New York – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:17:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Blue bayou https://www.carmillaonline.com/2024/10/16/blue-bayou/ Wed, 16 Oct 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84897 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.» (Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.»
(Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio quel superamento del limite dell’intimismo e della soggettività che tanto lo infastidiva nella maggior parte della produzione letteraria contemporanea. Soprattutto italiana.

Un soggettivismo e un intimismo che, troppo spesso, si cela anche all’interno di storie forzatamente drammatizzate, ma sostanzialmente prive di alcuno spessore epico, sociale e collettivo, che qui invece il lettore potrà trovare. Un’epica non basata su avvenimenti roboanti, portati in giro sotto le spoglie di comode etichette già da tempo cadute in disuso, ma sui fatti della vita quotidiana e della normalità esistenziale che si intrecciano con i movimenti della storia e della società nel suo caotico complesso. Una vicenda in cui, comunque, l’essere collettivo domina sull’essere individuale, irrevocabilmente destinato alla sconfitta.

Una storia di amicizia e, in qualche modo, di “tradimento” che ha fatto venire in mente a chi scrive queste righe, anche se non si tratta assolutamente di un noir, il romanzo forse più bello di Raymond Chandler: Il lungo addio. Metafore, entrambe le opere, dello scorrere inarrestabile del tempo e della vita, destinato come un grande fiume a portare via con sé amicizie, esperienze, vite e amori. Tutti espressione di momenti e di istanti irripetibili, che sembrano galleggiare disordinatamente sulla corrente, a tratti impetuosa e a tratti rallentate, della memoria collettiva o del singolo.

E’ certamente un luce crepuscolare quella che illumina le vicende, grandi e piccole, drammatiche o romantiche, che costellano la narrazione. Attenzione però, una luce crepuscolare che non corrisponde alla sempre banale e distorta nostalgia del ricordo a sé stante. Isolato dal contesto specifico e ridotto a semplice testimonianza dell’esperienza del singolo.

La storia del legame di amicizia, fratturato e contorto, tra Rhys Campbell, l’io narrante che come afferma lo stesso ha «scavalcato i sessanta da qualche anno», e Sal Smolinski, «di due anni più giovane», si snoda attraverso la storia sociale, politica ed economica degli Stati Uniti del secondo Novecento e degli inizi del secolo attuale. Anche se non mancano, attraverso altre presenze e personaggi, riferimenti ai tempi della schiavitù o delle lotte sindacali del periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Una narrazione pacata e allo stesso tempo radicale, che ci accompagna in un viaggio ambientato per due terzi in Louisiana lungo le sponde del Mississippi, a New Orleans e nel bayou che caratterizza la regione1, ma che non manca di rinviare alla descrizione di altre città come New York, Chicago, Kansas City e Los Angeles, di cui vengono forniti ritratti sintetici ma efficaci, per poi concludersi a Londra, sulle rive di un altro fiume, il Tamigi.

La scelta della città in cui si ambienta la maggior parte della vicenda, New Orleans, con le vicine De Allemands e Venice, non è certo casuale poiché attraverso le memorie custodite tra le vie e le piazze di questa città è possibile ricostruire lo sviluppo della società americana e dell sue culture. Dalla tratta degli schiavi in Congo Square alla nascita del jazz fino all’uragano Katrina del 2005, anticipazione drammatica di tutti gli uragani a venire, fino a quelli che hanno recentemente colpito la Florida e altri stati del Sud degli Stati Uniti, e che sembra aver malignamente portato via con sé i ricordi di una storia secolare insieme ai quartieri più poveri della stessa città.

Una città di musica che è presente quasi in ogni pagina del romanzo: musica cajun dei francesi immigrati lì fin dal Settecento dopo la loro espulsione dai territori canadesi da parte dell’impero britannico, all’epoca ancora in piena espansione; lo zydeco derivato dall’incrociarsi di questa con quella degli schiavi africani portatori dei ritmi caribici; il blues e il jazz delle origini insieme al rock’n’roll e alle ballate folk del recentemente scomparso Kris Kristofferson, l’indimenticabile interprete del Billy the Kid portato sugli schermi da Sam Peckinpah. Ma tutte queste forme di espressione musicale, che compaiono in vari momenti della narrazione, non costituiscono però mere note di colore, marcandone piuttosto il ritmo: ora triste, ora allegro, ora solenne e talvolta caotico.

Si diceva all’inizio del paragone possibile con Il lungo addio di Chandler, ma qui non ci sono delitti o crimini evidenti. Il “tradimento” di Sal, in fin dei conti, non è soltanto nei confronti dell’amicizia con Rhys o dell’amore, mai del tutto compiuto, per la figlia Belle, è un tradimento “generazionale”. La fuga verso il successo individuale contro il sogno comunitario e ribelle di una generazione, o più generazioni, che hanno cercato e cercano di superare i limiti dell’esistente attraverso, sì, il disincanto (rappresentato nel romanzo dal personaggio di Marc, il “marxista” del gruppo), ma anche per il tramite della condivisione degli affetti e delle esperienze, delle storie vicine e lontane, per quanto drammatiche queste possano essere.

Tutto scorre, come nel celebre romanzo di Vasilij Semënovič Grossman. Scorrono i fiumi, il tempo, le vite, le rivolte, gli amori, le amicizie e i modi di produzione e riproduzione della vita stessa. Senza sosta, senza nostalgie, senza i sempre inutili rimpianti. Ciò che è stato è stato e non è possibile comunque tornare indietro, sembra suggerire l’autore. Che, con quest’opera, fa viaggiare il lettore avanti e indietro anche nel suo stesso percorso di scrittura, ricerca, vita e impegno: dai testi sul Mississippi e il Tamigi oppure su città come New York e Londra, a quelli sulla cultura e letteratura degli Stati Uniti (di cui è stato per anni docenti presso l’Università Statale di Milano); dalla vicinanza politica alla Sinistra Comunista fino ai testi, pubblicati già all’inizio degli anni Settanta sulle culture dell’Underground, la musica rock e popolare americana e la rappresentazione letteraria e politica della storia della lotta di classe in America (qui ).


  1. Il bayou (dalla lingua dei nativi Choctaw bayouk, che significa “tortuosità”) è un ecosistema, caratterizzato da acquitrini, fitte foreste e case su palafitte tipico del delta del Mississippi, in Louisiana. E’ costituito da distese paludose che si sviluppano tra i diversi bracci dello stesso fiume, mentre i corsi d’acqua formano una rete navigabile che la popolazione locale ha usato per secoli per spostarsi, pescare ed eventualmente sottrarsi al braccio del potere, come, ad esempio, ben narrano i romanzi noir di James Lee Burke.  

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Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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Rebuilding America: Civil War di Alex Garland https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/re-building-america-civil-war-di-alex-garland/ Thu, 25 Apr 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82189 di Sandro Moiso

– Chi siete? – Siamo americani. – Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in [...]]]> di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma se nell’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio, Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.


Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

E’ un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

E’ come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata è ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo .

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.


  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.  

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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Esperienze estetiche fondamentali / 11: Dr. Westlake & Mr. Stark https://www.carmillaonline.com/2023/12/04/esperienze-estetiche-fondamentali-11-donald-e-westlake-richard-stark/ Mon, 04 Dec 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79988 di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico). Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della [...]]]> di Diego Gabutti

Come critico letterario valgo poco, diciamo pure zero. So dire soltanto mi piace, non mi piace (talvolta esagero in un senso o nell’altro per ottenere un effetto drammatico).
Peggio delle mie ci sono soltanto le recensioni in chiave marxista rococò o psicoanalitica farfallona (e quelle solenni, compiaciute e pompose dei lettori su Amazon). Mai capito perché mi abbiano pagato per segnare i buoni e i cattivi libri sulla lavagna delle pagine culturali dei giornali (quando ancora c’erano giornali e lavagne). Ma in gioventù, leggendo da filologo involontario caterve di Gialli (e Neri) Mondadori, ebbi l’intuizione critica della vita, di quelle che da sole giustificherebbero, se solo riguardassero opere insigni e si sapessero in giro, una duratura nomea letteraria. Questa: qualche anno prima che l’arcanum venisse svelato dallo stesso interessato, o che a chiunque altro venisse in mente che c’era lì un arcanum da svelare, capii che Donald E. Westlake, l’inventore del giallo umoristico, e Richard Stark, l’inventore del nero criminale, l’uno Jerome K. Jerome redivivo, l’altro imperturbabile fantasma di François Villon, erano la stessa persona. (Aritanga Jekyll e Hyde).

Non fu un’intuizione da poco, fu scoccare la freccia nel centro esatto del bersaglio, roba da destare non diciamo l’invidia ma almeno l’ammirazione di Cesare Garboli o (piuttosto che niente) del mio amico Roberto Barbolini, tant’è che ancora me ne vanto. Una volta, a colazione, lo raccontai a Laura Grimaldi, direttrice all’epoca del Giallo Mondadori, che di Westlake-Stark era una grande fan, oltre che la traduttrice ufficiale, ma temo che non mi abbia creduto. Io stesso, mentre mi facevo bello, stentavo a credermi. Un’altra volta avrei potuto raccontarlo allo stesso Westlake-Stark, che intervistai per “il Giorno” in anni lontani (fine ottanta, primissimi novanta) al Grand Hotel et de Milan. Era un’intervista organizzata dalle edizioni Interno Giallo, nel frattempo scomparse, o meglio riconfluite in Mondadori, di cui erano un’ala ribelle. Intervistai contemporaneamente lui e il grande Ed McBain, convocati entrambi a Milano in occasione dell’uscita contemporanea di due loro libri: Mostro sacro (oppure Un buco nell’acqua) Westlake, Misfatti (o Conversazioni criminali) McBain, che li firmò entrambi col suo vero nome, Evan Hunter.

Si presentarono insieme nella hall dell’albergo, due anziani newyorchesi purosangue dall’aria sgamata. Westlake, ormai un umorista a tempo pieno che da anni non scriveva più storie firmate Stark, aveva pochissima voglia di ridere e non reagiva alle battute, mentre il suo collega McBain, autore di sobri melò criminali, rise e scherzò tutto il tempo.

Oltre alle storie dell’87mo Distretto, l’immaginario distretto di polizia d’una città immaginaria («Isola») molto simile a New York, McBain aveva scritto la sceneggiatura degli Uccelli di Hitchcock (1963) e ispirato ad Akira Kurosava Anatomia di un rapimento (di nuovo 1963). Quanto alle storie di Westlake erano stato portate sullo schermo da Jean-Luc Godard, John Boorman, Peter Yates, Costa-Gavras. Erano due monumenti alla cultura pop, e in quel momento erano entrambi seduti con me nella hall d’un albergo milanese. Mica male, no? Stavano lì, sorseggiando succhi di frutta e caffè, parlando di cinema, di romanzi, di serie televisive (entrerei nei particolari se la mia memoria si spingesse così lontano, o ritrovassi l’intervista tra le vecchie cartacce, purché non mi si chieda di cercarla adesso).

Erano in due. In tre con Richard Stark.
Autori di thriller e mistery, dovevano sapere (lo sapevo persino io) che qualcosa non tornava. C’era lì un mysterium: l’assenza di Richard Stark. «Un terzo», come nella Terra desolata di Eliot, ci camminava accanto.

Chi è il terzo che ti cammina sempre accanto?
Quando conto, ci siamo solo io e te
ma quando guardo la strada bianca davanti
c’è sempre un altro che ti cammina accanto
scivola avvolto in un manto marrone, incappucciato
non so dire se sia un uomo o una donna
– ma chi è che ti sta accanto dall’altra parte?

Personalmente, prima dell’illuminazione, in anni non lontani ma lontanissimi, avevo incontrato il terzo (con me il quarto) che ora sedeva con noi, ospite invisibile del Grand Hotel et de Milan, in un campeggio delle Cinque Terre. Era l’estate del 1964. Ero finito a Monterosso, o Porto Venere che fosse, con mio fratello, che aveva preso da poco la patente e che, con la sua 600 nuova di zecca, voleva mettersi alla prova come autista su lunghi percorsi. Fu lì, seduto nella posizione del loto su una spiaggia sassosa, con gli occhiali scuri e un’aranciata tiepida, cosparso d’olio solare, che lessi Anonima carogne, in originale The Hunter, uscito in America l’anno prima. Era la prima avventura di Parker, il rapinatore (che non aveva un nome ma soltanto un cognome) protagonista delle storie di Richard Stark. Anonima carogne, negli anni a venire, sarebbe stato portato molte volte sullo schermo. Avrebbero interpretato il ruolo di Parker, in un putiferio di film tratti quasi tutti da quella sua prima avventura, Lee Marvin e Mel Gibson, Jason Statham, Robert Duvall, Peter Coyote e persino Jim Brown, un attore nero. Al momento, mentre leggevo Anonima carogne nelle Cinque Terre, non si era ancora visto un solo film, naturalmente, ma era evidente che ce ne sarebbero stati. Dr. Westlake e Mr. Stark: lo strano caso del libro che non sembrava di leggere ma di vedere.

