Newport Folk Festival – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Portare il peso di una stagione che non tornerà più: Robbie Robertson https://www.carmillaonline.com/2023/08/19/portare-il-peso-di-una-stagione-che-non-tornera-piu-robbie-robertson/ Sat, 19 Aug 2023 20:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78664 di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel [...]]]> di Diego Gabutti

«Una volta», racconta Bob Dylan in Chronicle (Feltrinelli 2005), «ero in macchina con Robbie Robertson, chitarrista del gruppo che poi sarebbe diventato The Band. Mi dice: “Dove pensi di portarla, Bob?” “Portare cosa?” chiesi io. “Lo sai, l’intera scena musicale.” L’intera scena musicale! […] Non so cosa gli altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa in un quartiere con le case fiancheggiate da alberi, con una staccionata bianca e le rose nel cortile sul retro».

Robbie Robertson, scomparso ottantenne a Los Angeles qualche settimana fa, pensava in grande, anche a costo d’irritare Bob Dylan, col quale aveva inciso dischi immortali, e di cui fu complice, insieme al resto della Band, nello scantinato di Big Pink, la leggendaria casa rosa nei boschi intorno a Woodstok, dove furono incisi su registratori di fortuna i Basement Tapes, una miniera di classici song americani, di scherzi musicali mozartiani, di blues semidimenticati, di canzoni nuove di zecca. A lungo segreti, o meglio occulti, i Basement Tapes furono vastamente piratati prima d’essere parzialmente pubblicati, nel 1975, in via ufficiale.

Erano gli anni sessanta e Robertson – come racconta nella sua autobiografia, Testimony, un grande libro sull’America e sulla giovinezza del mondo – era sulla strada dagli ultimi anni cinquanta, quando appena sedicenne era stato reclutato dallo sfrenato «Rompin’» Ronnie Hawkins, leader degli Hawks, «la rock’n’roll band più fica che c’era». Gli Hawks erano una band sudista, puro Arkansas, dove «l’aria sapeva dei pini di Ozark e di cibo fritto», mentre Robertson era canadese, di Toronto, dove alla band capitava spesso di passare, e dove una volta furono tutti arrestati per possesso di marijuana. Madre pellerossa e padre biologico ebreo, un gambler o pokerista di professione morto in un incidente stradale, anche se alcuni pronunciavano la parola «incidente» con aria dubbiosa, Robertson aveva uno «zio Natie» nel traffico dei diamanti rubati e zii, amici e cugini nelle Sei Nazioni: i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga, i Seneca, gli Oneida e i Tuscarora. Ai suoi geni pellerossa avrebbe dedicato parecchi anni dopo Music for the Native Americans. Al sud degli States, dove l’aveva portato la chitarra vibrando come una bacchetta di rabdomante, dedicò The Night They Drove Old Dixie Down, una malinconica ballata del 1969 che Joan Baez portò al primo posto in hit parade e che oggi, con quella sua dichiarata nostalgia per il Generale Lee e per il vecchio sud, finirebbe sul rogo insieme all’Amleto di Shakespeare e ai poster dei film di Harry Potter.

Canadese di nascita e southerner, sudista, per autoproclamazione, Mohawk ed ebreo, Robertson suonava po’ come il verso vivente d’una canzone di Dylan, tipo Mister Tamburino nel «mattino tintinnante» o Mack il Dito e Louis il Re con i loro «quaranta lacci da scarpe rossi bianchi e blu» o come qualunque altro, a piacere, dei tanti Arlecchini e Pierrot etnici e culturali che avrebbero guadagnato, col tempo e le melodie evergreen, un Nobel al loro puparo simbolista.

Robertson scrisse le sue prime canzoni a sedici anni. Hey Boba Lou e Someone Like You, due pezzi indiavolati alla Jerry Lee Lewis, apparvero in un album di Ronnie Hawkins, Dynamo, nel 1960. Solo che al suo nome era affiancato, come coautore e dunque «co-incassatore» delle eventuali royalties, un testa di legno della casa discografica, la Roulette Records, con uffici a Broadway, NYC. Robertson voleva protestare, «ma Ron mi disse: “Figliolo, in questo ambiente ci sono cose che non devi neanche provare a mettere in discussione. Ci sono dei tizi a New York City che non ti conviene far incazzare”». Erano «tempi duri in città», per citare sempre Dylan: «Una frotta di gente ti turbina intorno / che quando ti va bene sono calci e appena ti va male sono pugni». Morris Levy, boss della Roulette Records, quando Robertson entrò nel suo ufficio, lo squadrò per bene e poi, rivolto a Hawkins, ringhiando: «Proprio un bel ragazzino. Se finiamo in carcere non sarebbe male portarlo con noi. Scommetto che sei indeciso se assumerlo o scopartelo». Robertson, «in quel preciso istante», decise «di rinunciare a sollevare una qualunque disputa sulla questione diritti».

