Nick Drake – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 HARD ROCK CAFONE #5 https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/hardrockcafone5/ Thu, 14 Apr 2016 20:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29537 di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita) Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola [...]]]> di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita)
Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola con le dita, specie se ve ne manca qualcuna: il sacrificio estremo al dio della sei corde.
Ha cominciato il primo chitarrista jazz di fama mondiale, quel Django Reinhardt dalle mani veloci come saette. L’avrete sentito senza saperlo nei film di Woody Allen e in diverse pubblicità, ma la sua faccia tzigana da Nino Frassica non è popolare come meriterebbe. Eppure la chitarra swing gli deve tutto da quando incendiava i club di Pigalle negli anni Trenta. E con l’handicap. Già indiavolato entertainer a diciotto anni, lo zingaro fa vita grama e vive nel suo carrozzone, in un campo di nomadi a Parigi. Una notte casca una candela ed è il disastro: divampa un incendio e Django riesce a fuggire, ma la gamba destra è paralizzata (rifiuterà l’amputazione e userà il bastone tutta la vita) e anulare e mignolo della mano sinistra – quella con cui fare gli accordi – sono gravemente ustionati, rimanendo deformati e inutilizzabili. La testa però è dura e allora Django ripensa la sua tecnica solo in funzione di indice e medio.
hrc502Sorretto dal quintetto Hot Club de France, va veloce come Yngwie Malmsteen plettrando accordi impossibili per i quali ai comuni mortali, di dita, ne servirebbero otto. E non farebbe male anche un’estensione della mano degna di Mr.Richards dei Fantastici Quattro. Django muore presto (a 43 anni), per una congestione. Tipico di chi è quasi bruciato vivo e, da zingaro che suonava la musica dei neri, è sopravvissuto al nazismo.
Grazie a Django non abbiamo solo pletore di jazzisti manouche, ma insospettabilmente anche un rocker che ha fatto la storia dell’hard. Tony Iommi ha inventato i riff massicci dei Black Sabbath e nessun chitarrista metal può prescindere da quel suono cupo e distorto. Per un pelo, però: il giovane Iommi è al suo ultimo giorno di lavoro prima di diventare musicista professionista. Lavora in fabbrica e si occupa del taglio di fogli di alluminio. Esattamente come succede a tappezzieri, falegnami e addetti ai telai meccanici, piagati dalla malattia professionale del dito mozzato, anche a lui basta un attimo di disattenzione e, voilà, sotto la pressa, rimangono le due ultime falangi di indice e medio della mano destra. Lui è mancino e con quelle dita lì, tiene le corde. Dramma. Depressione. Finché in ospedale, un amico lungimirante gli porta a sentire un disco di Reinhardt. Se ce l’ha fatta lui, ce la faccio anch’io, si dice Iommi. Ma come, con due dita mozzate? Tony non è inventivo solo sullo spartito e si costruisce delle protesi di plastica e gomma che attacca ai suoi moncherini. Alle estremità aggiunge delle pezzuole di cuoio, per ottenere il classico tocco della pelle. Certo, la sensibilità è nulla, ma a quella supplisce l’orecchio. E se le corde sono troppo dure, facile rimediare: la chitarra viene scordata, allentandole. E nasce così quel suono profondo e oscuro su cui l’imberbe Ozzy urlacchierà tutta la sua angoscia. Insomma, se non era per il destino infausto, niente doom e rock sepolcrale.
HRC503È andata meglio a Jerry Garcia, l’orso buono hippie, l’interprete carismatico delle epiche (e talvolta un po’ scoglionanti) cavalcate lisergiche dei Grateful Dead, jam siderali dove le dita si arrampicavano sulle corde per delle buone mezz’ore. E di dita gliene mancava pure una. Jerry era un pacioccone profeta antiautoritario e pacifista e nessuno ha mai potuto vederlo mostrare il dito medio perché il suddetto volò via all’età di quattro anni. Colpo d’accetta ad opera del fratello, mentre si tagliava allegramente la legna in famiglia. E vabbeh, s’è detto Jerry, si può arpeggiare anche con quattro dita e l’impronta della sua grassoccia mano destra, senza le due falangi del medio, è diventata il suo emblema anche sulla copertina di un album.
Per tre illustri mutilati, abbiamo rischiato grosso anche con quello che è probabilmente il miglior chitarrista rock dalla morte di Hendrix: Jeff Beck le dita le ha ancora tutte ma per qualche ora ha avuto il pollice destro ridotto come una piadina. Innovatore a qualunque costo, mai adagiato su formule remunerative (pur avendole lanciate lui stesso), ha praticamente inventato l’hard rock con l’album Truth – del quale i Led Zeppelin han preso nota, forse più di una – e poi ha reso il jazz rock palatabile con Blow by Blow, l’unico album del genere che – per arrivare a fine ascolto – non richiede una laurea in astrofisica e due Aulin. Ultimamente sintetizza tutto lo scibile chitarristico su basi ritmiche alla Prodigy o ariose atmosfere sinfoniche, con avare uscite discografiche perché preferisce dedicarsi al suo hobby: Jeff Beck è (stato) un ricco misantropo che vive in campagna, godendo solo delle macchine custodite nel suo garage e passando il tempo a costruirle, ripararle, oliarle e lucidarle.
hrc50trisEd è proprio questa passione che gli ha fatto passare un pessimo quarto d’ora, quando una tavola di quercia, che Jeff usa per coprire la buca nella quale si sdraia per riparare le sue adorate macchinine, gli scivola sul pollice destro con vettura al seguito. Il sandwich tra quercia e chassis della macchina in riparazione gli appiattisce il pollicione come nei cartoni animati. Risultato: falangi spezzate e unghia sfasciata. Che la cosa sia dolorosa lo dimostra il fatto che è una tecnica di tortura consolidata (anche se non per lo stato italiano: vedremo quando ci penserà qualcuno, mah). Ma Jeff non ha nulla da confessare e siccome è un uomo all’antica si beve subito una litrata di whisky per tollerare il dolore. Invece si addormenta e solo alcune ore dopo riesce a raggiungere un pronto soccorso dove lo ingessano, ovviamente in maniera da non compromettere la sua capacità di suonare. Del resto c’è l’illustre precedente di Les Paul (che non è solo una chitarra, ma anche il genio che l’ha inventata): col braccio destro rotto, se lo fece ingessare con l’angolazione giusta per imbracciare lo strumento. Lieta fine: Jeff dopo qualche mese di comprensibile convalescenza torna a suonare meglio di prima.
hrc50bisMa parlando di dita sfasciate, la migliore riguarda un cantante, Ronnie James Dio, peraltro personaggio di tutto rispetto: di età indefinibile (sembra che sia del 1942), era già rugoso a metà anni Settanta e oggi è incomprensibile se sia già iniziato il processo di rattrapimento tipico degli anziani perché è alto quasi un metro e cinquanta (nelle foto coi Black Sabbath post Ozzy, usufruiva di uno spessore a terra per arrivare almeno alle spalle degli altri). Attivo fin dalla fine degli anni Cinquanta è diventato un vero Dio come voce epica dei Rainbow e, dopo la parentesi Black Sabbath, con il suo omonimo gruppo. Il vero cognome è Padovana e il nome d’arte viene da quello di un boss mafioso di Brooklyn che gli piaceva un mucchio, tal Johnny Dio responsabile di chissà quante teste rotte e gente cementata. Ad ogni modo, causa pratiche di giardinaggio estremo, Ronnie James ha rischiato di non poter più fare il gesto che l’ha reso popolare sui palchi di tutta la terra, le corna. Imparato dall’italica nonnina e popolarizzato tra gli yankee come “maloik”, è il suo autentico marchio di fabbrica. Sennonché zappettando in giardino nella sua magione, Ronnie James ha provato a spostare un pesantissimo e infido gnomo in marmo. Che s’è ribellato, è scivolato trascinandosi dietro lo gnomo in carne e ossa e s’è abbattuto sulla sua mano destra, staccandogli l’estremità del pollice. Dio confessa di aver subito pensato: e ora, come farò le corna? Uomo pratico, s’è presentato in ospedale con la mano sfasciata e il pollice mozzato nell’altra. Gliel’hanno subito riattaccato e tutto è bene quel che finisce bene: vedremo ancora Ronnie James fare il maloik. Tiè. (2009)