Anonima carogne era una storia incredibile. Mai letta una storia così. Parker, sua moglie e un altro criminale, revolver alla mano, sul viso una calza di seta, svaligiavano una banca, o forse assaltavano un furgone postale. Moglie e socio se la intendevano e Parker (come i mariti becchi nelle pochade francesi, e come Suchanov a Pietrogrado) era l’ultimo a sapere. Scopriva la tresca solo quando i due gli sparavano, lasciandolo per morto, e fuggivano col bottino. Parker finiva in carcere per un altro reato. Ne usciva dopo qualche mese, deciso a rintracciare i due felloni. Direte: cercava vendetta. No, Parker cercava i suoi soldi. Efficiente, gelido, nemmeno l’ombra d’uno scrupolo, un killer nato, ma soprattutto nessuna voglia di ridere, come Westlake a Milano, Parker rintracciava la moglie fedigrafa, quindi anche il socio fellone, ma i soldi della rapina erano spariti: il socio spiegava d’averli usati per saldare un debito con la mafia, qui detta l’Organizzazione, che altrimenti il conto l’avrebbe saldato a lui. Parker accoppava l’ex socio, che aveva tentato (un povero illuso) di sparargli di nuovo, ma soltanto dopo avere ottenuto da lui il nome del mafioso che aveva preso materialmente i soldi. Gli si presentava, non invitato, in casa: hai un tot di dollari miei, bello, provvedi a girarmeli o qui finisce male. Quello rideva, incredulo, così Parker gli diceva di chiamare al telefono il suo superiore gerarchico nell’Organizzazione. Puntando la Smith & Wesson alla tempia del sottoposto, spiegava al secondo boss la natura del problema: i miei soldi, o prima ammazzo questo qua, quindi vengo a cercare te. All’altro capo del telefono risuonava la solita risata, così Parker sparava, poi si presentava di persona a casa dello spiritoso, dove si ripeteva la stessa scena, caccia i soldi, non li ho, bang-bang, e via così, un superiore gerarchico dopo l’altro. Mentre Parker avanzava da un capitolo all’altro di Anonima carogne, la scia di cadaveri s’allungava, tutti stecchiti, un mafioso dopo l’altro, ciascuno insieme ai suoi gorilla, finché l’Organizzazione non ne aveva abbastanza e restituiva i soldi al ladro legittimo, che incassava tranquillo e impassibile. Da quel giorno Parker, grande stratega di rapine, mente napoleonica, avrebbe rapinato di tutto, casinò, treni, vagoni postali, banche, gioiellerie, una volta persino una città intera. Con lui, reclutati di volta in volta per questo o quel colpo, altri rapinatori di rango, lo affiancavano nelle rapine: Stan Devers, Dan Wycza, Handy McKay, Frank Elkins, Ralph Wiss. In primissima fila, tra loro, c’era Alan Grofield, attore dilettante e re del rififì. Protagonista in proprio di quattro romanzi, Grofield fu una delle scintille che avrebbero alimentato la mia illuminazione critica.

Dice una leggenda che Stark, negli anni sessanta, era l’autore più letto nelle carceri americane, dove Parker, un malvivente spietato e asociale, faceva da modello e ideale dell’Io a ogni fior di galeotto. Piaceva, immagino, anche alla bella gioventù dell’epoca, che aveva decretato il successo di Bonnie and Clyde (da noi Gangster Story, Arthur Penn, 1967) e che presto avrebbe tifato per i Vietcong, per Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah e per le belle imprese di Che Guevara in Bolivia. Banditi esistenzialisti, fidanzatini di Peynet armati di mitragliatore, Bonnie e il suo ragazzo non somigliavano granché al sinistro eroe di Richard Stark, ma occupavano lo stesso spazio culturale: Parker i penitenziari, B&C le sale cinematografiche. E i jukebox: «Bonnie e Clyde sono due tipi strani. / Invece di dire buongiorno, dicon su le mani» cantava Gianni Pettenati, uno scialbo gorgheggiatore dell’epoca, a Bandiera Gialla, trasmissione cult del radiolitico.

Cinque Terre, in ogni modo. 1964. Passò qualche anno, e a Natale del 1970 ero ricoverato all’ospedale militare di Milano (sotto le feste, chi passava le carte da finto malato, anche solo per un paio di settimane negli uffici del segretariato ospedaliero, otteneva due mesi due di licenza per malattia… è una storia lunga). Si lavorava dalle otto-nove del mattino fin verso l’una, poi non restava che ammazzare il tempo. Alcuni leggevano, molti chiacchieravano, qualcuno giocava a poker come in Cincinnati Kid (il film di Norman Jewison con Ann-Margret e Steve McQueen, tratto da un grande romanzo omonimo di Richard Jessup, Garzanti 1967, con una bella copertina di Guido Crepax).

Qualche volta giocavo anch’io, e in un’occasione mi capitò persino di vincere, benché sia negato per qualsiasi gioco, dal calciobalilla a Tetris, figurarsi il poker. Vinsi una somma per l’epoca enorme, circa 300.00o lire, che divisi a metà (non sembravano soldi veri ma soldi del Monopoli) con un hippie sfigato e piagnucolone che doveva mandare al più presto del denaro ad Amsterdam, dove la sua ragazza era nei guai, o così frignava lui. Giocavo, ma soprattutto leggevo, naturalmente. Di notte, all’ora delle galline, venivano spente per decreto burocratico tutte le luci e così mi toccava leggere sotto le lenzuola alla luce d’una torcia elettrica. Lessi, tra gli altri, uno dei migliori romanzi di Donald E. Westlake, Un bidone di guai, in originale God Save the Mark, cioè «Dio salvi il ghiozzo», dove ghiozzo sta per vittima predestinata dei bidonisti. Romanzo straordinario, mi rimase impresso non soltanto perché bello. M’impressionò, credo, anche per via dell’hippie. E se fossi stato un ghiozzo anch’io? Forse l’hippie mi aveva bidonato con una storiella strappacore (quando lo incontrai per caso, mesi dopo, in una via di Firenze, o di Bologna, non ricordo, finse di non riconoscermi, vedi mai che gli chiedessi, come Parker ai mafiosi, di restituirmi i soldi, o qui finisce male, bello).

Ma veniamo a Fred Fitch, protagonista d’Un bidone di guai, e diciamo subito che, benché indubitabilmente fesso, non era «un fesso qualsiasi» ma – per citare il soffietto dell’ultima edizione del romanzo (2013, I classici del Giallo Mondadori n. 1314) – «il re dei fessi». Gigante tra i fessi, Fitch è eternamente in balia di «truffatori e imbroglioni pronti a profittarsi della sua buona fede». Salta fuori in apertura del romanzo che, come lui è il re dei fessi, suo zio era il re dei bidonisti. Scomparso di recente, lo zio gli ha lasciato in eredità tutto quel che possedeva, compresa una bellissima ragazza, sua complice nei bidoni più complicati, e forse anche un tesoro in denaro o gioielli. Comincia una farsa slapstick, congestionata e fracassona, di bidoni e controbidoni, per metà comica finale e per metà Neil Simon (di nuovo lui). Anche qui, come con Anonima carogne, una storia incredibile. Mai letto niente di simile prima.

Durante la licenza, che si trasformò (altra storia lunga) in congedo definitivo, mi procurai sulle bancarelle ogni altro Westlake uscito negli anni. Non erano moltissimi, più o meno una decina, alcuni apertamente umoristici, altri soltanto brillanti e per così dire «giallo-rosa», o «romantic suspence», stile Claudia Cardinale e David Niven nel primo La pantera rosa (Blake Edwards, 1963) o Cary Grant e Audrey Hepburn in Sciarada (Stanley Donen, sempre 1963). C’erano Veleno nel sangue, I mercenari, Qualcuno mi deve del grano, Prendetelo morto, Ma chi ha rapito Sassi Manoon, 25: morto che scappa: quasi tutti Gialli Mondadori. Pochi mesi dopo sarebbero usciti da Feltrinelli Addio, Shéhérazade e su “Segretissimo” una spy story umoristica intitolata … e così spia.

Addio, Shéhérazade non era un giallo ma la storia delle disgrazie tutt’altro che a luci rosse (anzi) che capitano a un romanziere porno cacciato di casa, mentre … e così spia era la storia d’un pacifista compulsivo, con le dita sempre sporche d’inchiostro per il ciclostile, e della sua ragazza, un’ereditiera bella e svampita, che l’Fbi infiltra in un gruppo terroristico da vaudeville. Sempre di lì a poco (be’, diciamo di lì a due o tre anni) sarebbe stato tradotto Brother’s Keepers (Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca, Editoriale Corno 1975): Fratel Benedetto, trappista dell’Ordine di San Crispino, deve salvare il convento, situato a Park Avenue, New York, dall’essere abbattuto per fare posto a un grattacielo. Ma soprattutto, in piena licenza per malattia, quando mancava meno d’un mese al congedo, uscì Il Giallo Mondadori n. 1150 del 14 febbrai0 1971: Gli ineffabili cinque, in originale The Hot Rock, o La pietra che scotta, come il grande film (oggi purtroppo semidimenticato) con George Segal e Robert Redford che ne avrebbe tratto Peter Yates nel 1972. Era la prima avventura di John Archibald Dortmunder, brillante organizzatore di furti e ruberie, ladro provetto ma iellato, versione giallo-rosa di Parker.

Dortmunder faceva lo stesso mestiere di Parker (rubava ai ricchi e teneva il maltolto per sé) ed era bravo quanto lui: piani perfettamente congegnati, che infatti funzionavano con precisione e puntualità, salvo (ogni volta) qualche intoppo imprevedibile, tutti però del genere slapstick: l’equivalente thriller dell’ubriaco che sbaglia porta di casa e si mette a dormire in un letto altrui (per giunta già occupato) e del grassone che, inseguendo un bambino sberflone, scivola su una buccia di banana, o del gagà che lascia cadere il monocolo nel generoso decolté d’una signora. Diversamente da Parker, Dortmunder non portava armi, rifuggiva la violenza, amava la quiete e non frequentava il milieu, salvo un cognato pazzo e pasticcione. Sempre a differenza di da Parker, che frequentava tipi loschi ed era più losco e pericoloso di loro, Dortmunder viveva nell’universo di Berto Wooster, l’eroe di P.G. Wodehouse, sotto un’eterna pioggia di torte in faccia.

Fu a quel punto che feci due più due.
Dortmunder era Parker (ci risiamo) come Jekyll era Hyde. Non c’era margine d’errore: l’uno era il riflesso dell’altro in uno specchio deformante. Entrambi rapinatori, i soli due rapinatori diventati eroi seriali dei pulp dai tempi di A.J. Raffles e Arsène Lupin, ed entrambi alle prese, ogni volta, con la pianificazione d’un colpo, poi con la sua esecuzione, quindi con gl’inciampi (buffi, drammatici) che immancabilmente ne seguivano. Parker risolveva i problemi a revolverate, Dortmunder rinunciando al bottino, facendosi deriubare o tornandosene a casa con la coda tra le gambe. C’era poi Alan Grofield, il socio di Parker, guitto e ganimede, che nelle sue avventure da protagonista e prim’attore stingeva sempre più nel «giallo-rosa». Finanziava la sua stravagante compagnia teatrale con furti con scasso e aveva conosciuto Mary, sua moglie, durante una rapina (era una delle telefoniste prese in ostaggio nella piccola città che Parker e la sua «posse» di loffi saccheggiavano per lungo e per largo in un romanzo del 1967, The Rare Coin Score, da noi Parker: rapina a sangue freddo, “il Giallo Mondadori” n. 1021). Indizio risolutore (e qui, lo ammetto, non ci volevano né Sherlock Holmes né Giorgio Manganelli per venire a capo del mysterium): uno dei personaggi degl’Ineffabili cinque si chiamava Alan Greenwood, era un attore e meditava di cambiarsi il nome in Alan Garfield. Altro indizio risolutore (e di nuovo, lo riammetto, non è meccanica quantistica): in Jimmy the Kid, da noi Come ti rapisco il pupo, Dortmunder s’ispirava a un romanzo di Richard Stark nel progettare il suo kidnappimg (rapisce un bambino cinefilo dal Q.I. einsteiniano, che finisce per dirigere il rapimento e che alla fine s’intasca il riscatto, coglionando i criminali).

Più avanti, anni dopo, quando saltò fuori che Westlake e Stark erano effettivamente le due personalità multiple d’uno stesso romanziere, circolò la leggenda che a Westlake, mentre stava raccontando ad alcuni amici la trama d’una storia di Parker, fosse venuto da ridere. Di qui, con un testa-coda e una brusca ripartenza da pilota di Formula 1, la trasformazione di quella trama nella prima storia di Dortmunder. Qui ci fu un fattaccio. Parker, invece di coesistere col suo doppio comico, perse d’un tratto consistenza e cominciò a svanire, come un cattivo pensiero. Westlake, convertito a Dortumunder, ne aveva evidentemente abbastanza dell’aplomb, della mancanza di scrupoli, della pistola facile di Parker.