C’era una rivoluzione in corso, solo che riguardava quasi esclusivamente la musica, e non ancora la vita quotidiana dei giovani, la loro cultura, i costumi. Elvis Presley era solo in parte un fenomeno culturale. Nessuno si scandalizzò né sacramentò o lanciò lattine di Coca-Cola sul palco quando il Re passò da Nashville a Hollywood, dal rock duro al pop. Non c’era una grande distanza tra lui nel Delinquente del rock’n’roll e Pat Boone in Viaggio al centro della Terra. Ma qualcosa stava cambiando, e stava cambiando in fretta: i Beatles, i movimenti studenteschi in California, la scena radical sempre più estesa. Musica e controculture cominciavano a intrecciarsi strettamente tra loro, e quando a saltare dal folk impegnato e «di protesta» (come si diceva) al rock’n’roll dada-astrattista fu Bob Dylan, zompando da Masters of War e Hard Rain a Like a Rolling Stone e Memphis Blues Again, il pubblico dei concerti insorse. Sul palco, con Bob Dylan, in quei drammatici tour del 1965 e 1966, quando a Dylan davano del «venduto» e del «rinnegato», c’erano anche Robertson e la neonata Band (band e basta, senza nome) che aveva appena divorziato da Ronnie Hawkins.

Quando dal pubblico saliva lo schiamazzo contro la voce raspante di Dylan, contro la chitarra elettrica di Robertson e contro la batteria del grande Levon Helm, l’ex folksinger urlava: «Più forte! Suoniamo più veloci e più forte!» Era il nuovo mondo, un altro pianeta. Scrive Robertson: «Eravamo nel bel mezzo d’una rivoluzione rock’n’roll. O aveva ragione il pubblico, o avevamo ragione noi». Avevano ragione (e torto) tutti quanti. Era Il Decennio dell’Io (Castelvecchi 2013), come lo chiamò Tom Wolfe in un fortunato pamphlet di quegli anni, e ciascuno stava dietro alle proprie alienazioni e idiosincrasie. Quanto ai musicisti, più che suonare forte e veloce, vivevano pericolosamente, in molti sensi: «Quando qualcuno cambiava accordatura nel mezzo d’un assolo, io mi sentivo come Doc Holliday che cerca di smaltire la sbornia prima di buttarsi in una sparatoria al fianco di Wyatt Earp».

Ai tempi degli Hawks, solo un paio d’anni prima, «in un sacco di locali, se avevi i capelli lunghi, ti pestavano di brutto o ti sparavano. Frequentavamo un sacco di gangster, e secondo loro se avevi i capelli lunghi eri un finocchio». Adesso «nuove vibrazioni attraversavano il paese: le Pantere Nere, gli Hell’s Angels di Oakland, i poeti Beatnik, e una fiorente scena musicale che combaciava col nostro indirizzo musicale. Un giorno accompagnai Bob alla City Lights, la libreria di Lawrence Ferlinghetti a Frisco. Fummo accolti dai poeti Michael McClure e Allen Ginsberg. Vedere Allen, Michael e Bob chiacchierare con disinvoltura di scrittori e poeti mi fece ripensare agli anni passati con Ronnie, quando anche soltanto parlare di poesia era una buona ragione per essere presi a calci nel culo». Ma ogni Eden ha il suo serpente, come Robertson e la Band, insieme all’intera «scena musicale», avrebbero scoperto presto, quando le droghe cominciarono a dilagare, quando ad Altamont un concerto dei Rolling Stones finì in tragedia e l’«estate dell’amore» generò la Famiglia Manson e la strage di Bel Air.