HRC504Hey Dude: hai presente i Beatallica?
A me le cover band che imitano anche l’abbigliamento, la gestualità e i vezzi di chi omaggiano mettono infinita tristezza. Quando ho visto (a tradimento) gli Stupido Hotel col cantante che introduceva i pezzi con le stesse identiche parole usate da Vasco sui vecchi dischi live, accento modenese compreso, ho avuto il magone per una settimana. Mi danno invece allegria estrema le cover band estrose, che affrontano i classici altrui con uno scatto creativo. Facendo un paragone pittorico: di contadini dipinti da Teomondo Scrofalo son piene le bancarelle, la Gioconda coi baffi di Duchamp è un pezzo unico. Mi divertono i Kiss nani (il nome dice tutto), i Nudist Priest (che suonano cover dei Judas Priest esibendosi nudi), i Gabba (che rifanno gli Abba alla Ramones) e i miei vent’anni sono stati allietati dai Dread Zeppelin, che suonavano cover reggae dei Led Zeppelin con un Elvis impersonator come cantante. Ma il top, oggi, è il riuscitissimo e per niente blasfemo incrocio tra Beatles e Metallica. Prendete le immortali melodie dei primi, come direbbe Mollica, e rivisitatele con le sonorità e il gergo dei secondi: risultato, i Beatallica. Ovviamente un quartetto, coi nomi dei componenti che mixano quelli dei baronetti con quelli dei quattro ex metal kid: Grg Hammetson alla solista, Jaymz Lennfield alla voce e alla ritmica, Ringo Larz alla batteria e Kliff McBurtney al basso. E pensare che tutto è nato per scherzo: per una festa di pesce d’aprile del 2001 viene prodotto un CD con delle cover dei Fab Four come se le avessero suonate i Four Horsemen (che già avevano realmente licenziato due edizioni di Garage Inc., raccolte di omaggi e rivisitazioni di brani altrui). Qualcuno abbocca allo scherzone ma soprattutto qualcuno mette i pezzi in Rete e cominciano downloading e popolarità. A quel punto si pensa a una band vera e dal 2004 si va on the road, con ottimi riscontri in America e Giappone. Ma per arrivare al successo (e al divertente Sgt. Hetfield’s Motorbreath Pub Band, oggi in vendita legalmente) si son dovuti affrontare anche alcuni discreti casini. Quando la Sony ha provato a fermare i Beatallica c’è stata una mezza sollevazione: qui da noi si sono sbattuti i Wu Ming, la nostra migliore band letteraria, mentre oltreoceano Mike Portnoy dei Dream Theater ha messo su il sito savebeatallica.com per dare assistenza legale ed economica alla band, tanto che pure Lars Ulrich ha dato il benestare all’operazione, facendosi perdonare la vicenda (tecnicamente: l’umiliante figura di merda) della causa con Napster. Lo avranno sicuramente convinto l’ascolto di Hey Dude e di I Want to Choke Your Band! (Febbraio 2009)