Molto prima che John Archibald Dortmunder prendesse il sopravvento, Parker cedette per un po’ il passo a Grofield che, a conclusione del colpo al Casinò di un’isola chiamata Cockaigne, cuccagna, in un romanzo intitolato The Handie, da noi Parker: a ferro e fuoco, “Il Giallo Mondador”i n. 944, restava in un hotel messicano, ferito e dolente, mentre Parker se la batteva dopo avergli lasciato in una valigetta la sua parte di bottino. Cominciavano le avventure di Grofield, da Carrera messicana (The Damsel, 1967) a Tocca ferro, Grofield (Lemons Never Lie, 1971), che apparvero da noi sia sul “Giallo” che su “Segretissimo”. Erano roba un po’ à la James Bond, ma in tono molto leggero, non ancora comico, ma già rilassato e piacevole, o meglio «piacione», cosa che tra gli ergastolani, fan delle maniere e delle emozioni forti, immagino abbia destato scandalo. Grofield non era un modello per gli ospiti di Sing Sing, proprio come non lo sarebbe stato John Dortmunder, ladro buono e morbido, troppo letterario e frizzante, senza neppure una traccia di sana brutalità. Ma presto anche Grofield seguì Parker nell’oblio. Comparve ancora in Slayground, o Luna-Parker, “Il Giallo Mondadori” n. 1234 del 1972, e nel suo seguito, Butcher’s Moon, o Parker: luna nuova, buio pesto, “Il Giallo Mondadori” n. 1366 del 1974: nel primo romanzo Parker e Grofield, dopo una rapina, sono costretti a nascondere il bottino in un luna-park, dove torneranno anni dopo, in un nuovo romanzo, per recuperarlo, ma una ghenga di teppisti locali cercherà di soffiarglielo.

Parker tornerà per un ultimo giro di giostra, resuscitato insieme Richard Stark, in una serie di nuove storie più di tre decenni più tardi: la prima è del 2000 (Flashfire, da noi Flashfire: fuoco a volontà, Sonzogno) e l’ultima (Ask the Parrot, da noi Parker: ultima corsa, Alacran) è del 2008, l’anno della morte di Westlake. Nessuna di queste storie è memorabile o anche soltanto intrigante come una volta, nei remoti sixties. Sarà che i tempi sono cambiati, che Parker non è più una novità né uno scandalo, che il crimine ha perso il suo appeal. Parker è ormai un personaggio invecchiato, tuttavia immagino che i galeotti d’America abbiano festeggiato la sua réentré, e quanto a me, naturalmente, raccomando l’ultimo Stark, che primo o poi rileggerò, anche a chi è libero come l’aria.

Nei primi settanta, con la gente che frequentavo, non è che potessi seriamente vantare con qualcuno il mio satori critico a proposito di Donald E. Westlake e del suo doppio. Dortmunder, Parker, Grofield erano maschere d’un carnevale che sapevo solo io. Niente di che, intendiamoci. Avevo capito – e me ne davo atto ogni volta che usciva un nuovo libro dell’uno o dell’altro, oggi Stark, domani Westlake – che la lettera rubata era nascosta in piena vista.

A lungo, per forza di cose, tenni per me sia l’enigma che la soluzione dell’enigma. Quando ne parlai con qualcuno, per esempio con Laura Grimaldi a colazione, era un mysterium ormai risolto da tempo, e intanto la fama di Dortmunder, di Parker, di Grofield andava impallidendo, fin quasi a sparire del tutto (al cinema Dortmunder era stato non soltanto Robert Redford, ma anche George C. Scott, Christopher Lambert, Martin Lawrence, Herbert Knaup, persino Teo Teocoli, e poi più nulla, finis). Oggi, diciamocelo, chi ne sa più niente? E in fondo, a chi importa?

Allo Strand Bookstore della 12th, all’angolo con Broadway, c’è un’intera sezione dedicata ai libri su New York, ma non vi troverete un solo titolo di Westlake, che di New York è stato uno dei cantori (trovate, in compenso, tutto Westlake e tutto Stark al Mysterious Book Shop di Warren Street, giù nel distretto finanziario). Westlake scriveva romanzi così «newyorkcentrici» che quando uno dei suoi personaggi passava il ponte di Brooklyn diceva d’essere diretto «in America». Ma la magnifica libreria della 12ma strada fa spallucce.

Ignora o non tiene conto che nei romanzi di Westlake ci sono pagine straordinarie su New York. Tipo questa:
«A New York tutti cercano qualcosa», scrive Westlake in apertura di Dancing Aztecs (La danza degli aztechi, “Giallo Mondadri” n. 1500, ottobre 1977).

«Gli uomini cercano le donne e le donne cercano gli uomini. Giù al bar degli invertiti, gli uomini cercano gli uomini, e al «Barbara» e al Movimento di liberazione della donna, le donne cercano le donne. Le mogli degli avvocati, davanti a Lord & Taylor, cercano un tassi, e i mariti delle mogli degli avvocati, in Pine Street, cercano il rotto della cuffia. Le passeggiatrici davanti all’Americana Hotel cercano un gabinetto, e i ragazzini che aprono le portiere dei tassi davanti al terminal di Port Authority cercano mance. Così come cercano mance i tassisti, i fattorini, i camerieri e gli agenti della Squadra Narcotici- I neolaureati cercano lavoro. Gli uomini che portano la cravatta cercano un lavoro migliore. Gli uomini che portano i giubbotti di pelle cercano invece migliori opportunità. Le donne in tailleur di linea severa cercano opportunità uguali a quelle degli uomini. Gli uomini con la cintura di coccodrillo cercano una roulette alla quale si possa barare. Gli uomini con i polsini lisi cercano dieci dollari fino a mercoledì. Gli imprenditori cercano profitti più alti e una bella villa in New Hyde Park. I bravi ragazzi di Fordham cercano una ragazza da portare al cinema. I cattivi ragazzi di St. Louis ne cercano una da portare a letto. I giovani dirigenti aziendali della Terza Avenue cercano una relazione sentimentale significativa. I neri del Bronx che stazionano in Washington Square Park cercano carne bianca. I bevitori di birra che stazionano nei bar di Columbus Avenue cercano guai. Il Dipartimento Parchi e Foreste cerca alberi da abbattere e da trasformare in legni da ardere a beneficio dei politicanti locali. Gli abitanti dei vari quartieri cercano dei politicanti che impediscano al Dipartimento Parchi e Foreste di abbattere tutti quegli alberi. Campa cavallo. I mendicanti del Bowery, con in mano uno straccio sporco, cercano un parabrezza da pulire. Le macchine con la targa della Florida cercano la West Side Highway. Le macchine con il contrassegno dei medici cercano un posteggio. I furgoni delle consegne a domicilio cercano un posteggio anche in doppia fila. I drogati cercano un’automobile con il contrassegno della Stampa, perché spesso i giornalisti lasciano la macchina fotografica nello scompartimento del cruscotto. Le massaggiatrici cercano un pollo da venti dollari. Le signore residenti in periferia cercano un buon cinema per passarci il mercoledì pomeriggio, per poi concedersi una cenetta a base di formaggio e lattuga. I turisti cercano un posto dove sedersi, i pataccari cercano i turisti, i poliziotti cercano i pataccari. I vecchi seduti sulle panchine di Broadway cercano un po’ di sole. Le vecchie in stivaloni militari cercano chissà che cosa nelle pattumiere della Sesta Avenue. Le coppie che passeggiano mano nella mano per Central Park cercano un’esperienza guidata da madre natura. Le bande di ragazzini di Harlem cercano biciclette in Central Park. Le signore dei centri assistenziali battono la Cinquantacinquesima Strada Ovest in cerca di Rockefeller, ma lui non c’è mai. Alle Nazioni Unite cercano traduzioni simultanee. A Broadway cercano un grosso successo. Al Lincoln Center cercano rispettabilità artistica. Quasi tutti, nella metropolitana, cercano una rissa. Quasi tutti, sul treno delle cinque e nove per Speonk, cercano la carrozza bar. Quasi tutti, nell’East Side, cercano una posizione di rilievo e quasi tutti, nel West Side, cercano una dieta che funzioni davvero».

Un pulp in grande spolvero. Eppure niente. Di Westlake (scandalo) non parla più nessuno. Gli ultimi Stark, che un tempo uscivano dignitosamente da Mondadori, a inizio del millennio erano pubblicati da editori improbabili. Molte storie di Dortmunder («one of us» uno di noi, come diceva Conrad dei marinai) non sono state mai nemmeno tradotte. È andata meglio a McBain, scomparso quasi ottantenne nel 2005, una prece anche per lui, che almeno esce da Einaudi, in edizioni non particolarmente prestigiose ma almeno rispettose.

Westlake e Stark hanno avuto per nemico il tempo, che notoriamente non fa prigionieri. Vale per tutti, per gli autori come per i lettori. Cosa sarà di tutti gli altri autori, compresi quelli che passano, a buon titolo, per immortali? Faranno la stessa fine? Cosa sarà, mi viene in mente adesso, mentre ripongo negli scaffali (o meglio rificco, strizzandole) tutte le storie di Parker, Grofield e Dortmunder, degli autori che affollano gli scaffali più sotto: Fëdor Dostoevskij e Aleksandr Solženicyn? Spariranno anche loro? Già sono quasi del tutto scomparsi i loro lettori. Un tempo tutti «leggevano i russi». Oggi non si legge neanche più Westlake, che pure s’è guadagnato, almeno nella mia libreria, uno scaffale più in alto di quello assegnato a Dostoevskij (uno scaffale sotto Destoevskij: Solženicyn). So che non è una gara, ma più in alto di tutti, due scaffali sopra Westlake, c’è Rex Stout. Tra i due: uno scaffale doppio di robe su Bob Dylan.

Ma restiamo ai «russi». Lessi Delitto e castigo con tre maglioni addosso accanto a una stufa accesa, poi tutti gli altri Dostoevskij a ruota, ma senza più stufa e maglioni. Lessi via l’uno l’altro, senza prendere fiato. Quanto a Solženicyn, lessi Nel primo cerchio, Arcipelago Gulag, Lenin a Zurigo, La quercia e il vitello nei giorni del rapimento Moro insieme a pochi assaggi di nouvelle philosophie. Solženicyn e Dostoevskij tifavano entrambi, senza che me ne accorgessi leggendoli, per il dispotismo asiatico, rovina del mondo, tempesta che infuria nei secoli. Sembrava che «i russi» fossero la soluzione d’ogni problema morale. Invece erano loro la rogna.

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Esperienze estetiche fondamentali / 10: Tex Willer, Pecos Bill. https://www.carmillaonline.com/2023/11/12/esperienze-estetiche-fondamentali-10-tex-willer-pecos-bill/ Sun, 12 Nov 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79435 di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione [...]]]> di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione della metro nella 42th strada, di ritorno da Coney Island, mi comprai delle calze pesanti e un maglione nell’H&M di Times Square.

Affittavamo un appartamento nella 98th. Era una casa d’arenaria all’angolo con Riverside Drive, un isolato da Broadway e a pochi passi dalle panchine dell’Hudson River Park, una lunga striscia d’alberi, stradine e aiuole che s’allunga, costeggiando il fiume, per tutto il West Side. Al mattino, in pochi minuti, dopo una breve sosta per un cappuccino medium allo Starbuck della 96th, eravamo a Central Park, e anche lì, nell’ombra degli alberi, le panchine non si contavano. Giù al Village ci piaceva sedere a Washington Square, vicino all’Arco di Trionfo e alla statua di Peppino Garibaldi. Era lì, dicevo io, che Jane Fonda e Robert Redford avevano girato la scena del marito sbronzo e senza scarpe di A piedi nudi nel parco, Gene Saks, 1967, un altro grande film tratto da Neil Simon. Mia moglie annuiva, meno impressionata di me. Ma insomma ti sedevi e leggevi, ed era un bel leggere, e un bel sedersi.

Ormai si viaggiava leggeri.
Non c’era più bisogno, come nella preistoria di Airbnb e dei voli low cost, in epoche già allora più remote della guerra fredda e dei Duran Duran, d’imbarcare sull’aereo una valigia di libri, meglio se massicci e di volume contenuto, come i Meridiani Mondadori, oppure i cofanetti Adelphi, collana «La Nave di Argo». Adesso libri (e fumetti) stavano tutti nel cloud: un iperspazio spropositato, dove li avevamo ammassati a migliaia, e da dove potevamo richiamarli in qualsiasi momento con tablet e smartphone, strumenti così tecnologicamente avanzati da non essere stati «anticipati» o previsti in alcun modo né dal Capitano Kirk dell’astronave Enterprise né dal Capitano Nemo del Nautilus. A un bibliomane, come a un fumettomane, sempre che esista (e non dovrebbe, è orribile) una simile parola, sembrava di vivere nella Paris au XXe siècle di Jules Verne, o tra Le meraviglie del Duemila d’Emilio Salgari.

