate del 1914 si fosse svolta senza difficoltà anche nelle regioni con minore presenza tedesca o ungherese.
Una pregiudiziale ed ottusa sfiducia che invece in Italia era provata dallo Stato maggiore del Regio Esercito e dagli alti ufficiali di carriera soprattutto nei confronti dei soldati, dei milioni di contadini coscritti e che portò all’adozione di misure repressive terroristiche da parte di Cadorna, come nella terza sezione del libro (I soldati e i combattimenti) spiega Federico Mazzini.
Quando il 21 novembre del 1916 l’ottantasettenne Francesco Giuseppe morì, lasciando il trono al pronipote Carlo I, la stretta autoritaria venne allentata. Il nuovo imperatore inaugurò un nuovo corso in politica interna che ridusse la censura sulla stampa, che fece riprendere le attività del Parlamento il 30 maggio 1917, che rivalutò il movimento dei lavoratori, nel tentativo di trovare nella socialdemocrazia austriaca una forza politica capace di contenere le crescenti proteste operaie o gli eventuali sussulti rivoluzionari. A questo si aggiungano i tentativi di Carlo I di addivenire ad un compromesso con i nemici e di negoziare la pace. Progetti questi, secondo la lettura di Moll, che fallirono sia per la scarsa disponibilità dei nemici, sia per le forti pressioni in direzione opposta dell’alleato tedesco, dagli aiuti militari ed economici del quale dipendeva la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria. Il nuovo corso “liberale” di Carlo I, quindi, non riuscì a risolvere i gravissimi problemi da cui il paese era ormai schiacciato, né ad evitare la sconfitta e lo smembramento dell’impero.
Anche in Italia, spiega Ceschin, a seguito dell’entrata in guerra, come in generale in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, si verificarono fenomeni analoghi a quelli austriaci di rafforzamento autoritario dell’esecutivo e parallelo indebolimento delle prerogative parlamentari, di militarizzazione sia della società sia della politica, di aumento esponenziale della repressione e del controllo sociali, il tutto preceduto dallo scontro tra interventisti e neutralisti, di cui si nutrirono le forze antisistema (liberale), che divennero capaci di condizionare le scelte politiche nazionali e che alla lunga, dopo la guerra, confluirono nel fascismo. Tuttavia, dall’integrazione delle due letture, austriaca ed italiana, degli stessi fenomeni, si deduce che in Italia fu meno forte, o forse ebbe meno successo, il tentativo di instaurare un “assolutismo bellico”, che invece si realizzò più efficacemente in Austria. Secondo Ceschin in Italia, una volta esautorato nella sostanza dei fatti il Parlamento, si formò una sorta di “diarchia imperfetta”, costituita dall’esecutivo e dallo Stato maggiore, cioè dal potere politico e dal potere militare, da Roma e Udine, sede del Comando Supremo Generale dal 1915. Una competizione tra due poteri, quindi, in cui quello militare progressivamente si impose su quello politico, come dimostra, per esempio, il fatto che dopo il successo austriaco della Strafexpedition nel 1916 il governo Salandra cadde, mentre Cadorna rimase al suo posto. L’esecutivo poi era internamente indebolito dalla volontà del ministro Sonnino di assicurare alla politica estera da lui guidata ampi spazi di autonomia o indipendenza dal resto del governo. E proprio Sonnino fu a tal punto l’uomo forte del governo durante l’intero conflitto – tanto da rimanere al suo posto di ministro degli Esteri nonostante l’avvicendarsi dei governi Salandra, Boselli, Orlando – che Ceschin parla di una sorta di “lungo governo Sonnino”. All’interno di questa “diarchia imperfetta” entrambi i poteri mostrarono velleità o “vocazioni totalitarie”, che sempre Ceschin legge come manifestazione di un fenomeno di ben più lungo corso: la repressione sociale e la militarizzazione della politica iniziate con quella “crisi di fine secolo” che proprio nel Sonnino di Torniamo allo Statuto aveva trovato uno dei principali teorici e che si sarebbero realizzate più tardi con il fascismo. Una svolta si verificò con Caporetto, sia a livello politico con la fine del governo Boselli, sia sul piano militare con l’allontanamento di Cadorna, sostituito da Diaz, ma soprattutto fu il Parlamento che provò a rientrare in possesso delle proprie prerogative e ad equilibrare il potere fino ad allora esercitato dalla diarchia formata dall’esecutivo e dallo Stato maggiore. Ma questo non comportò come conseguenza un allentamento della stretta repressiva: per quanto, come è noto, l’accorciamento della linea del fronte, dall’Isonzo ritornato sul Piave, permettesse un miglioramento delle condizioni dei soldati, per esempio con turni di licenza più frequenti, il controllo e la repressione politica e sociale contro i cosiddetti “caporettisti” e i “disfattisti” addirittura aumentarono, come testimoniano gli arresti dei socialisti massimalisti Costantino Lazzari e Giacinto Menotti Serrati, allora rispettivamente segretario del PSI e direttore dell’Avanti.