Nell’ultima formazione degli Hawks, prima che lui e altri membri del gruppo si separassero da Ronnie Hawkins, rocker vecchio stile in un’America alternata, irriconoscibile, c’erano più canadesi che «native dixieland», per chiamarli così. Tranne Helm, un sudista di sangue puro, tutti gli altri (Robertson, Richard Manuel, Garth Hudson, Rick Danko) erano nati oltre frontiera, nella terra delle alci e dei Mounties, le Giubbe Rosse. Quando suonavano a Toronto «amici e parenti accorrevano in massa per vedere i figli della loro terra suonare ai massimi livelli. C’erano gangster e ladri, sarti, truffatori, cuochi e contorsionisti, biscazzieri e giostrai, di tutto». Anche qui, in Canada, i personaggi da vaudeville pulp che s’affaccendavano e spintonavano nei versi di Bob Dylan e della Band avevano preso sostanza, a dimostrazione che non c’era niente d’inventato. Era tutto vero: ogni canzone un fotocolor, il mondo un circo a tre piste.

Poco più che trentenne, ma sulla strada ormai da quattordici anni, Robertson cominciava a sentire la fatica. Idem Helm e gli altri, tutti ormai più o meno persi dietro le droghe, inclusa l’eroina. Pochi concerti, e poco da incidere. Valeva per la Band come per ogni altra band: il decennio dell’Io e del rock era finito, soffocato dalla vanitas e dalla sfiga, che rovesciano invariabilmente ogni utopia nel suo contrario. Di questa breve, brevissima parentesi, dalla stagione cioè di Elvis e di Ronnie Hawkins all’età del Sgt. Pepper e della cultura delle droghe, Robbie Robertson – che la visse da un capo all’altro, scrivendo «along the road» canzoni memorabili: The Weight, Up on Cripple Creek, The Shape I’m In – è stato un grande testimone, e il suo libro forse la migliore (e comunque un’eccezionale) testimonianza umana e letteraria. Presente all’inizio della festa, quando «il rock’n’roll era violento, dinamico, primitivo e creava dipendenza», fu lui a spegnere i riflettori quando la festa gli sembrò finita (ma restavano le dipendenze, e non c’era più, come disse Dylan, «nessuna cazzo di magia»).

Era tempo di sciogliere la Band e di passare ad altro. Fu un evento, celebrato dal primo grande film rock’n’roll, The Last Waltz, diretto da Martin Scorsese, che all’epoca aveva già diretto film memorabili come Taxi Driver, Mean Streets, New York New York. A celebrare il tramonto della «rivoluzione rock’n’roll» e lo scioglimento della Band c’erano tutti: Neil Young, Joni Mitchell, Ronnie Hawkins, Bob Dylan, Eric Clapton, Van Morrison, Muddy Waters, Ron Wood, Neil Diamond, Ringo Starr.

Robertson, dopo di allora, incise qualche disco da solista, nessuno particolarmente notevole. Scrisse numerose colonne sonore per Wim Wenders e Barry Levinson, per Oliver Stone, ma soprattutto per Scorsese, col quale collaborò per Toro Scatenato, Casinò, The Wolf of Wall Street, Gangs of New York e numerosi altri film, compreso l’ultimo, Killers of the Flower Moon, presentato quest’anno a Cannes e in uscita nei prossimi mesi. The Band tornò in pista nei primi ottanta senza di lui, e senza che ne uscisse niente di paragonabile ai trionfi dei vecchi tempi.

Di Robertson circola su Internet, qui, un bellissimo video che celebra il cinquantenario di The Weight, una delle più belle canzoni mai registrate. Artisti di tutto il mondo, dal Tibet al Texas, dal Congo al Bahrein, dall’Italia al Giappone, dall’Argentina alla Giamaica, la cantano in coro, ciascuno dalla propria location. Vecchio e divertito, Robbie impugna la sua chitarra, come in giovinezza, e il suo sorriso illumina il mondo, che lui chiamava «la scena musicale».

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Il giorno in cui Bob Dylan impugnò la chitarra elettrica https://www.carmillaonline.com/2023/03/04/il-giorno-in-cui-bob-dylan-impugno-la-chitarra-elettrica/ Sat, 04 Mar 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76153 di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, [...]]]> di Diego Gabutti

In passato non ero mai stato troppo appassionato di libri e scrittori, ma mi piacevano le storie. Storie come quelle di Edgar Rice Burroughs, che aveva scritto di un’Africa mitica. Luke Short e i suoi mitici racconti western, Jules Verne e H.G. Wells erano stati i miei preferiti, ma era accaduto prima che scoprissi i cantanti folk. Che in una canzone racchiudevano un libro intero, tutto in poche strofe. (Bob Dylan, Chronicles. Volume 1)

Elijah Wald, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, Antonio Vallardi Editore, Milano 2022, pp. 370, 18,90 euro, eBook 11,99 euro.