Quell’anno, senza entrare in particolari che potrebbero incriminarmi, avevo caricato sul cloud l’intera collezione di Tex (il fumetto Bonelli, più di 600 volumetti, ciascuno di 120 o 130 pagine) e i 65 magnifici albi di Pecos Bill prima serie, usciti nei primi anni cinquanta, ristampati nei primi sessanta e poi più niente, svaniti. Sceneggiato da Guido Martina, disegnato da signori illustratori come Raffaele Paparella, Dino Battaglia e Gino d’Antonio, di Pecos Bill avevo trovato su eBay, tempo prima, anche gli albi «cartacei» che avevo comprato ma non conservato molto tempo fa («cartaceo» è un aggettivo, fateci caso, che prima degli eBook capitava raramente d’usare, e quando lo si utilizzava era per lo più in senso figurato, per biasimare la burocrazia, e adesso a significare editoria passatista). Dal cloud, in ogni modo, avevo copiato sull’iPad Pecos Bill e tutto quanto Tex prima di lasciare l’Italia con un volo per il Kennedy via Istanbul. Mi ripromettevo di leggerli tutti prima di tornare a casa, quarantacinque giorni più tardi.

Era una promessa avventata perché non ero in vacanza. Stavo lì, spaparanzato, Starbuck, il Central Park, l’Apple Store della Quinta Strada, Neil Simon, Coney Island, ma mi toccava lavorare. Avevo da scrivere corsivi e recensioni, dunque c’erano libri da leggere e giornali da sfogliare, e-mail da scambiare, ogni tanto una telefonata. E poi c’era Manhattan da esplorare, benché dopo tutte quelle primavere tiepide (più un’estate gelida) passate nella 98th, mia moglie e io la conoscessimo a memoria, in ogni pertugio, dal molo dei traghetti per Long Island su su fino al Bronx, ma vai a stancarti di bighellonare. C’era tuttavia anche questa gran montagna di fumetti da scalare. Sparatorie, risse, cavalcate; le carovane dei pionieri, i Ranger del Texas. Kit Carson, Mefisto, Davy Crockett, Calamity Jane. «Corna di satanasso!» esclamava Tex Willer. Gli faceva eco Kit Carson: «Sangue di mille bisonti!» «Big Tex!» esclamava Davy Crockett nelle storie di Pecos Bill. C’era un bel po’ di roba da leggere. Ma erano soltanto fumetti, dopotutto: più le figure che i testi. Quanti ne avevo letti nella mia vita? Una marea, un subisso. Non sembrava, a occhio, un’impresa impossibile. E dunque «grimpon, grimpon, grimpon, grimpon», come cantava Maurice Chevalier, arrancando in groppa a un asino su per le Ande peruviane, nei Figli del Capitano Grant, un film di Robert Stevenson, hit disneyano del 1963.

Cominciai da Tex, saltando i primi 20-30 titoli, i soli che avessi letto quand’erano usciti per la prima volta (non si contano, da quel dì, le ristampe). Come a tutti, mi era capitato, naturalmente, di leggiucchiare un Tex ogni tanto, ma erano letture svogliate, un po’ altezzose, da lettore di Linus, di Jeff Hawke e dei Peanuts, di Pecos Bill, di Johnny Hazard. Adesso non saprei nemmeno dire perché Tex mi piacesse così poco. Vedevo, naturalmente, che era molto (ma molto) ben fatto, e per divertirmi mi divertiva, eppure lo prendevo sottogamba, era più forte di me. Aveva soprattutto il difetto, lo capisco adesso, di piacere a persone, soprattutto diffusori di volantini politici, per le quali non provavo rispetto, colpa loro, mica di Tex, ma ogni volta che me ne parlavano, io me la prendevo con Tex, così imparavano. È il lato peggiore del mio (e di qualunque) carattere: lo snobismo, già in sé censurabile, ma qui calcolato, uno snobismo di carambola, che colpisce Tizio tramite Caio e Sempronio, tok-tok-e-tok.

A differenza dei fan di Ingmar Bergman, per dire, o di Michelangelo Antonioni – che deprecavo proprio in quanto fan di film peggio che orripilanti: involontariamente comici – io non disapprovavo Tex fumetto e tanto meno i lettori di Tex presi all’ingrosso, ma questi ridicoli coglioni che leggevano Tex, le gazzette progressiste, quelle sportive, e pensavano invariabilmente col posteriore. Questi qua apprezzavano, di Tex e soci, o meglio «pard», prima di tutto il côté zuccherino, politically correct.

Ranger del Texas, dunque uomo delle istituzioni, Tex è anche capo navajo col nome di «Aquila della Notte», nonché fratello di sangue di Cochise. Amico e protettore degli indiani, con un figlio mezzosangue, Tex combatte esclusivamente buone battaglie contro agenti indiani corrotti, sceriffi gaglioffi, mercanti d’armi, bandidos spietati, feroci negrieri, generali felloni. Paternalista e condiscendente, sta sempre lì a umiliare l’indiano ribelle, e ogni volta è la stessa scena: lui che risparmia la vita al tanghero, questi che lo ricambia con un attacco alle spalle, lui che a questo punto in genere lo uccide, ma che talvolta lo grazia di nuovo. Tutti i pellerossa, ribelli o remissivi non importa, la comunità pellerossa tutta quanta lo dovrebbe detestare, e invece no, gli sono grati, come a un babbo severo ma giusto.

Era l’idea che questi babbani, futuri elettori leghisti o (peggio) pentastellari, avevano di se stessi: figli della luce – scarsamente dotati sotto il profilo umano, letture poche e sciagurate, un’enorme opinione di se stessi – contro i nemici del popolo. Di Tex, oltre al côté social-palloccoloso, quello che ammiravano di più e che scambiavano nella loro miseria intellettuale per «profondità», costoro apprezzavano anche il lato per così dire «squadristico» (sia detto senza offesa, ma dirlo bisogna): cioè la sua radicata abitudine di caricare di botte i villain.

Con Tex e i suoi pard poche balle. Non si scherza. Alla prima provocazione, uno sguardo storto, una parola di troppo, una minima protesta, ma anche senza provocazione, solo per ottenere delle informazioni o per soddisfazione personale, Tex malmena i villain di brutto, sberle da paura, giù dal tetto con un pestone, fuori dalla finestra con un cazzotto. Quando poi il malvagio è proprietario d’un saloon, o d’un emporio dove si traffica in winchester e whisky destinati a qualche banda isolata d’indiani buontemponi, allora emporio e saloon vanno invariabilmente a fuoco. D’appetito robusto, Tex e Carson, vuoi soli, vuoi in compagnia di Kit Willer e Tiger Jack, rispettivamente figlio di Tex e membro navajo della squadra, siedono in un ristorante, dove ordinano «bistecche alte due dite», «una montagna di patatine fritte», «una torta di mele» a testa e birra fresca senza avarizia, ma è raro che arrivino all’ammazzacaffè senza che qualche mascalzone si faccia sotto per sfidarli. Se la sfida è a chiacchiere, l’incauto se la cava con poco: un occhio nero, il naso pesto. Va peggio al villain che cerca d’estrarre la pistola perché Tex e pard, in questo caso, mettono mano ai «clarinetti» (o alle «spingarde», chiamatele un po’ come volete) e poi bang-bang, la vignetta si riempie di cadaveri. Sono oggetto di continue imboscate, due o tre per volumetto, e mai che ci caschino, bang-bang anche qui e ogni volta l’uno o l’altro della squadra commenta, reinforando il piffero: «C’è lavoro per i becchini». Gli altri annuiscono, impassibili.

Lì a New York, intanto che andavo avanti a leggere, provai a contare i morti ammazzati da Tex e compagni. Be’, erano centinaia, anzi migliaia. Roba da Gruppo Wagner, da mettere i brividi anche al più selvaggio dei mucchi selvaggi. Ebbene, tutto questo carnevale di risse, pestaggi, agguati e accoppamenti (e senza un vero movente, salvo che i morti e i mazziati «se l’erano cercata») era esattamente quel che i lettori delle avventure di Tex a me noti avrebbero voluto fare ai «ricchi». Ai ricchi, agli eretici e, avanzando tempo, agl’infedeli (e se i ricchi sono pochi, eretici o infedeli siamo tutti, nessuno escluso, quindi regolatevi).

Be’, che dire? Pecos Bill non porta nemmeno la pistola, niente, e non uccide mai nessuno. Pecos Bill ha soltanto un lazo, un cavallo (Turbine, «figlio del vento») al quale manca soltanto la parola, un socio pellerossa (Penna Bianca) e delle brache sfrangiate (e un po’ ridicole) da cowboy.

Pecos Bill non spara e non impreca mai. Rotea il lazo nell’aria e lo fa ricadere con un sibilo dritto intorno al girovita dei suoi nemici. Bloccati a metà d’un gesto, questi cadono, nel caso peggiore, da cavallo o dalle rocce giù nel fiume, e non si fanno mai troppo male. Bill è biondo, con una striscia di capelli neri che va dalla fronte al coppino, e in una sequenza onirica che appare nel primo albo, ha dei sottili baffi neri, e i capelli gli ricadono sulle spalle. Sembra un hippie (sono i primi cinquanta) in grande anticipo sui tempi o un poeta tedesco in ritardo sullo Zeitgeist. Puntategli contro una pistola, e subito l’abbasserete, incapaci di sostenere il suo sguardo fermo e sincero. Bill ama Sue, bionda anche lei, e non meno santerellina. Ogni tanto, tra un’avventura e l’altra, siedono in silenzio sotto le stelle del Texas, mano nella mano, e ascoltano i coyote ululare in lontananza.

Bill aveva strani amici e nemici, dai nomi e costumi bizzari: Hidalgo Sanchez, Pablo Mexie il desperado e il suo socio Jo-La-Terreur, l’avventuriero Du Tisné, Snake il bandito, Veasy la Regina bianca degli Osages con un cappello di pelliccia sulle ventitré, Pedrito il pistolero e il perfido Rodriguez, il gaucho Vasquez Cinnibar, l’ispettore di polizia Teague Spade, Koe-Mae l’assassino cinese. C’erano Miguel Chico, un giovane vaccaro, e lo schiavista Mister Ho. C’era il capo dei «seminoli» Falco Reale. C’erano Manula la Matadora, Colorado John e il Sergente Barton. C’erano Malone Cordell il taciturno e cowboy e Lojs Rojo, con un gran sombrero e baffi à la Dalí. Era una festa, o meglio una Merenda del Cappellaio Matto, con ospiti e invitati indimenticabili, e quasi tutti messicani, salvo un paio di yankees e un argentino o due, come nei film trucidi di Sam Peckinpah, ma qui senza neppure un sospetto di estetica «druga»: Rossini, Beethoven e ultraviolenza. C’era, in ogni albo, un ritratto a figura intera di ciascuno di questi personaggi. Per vedere acquarelli altrettanto belli e fascinosi avremmo dovuto aspettare le prove grafiche di Milo Manara e Hugo Pratt.

Avevo un debole per Pecos Bill. Disegni perfetti, personaggi che nelle tavole si muovevano con la sinuosità di ballerini, dialoghi romantici, storie che sarebbero piaciute a un librettista verdiano. Ma via via che andavo avanti a leggere Tex Willer cominciavo a capire perché questo sganassatore e incendiario piacesse a tutti, mica soltanto ai pisquani di cui parlavo prima, ma proprio a tutti, praticamente senza eccezioni – e da più anni di quanti ne fossero trascorsi (un bel po’) da quand’ero nato io. Anzi, penso adesso, passati i bollori, che in fondo anche i pisquani avessero le loro ragioni per tifare Tex Willer, ragioni estetiche, diverse da quelle assurde e ridicole che io attribuivo loro. Leggere e apprezzare le avventure di Tex Willer, di Kit Carson, del giovane Kit Willer e di Tiger Jack, il pard navajo impennacchiato, era forse la loro sola virtù, ma era una virtù. Alcune storie di Tex si leggevano, bisogna dirlo, con fatica e scarso vantaggio, erano fiacche e meccaniche, non finivano mai, ma alcune erano bellissime. Dialoghi, scenografie, uso sapiente dei campi lunghi e dei primi piani da fare invidia a Hollywood. Comunque io, prima di New York, non le leggevo, e da allora, convertito alle risse e alle cataste di cadaveri, le leggo ogni mese. Continuo a detestare le storie magico-occultistiche, con Mefisto e gli altri diabolisti, ma quelle classicamente western sono sempre leggibili, e qualche volta perfette.

Ancora non l’ho detto, me ne ricordo anzi solo adesso, ma una volta, moltissimi anni prima di New York, avevo intervistato Gianluigi Bonelli, lui in persona, il padre di Tex Willer. E per lui, se non per i suoi personaggi, sviluppai subito un’ammirazione sconfinata.