Come per l’argomento oggetto della prima parte, sommariamente ricostruito, così per gli altri cinque temi che compongono il libro il confronto e l’integrazione delle analisi e delle prospettive austriaca e italiana consentono la costruzione di un quadro ampio e molto ricco, come, per fare un ultimo esempio, nel caso della interessantissima terza parte (I soldati e i combattimenti), dove Christa Hämmerle e Federico Mazzini considerano e mettono a confronto le esperienze dei soldati dell’una e dell’altra parte del fronte. Numerosi sono gli elementi comuni ai due eserciti: la mobilitazione fino all’ultimo uomo disponibile, che portò l’Austria-Ungheria a coscrivere 9 milioni di soldati da schierare sui diversi fronti e l’Italia a mobilitarne 5 milioni, da impiegare sull’unico fronte su cui combatteva; la netta prevalenza dell’elemento contadino tra i soldati semplici, così come l’importanza degli ufficiali di complemento; lo spaesamento dei contadini-soldati che provavano un forte senso di «perdita del proprio ruolo sociale e la sensazione di venir meno ai propri doveri, in particolare verso gli anziani e le donne che dovevano sostituirsi al coscritto» e, per finire, altrettanto uguali erano le orribili condizioni in cui austriaci e italiani combattevano e vivevano (o sopravvivevano) sia sul Carso e basso Isonzo sia sull’alto Isonzo e sulle Alpi. Ma da un lato – per passare alle differenze – vi era un esercito composto da undici nazionalità (tedesca, ungherese, ceca, slovacca, slovena, croata, serba, rutena, polacca, rumena e italiana), che parlavano undici lingue diverse, per quanto il tedesco rimanesse la lingua ufficiale dei comandi militari, e che professavano religioni differenti, con i cattolici in maggioranza, a cui si aggiungevano evangelici, ortodossi, mussulmani ed ebrei. Differenze queste – nazionali, linguistiche e religiose – non presenti nell’esercito italiano. Di particolare interesse il confronto tra i sistemi di disciplina e repressione interni ai due eserciti, dal quale emerge come il rigore inflessibile, la severità estrema e la violenza o la brutalità delle punizione fossero elementi comuni ai due schieramenti – a questo proposito gli austriaci reintrodussero pene corporali come i “ceppi”, per un massimo di sei ore o i “lacci”, per tenere legato – per esempio ad un albero – un soldato per un massimo di due ore – ma fu proprio all’interno del Regio Esercito italiano che la ferocia punitiva fu esercitata nelle forme peggiori. In entrambi i casi la giustizia militare fu applicata in modo classista e si accanì principalmente sui soldati di estrazione sociale inferiore, contadini, operai e strati più bassi del ceto medio, ma se nel caso austriaco, scrive la Hämmerle, «tenuto conto delle possibilità offerte dal codice di procedura penale militare in tempo di guerra, i tribunali agirono con mano relativamente “leggera”, in molti casi anche differendo o sospendendo la pena» (p.161), altrettanto non può dirsi della giustizia militare italiana. Le cifre riportate da Mazzini parlano da sole: 4 mila condanne a morte, 15 mila all’ergastolo, 40 mila le pene superiori a sette anni. «Il numero di fucilati dopo regolare processo durante l’intero conflitto ammonta a circa 750, in proporzione più del doppio di quelli francesi […]. Ma ancora di più colpisce il fenomeno delle decimazioni […] almeno 290 furono le vittime documentate di questa giustizia sommaria italiana, applicata con maggiore frequenza, e con piglio quasi vendicativo, negli anni 1916 (dopo la Strafexpedition) e 1917 (dopo Caporetto)» (p.175). Ed infine, ad ulteriore conferma del disprezzo e del pregiudizio con cui il governo italiano e il Comando supremo consideravano i propri soldati, non va dimenticato che ai 600 mila prigionieri italiani, la metà dei quali catturati a seguito di Caporetto, venne negato dall’Italia qualsiasi tipo di aiuto, al fine di fare passare l’idea che il prigioniero fosse da equiparare ad un disertore o ad un disfattista o ad uno “scioperante di guerra” e per addossare alla sola Austria le colpe di un trattamento disumano o vendicativo. La conseguenza di questa scelta scellerata, insieme ad altri fattori come l’alto numero di internati e le difficoltà austriache a provvedere ad essi, fu la morte di circa 100 mila soldati italiani in prigionia.

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