HRC505In preda al Delirium: Jesaheeeeeeeeel
È il 24 febbraio1972 e 25 milioni di italiani sono davanti allo schermo, rapiti dal Festival di Sanremo. I bambini hanno avuto il permesso: stasera “dopo Carosello” si fa un’eccezione. Mike Bongiorno, con paurosi basettoni, introduce i Delirium sul palco dell’Ariston e una compagnia di venti hippie con caffettani, collane, gilet e flauto magico strega il pubblico col canto corale di Jesahel. Cominciano così i due anni di straordinario successo del gruppo genovese. C’era già stato Il canto di Osanna, ma i Delirium non compongono solo pezzi che avete sentito suonare alla noia dagli scout in gita; nei loro album c’è uno strano impasto di pop, rock, folk e jazz che poi i critici avrebbero chiamato prog. Quando a Ivano Fossati tocca la naja, il gruppo si reinventa con Martin Grice, da Birmingham. Due album e poi i Delirium appassiscono, finché arriva il nuovo millennio e tre superstiti di quella gloriosa formazione decidono di tornare. Il promotore è Peppino Di Santo, grande batterista che fu testimonial assieme a Carl Palmer (di Emerson Lake & Palmer) del primo gong per suonare rock della Paiste. Oggi la reliquia fa bella mostra (e ottimo suono) sul palco dei rinnovati Delirium. C’è sangue fresco ma alle tastiere impazza sempre Ettore Vigo: ha suonato coi Ricchi e poveri e coi fantastici Kim and the Cadillacs (un altro Sanremo, nel 1979, e finalmente un dubbio fugato: la benda da pirata del chitarrista era solo di scena!) e ancora oggi ricama fraseggi jazz o costruisce imponenti architetture sonore col suo organo. Mi racconta di come Bongiorno avesse rifiutato di citare, in quel Sanremo, il Mellotron che Ettore aveva avuto in prestito. L’avesse fatto, gli sarebbe stato regalato: altri tempi, altri sponsor, ma soprattutto un altro Bongiorno. Frontman della band è sempre Martin Grice. Oggi vive dietro Genova, a Sant’Olcese, paesino rinomato per dei salami da urlo. Questo zingaro del rock mi racconta in anglo-genovese del suo arrivo in Italia dopo aver suonato al Marquee coi grandi dell’epoca, da Hendrix ai Faces a Otis Redding. Preso al volo per la defezione di Fossati, prestò sax e flauto alla maturazione definitiva del sound del gruppo, un sound che ancora oggi fa faville. Hanno appena licenziato un ottimo live che ripercorre la storia della band, Vibrazioni notturne, ma in cantiere c’è pure un Delirium IV atteso da più di trent’anni. Vigo, Grice e Di Santo nella vita hanno anche fatto mestieri diversi, ma si capisce che sono musicisti veri quando gli si parla degli incontri che li hanno segnati. Come quello col maestro Severino Gazzelloni che concesse il suo flauto d’oro massiccio al coraggioso Fossati. Andò bene. E risentendoli oggi, è chiaro perché: sono maledettamente bravi. (Aprile 2007)