Fu verso la metà degli anni ottanta, ad Alassio, mi sembra, o a Diano Marina, dove Bonelli aveva ancorato il suo yacht, il Tex Willer. Duccio Tessari, un ottimo regista, autore di cult come Tony Arzenta e Arrivano i Titani, s’apprestava a girare il suo film peggiore, e forse il peggior spaghetti-western mai girato: Tex e il signore degli abissi, roba orrenda, che non sono mai riuscito a vedere per intero (né ho mai conosciuto nessuno che l’abbia visto o che abbia voglia di parlarne). Tutti gli attori erano fuori parte, a partire da Giuliano Gemma, un Tex Willer di frutta candita. Mai sceneggiatura di film fu più scombiccherata, né le location più inadeguate, o i costumi più tirati via. Chissà cos’era girato a Tessari (una volta parlai anche con lui: s’apprestava a girare un Mandrake con Alain Delon, suo grande amico, ma l’idea abortì subito, vai a capire). Quando parlai con Bonelli, a Bordighera o Spotorno che fosse, Tex e il signore degli abissi era in lavorazione da qualche parte, in Calabria o in Spagna. Era per via del film che lo intervistavo, ma quasi non ne parlammo, e parlammo poco, se ricordo bene, anche di Tex. Con Bonelli, persona cordiale, l’aria vissuta à la Jean Gabin, parlammo del più e del meno e della sua vita di romanziere, pugile fumettista. Era estate, o primavera, e mangiammo in un ristorante sul mare. C’era anche Giorgio, uno dei suoi figli, che quel giorno indossava una giacca di pelle con le frange, come Tex quando è a casa, nella riserva navajo, o come Bob Dylan nei suoi ultimi concerti. Mi aspettavo che ordinassero una bistecca alta due dita e una montagna di patatine fritte. E invece no. Mangiammo una frittura di pesce. E niente birra: vino rosso, se non ricordo male.

A New York, in ogni modo, leggevo Tex e Pecos Bill un po’ dappertutto. Devo confessare che non lessi tutti i 600 volumetti di Tex ma solo trecento-trecentocinquanta, roba così. Pecos Bill, invece, lo lessi da capo a fondo ben due volte, e con molta attenzione. Ne feci una scorpacciata, un giorno, a Herald Square, seduto in una panchina, davanti a Macy’s, dopo aver comprato qualcosa da mangiare in un vicino delicatessen: patate arrosto, uova sode, salmone rosolato, acqua gassata. C’erano tavolini sui quali posare i vassoi.

Avevo scoperto Herald Square, qualche anno prima, leggendo Nero Wolfe e il caso dei mirtilli di Rex Stout, dove Archie Goodwin scrive: «Il posto del mondo che prediligo si trova a soli sette minuti di cammino da dove vivo, nella casa di Nero Wolfe sulla 35ma Strada Ovest: Herald Square, dove nel giro di dieci minuti si può vedere la più gran varietà di persone che in qualunque altro punto del globo. Un giorno ho visto il capo della mafia di New York cedere il passo a una maestra dell’Iowa perché potesse entrare per prima nei più famosi grandi magazzini della città. Se mi chiedete come ho fatto a sapere chi erano, vi risponderò che avevano semplicemente l’aria uno d’essere il capo-mafia e l’altra un’insegnante dell’Iowa».

A Herald Square si stava da papi. Ci capitava spesso di leggere e mangiare lì. C’era anche un chiosco che preparava un ottimo espresso. E un bagno pubblico che era una benedizione per chi ha problemi di prostata. Alzavi gli occhi ed erano tutti lì, chi seduto a piluccare da un contenitore di plastica trasparente ragionando tra sé, chi in coda per la pipì. Aveva ragione Archie Goodwin: a Herald Square potevi incontrare chiunque. Barboni dall’espressione stralunata, giovani e sottili mangiatrici d’insalata scondita con l’aria di modelle, manager incravattati che addentavano un panino e intanto scrutavano negli abissi del MacBook, commesse di Macy’s in pausa pranzo, turisti estasiati, taxisti inquieti, cinesi imperscrutabili.

Adesso ci potevi incontrare anche lettori di Tex e del Pecos Bill prima serie di Guido Martina, Dino Battaglia e Raffaele Paparella (nell’ingresso di casa, a proposito, ho una sua tavola incorniciata). Non ho mai conosciuto, neanche da bambino, un altro lettore di Pecos Bill, ma se c’è un posto al mondo, pensavo, in cui potrei incontrarne uno è Herald Square. Mi guardai intorno. Individuai un tale. Anche lui si guardava intorno. Sembrava nervoso. Non aveva l’aria d’un lettore di Pecos Bill. In compenso somigliava sputato a John Archibald Dortmunder, «l’archetipo del criminale manqué», come lo definì una volta Laura Grimaldi, direttrice negli anni d’oro del Giallo Mondadori, traduttrice di Donald D. Westlake.

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Esperienze estetiche fondamentali / 2: Bartleby, lo scrivano, e Wakefield, il fuorilegge dell’universo https://www.carmillaonline.com/2023/02/24/esperienze-estetiche-fondamentali-2-bartleby-lo-scrivano-e-wakefield-il-fuorilegge-delluniverso/ Fri, 24 Feb 2023 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76121 di Diego Gabutti

Non ricordo più chi venne prima, se Bartleby o Wakefield. Forse Wakefield, nel quale m’ero imbattuto bazzicando le bancarelle di Piazza Carlo Alberto, nel centro di Torino, sotto le grandi arcate progettate da Guarino Guarini. Alle spalle l’antico parlamento sabaudo, di fronte la Biblioteca Nazionale con la sua soleggiata facciata neoclassica.

“Wakefield” venne prima di “Bartleby” anche quanto a data d’apparizione. Nathaniel Hawthorne lo pubblicò nel 1835 (nel 1937 fu uno dei “Twice-Told Tales”, i racconti narrati due volte) mentre Herman Melville pubblicò “Bartleby, the Scrivener. A Story of [...]]]> di Diego Gabutti

Non ricordo più chi venne prima, se Bartleby o Wakefield. Forse Wakefield, nel quale m’ero imbattuto bazzicando le bancarelle di Piazza Carlo Alberto, nel centro di Torino, sotto le grandi arcate progettate da Guarino Guarini. Alle spalle l’antico parlamento sabaudo, di fronte la Biblioteca Nazionale con la sua soleggiata facciata neoclassica.

“Wakefield” venne prima di “Bartleby” anche quanto a data d’apparizione. Nathaniel Hawthorne lo pubblicò nel 1835 (nel 1937 fu uno dei “Twice-Told Tales”, i racconti narrati due volte) mentre Herman Melville pubblicò “Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street nel 1853, due anni dopo Moby Dick”, diciotto anni dopo “Wakefield”. Quando io lo lessi per la prima volta doveva essere il 1966, o forse il 1967, poco prima (o poco dopo) che da Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche, affacciato sulla stessa piazza delle bancarelle, cominciassero a rullare i tamburi del movimento studentesco e delle occupazioni.

Abitavo poco lontano e, da quando avevo dieci anni, passavo di lì regolarmente, dapprima due o tre volte la settimana, poi ogni giorno, puntuale come Carosello. All’inizio facevo incetta di vecchi Urania, di vecchi Gialli Mondadori; poi di tutto quel che c’era, da Hawthorne e Melville alle farse del Signor Bonaventura scritte da Sergio Tofano, dai fumetti di Flash Gordon disegnati da Dan Barry (bisognerà parlarne, prima o poi) a Proust (che però mi decisi a leggere soltanto molti anni dopo, pentendomi di non averlo fatto prima). Dice Charles Simic, grande poeta serbo-americano: «Ho letto di tutto, da Platone a Mickey Spillane». Vale anche per me. E un po’ per tutti gli adolescenti dell’epoca; e se non per tutti, almeno per molti, e di sicuro per i coetanei che conoscevo e frequentavo io, a scuola e fuori (più fuori che a scuola, a scuola ci andavo poco, e di malavoglia). In giro per libri usati dopo un po’ tutti conoscevano tutti. Un cenno del capo, un caffè.

Trovato un libro, lo sfogliavo, e talvolta leggevo per intero, seduto al tavolino di qualche bar. Cappuccini. Mandrake, La fiera letteraria. Caramelle. Una brioche. Fumavo già come un dannato.
Di Wakefield e della sua enigmatica epopea fui subito un fan. Assai meno chiacchierato di Bartleby> – che col suo inespugnabile «preferisco di no» ha ispirato saggisti e romanzieri diventando malgré lui un cliché abusato dagli intellò di scarso impegno e d’ancor più scarso ingegno, e pertanto tutti giù a citare Beckett, Kafka, Il pasto nudo, Bergman, Antonioni, Magritte – Wakefield merita altrettanta attenzione, se non di più.

«In qualche vecchia rivista o giornale», scrive Hawthorne, «ricordo d’avere letto la storia, riferita come vera, di un uomo, cui daremo il nome di Wakefield, il quale abbandonò per lungo tempo sua moglie. Questo fatto, così astrattamente enunciato, non è particolarmente insolito, e senza un’opportuna descrizione delle circostanze, non può essere giudicato crudele o insensato. Non di meno, anche se non il più grave, questo è forse il più strano caso registrato d’inadempienza dei doveri coniugali, nonché un singolare esempio tra quanti se ne possono trovare in tutti gli annali delle umane stravaganze. La coppia abitava a Londra, e l’uomo, con il pretesto di partire per un viaggio, prese alloggio in una strada vicina alla sua casa e lì, all’insaputa della moglie e degli amici, e senza un’ombra di motivo per questo volontario esilio, visse per più di vent’anni».
Wakefield ama il mistero. Gli piace far credere alla moglie d’avere segreti affari da sbrigare fuori città e, per il gusto di stupirla, di tanto in tanto s’assenta da casa, all’inizio forse soltanto per poche ore, poi per un giorno pieno, due giorni, tre, quattro, una settimana.

«Immaginiamo Wakefield mentre si congeda dalla moglie», continua Hawthorne. «È il crepuscolo di una sera d’ottobre, e lui indossa uno sbiadito cappotto, un cappello coperto di tela cerata, stivali alti, tiene un ombrello in una mano e una valigetta nell’altra. Ha informato sua moglie che deve prendere la diligenza della sera per la campagna. Lei vorrebbe informarsi sulla durata del viaggio, sul suo scopo e sulla probabile data del ritorno, ma rispettando la sua innocua passione per il mistero, si limita a interrogarlo con uno sguardo. Lui le dice di non aspettarlo con certezza al ritorno della diligenza e di non preoccuparsi se mai dovesse trattenersi fuori casa per tre o quattro giorni, ma di attenderlo in ogni caso per venerdì sera all’ora di cena. Si può pensare che nemmeno lo stesso Wakefield abbia ancora idea di ciò che accadrà. Le porge la mano, lei gli dà la sua, e si scambiano un bacio distratto come avviene dopo dieci anni di matrimonio, poi il signor Wakefield, un uomo di mezza età, se ne va, già quasi deciso a sconcertare la sua buona moglie con un’intera settimana d’assenza. Dopo che la porta si è chiusa alle sue spalle, lei si accorge che viene leggermente scostata, e attraverso lo spiraglio le appare il volto del marito, che le sorride e un attimo dopo scompare alla sua vista».
Alla fine, per averlo evidentemente fissato troppo a lungo, l’abisso ricambia il suo sguardo, e adesso eccolo lì, povero Wakefield, fuori al freddo, nel buio, trasformato in «fuorilegge dell’universo».

E Bartleby, intanto? Spalle all’ufficio, lo sguardo perso in qualche iperspazio oltre la finestra, la decisione di non fare niente di quel che gli viene chiesto, una dieta stretta di biscotti allo zenzero, «innocuo e passivo», Bartleby è con piena evidenza una variazione sul tema delle «umane stravaganze». Un semblable, un avatar di Wakefield. Sono fatti della stessa sostanza: l’amor vacui, o fascinazione del vuoto.

Bartleby è di New York, Wakefield un londinese, ma abitano sostanzialmente la stessa città, come Batman e Superman (Gotham City e Metropolis, le città dove operano separatamente i due supereroi, sono entrambe New York en travesti). Nichilista originario, primo della specie e protagonista di Delitto e castigo, Rodion Romanovič Raskol’nikov potrebbe essere un loro concittadino (e San Pietroburgo un’altra manifestazione della stessa «città premeditata» abitata da fantasmi metropolitani senza pace) se soltanto il giovane assassino non scrivesse libelli su Napoleone Übermensch, e non parlasse troppo.

Wakefield, per quanto ne indoviniamo, non parla con nessuno. Per dire cosa, poi? Stabilire un qualunque contatto umano potrebbe spingerlo a fuggire anche da questa sua seconda incomprensibile vita verso una terza e poi una quarta, all’infinito, col rischio d’aumentare la distanza tra sé e la sua vita originaria fino a smarrirne il senso e la memoria, esponendosi così «al terribile rischio di perdere il proprio posto per sempre». Quanto a Bartleby, «spiaggiato» come una balena (strano che Melville non ci abbia pensato) in un anonimo ufficio di Wall Street, una zona di New York che «ogni notte si spopola», di lui conosciamo una frase sola, eternamente ripetuta.