Dylan a Newport con un nuovo look e una chitarra elettrica: incoronato re del folk, Dylan mette in chiaro che il suo sogno è diventare re del rock’n’roll. Nasce un tumulto.
È un evento originario, tramandato attraverso i decenni dai «boomers» che furono adolescenti negli anni sessanta, l’età dei diritti civili e del flower power. E come tutti gli eventi originari è falso, o parecchio esagerato, come illustra e racconta Elijah Wald nel suo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, una splendida e appassionante visita guidata all’ouverture dei sixties.

È il 25 luglio del 1965. Newport, Rhode Island. È qui che dal 1959, ogni estate, si tiene il Newport Folk Festival, dedicato a canti etnici, antiche ballate importate dall’Europa in tempi remoti, blues tradizionale, gospel, canzoni socialiste e proletarie, qualche timido excursus nel «folk pop», come lo chiamano, cioè nel folk commerciale, che ha cominciato a scalare l’hit parade: Tom Dooley del Kingston Trio, If I Had a Hammer e Where Have All the Flowers Gone di Peter, Paul and Mary.

Sono canzoni impegnate, legate al movimento antisegregazionista e alla sinistra americana. Pete Seeger, il creatore del festival, ha scritto gli hit di Peter, Paul and Mary e nei primi cinquanta ha importato dall’Africa The Lion Sleeps Tonight, o Wimoweh, una canzone che lo ha reso ricco (mentre Solomon Linda, l’autore della canzone, un musicista zulu, muore nel 1962 in miseria, e ci vuole una sentenza di tribunale per risarcire gli eredi). Seeger è stato anche membro del partito comunista ed è finito in lista nera. Veste dimesso, e se la tira da santa canaglia, ma ha «studiato a Harvard» e, come gli ricorda sua moglie: «Non sei un operaio, fai solo finta, e lo vedono tutti». Lui non se ne dà per inteso: pugno chiuso, camicia a scacchi e canzonette engagé. Due anni prima, nel 1963, a nome del Newport Folk Festival ha incoronato fenomeno del folk il giovanissimo Bob Dylan. Questi è salito sul palco in look (anche lui) da classe operaia imbracciando una chitarra acustica, l’armonica fissata al collo da un supporto subito entrato nella leggenda, e ha intonato canzoni che non saranno più dimenticate: Blowin’ in the Wind, A Hard Rain’s a-Gonna Fall, Don’t Think Twice, It’s All Right, Masters of War.

Ma ecco che due anni dopo Dylan si presenta a Newport in costume rockettaro stretto: «giacca di pelle lucida sotto i fari del palco, una camicia color salmone abbottonata fino al collo, jeans neri e stretti che gli fasciano le gambe sopra gli stivali a punta da cowboy, neri anch’essi». Imbraccia una chitarra «Stratocaster sunburst a due colori». Una chitarra elettrica. Sul palco, con lui, una band improvvisata di bluesmen di Chicago: chitarristi sparsi, qualche amico, Paul Butterfield e alcuni musicisti della sua Blues Band (che ha esordito, qualche mese prima, con Born in Chicago, una canzone che comincia così: «Sono nato a Chicago nel 1941 / Mio padre mi ha detto: “Figliolo, ti conviene prendere una pistola”»). Intorno, amplificatori, cavi elettrici, riflettori. Diranno poi che, venuto per ascoltare Bob Dylan cantare che «una dura, dura pioggia cadrà», e quel giorno è effettivamente piovuto per ore, il pubblico del Newport Folk Festival, bagnato fradicio, i piedi nel fango, s’è ritrovato davanti uno sconosciuto. Sguardo cattivo, modi strafottenti, chiaramente «stoned» di chissà che, una mise da damerino di Carnaby Street.