Private PressingForza Islanda!
C’era una volta, quando ancora batteva il Cuore di Michele Serra, una rubrica utilissima e formidabile: con un riassunto e la pagina citabile, ti permetteva di millantare letture mai avvenute. Oggi, secondo le statistiche, leggere libri è praticamente una malattia rarissima e allora – piuttosto – fa tendenza vantare ascolti musicali remoti. E più sono remoti, più farete bella figura. Grazie a una poderosa menata firmata da Wim Wenders a un certo punto andava la musica cubana. E siamo ancora nel potabile e nel probabile. Poi il grande Kusturica ci ha rimbambito di fanfare balcaniche rubacchiate dal repertorio popolare da quel geniaccio di Bregovic. E infine – e ignoro il motivo – sono arrivati gli islandesi, ‘sti stramaledetti islandesi. Mi hanno intossicato prima coi Sugarcubes; poi, in pieni anni Novanta è toccato a Bjork: sguardo allucinato e manine inquietanti, menava di brutto i giornalisti e girava film folli con Von Trier. Adesso, per darsi un tono, niente fa colpo come proclamare la propria scoperta dei Sigur Rós; “Che pace, che melodie… sembrano i Pink Floyd con una spolverata di Nick Drake!”. Appunto: ho gli originali e dormo benissimo senza ottundenti vari. Che poi a me l’Islanda è pure simpatica (anche i Sigur Rós, via): fino a due mesi prima del crollo dei mercati era un’isoletta tranquilla. Poi è venuto giù tutto quando in qualche posto sperduto nel cuore degli USA un poveretto non ha trovato i soldi per pagare il mutuo. Effetto domino e i numeri, bit immateriali, si sono trasformati magicamente in solenni inculate, fisicissime queste. Ma torno in Islanda, perché nell’isola che era felice senza petrolio, dove son tutte dottir e un golf di lana costa come un straccio di panno, han pure fatto della musica che a me piace: per esempio gli ottimi Svanfridur. Nel 1972 hanno pubblicato un unico rarissimo album, un mischione originale di hard e prog cantato in inglese, con azzeccate intuizione di basso e archi. Proprio niente male. Anni fa, quando Bregovic era il non plus ultra, gelavo la conversazione citando i Bjelo Dugme del 1975, col giovane Goran che svisava blues. Oggi, alla bestia leghista che si lamenta degli immigrati sudamericani cui piace troppo la cerveza, rispondo con i dignitosi equadoregni Mozzarella (giuro). Assaggiati, sono altamente digeribili e, se vi piace il rock FM, valgono la pena. Ma la vera soddisfazione arriva quando saltan fuori i Sigur Rós. Sono troppo avanti: ascolto anche gli Svanfridur, io. (Dicembre 2009)

HRC507Shel Shapiro è immortale, parola mia
Se dovessi elencare tutte le canzoni che hanno reso popolare Shel Shapiro, il pezzo sarebbe già bello e concluso. Ha alle spalle una carriera pazzesca, ricca di collaborazioni, scoperte, produzioni e riconoscimenti (e se dovessi fare tutti i nomi… vedi sopra), ma quando gli parli è sempre rivolto al futuro. La sua autobiografia è uscita l’estate scorsa e fa i conti con una vita, ma senza rimpianti o nostalgie, anzi, ed è tale la tensione verso i prossimi impegni che il titolo è programmaticamente Io sono immortale. Ci sono l’infanzia nella Londra del dopoguerra immersa nello smog, l’arrivo e la liberazione del corpo e della mente grazie al rock, la vitalità ingenua ma sinceramente energica dei Rokes, la tensione politica che è maturata nel tempo, le vicissitudini sentimentali e le gioie paterne, la frustrazione del successo di massa e il passaggio dietro le quinte per dedicarsi alla scrittura e alla produzione negli anni seguenti, rifiutando ad ogni costo la nostalgia televisiva (“piuttosto muoio di fame!”) alla corte di Baudo, Conti, D’Urso & company. La cosa gli avrebbe pur fatto fare qualche soldino ma lo avrebbe anche reso prigioniero di Bisogna saper perdere e delle domeniche pomeriggio via etere assieme ad altre cariatidi. Nel suo libro trovi la Roma dei Sessanta e la Milano dei Settanta solo come un inglese te le può raccontare e scopri anche liason inaspettate (l’amicizia con Mario Capanna) e altre più logiche ma mai sfruttate nel senso deteriore del termine (le sue interpreti Mina, Vanoni e Mia Martini, per dire), tutto permeato da uno humour che non sai se più british o yiddish. Shel è ribelle e capellone “oggi più di ieri e domani più di oggi”: non ha perso alcun entusiasmo e lo dimostra discorrendo davanti a una pasta col ragù e un bicchiere di rosso. Andiamo avanti per ore e confermo: è immortale e la sua saggezza non è data dall’età, ma dalla leggerezza e dall’ironia. Poi è tempo di farla finita, perché questo talentaccio è atteso da delle prove teatrali: già attore per Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate, Shel adesso recita sul palco con Moni Ovadia. Dopo il successo di Sarà una bella società scritto col compianto Edmondo Berselli, è in tour fino a tutto marzo con Shylock: il mercante di Venezia in prova dove interpreta il personaggio eponimo. E non canterà Che colpa abbiamo noi, state sicuri. (Febbario 2011)