«Ricordai» – scrive Melville – «che Bartleby non parlava mai se non per rispondere; che sebbene avesse a volte considerevole tempo a sua disposizione, tuttavia non l’avevo mai visto leggere nulla, nemmeno un giornale; che trascorreva lunghi periodi di tempo presso la sua finestra dietro il paravento, a contemplare un desolato muro di mattoni. Non si recava mai in alcun refettorio o trattoria, e il suo volto pallido rivelava chiaramente che non beveva birra e neppure tè o caffè. Non mi risultava che andasse mai in nessun posto, non usciva mai a fare una passeggiata; si era sempre rifiutato di dirmi chi fosse, di dove venisse, se avesse parenti nel mondo; sebbene così magro e pallido, non si lamentava mai. Soprattutto ricordavo quella sua inconscia aria di pallida – come potrei dire? – di pallida alterigia, o meglio quell’austero riserbo, che lo circondava e con il quale era effettivamente riuscito a imporsi, obbligandomi a tollerare le sue eccentricità, tanto che ormai temevo di chiedergli di compiere il più insignificante lavoro, anche quando capivo dalla sua lunga immobilità che in quel momento, dietro il paravento, egli doveva essersi perduto in una di quelle sue fantasticherie,» lo sguardo sempre fisso sul «muro cieco» oltre la finestra.

Bartleby preferiva di no.
Wakefield non era meno tormentato e storto d’anima.

Amico e per un po’ anche vicino di casa di Hawthorne, Melville conosceva bene l’opera dell’autore della Lettera Scarlatta. E Wakefield, tra tutti i personaggi di Hawthorne, doveva essergli apparso come una rivelazione, più dei fauni di marmo o delle bambine di neve. Melville – che aveva lanciato il Capitano Achab sulla pista del Leviatano: «Morte al mostro, morte a Moby Dick! Che Iddio dia la caccia a tutti noi, se non la diamo noi a Moby Dick fino alla morte!» – aveva un debole evidente per gli ossessi, e Wakefield era un perfetto esemplare della categoria. Con Bartleby, l’autore di Moby Dick intese certamente elevare a Wakefield un monumento. Indecifrabile quasi quanto il personaggio cui rendeva omaggio, era naturalmente un misterioso monumento.

Più che la statua equestre di Carlo Alberto di Savoia posta al centro della piazza delle bancarelle (dove avevo trovato la mia copia dei Racconti narrati due volte, nell’edizione Vallecchi del 1950, l’unica all’epoca in circolazione) il monumento eretto da Melville a Wakefield ricordava piuttosto il singolare monumento che Nikolaj Vasil’evič Gogol’ aveva eretto allo sventurato assessore di collegio Platon Kuz’mic Kovalëv: un Naso ribelle, in fuga dal corpo.

Perché è di fuggiaschi, naturalmente, che stiamo parlando.
Di fuggiaschi, e d’imperscrutabilità.

Come Wakefield, in fuga dal focolare domestico, che poi scruta di lontano, celato a ogni sguardo, anche Bartleby è un fuggiasco, però in piena vista. Se Bartleby è, come credo, il Naso di Wakefield, egli manifesta (diciamo così) la stessa sinusite. Qualcosa che lo soffoca, come qualcosa soffoca Wakefield. A una prima riflessione sembrerebbe che siano gli obblighi sociali a pesare come incubi sulle vite di questi oscuri eroi metafisici: Bartleby che rinuncia alla sua attività di copista e si vieta ogni proposito, Wakefield che si perde in una fantasia come in un bosco stregato. Dire che sono stati gli «obblighi sociali» (due parole al vento) a cacciarli in quell’angolo dal quale non sanno o non vogliono uscire è ribadire il gran mistero. Attenzione, però: se dire «obblighi sociali» è come dire niente, «dire niente» è un modo per affermare l’inconoscibile. Nel mondo di Bartleby e Wakefield, tutto si confonde, ogni cosa s’imbroglia. Qui chi è in fuga rimane immobile, come un ciclista in surplace, pronto a schizzar via, come i topi messicani dei cartoni animati.

Soffocati, in ogni modo.
Prima di tutto il panico, l’affanno.

Soffocati come Charles Bronson e Steve McQueen nella Grande fuga di John Sturges (uno dei pochi film «semplicemente perfetti» degli anni sessanta) erano soffocati dal filo spinato che delimitava il lager nazista. Dal sentirsi soffocati a diventare icone immortali dell’evasione il passo è breve. Solženicyn, in Arcipelago Gulag, chiama queste icone «fuggiaschi convinti, uomini che sanno a cosa vanno incontro». Prendete «Georgij Tenno, al quale, negl’intervalli tra due evasioni non riuscite, i detenuti dicevano: “Perché non te ne stai un po’ fermo? Che bisogno hai di scappare? Cosa ci trovi nella libertà, specie al giorno d’oggi?” Tenno si stupiva. “Come cosa ci trovo? Ventiquattr’ore nella taiga senza catene! La libertà, ci trovo!”»

Può darsi, allora, che anche Bartleby e Wakefield, come Tenno in Arcipelago Gulag, si siano avventurati nella taiga: un bugigattolo a Wall Street, una falsa identità a pochi passi da casa, il primo indecifrabile, il secondo invisibile. «Niente catene», naturalmente, è dire troppo. Anche la taiga, a suo modo, è un lager, sia pure dall’orizzonte sgombro. Ma troppo sgombro: nessuno con cui parlare, le notti gelide, il silenzio, la fame, «el magun» (come diceva Alberto Sordi vigile urbano in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo di Mauro Bolognini, Anno del Signore 1956).

Be’, tiriamo le fila.
Prima (o dopo) mi capitò di leggere Wakefield e solo dopo (o prima) Bartleby lo scrivano, quest’ultimo in un’edizione sciccosa, un libro da nababbi: Billy Budd e altri racconti, nella collana dei Millenni, Einaudi chic. Chissà dove, in uno scaffale in alto, fuori mano, devo averlo ancora, sempre che non l’abbia prestato a qualcuno trenta o quarant’anni fa. Libri così erano le avventure che capitavano ai lettori compulsivi in fuga ontologica (cioè in caccia di ciò che è reale) nella taiga di Piazza Carlo Alberto.

C’erano altre botteghe di libri usati in giro per la città. Per esempio Corso Siccardi, un vialetto alberato a lato di Via Cernaia, sulla strada per la stazione di Porta Susa. C’era soprattutto la Casa del Libro (ma per tutti l’«Ebreo») nella Galleria Subalpina, un «passage» severo e signorile, anzi elitario, al centro una fioriera, che congiungeva Piazza Carlo Alberto e Piazza Castello. Però nulla di paragonabile alle bancarelle di Piazza Carlo Alberto, che alla fine dei settanta sarebbero state trasferite sotto i portici di Via Po, due o tre isolati più in là, perdendo per strada un po’ della loro magia», come si dice con espressione orribile ma veritiera (o meglio «oggettiva», come si cominciava a dire, con espressione più orribile ancora, nelle assemblee studentesche). Anche Corso Siccardi è stato smantellato. Niente più bancarelle: panchine. C’era un’edicola: sparita anche quella. Quanto all’«Ebreo», nessuno lo chiama più così, e in vetrina ci sono sempre meno libri e sempre più stampe, monete, cartoline.
Erano tempi strani.

In giro per libri usati un ragazzino poteva scoprire Bartleby e Wakefield senza cercarli e senza averne mai saputo niente prima. Per bandiera un grande ignoramus, poche lire in tasca, e ci si poteva imbattere in queste star della grande letteratura come si trova una sorpresa nell’uovo di Pasqua. Per bancarellari e consumatori all’ingrosso di libri usati la seconda metà degli anni sessanta è stata un’epoca senza eguali. Furono i libri, soprattutto usati, per il loro basso costo e la loro vasta circolazione, a provocare l’evento clou del decennio: il Sessantotto, con rispetto parlando.

Gli studenti in tumulto, prima che motivati dall’ideologia e dalle congiunture politiche, erano sotto incantesimo letterario, come Madame Bovary e Don Chisciotte. Ogni libro letto o sfogliato era un invito all’avventura: giganti da abbattere, fanciulle da salvare. Erano finestre di Magritte aperte su universi paralleli. Alcuni di questi inconoscibili, nebbiosi, tipo gli uffici legali di Wall Street, o le strade londinesi percorse da Wakefield in stretto incognito, dove sembravano brillare altre stelle nel cielo sopra di noi e palpitare altre leggi morali dentro di noi. Fumetti, libri usati, Linus, i primi tascabili: fu questo il vento che gonfiò le vele dei movimenti giovanili, presto messi in caricatura dalle passioni politiche.

E Wakefield, che «aveva sfidato l’ordine del mondo»? Wakefield scopre che «gli individui sono così ben adattati a un sistema, e i sistemi l’uno all’altro, e a tutto un insieme, che un uomo, se si fa da parte per un solo momento» può finire in un’altra dimensione, nella «zona fantasma» dove i tribunali di Krypton, per citare di nuovo Superman, confinavano i criminali (al confronto, il 41 bis è Parigi in primavera). Fortunatamente, alla fine della storia, Wakefield ritrova la strada di casa, smarrita decenni prima.

«Sale i gradini con passo pesante» – scrive Hawthorne – «perché vent’anni gli hanno rattrappito le gambe, da quando li ha scesi l’ultima volta, anche se lui non se ne rende conto. Fermati, Wakefield! Se vuoi proprio andare nella sola dimora che ti è rimasta, calati piuttosto tua tomba! Ma la porta si apre, e mentre lui ne varca la soglia diamo un ultimo sguardo di commiato al suo volto e riconosciamo quel furbesco sorriso che aveva anticipato l’innocente burla che egli ha continuato a giocare ai danni della moglie. Come ha imbrogliato quella povera donna! Be’, auguriamo a Wakefield una buona notte di riposo!»

E Bartleby? Che fine fa lo scrivano? Muore. O meglio chiude gli occhi, stremato, consunto, e «dorme, con i re e i consiglieri», come mormora il suo principale, mentre qualche velo del suo passato pare squarciarsi.

«Eppure» – conclude Melville – «a questo punto sono incerto se divulgare l’eco di una diceria che giunse al mio orecchio alcuni mesi dopo la morte dello scrivano. Su quali basi poggiasse non sono mai riuscito ad accertare; quindi, non sono in grado di dire quanto ci sia di vero. Ne farò qui un breve cenno: Bartleby era un impiegato subalterno nell’ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all’improvviso licenziato per un cambiamento nell’amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come “uomini morti”? Pensate a un uomo incline alla disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta il pallido impiegato estrae dalla busta un anello e il dito al quale era destinato forse imputridisce nella tomba. Spunta la banconota inviata in un moto di pronta carità e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia né soffre più la fame. Parole di speranza per quanti morirono disperati, o di perdono per coloro che morirono nello sconforto; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere», scrive Melville «rovinano verso la morte».

Sia da Wakefield che da Bartleby sono stati tratti dei film (cercateli su Wikipedia, o meglio ancora su IMBD, l’Internet Movie Database). Intanto che scrivevo questo capitolo, li ho scaricati, ma ancora non ho avuto cuore di vederli. Bartleby, diretto e interpretato da Maurice Ronet nel 1978, è ambientato a Parigi, nonché recitato in abiti moderni. Anche Wakefield (Robin Swicord, 2016) è in abiti moderni. Un giorno o l’altro, tempo avanzandomi, forse li guarderò.

Intanto, evocato Raskol’nikov, l’Ur-nichilista, che ha fatto da modello a delinquenti pallidi e mostri morali, anche lui in fuga nella taiga della nascente cultura pop, mi torna in mente un altro fuggiasco convinto: Joe Doppelberg, protagonista di What Mad Universe, il cult fantascientifico di Fredric Brown. È il 1948, e Joe Doppelberg, giovanissimo nerd, sogna un mondo in cui è Salvador Dalí a popolare di mostri alieni e ragazze in minigonna le copertine delle riviste di fantascienza. Fellini avrebbe voluto cavarne un film. Ne girò di più strani. Nessuno, però, sarebbe stato più estraniante.
O Doppelberg! O umanità!

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Paul Auster e i fantasmi della guerra civile americana 2.0 https://www.carmillaonline.com/2022/08/10/la-metafisica-delle-guerre-civili-americane-paul-auster/ Wed, 10 Aug 2022 20:02:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72827 di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe [...]]]> di Sandro Moiso

“Forse questo è il punto più interessante di tutti: vedere quello che accade quando non rimane più nulla e scoprire se, anche così, sopravviveremo”. (Paul Auster – Nel paese delle ultime cose)

“Negli Stati Uniti sta destando sempre più scalpore un sondaggio realizzato dall’Institute of Politics dell’University of Chicago e reso pubblico in questi giorni, secondo cui la maggioranza degli americani ritiene che il governo sia “corrotto” e che agisca “contro gli interessi della gente comune”. La stessa indagine demoscopica ha inoltre evidenziato che un terzo degli statunitensi sarebbe pronto a “imbracciare le armi contro le autorità”. (Gerry Freda – Il Giornale, 27 luglio 2022)

“La guerra civile è già in corso”. (Gloria Feldt, femminista americana, 26 giugno 2022)

E’ il fantasma della guerra civile che oggi sembra assumere, sempre più spesso, forme concrete e tangibili nella società statunitense. Qualcuno, gravemente contagiato dal politically correct, potrebbe affermare che ad aggirarsi nell’immaginario di quella società sia ancora e soltanto il fantasma di Donald Trump, ma in realtà quel fantasma agita le coscienze e l’immaginario americano da ben più tempo.