E via con l’evento originario: «Le luci sono puntate su di lui, solo al centro del palco, mentre i musicisti alle sue spalle iniziano a suonare avvolti dal buio. Ascolta per un momento, sente la forza della band, quindi s’avvicina al microfono e canta un singolo verso: “Alla fattoria di Maggie non ci lavoro più!” Fa un passo indietro, lascia che il grande chitarrista Mike Bloomfield risponda con un fraseggio di chitarra, si lascia trasportare dal ritmo ancora per un momento, poi torna al microfono e ripete la frase. Bloomfield risponde di nuovo, e ancora una volta lui ascolta per un istante prima d’irrompere con la prima strofa: «Mi sveglio la mattina, giungo le mani e prego perché piova / Le idee che mi frullano per la testa mi fanno impazzire». Yarrow sta accovacciato dietro ai musicisti, sistema i cavi apportando piccole regolazioni agli amplificatori. Bloomfield è alla destra di Dylan, avvolto dal buio e illuminato solo momentaneamente dal flash dei fotografi. La voce di Dylan si alterna ai fill secchi e ruvidi del chitarrista. Tra una strofa e l’altra, Bloomfield suona liberamente, senza attenersi a parti scritte in precedenza. Dalla sua chitarra escono urla stridenti, bassi tonanti e grappoli di note dissonanti, che si chetano ogni volta nel riff ripetitivo che annuncia il successivo ingresso di Dylan. Il suo non è un semplice accompagnamento: duella con Dylan, sfidandolo e incoraggiandolo a proseguire. Il cantante ulula l’ultimo verso: “Faccio del mio meglio per essere me stesso / ma tutti vogliono che sia come loro”».

È una metamorfosi, pensano i dylaniani della prima ora: il profeta beatnik di The Times They Are A-Changin’ ha saltato il fosso. Si è venduto, è passato al pop. Esultano invece i nuovi dylaniani: basta con le lagne sdolcinate del folk, basta con le canzoni sociali, finalmente l’introspezione, evviva Rimbaud, sex revolution, marijuana!

Non è vero, come racconta Elijah Wald nel suo libro, ma si racconta (e si racconterà ancora a lungo) che Pete Seeger, urlando «basta con questo rumore», si sia avventato sui cavi degli amplificatori mulinando un’ascia, come uno di quei boscaioli del Vermont che invita al festival insieme ai suonatori di banjo, di ukulele, di kazoo e a tutti quegli artisti che suonano «la vera musica del proletariato». Anche lui, nelle sue memorie, lascerà credere d’aver trasceso: nessuno rinuncia al suo cammeo, per quanto sgradevole, nella storia del mondo. Ma anche se non ci sono state scene madri, e Seeger si è limitato a soffrire in silenzio, qualcosa è successo davvero. Aveva ragione il vecchio Dylan: i tempi stanno davvero cambiando.

Dai diritti civili si sta passando ai diritti umani; dalle cause sociali a quelle del singolo, dell’individuo. È il grande ritorno del rock’n’roll, la cui stella era tramontata con l’eclisse di Elvis Presley, trasformato in star hollywoodiana e crooner di Las Vegas (ma anche nel saltafosso da Be-Bop-A- Lula e Mistery Train a Love Me Tender e Viva Las Vegas Presley rimane Presley, un principe). John Lennon e Paul McCartney stanno cambiando la vita della gioventù europea e americana con le loro melodie perfette e l’eleganza dada del loro look. Altrettanto innovativi, ma decisamente meno iconici, sono i CCR, per esteso Creedence Clearwater Revival, una band californiana che fonde il country con il blues e il rock’n’roll. Comincia l’età del rock duro e adrenalinico, poi psichedelico, presto anche del punk, dei Velvet Underground, del rock en travesti di David Bowie. Dylan è uno di loro, e il più bravo di tutti. Come canta in un altro dei suoi nuovi hit, Subterranean Homesick Blues, lui non «ha bisogno d’un meteorologo per sapere da che parte tira il vento».

Perché è di questo, ribadiamolo, che si tratta: dei tempi che cambiano. Non sono i Beatles o gli Stones né Dylan a cambiare il mondo, come qualcuno dirà in seguito, ma le loro canzoni sono l’inconfondibile colonna sonora del cambiamento, un’apocalisse dei costumi che coglie tutti di sorpresa, Dylan compreso. Ma il ragazzo è sveglio e si lascia portare dall’onda. A Newport, nel 1965, si volta pagina, nel bene e nel male. Non solo Dylan, ma almeno metà dei musicisti presenti sono passati, da un pezzo, alle chitarre elettriche.