(Continua – 5)

Qui altre storie di Hard Rock Cafone

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

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Discorrendo di musica, ufo, rivoluzione ed altro ancora https://www.carmillaonline.com/2015/06/24/talkinbout-ufo-revolution-music-and-something-else/ Wed, 24 Jun 2015 20:14:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23392 di Sandro Moiso

Boyd_Biciclette Joe Boyd, Le biciclette bianche. La mia musica e gli anni sessanta, Odoya 2014, pp. 300, € 14,00

Nonostante la distanza degli argomenti trattati, la lettura di queste memorie di uno dei più grandi produttori musicali degli anni sessanta, ma in attività ancora oggi, mi ha fatto lo stesso effetto del film di Peter Bogdanovich su John Ford.1 Forse perché, in entrambi, è presente lo stesso senso di nostalgia per una forma [...]]]> di Sandro Moiso

Boyd_Biciclette Joe Boyd, Le biciclette bianche. La mia musica e gli anni sessanta, Odoya 2014, pp. 300, € 14,00

Nonostante la distanza degli argomenti trattati, la lettura di queste memorie di uno dei più grandi produttori musicali degli anni sessanta, ma in attività ancora oggi, mi ha fatto lo stesso effetto del film di Peter Bogdanovich su John Ford.1 Forse perché, in entrambi, è presente lo stesso senso di nostalgia per una forma quasi artigianale di conduzione del lavoro, oggi quasi impossibile, che ha fatto grande il cinema (western) e la musica degli anni sessanta e settanta.

Se nel primo caso rimarrà per sempre mitica la narrazione di come John Ford si immergesse fino al petto nelle acque di un torrente per mostrare all’operatore quale fosse il punto migliore da cui filmare, in un unico piano sequenza, una scena di dialogo tra James Stewart e Richard Widmark in “Cavalcarono insieme”, le descrizioni contenute nel testo di Joe Boyd della ricerca dei punti esatti in cui posizionare microfoni e musicisti negli studi di registrazione pre-digitali non sono da meno. Tenuto anche conto dell’altissima qualità dei dischi e dei suoni che risultarono da quelle sedute di registrazione.

Ora la maggior parte degli studi hanno grandi sale di regia e i dispositivi esterni possono essere collegati direttamente alla console: le drum machine, le tastiere elettroniche, i sequencer eccetera…La maggior pare della musica registrata oggi viene creata dai musicisti – o dagli operatori – seduti di fianco al tecnico del suono: passa direttamente all’hard disk invece che risuonare nell’aria per essere captata dai microfoni, Di conseguenza , la sala studio si riduce a uno spazio modesto destinato ai cantanti o ai singoli musicisti. Oggi l’acustica ideale è una situazione morta: la registrazione digitale può apparentemente sintetizzare qualsiasi atmosfera, dal Madison Square Garden al vostro bagno […] Negli anni Sessanta i musicisti registravano ancora la maggior parte di un pezzo suonandolo insieme nella stessa stanza e nello stesso momento […] Le sezioni ritmiche respiravano con gli altri musicisti, accentuando o ritardando il tempo a seconda dello stato d’animo. L’acustica degli studi cambiava moltissimo, così come gli stili del tecnico del suono e della produzione. In teoria, i computer fanno in modo che i musicisti e i produttori scelgano da una gamma infinita di suoni vari, ma le moderne registrazioni digitali sono molto più monocromatiche e simili fra loro di quanto lo fossero le vecchie tracce analogiche” (pag. 209)

In questo caso però, stiamo ben attenti, non ci troviamo di fronte alla stantia polemica da audiofili sulle differnze tra suono analogico e suono digitale, ma a una ben più profonda riflessione su differenti modi di intendere lo show business e la musica in generale.
Joe Boyd è stato un grandissimo produttore, ma difficilmente i suoi musicisti e cantanti hanno immediatamente raggiunto il successo e il grande pubblico ai tempi dei loro primi dischi. Così Joe ha modo di lamentarsi in varie pagine di come gli sia spesso sfuggita l’occasione di mettere sotto contratto gruppi destinati vendere nell’immediato milioni di dischi. Dai Lovin’ Spoonful a Stevie Winwood, dai Cream ai Pink Floyd e canzoni quali Fire di Arthur Brown o A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum.

Eppure egli, più o meno inconsapevolmente, lavorava per il futuro; con un senso dell’avventura, della ricerca e del melange musicale che lo rendono quasi unico nella storia del blues, del rock, del jazz e del folk. Ha lavorato con vecchi bluesmen quali il Reverendo Gary Davis o Sleepy John Estes e ha prodotto, tra il 1966 e il 1971, i dischi, oggi leggendari, della Incredible String Band, dei Fairport Convention, di Chris McGregor, di John e Beverly Martin, di Vashti Bunyan, di Nico e di Nick Drake. Soltanto per citarne alcuni.