Almeno dagli anni che precedettero e seguirono la Guerra Civile svoltasi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865. Quella guerra che costituisce infatti, al di là di ogni retorica, il fatto politico fondamentale della nazione nord-americana, ben più della Dichiarazione di Indipendenza e della successiva guerra contro la corona britannica. Un fatto politico e militare la cui valenza mitopoietica e fantasmatica per l’immaginario collettivo fu chiaramente colta già all’epoca dal fondatore della poesia americana moderna, Walt Whitman:

Quattro anni in cui si sono concentrati secoli di passioni ancestrali, immagini di prima categoria, tempeste di vita e di morte – una miniera inesauribile di vite e di morti, che riempiranno la storia, il teatro, la letteratura e persino la filosofia dei secoli a venire – anzi, un’autentica colonna vertebrale della poesia e dell’arte (anche di carattere personale) per tutta l’America futura (molto più possente, secondo me, per le penne che saranno in grado di cimentarsi con esse dell’assedio di Troia di Omero e delle guerre francesi di Shakespeare)1.

Se all’epoca di Thoreau e John Brown furono molti gli scrittori che si schierarono apertamente con la causa della lotta contro la schiavitù, da Melville a Whitman e da Whittier ed Emerson ad Hawthorne, ancora nel corso del ‘900 molti sono stati gli autori statunitensi a schierarsi con la causa della lotta contro le guerre imperiali o per la libertà dei popoli, dalla guerra civile spagnola alla lotta contro la guerra in Vietnam. Si pensi soltanto a Ernest Hemingway, John Dos Passos, William March, Joseph Heller oppure Allen Ginsberg e i poeti, soprattutto, della generazione beat, come Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti.

Gli scrittori degli ultimi decenni invece, almeno a partire dalla dubbia elezione di George Bush Jr., sembrano maggiormente preoccupati da ciò che i rappresentanti dei vertici economico-finanziari e dei media mainstream iniziano a denunciare sul pericolo di rivolte e di rimessa in discussione dei principali assunti dell’attuale modo di produzione, rendendo ancor più significativo il fatto che ormai da diversi anni proprio dagli Stati Uniti provengano opere letterarie che trattano il tema della guerra civile oppure della resistenza armata contro lo Stato e tutti i suoi addentellati economici, politici e militari.

Un autore come Paul Auster, con il suo Man in the Dark (uscito in Italia per Einaudi con il titolo Uomo nel buio), nel 2008 è stato uno dei primi a introdurre il tema all’interno della letteratura non di genere, seguito poi da diversi altri scrittori. Ma occorre dirlo, prima di procedere successivamente all’analisi della trama libro: sembra non esservi più vitalità. partecipazione e convinzione nell’osservazione dei drammi in atto o a venire. Come se si fosse persa la causa per cui combattere, che, in fin dei conti, per gran parte degli scrittori americani del passato è sempre stata rappresentata dai valori “autentici” della democrazia e della libertà americana, più che da qualsiasi altra esplicita causa politica.

Questo è il deserto sociale, ideale, umano che sta alle spalle dei romanzi di Paul Auster, soprattutto della guerra civile soltanto immaginata ma dalle conseguenze e cause reali, anche se tutte racchiuse nella psiche dei disturbati protagonisti e dell’anziano narratore di Man in the dark2. Un confronto militar-terroristico in cui gli Stati Uniti si sono divisi, almeno nella mente dell’anziano critico letterario August Brill che svolge il ruolo di narratore, secondo linee di faglia molto simili a quelle determinate anche dall’ultimo voto americano.

Una guerra in cui chi combatte non comprende le ragioni di ciò che sta succedendo e vorrebbe in realtà abbandonare il campo il più in fretta possibile. Senza riuscirci, in un alternarsi di piani temporali e narrativi che inseguono inutilmente un centro, che sembra non esistere più da tempo, se non nei sogni, deliri e costruzioni narrative di uno scrittore vecchio e malato. Cui è toccato assistere, alla tv, più e più volte alla decapitazione da parte dei miliziani dell’Isis dell’ex-boy friend della nipote, recatosi nelle aree incendiate dal califfato islamico per un servizio di trasporti privato al fine di avere un lavoro meglio pagato.
Sogno dentro sogno seguiamo per un attimo le riflessioni di Owen Brick, il personaggio immaginato da August Brill:

Memore dei discorsi di Serge su una guerra civile, si domanda perché ci si combatta e chi stia combattendo contro chi. Ancora il Nord contro il Sud? L’Est contro l’Ovest? Il Rosso contro il Blu? Il Bianco contro il Nero? Qualunque sia stata la causa della guerra, si dice e qualunque interesse o ideale sia in gioco, non ha senso. Come può essere l’America se Tobak non sa nulla dell’Iraq? Completamente smarrito, Brick torna all’ipotesi precedente, cioè di essere prigioniero di un sogno3.

E’ lo smarrimento a dominare la narrazione, smarrimento che domina anche nelle altre opere di Auster che andremo ad esaminare. Ed è così che Il folle mondo viene avanti rotolando, intuizione tratta da da una poesia di Rose Hawthorne, ultima dei tre figli di Nathaniel Hawthorne, nata nel1851, come ci ricorda lo stesso Auster nel riassumerne brevemente la vita nell’ambito del romanzo.

Rose rossa di capelli, nota in famiglia come Rosebud, Bocciolo di Rosa, una donna che visse due vite, la prima triste, tormentata, fallimentare, la seconda straordinaria […] una donna che per quarantacinque anni ha brancolato per il mondo, una persona difficile e scontrosa, una «straniera a se stessa» per propria ammissione, che dapprima tentò la sorte con la musica, poi con la pittura, e non avendo avuto risultati con nessuna di queste attività si volse alla poesia e ai racconti, riuscendo anche a pubblicarne alcuni (senz’altro grazie al nome di suo padre), ma la sua produzione era pesante e goffa, a essere generosi mediocre: tranne un verso di una poesia […] E il folle mondo viene avanti rotolando.
Aggiungiamo al ritratto pubblico le circostanze private della fuga d’amore, a vent’anni, col giovane scrittore George Lathrop, un talento che non mantenne mai le promesse, gli amari conflitti del loro matrimonio, la separazione, la riconciliazione, la morte a cinque anni del loro unico figlio, la separazione definitiva, i litigi protratti di rose con suo fratello e sua sorella […] Ma poi, nella maturità, Rose subì una metamorfosi. Si convertì al cattolicesimo, prese i voti e fondò un ordine di suore, le Serve del conforto per il cancro incurabile, dedicando i suoi ultimi trent’anni alla cura dei malati terminali poveri come appassionata tutrice del diritto di ognuno a morire con dignità. Il folle mondo viene avanti4.

L’immagine, già tipica del blues e della folk music, della pietra che rotola (rolling stone) sul fondo di un fiume, sulle strade del mondo oppure verso l’abisso, viene qui, indirettamente, ripresa e portata alle sue estreme conseguenze. Sia sul piano dell’esperienza personale, sia sul piano simbolico di una Nazione che rotola verso il suo incerto futuro senza più alcun punto di riferimento o legame certo.

Il secondo romanzo di Auster qui analizzato è Leviatano5, liberamente ispirato alle imprese di Unabomber, identità fittizia, attribuitagli in parte dai media e in parte dal Federal Bureau of Investigation, di Theodore John “Ted” Kaczynski, terrorista individualista contrario alla società dominata dalla tecnologia, matematico ed ex-docente universitario statunitense che tra il 1978 e il 1996 inviò numerosi pacchi postali a varie persone, causando 3 morti e 23 feriti. E’ stato anche autore di un celebre manifesto politico-filosofico che riuscì a far stampare su alcuni quotidiani USA, prima di essere denunciato dal fratello che ne aveva riconosciuto lo stile leggendo quello stesso testo.

Auster non ripercorre esattamente le vicende di Ted Kaczynski, ma ancora una volta ricorre alla figura di invenzione di uno scrittore, Peter Aaron, che, dopo aver intuito che la vittima di un’esplosione, causata dalla preparazione di una bomba, per un attentato è il suo più caro amico: Benjamin Sachs, autore di un unico romanzo, decide di narrare la vita e le vicende che l’hanno condotto alla decisione di diventare terrorista.

Ben si dedica alla distruzione con l’esplosivo delle copie della Statue della Libertà sparse in centinaia di località americane, sempre evitando di fare vittime. Anche in questo caso la scelta simbolica rinvia alla delusione nei confronti delle mancate promesse di libertà, uguaglianza e democrazia che il monumento originale, posto in mezzo alla baia prospicente New York, dovrebbe rappresentare. Ben in realtà ha preso il posto di un uomo che ha ucciso per difendersi, Reed Di Maggio, ma di cui ha iniziato ad apprezzare le idee dopo aver scovato, in una stanza chiusa nella casa della vedova, i suoi documenti, i suoi libri e la sua tesi. Uno studio sulla figura di Alexander Berkman l’anarco-comunista americano che aver sparato a Henry Clay Frick, colui che durante lo sciopero degli operai metallurgici di Homestead del 1892 aveva riunito un esercito di detective e agenti di compagnie private e ordinato loro di fare fuoco sugli scioperanti.

Giovane radicale ebreo emigrato pochi anni prima, all’epoca Berkman aveva vent’anni e scese in Pennsylvania inseguendo Frick con una pistola, con la speranza di eliminare quel simbolo dell’oppressione capitalista. Frick sopravvisse all’attentato e Berkman fu rinchiuso in un penitenziario di Stato per quattordici anni. Dopo il suo rilascio […] portò avanti il suo impegno politico, soprattutto insieme ad Emma Goldman. Fu direttore di “Mother Earth”, contribuì alla fondazione di una scuola libertaria, tenne discorsi, si batté per cause come lo sciopero degli operai tessili di Lawrence […] Quando l’America entrò nella Prima guerra mondiale fu messo di nuovo in carcere, questa volta per aver parlato contro la coscrizione obbligatoria6.

Quindi Ben si ispira a Reed che, a sua volta, si era ispirato a Berkman. Così in qualche modo farà anche Peter, iniziando a scrivere un romanzo intitolato come il secondo progettato dall’amico, che finirà col narrare la storia di Ben e si intitolerà Leviatano, come il libro vero a e allo stesso fittizio che il lettore si trova a leggere, finito pochi istanti prima dell’arrivo degli agenti del FBI decisi ad interrogarlo per perseguirlo penalmente per i suoi precedenti silenzi sull’amico scomparso. Ancora una volta una vicenda di scambi di identità e di acquisizione casuale di ruoli già appartenuti ad altri, in un’America sempre più confusa, ad ogni livello, che sembra anch’essa andare avanti rotolando follemente.

Tema che costituisce anche il centro del terzo romanzo di cui si vuole qui parlare, Nel paese delle ultime cose (In the Country of Last Things, 1987)7, che in realtà, pur mostrandoci da vicino gli effetti devastanti sulla vita americana di una catastrofica guerra civile una volta avvenuta, è il primo dei tre.

L’epoca è indefinita, ma non molto distante nel tempo rispetto al presente e l’unica cosa certa è che Thanatos ha trionfato, insieme al disordine, alla fame e all’impossibilità di immaginare un futuro diverso, illuminato magari da un barlume di speranza.

Almeno la metà della gente è senza casa e non sa assolutamente dove andare. Pertanto ogni volta che giri l’angolo trovi cadaveri, sul marciapiede, sotto i portoni, sulla strada stessa.
[…] I cadaveri il più delle volte sono nudi. Gli spazzini perlustrano le strade senza interruzione, e non passa tanto tempo prima che un morto sia spogliato dei propri averi. Le prime a sparire sono le scarpe, molto richieste e molto difficili da trovare. Subito dopo vengono le borse e poi di solito ogni altra cosa, gli abiti e tutto quel che contengono. Gli ultimi ad arrivare sono gli uomini con pinza e scalpelli, che strappano i denti d’oro e d’argento dalla bocca.
[…] Ogni mattina passano i camion per la raccolta dei cadaveri. Questa è la funzione principale del governo, che investe in quest’operazione più che in qualsiasi altra cosa. Tutt’intorno alla città ci sono i forni crematori – i cosiddetti Centri di Trasformazione – e giorno e notte si vede il fumo che sale in cielo. Ma dato che le strade sono in così cattivo stato e molte si trovano ridotte in macerie, il compito diventa sempre più difficile. Gli uomini sono costretti a fermare i camion e andare a piedi a raccogliere i corpi, e questo rallenta considerevolmente il lavoro. Come se non bastasse, ci sono frequenti danni meccanici ai veicoli, seguiti dagli occasionali scoppi di risate di chi sta a guardare. Lanciare pietre agli uomini dei camion della morte è una comune occupazione tra i senzatetto. Anche se questi uomini sono armati e sono noti per puntare le loro mitragliatrici sulla folla, alcuni di questi lanciatori di sassi sono molto abili nel nascondersi, e le loro tattiche di «toccata e fuga» ottengono talvolta il risultato di paralizzare completamente la raccolta. Non c’è un motivo coerente dietro questi attacchi. Maturano nella rabbia, nel risentimento e nella noia, e poiché i raccoglitori di cadaveri sono gli unici dipendenti municipali a farsi vedere nei quartieri, diventano facili obiettivi. Si potrebbe dire che i sassi rappresentano il disgusto della gente nei confronti di un governo che non fa nulla per loro finché non sono morti. Ma questo discorso ci porterebbe troppo in là. I sassi sono un’espressione di infelicità e basta. In città infatti non c’è posto per la politica, di nessun tipo. Le persone hanno troppa fame, sono troppo sconvolte, troppo in lotta le una contro le altre8.