«Non fu piacevole», racconta Wald, «ma fu di gran lunga meglio delle scontate declamazioni dei progressisti da manuale». A Newport, tutti erano abituati a essere accolti e coccolati, a sentirsi circondati da menti affini. «L’unico a mettere in dubbio la nostra posizione è stato Dylan. Forse non l’ha fatto nel migliore dei modi. Forse è stato maleducato. Ma ci ha dato una scossa. Questo è il ruolo dei poeti e degli artisti».

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Which Side Are You On? Pete Seeger e la presenza della lotta di classe nella canzone folk americana https://www.carmillaonline.com/2014/01/29/which-side-are-you-on-pete-seeger-la-presenza-della-lotta-classe-nel-folk-americano/ Tue, 28 Jan 2014 23:30:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12447 di Sandro Moiso

PeteSeeger Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli [...]]]> di Sandro Moiso

PeteSeeger
Probabilmente molti lettori di Carmilla avranno conosciuto Pete Seeger per l’album dedicatogli da Bruce Springsteen nel 20061 o per la canzone We Shall Overcome resa celebre da Joan Baez e altri cantanti folk negli anni sessanta e settanta più che per aver ascoltato la sua voce e le sue canzoni.

In realtà Seeger, nato a New York il 3 maggio 1919 e morto a nella stessa città il 27 gennaio scorso, è stato un autentico gigante non solo del folk revival degli anni cinquanta e sessanta, ma della canzone politica americana e un autentico testimone dello sviluppo della lotta di classe e della sua organizzazione politica negli Stati Uniti d’America. Con tutte le contraddizioni culturali, politiche ed umane che ne sono conseguite.

Spesso, infatti, nell’attuale società dei consumi, musicali e non, il verbo classista è completamente rimosso a discapito di una realistica e credibile ricostruzione del passato e dei suoi aspetti più conflittuali. Così l’attuale attenzione per la musica tradizionale americana e suoi aspetti risalenti al blues e al folklore delle origini tende a sottolineare prevalentemente l’aspetto razziale e religioso della stessa, dimenticando troppo spesso la forte valenza classista che tale musica ha portato con sé dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni sessanta.

Si dimentica così di sottolineare come gran parte dell’ambiente che finì col costituire negli anni cinquanta e sessanta del ‘900 il brodo di coltura da cui sarebbero usciti Bob Dylan, Phil Ochs, Joan Baez, Tom Paxton su su fino a Springsteen e Tom Morello affondava le sue radici non solo nel conflitto di classe, ma nella stessa storia del comunismo americano e nelle sue contraddittorie manifestazioni politiche e culturali.

Woody Guthrie, di cui nel 2012 si è celebrato senza alcun clamore il centenario della nascita, è stato sicuramente il testimone canoro più importante dello sviluppo e delle conseguenze politiche e culturali di tale tradizione. E, sicuramente, anche il più conosciuto.
Così che la sua leggenda, ingrandita dall’omaggio che Dylan gli fece per tutta la prima parte della sua carriera, e le sue canzoni originali hanno finito spesso col mettere in ombra la figura di Seeger che, al contrario di ciò che in genere si potrebbe pensare, è stata altrettanto importante se non di più nel riscoprire e tramandare alle successive generazioni la tradizione “blue collar” e proletaria delle ballate e delle folk songs statunitensi.

Un po’ il destino che Engels ha avuto nei confronti dell’amico e sodale Marx, se questo non suona blasfemo ai puristi, della musica folk e della politica. Anzi, per rinforzare l’ipotesi, vale la pena di sottolineare come, a differenza delle letture più semplicistiche del folk americano, il recupero della tradizione popolare americana operato da Pete Seeger sia stato, nella miglior tradizione marxista, frutto di teoria e prassi dialetticamente, ed artisticamente, riunite.

Pete Seeger nacque e ricevette la prima educazione in un ambiente già fortemente politicizzato: il padre, Charles Seeger, fu un pioniere della musicologia ovvero dello studio della musica inserita nel suo contesto sociale e storico e fu anche uno compositore che cercò di sviluppare tra gli anni dieci e venti del XX secolo un’autonoma musica sperimentale americana, liberata dall’europeismo di Arnold Schoenberg e, allo stesso tempo, dalla scarsa carica emotiva di quella di Charles Ives.