Ancor prima, giovane americano nato nel 1942, era giunto a Londra nel 1965, a caccia di emozioni, avventure, musica e, soprattutto, musicisti e dischi da produrre. Il primo risultato, però, si era concretizzato con l’apertura del mitico UFO club, il primo locale in cui si esibirono gruppi psichedelici come i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine (ancora eterodiretti da Daevid Allen, Kevin Ayers e Robert Wyatt) e i Tomorrow (che comprendevano musicisti del calibro di Steve Howe, Keith West e John Alder “Twink”, tutti destinati a lasciare diversamente il segno nel rock inglese degli anni a venire), autentica prefigurazione di tutte le follie e sperimentazioni lisergiche che sarebbero seguite negli anni successivi, che con uno dei loro brani più famosi, My White Bicycle, finirono con l’ispirare il titolo del libro di Boyd.

Ma fu ancora un altro brano dello stesso gruppo a cogliere, in anticipo, lo spirito dei tempi: Revolution. Sì, perché, anche se il produttore americano dichiara sempre apertamente di aver fatto tutto per guadagnare soldi e fama, oltre che per amore della musica, i cambiamenti culturali, comportamentale sociali in atto in quegli anni non potevano lasciare insensibili i musicisti (che spesso ne costituivano il diretto prodotto) e i nuovi produttori, oltre che le case discografiche più intelligenti, sempre a caccia di novità da proporre sul mercato dei consumi giovanili.

Si creava in tal modo, e il testo lo spiega benissimo, una sorta di spirale virtuosa in cui le mode e i comportamenti ribelli dei baby boomers nati nel dopoguerra si rispecchiavano nei prodotti musicali incisi su vinile, che, a loro volta, finivano col diventare amplificatori e diffusori di quei comportamenti anche tra le fasce giovanili inizialmente meno coinvolte. Abiti eccentrici, droghe, ribellione e antiautoritarismo si mescolarono in una straordinaria ed esplosiva miscela da cui sarebbero conseguiti il ’68 e le proteste giovanili in tutto il mondo.

Joe Boyd fu al centro di tutto questo. “Qualsiasi causa, non importava quanto radicale fosse, era benvenuta e poteva far proseliti sul posto” (pag. 153) In una Londra che cercava di essere alternativa al grigiore esistenziale dell’establishment e delle famiglie piccolo borghesi o proletarie e che avrebbe finito col fare da modello ai giovani americani, già segnati dalla lotta contro la segregazione razziale e dalla guerra in Vietnam.

Talvolta poteva essere un film, ma che film, a fare la differenza. “nella primavera del 1965 volai da Londra a San Francisco per incontrare Bill Graham […] A un cinema vicino al Fillmore davano La battaglia di Algeri. Quando entrai, stavano scorrendo i titoli di testa: le scene della kasba erano buie […] Cercavo un posto a tentoni, ma continuavo a trovare persone. Una sensazione strana: mi aspettavo che in un pomeriggio di un giorno feriale un cinema d’essai fosse abbastanza vuoto […] Le vivide scene della guerriglia urbana mi fecero velocemente dimenticare dove fossi.
Quando il film terminò, le luci si accesero e mi mostrarono un cinema pieno. La mia era l’unica faccia bianca tra il pubblico. Gli uomini portavano baschi neri, le donne i dashiki e avevano tutti un quaderno per gli appunti
” (pag. 135).

Poco più di un anno dopo, nell’ottobre del 1966, proprio nella Bay Area sarebbe stato fondato il Black Panther Party. Ma il Free Jazz dei fratelli Ayler aveva già anticipato anche questo. Come a Parigi quando, dopo aver fornito una versione stravolta e destrutturata della Marsigliese, avevano scatenato una rissa colossale tra gli ascoltatori favorevoli e contrari alla loro reinterpretazione.

Non solo musica dunque nel libro in questione e non solo folk o rock.
In tutta la narrazione, a suo modo epica, aleggiano personaggi leggendari (Hendrix, Drake, Dylan, Seeger, Sandy Denny e Barrett), impresari delinquenziali, brutti ceffi, spacciatori di vario genere , skinhead, militanti neri, angry young men come Mick Farren e i suoi Deviants, etichette discografiche innovative (Elektra e Island), debiti, successi ed insuccessi e tantissimi personaggi ingiustamente e colpevolmente dimenticati.