Ma fu anche un militante degli Industrial Workers of the World e un fiero oppositore alla partecipazione americana al primo conflitto mondiale; motivo per cui fu ostacolato nella sua carriera di docente presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Berkley e osteggiato dai colleghi. Nel 1918 finì così col lasciare quell’Università e tornare all’est. Dove, appunto, nacque Pete e Charles poté introdurre gli studi di etnomusicologia presso l’Istituto di Arte Musicale di New York.

Charles Seeger divorziò dalla prima moglie, e madre di Pete, nel 1927 e due anni dopo si unì con la compositrice americana Ruth Crawford che aveva studiato con Alban Berg, Bela Bartok e Arthur Honegger. Qualche anno dopo i due entrarono a far parte del Composers’ Collective, vicino al partito Comunista Americano. L’ideale compositivo di Charles Seeger era quello, come scrisse David Nicholls in “American Experimental Music”, che “la musica dovesse provenire sia dalla testa che dal cuore per poter essere compresa”, senza, per questo rifiutare le dissonanze e le complessità degli studi armonici contemporanei.

Gran parte dell’innovativa opera compositiva del padre andò distrutta in un incendio nel 1923, ma quell’idea di musica che doveva tener conto della testa e del cuore fu sicuramente trasmessa al figlio e fu, anche, alla base delle ricerche etnomusicologiche di John e Alan Lomax, padre e figlio, che avrebbero raccolto la più grande collezione di musica popolare americana e mondiale tra gli anni trenta e sessanta del ‘900. Per poi essere costretti a lasciare gli Stati Uniti nel periodo della caccia alle streghe del senatore Mc Carthy.

Charles si era associato a John Lomax nel 1933 e aveva finito coll’influenzarne il figlio Alan con le sue idee di sinistra e, allo stesso tempo, all’epoca dei Fronti Popolari, aveva abbandonato le sue composizioni più avanguardistiche a favore di una musica più semplice e popolare. In seguito sarebbe divenuto, sotto l’amministrazione Roosvelt, direttore del Programma Federale per la Musica, mentre Ruth Crawford , oltre che continuare a comporre, si occupò della trascrizione delle registrazioni sul campo fatte per l’Archivio Americano della Canzone Popolare per la Libreria del Congresso e in seguito avrebbe curato proprio il secondo volume della raccolta di musica folk fatta dai due Lomax. Perseguitato dal Federal Bureau of Investigation per i suoi trascorsi, Charles Seeger, che aveva anche composto delle opere musicali in onore di Sacco e Vanzetti e dei lavoratori cinesi sfruttati nelle lavanderie americane, dovette, nella prima metà degli anni cinquanta, rassegnare le sue dimissioni dagli incarichi governativi, ma avrebbe continuato a condurre i suoi studi di etnomusicografia presso l’Università di Los Angeles fino alla morte, avvenuta nel 1979.

Perché dilungarsi tanto sulla vita del padre di Seeger? Proprio perché nel suo percorso biografico ed intellettuale sono già compresi tutti gli elementi che avrebbero poi caratterizzato le concezioni musicali di Pete e del folk revival in generale. Nel bene e nel male, poiché tale recupero della tradizione popolare e proletaria della canzone e della musica americana era fortemente infarcita dalle scelte operate dai partiti comunisti dell’età del Comintern e del Cominform e, per questo motivo soggetto a cambi di contenuto e di interpretazione che avrebbero continuato a manifestarsi (anche attraverso un certo conservatorismo musicale) fino ai primi anni sessanta.

Dopo aver incontrato Woody Guthrie, Pete abbandonò gli studi di sociologia ad Harvard e si dedicò a tempo pieno all’impegno politico musicale, prima con gli Almanac Singers2 e poi con i Weavers, sempre decisamente schierato sul lato sinistro della barricata. Cosa che gli costò un severo ostruzionismo artistico e politico negli anni di Mc Carthy, ma che sarebbe poi stata premiata sul finire degli anni cinquanta con i successi ottenuti dai Weavers e, in particolare, con la trascrizione e reinterpretazione della canzone sud africana “Wimoweh”, che sarebbe diventata più nota nella sua interpretazione solista come “The Lyon Sleeps Tonight”.