Il vortice di denaro che girava intorno all’affare della musica “giovanile” sembrava anticipare le crisi finanziarie e gli squali della finanza che finiranno col dominare il capitalismo globale. Trasformando, nel tempo, anche il senso di tanta musica. “Sei anni dopo che Sgt. Pepper ebbe sconvolto il mondo della musica […] gli album di carole King e neil Young superarono di molto le vendite del capolavoro dei Beatles. Dieci anni dopo, le vendite di Thriller di Michael Jackson avrebbero reso insignificanti tutte quelle dei dischi dei Beatles messe insieme e lui avrebbe acquistato con gli spiccioli i diritti di pubblicazione del catalogo dei brani di Lennon e McCartney. Aprii la mia società di produzione in un periodo innocente di attese relativamente modeste“. (pag. 175)

Così, mentre lavorava per la Warner, Joe Boyd fu incuriosito dal fatto che John Calley, produttore del più grande disastro cinematografico, dal punto di vista economico, fino a quei tempi, fosse considerato un grande produttore.
Mi stavo documentando sugli aspetti finanziari del mondo del cinema. «Base Artica Zebra? Ma non ha perso più di ogni film nella storia del cinema?».
«Sìì! Quello!» Non capivo. Come si passa dal produrre un fiasco costosissimo a dirigere uno studio?
«Joe, Joe, Joe! Devi capire Hollywood! Qui non valgono tanto i soldi che fai, quanto i soldi che maneggi!
»” (pag. 249) Ovvero Lesson number 1 per comprendere tutto quello che sarebbe arrivato con le crisi finanziarie e gli stipendi dei top manager fino ai nostri giorni.

Spesso è la sconfitta a segnare la narrazione. Il rimpianto per ciò che il produttore non aveva saputo fare per salvare Nick Drake dall’autodistruzione e dal suicidio oppure gli Incredible String Band da se stessi e da Scientology. Ma è il ricordo di un sogno, di un grande magnifico sogno a trionfare alla fine. Un sogno per il quale è valsa la pena aver vissuto tutto, nel bene e nel male.
E le ultime straordinarie righe ne rivelano l’anima e il senso in maniera onestissima.

Un libro bellissimo, da leggere e da amare. Una storia di ciò che è cambiato, ma anche di ciò che è andato irrimediabilmente perduto nel corso delle trasformazioni e a causa dell’allontanamento culturale e politico tra le generazioni. Un libro da leggere tutto di un fiato, anche sotto un ombrellone, in un’altra estate di crisi e di promesse mancate.


  1. Directed by John Ford, 1971 poi riassunto nel libro dello stesso Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Pratiche Editrice 1990  

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Un week end del 1993 – 1/5 https://www.carmillaonline.com/2014/07/24/week-end-1993/ Thu, 24 Jul 2014 20:31:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15643 di Filippo Casaccia

Lo scippo

weekend1Genova, via XX Settembre, diretto verso la Stazione Principe. Sto andando a prendere l’ennesimo treno che, in questa calda giornata autunnale, mi porterà a Milano. Prendo il 18 anche se è pieno: ho abbastanza anticipo sul treno, ma non si sa mai. Meglio che dover aspettare un altro autobus vuoto e rischiare. Salgo e noto che c’è una tizia con una evidente faccia da idiota. Razzista! – penso – ancora ad insistere con la fascista presunzione di giudicare dalla faccia. La città mi scorre davanti agli occhi, tra salite e discese, Garibaldi a cavallo, sole e [...]]]> di Filippo Casaccia