Rimasto comunista e marxista anche dopo aver abbandonato il Partito Comunista Americano, a seguito della denuncia dei crimini di Stalin e dello stalinismo avvenuta durante il XX congresso del Partito Comunista dell’URSS, Pete Seeger non ebbe un rapporto facile e lineare con i movimenti radicali degli anni sessanta. Prova ne sia proprio il suo controverso rapporto con Bob Dylan che, dopo essere stato un suo beniamino in quanto nuova promessa della musica folk tradizionale, sarebbe poi stato fieramente osteggiato da Pete che si sentì tradito dalla svolta elettrica del menestrello di Duluth. Come ben dimostrano le immagini del Festival di Newport del 1965, in cui si può vedere un Seeger stravolto, fermato a stento da altri partecipanti al festival, mentre tenta di andare a tagliare con un’ascia i cavi della strumentazione elettrica di Dylan e della sua band.

Fiero oppositore della guerra in Vietnam, contro la quale si battè con veemenza e più che esplicite dichiarazioni, spesso sabotate dai media, vide poi le proprie composizioni raggiungere i successo proprio attraverso la rilettura che ne diedero gruppi elettrici come i Byrds (“Turn! Turn! Turn!” e “The Bells of Rhymney”), mentre la sua “Where Have All the Flowers Gone?” sarebbe diventata un vero inno, reinterpretato da infiniti cantanti e gruppi, del movimento contro la guerra in Indocina.

Spostatosi negli anni successivi sul versante della lotta ecologista, Pete Seeger ha continuato a comporre, cantare e partecipare come suonatore di banjo a numerosi album, anche di altri musicisti, come il bellissimo “My Name Is Buddy” di Ry Cooder ha ancora dimostrato nel 2007. Certo la sua opera principale rimane, però, l’interpretazione, spesso per voce sola e banjo, del grande patrimonio musicale americano, raccolta nei numerosi album dedicati alle American Favorite Ballads e alle American Industrial Ballads incisi per la Folkways sul finire degli anni cinquanta e ancora oggi facilmente reperibili su cd.

C’è infine da ricordare che anche il fratello Mike (1933 – 2009) e la sorella Margaret “Peggy” (1935) hanno avuto un importante ruolo nella storia e nello sviluppo del folk revival. Il primo, esperto suonatore di autoharp, banjo, violino, dulcimer, armonica a bocca, chitarra, mandolino, dobro, scacciapensieri, e flauto di Pan ha contribuito, con i suoi New Lost City Ramblers tra il 1958 e il 1973, ad un recupero estremamente filologico del suono tradizionale americano a cavallo tra la fine dell‘ottocento e i primi trent’anni del ‘900; mentre la sorella, dopo aver avuto il passaporto ritirato negli anni cinquanta per una visita non autorizzata nella Cina comunista, è vissuta quasi sempre in Europa dove è stata sposata per oltre trent’anni con il musicista Ewan McColl e dove ha contribuito alla formazione del Critics Group che raccoglieva giovani esecutori di musica tradizionale delle isole britanniche o di composizioni nuove ma ispirate alle strutture musicali tradizionali.

Autore di un importante manuale destinato ai suonatori del banjo a cinque corde, Pete Seeger ha influenzato e contribuito all’affermazione e al successo di gruppi come il Kingston Trio, Peter, Paul and Mary, i Mamas and Papas e di riviste politico-musicali come Broadside (uscita indefessamente tra il 1962 e il 1988) fino alle voci più recenti del movimento neo-folk. Con lui se n’è andato l’ultimo, grande testimone di una stagione, forse si potrebbe dire di un secolo, che con tutte le sue contraddizioni non ha mai dimenticato quanto fosse importante da che parte della barricata ci si schierava. Grazie Pete di essere stato con noi e di averci accompagnato, per tanti anni, nelle lotte con le tue canzoni.


  1. Bruce Springsteen, We Shall Overcome. The Seeger Sessions, Columbia – Sony 2006 

  2. Creati nel 1941 furono di fatto il gruppo musicale che, fondendo lo stile musicale delle string band degli stati del Sud con aspetti del cabaret newyorkese, contribuì a definire lo stile di quello che sarebbe poi stato il folk revival. Pete Seeger nel gruppo iniziò a suonare quello che sarebbe stato per sempre il “suo” strumento: il banjo a 5 corde  

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