Lo scippo

weekend1Genova, via XX Settembre, diretto verso la Stazione Principe. Sto andando a prendere l’ennesimo treno che, in questa calda giornata autunnale, mi porterà a Milano. Prendo il 18 anche se è pieno: ho abbastanza anticipo sul treno, ma non si sa mai. Meglio che dover aspettare un altro autobus vuoto e rischiare.
Salgo e noto che c’è una tizia con una evidente faccia da idiota. Razzista! – penso – ancora ad insistere con la fascista presunzione di giudicare dalla faccia. La città mi scorre davanti agli occhi, tra salite e discese, Garibaldi a cavallo, sole e gallerie. Una, due, tre fermate: mancano duecento metri alla fermata di Principe, ho quindici minuti per fare il biglietto, obliterarlo e partire. Tranquillo, come piace a me, così mi scelgo un bel posto e posso leggermi in pace Cuore.
All’improvviso uno starnazzo impone il silenzio in piattaforma, dove l’apposita targhetta ricorda che è vietato sputare: “Conducenteee, autistaaaa, mi hanno rubato il borsellinoooo…”
Occazzo! Mi giro e, guarda la coincidenza, ad urlacchiare, quasi divertita, è quella faccia da idiota che avevo notato prima. Il bus si piazza, a porte sprangate, praticamente davanti alla biglietteria della stazione ed in sei interminabili minuti arrivano due vigili e quattro poliziotti. I nostri. Io, allora, inizio a perquisirmi pensando che il borseggiatore mi abbia infilato in tasca la refurtiva. Leggo troppi racconti, Genova profuma d’oriente ma non è Bangkok dove ti piazzano la bustina di droga in tasca e poi ti denunciano. L’idiota intanto ammansisce gli altri passeggeri: “Scusate, ma da qui non scende nessuno, eh… vorrei vedere se fosse capitato a voi”. A me non è mai capitato e ti dirò di più: se il borseggiatore è così bravo da aprirti la borsa sotto il naso, beh, merita il tuo portafogli. Sento la furbacchiona che pigola: “Prima la borsa era pesante, poi leggeeera!”. Lombroso aveva ragione, altro che io fascista. Troppo comodo chiamare l’autista: hai perso, cara. E poi, detto tra noi, fascista sarà Fini e Berlusconi che invita a votarlo a Roma.
Si crepa dal caldo e cominciano le scene d’isteria; tutti iniziano a lamentarsi che stanno perdendo il treno; una tipa accusa una crisi di soffocamento falsissima cui non crede nessuno: la crisi rientra miracolosamente. Io sono vestito per il gelo milanese, sembro Nanook e sudo. Mancano sette minuti alla partenza del treno: sta a vedere che lo perdo per colpa di quell’idiota. I vigili ed i poliziotti se la prendono comoda, parlottano e, siccome sono molto stupidi, non si capiscono; poi si decidono e fanno scendere i passeggeri dalla porta del conducente, dalla parte opposta a quella dove è presumibilmente avvenuto lo scippo. Io per fortuna sono tra i primi a poter scendere. Mentre sto lasciando ‘sto benedetto carro bestiame capto al volo un imperdibile colloquio tra la derubata ed un’altra passeggera che non vedo, ma che deve anche lei avere una clamorosa faccia da idiota: “Allora lei lo ha visto, eh? Ma braaava! E non dice niente per paura! Non si ci crede…”. Vorrei quasi rimanere sul mezzo per vedere come va a finire, se la testimone avrà il coraggio di testimoniare o se troveranno il borsellino addosso a quello lì, un pensionato perplesso ed indifeso cui l’attesa fa male più che agli altri. O magari il ladro è proprio lui e non quel sudamericano che tutti guardano storto, quel fierissimo indio che non sembra minimamente toccato dalla faccenda e pare che dica: perquisitemi, fatevi pure la vostra bella figura di razzisti di merda.
Scendo gli scalini ed uno dei poliziotti mi annuncia che deve perquisirmi. Cinque minuti. Nei suoi occhi non brilla la fiamma dell’intelligenza. Lo dimostra palpandomi come se fossimo in un film americano: mi sfiora le reni e le cosce ed io, aderente in pieno alla pantomima cinematografica, alzo le braccia di scatto. Poi mi chiede: “Dove tieni il portafogli?”. Non capisco se sia un subdolo trucco per farmi tradire. Invece no, vuole sapere proprio dove tengo il mio portafogli. Forse vuole scoprire un altro furto o darmi dritte per evitarlo. Boh. Indico la tasca dei jeans. Annuisce lentamente. Poi mi chiede di mostrargli l’interno del mio zaino. Gli faccio vedere la Canon, un CD di Nick Drake, il manuale di Teorie e Tecniche del Restauro che questo weekend non studierò mai, un Pasolini che gli accende uno sguardo sospettoso negli occhi (brillano le parole ‘frocio, frocio, frocio’)… finché non arrivo a fargli vedere le mutande. Non quelle che ho addosso, chiaramente. Il patetico siparietto di cui sono complice si avvia al termine, si vede che il poliziotto è improvvisamente stanco ed il suo potere di concentrazione sta svanendo: “Va bene, va’ pure…”.
Schizzo in biglietteria: ho il treno tra quattro minuti. Dovrei farcela. In coda davanti allo sportello soltanto una persona. È un tizio strano, con la faccia da sessantenne ed un corpo da adolescente. Chiede con voce chioccia un biglietto per Alessandria. Dietro il vetro la bigliettaia gli chiede se lo vuole via Ovada o via Arquata. “È lo stesso… anzi, via Ovada…”. L’impiegata inizia a digitare sulla tastiera. “No, guardi, faccia via Arquata…”. Lei si blocca, interrogativa. Lui: “Ma no, via Ovada”. Amplificata dal microfono, lei perde le staffe: “Mentre si decide…” e rivolta a me “Lei?”. Milano, con ritorno e senza supplemento, grazie. L’omuncolo: “Via Ovada e non ne parliamo più!”. Due minuti. Lei sta per crollare e Amleto per fortuna non apre più bocca. Fatto il mio biglietto restano meno di sessanta secondi. Il treno però è sempre in ritardo e dovrei avere ancora un patrimonio di due, tre minuti. Vengo sfiorato dal desiderio di tornare all’autobus per vedere com’è andata a finire. Poi penso a quell’astuto tutore dell’ordine, intriso di cultura letteraria poliziesca di infimo ordine: crederà sicuramente che sono tornato sul luogo del delitto. E allora corro come il vento, oblitero e salgo sul treno con un minuto di ritardo. Ma ne aspetterò altri cinque prima di partire.
Chissà se quel trust di cervelloni ha trovato il borseggiatore o se è stata quella con la faccia da idiota a trovare il borsellino, ben nascosto nella tasca interna della giacca.
Si parte.

(1 — CONTINUA)

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