La forma è quella di un diario in forma epistolare, scritto da una giovane donna di buona famiglia che ha attraversato l’Oceano per tornare nella grande metropoli sconvolta (la Grande Mela?) a cercare tracce del fratello William scomparso dopo essersi recato là per scrivere un reportage. Un contesto in cui Beckett sembra incontrare il Boccaccio della Cornice del Decameron, mentre le immagini dei forni crematori e dei morti privati di tutto, anche dei denti, rinviano alle grandi tragedie del ‘900.
Come nel romanzo La strada di Cormack Mc Carthy (Einaudi, 2007 – edizione originale 2006) tutto è già avvenuto e non ha bisogno di essere spiegato. I protagonisti o l’io narrante non possono far altro che andare incontro alla fine, anche se quest’ultima, come scrive Auster:

è solo immaginaria, una destinazione che inventi per continuare ad andare avanti, ma arrivi a un punto in cui ti accorgi che non vi giungerai mai.
[…] Qualunque cosa è possibile, ed è come non dire niente, come essere nati in un mondo che non è mai esistito. Forse troveremo William dopo aver lasciato la città, ma cerco di non sperarci troppo. L’unica cosa che chiedo, per ora, è la possibilità di vivere ancora per un giorno9.

Sopravvivere, ancora per un giorno, in un mondo privato di qualsiasi senso, se non ancora quello della guerra e della rivolta senza scopo.

L’unica alternativa che abbiamo eliminato del tutto è il nord. Sembra infatti che in quella parte del paese vi sia un grande pericolo e la possibilità di tumulti, ed è già un po’ di tempo che si parla di un’invasione di armate straniere radunate nella foresta e pronte a colpire la città quando la neve sarà sciolta.[…] Boris continua a spiare e ascoltare, ma i discorsi che sente sono troppo confusi e discordi per avere un valore concreto. Lui ritiene che ciò significhi che il governo sarà di nuovo rovesciato. Se così fosse, potremmo avere il vantaggio della temporanea confusione, ma a questo punto nulla è davvero chiaro. Nulla è chiaro e noi continuiamo ad aspettare10.

Non si fugge da ciò che un tempo si annunciava come il Paradiso e che oggi è soltanto più uno degli inferni possibili sulla Terra. Il senso è finito insieme a ciò che ne produceva una possibile, e riduttiva, espressione. Il lungo tramonto dell’Occidente rimane tale, soltanto un interminabile crepuscolo, alla cui luce incerta si possono consumare tutti i delitti, tutte le meschine vendette, tutte le perversioni dell’essere umano alimentate dalla fame e dalla disperazione. Cannibalismo compreso.

Nella logica “metafisica” di Auster tutti e due gli altri romanzi, di cui si è parlato più sopra, convergono quindi inesorabilmente verso la fine che era già contenuta nell’inizio di questa immaginaria trilogia delle guerre civili americane.
Tornano in mente le affermazioni di Karl Marx sulla fine dell’Impero romano, che causò e fu causata allo stesso tempo dalla comune rovina delle classi in lotta. Tornano le immagini di imperi millenari o secolari che scompaiono in un batter d’occhi, soltanto un po’ più lungo del solito. Tornano alla memoria le immagini di imperi le cui frontiere sono sorvegliate da eserciti alleati e stranieri, ma pronti a divorarli appena mostreranno un minimo di debolezza in più.

Tornano le immagini di rivolte senza scopo, rebellion without a cause parafrasando il titolo di un celebre film di Nicholas Ray dove già il protagonista correva incontro alla morte su una strada che conduceva soltanto ad un precipizio11. Le immagini del Campidoglio assaltato, dei diritti inutilmente negati, degli scontri inter-razziali, dei massacri nelle scuole, nei mall e nelle chiese. Tutte pietre lanciate per infelicità, rabbia, risentimento o forse soltanto per noia.

Tornano le immagini di Jayland Walker, afroamericano poco più che ventenne, ucciso con sessanta colpi d’arma da fuoco dalla polizia di Akron, Ohio, e ai mille casi di uccisioni che avvengono ogni anno negli Stati Uniti ad opera delle forze del dis/ordine. Mille morti ammazzati di cui almeno il trenta per cento è costituito da afro-americani.
E tornano anche le immagini di un 4 luglio insanguinato non soltanto dalla strage alla parata di Chicago, ma anche dai nove tentativi messi in atto in altrettante località degli Stati Uniti, nello stesso giorno di quest’anno.
Giorno in cui, nella sola Chicago, 57 persone sono rimaste uccise in sparatorie al di fuori di quella di Highland Park 12.

Mentre politologi e storici – come la docente di San Diego, Barbara Walter, autrice del saggio How Civil Wars Start – avvertono che il rischio di guerra civile è reale […] l’espressione “guerra civile” diventa subito tra gli argomenti più cercati su Google, così come lock and load: caricare un’arma da guerra nel gergo militare13.

L’Occidente cade nelle pagine di Auster, la grande metropoli non mantiene le sue passate promesse e il mondo sta a guardare in attesa che altri vengano (da Nord, Est, Sud?) a rivendicarne il ruolo, le aspirazioni e le fasulle promesse. Benvenuti alla fine del viaggio di un modo di produzione che da troppo tempo sta morendo, come un malato terminale, però, cui sia stata negata per sempre la possibilità del suicidio assistito. Mentre anche i suoi possibili killer, impoveriti e indigenti, preferiscono rivolgere le proprie armi contro i propri simili piuttosto che sveltire le pratiche funerarie per la sua definitiva eliminazione.

Ancora una volta, però, non sono l’analisi politica e sociologica o il piagnisteo democratico a condurci ad una tale cruda e inesorabile visione, bensì la letteratura. Ma, per favore, non definitela nichilista.


  1. Walt Whitman, Taccuini della guerra di secessione, Mattioli 1885, Fidenza 2017, pag. 19  

  2. Paul Auster, Uomo nel buio, Einaudi, Torino 2008  

  3. Paul Auster, op. cit., p.41  

  4. Paul Auster, op. cit., pp. 38-39  

  5. Paul Auster, Leviatano, Einaudi, Torino 2003 – Leviathan, prima edizione americana 1992  

  6. Paul Auster, Leviatano, p. 257  

  7. Il paese delle ultime cose, Guanda, 1996 – Nel paese delle ultime cose, Einaudi, 2003  

  8. P. Auster, Nel paese delle ultime cose. Einaudi, Torino 2003, pp. 16-17  

  9. P. Auster, op. cit., pp. 163-167  

  10. Ibidem, p. 166  

  11. Rebel Without a Cause (1955), in Italia meglio noto con il titolo Gioventù bruciata, di Nicholas Ray e con James Dean  

  12. Marina Catucci, La tradizione del “mass shooting”: 4 luglio di fuoco in nove stati, il Manifesto, 7 luglio 2022  

  13. Massimo Gaggi, “Caricate i fucili”. Si scaldano le milizie (e torna l’incubo della guerra civile) , Corriere della sera, 10 agosto 2022  

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Divine Divane Visioni (Novissime) – 86 https://www.carmillaonline.com/2022/07/28/divine-divane-visioni-86/ Thu, 28 Jul 2022 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72777 di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022 Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, [...]]]> di Dziga Cacace 

Signori, è stato un onore suonare con voi.

1951 – Una squadra di Domenico Procacci, Italia 2022
Un lavoro eccezionale. E l’ho capito dopo 2 secondi con i New Trolls in colonna sonora. Un documentario bellissimo, montato da dio, con una storia e dei personaggi clamorosi che se uno sceneggiatore li pensasse a questa maniera, con quel modo e quelle storie, gli si direbbe: troppo comodo, non ci crederà nessuno. E invece Adriano, Corrado, Paolo e Tonino erano veramente così, dei ragazzi formidabili, belli, simpatici, sornioni e guasconi. Ragazzi semplici, determinati ma leggeri (Panatta e Bertolucci, coppia comica insuperabile) e sempre coscienziosi (Barazzutti e Zugarelli), un mix di caratteri e stili di gioco che per una decina d’anni diede all’Italia la nostra miglior squadra di sempre in Davis, con quattro finali raggiunte, purtroppo sempre giocate all’estero. E lo stile e la leggerezza sono sintetizzati nella sigla della serie quando per un attimo si vedono Panatta e Bertolucci scendere a rete con lo stesso movimento sincrono, danzando sulla terra rossa. Ma questo non è solo il racconto di un sodalizio di quattro moschettieri (e di un capitano non giocatore, Nicola Pietrangeli, complice e antagonista, in bilico tra carisma e rosicamento): è anche il racconto dell’Italia che tifava per loro, “l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre”, ancora con l’ingenuità e la povertà addosso del dopoguerra ma la voglia di emanciparsi, di divertirsi, di sentirsi protagonista. È anche il racconto di uno sport che da elitario diventa popolare, raccontato da una tivù che era testimone partecipe di quell’affermazione: a rivedere Bongiorno, Baudo, Minà, Galeazzi e altri ancora affiora la commozione dei miei dieci anni. Erano belli pure loro, vien da pensare, o forse erano tempi non migliori ma con un senso di speranza, ecco. La costruzione è curiosa: non è rispettato l’ordine cronologico ma si salta avanti e indietro nel tempo, costruendo ritratti, episodi, schede, rivedendo facce incredibili come quelle di Ion Tiriac, Bjorn Borg, Vitas Gerulaitis, Ivan Lendl, John McEnroe, in un circuito sportivo dove prevaleva la voglia di giocare a quella di guadagnare, dove era tutto ancora un po’ improvvisato, un professionismo light. E in quest’epoca tennistica ancora naif ecco la generazione di talenti italiani che aveva saputo vincere una Coppa Davis insidiosissima alla faccia dei fascisti ma anche di chi non voleva che si andasse a giocare in Cile. E invece quello fu uno smacco per Pinochet e gli altri merdosi di contorno. Ad ogni modo: grandioso il lavoro di ricerca su foto, giornali e contributi tivù: bravo Procacci, well done indeed. (Sky, maggio e giugno 2022)

1953 – Amazing Grace di Alan Elliott e Sidney Pollack, USA 2018
Girato nel 1972 da Sidney Pollack e rimasto negli archivi a causa di grossi problemi di sincronizzazione, realizzato dopo mille vicissitudini (e anche l’opposizione di Aretha) Amazing Grace è la documentazione delle registrazioni che portarono allo splendido album che porta lo stesso titolo del film. È un documentario all’antica, senza pensare a un pubblico ma semplicemente documentando un evento. Nessuna intervista contemporanea a restituire il contesto, nessun vero backstage dell’epoca, nessuna menata autoriale. Solo le riprese di due serate nella New Temple Missionary Baptist Church di Los Angeles col supporto del Southern California Community Choir e del pubblico accorso. Aretha torna alle sue origini e regala una performance da pelle d’oca ma partecipano, cantano, battono le mani, esultano, piangono tutti, in un delirio mistico e terreno gioiosissimo. La musica (con Cornell Dupree alla chitarra e Bernard Purdie alla batteria) è eccezionale e la regia investiga volti puri e puliti, mani, abbigliamenti, acconciature e cattura l’orgoglio e la speranza di un popolo. Sidney Pollack (oggi solamente ringraziato nei credits) era reduce da Corvo Rosso non avrai il mio scalpo e non portò a compimento l’opera, le riprese sono talvolta frettolose, la fotografia non è perfetta, un po’ sgranata, e forse al di là della capacità registica (impacciata, non troppo meditata) si coglie l’emozione grandissima dell’evento in un crescendo incredibile. A un certo punto della seconda serata appaiono Mick Jagger e Charlie Watts ma il momento più commovente è quando arriva il padre di Aretha, il reverendo Franklin. Aretha va ad accoglierlo e quando lui si siede si preoccupa di spolverargli i pantaloni stirati con un gesto intimo e affettuosissimo che mi ha ricordato Novecento quando la madre di Olmo – al suo ritorno dalla prima guerra mondiale – gli toglie, muta, la pula dalla giacca militare. E mi sono spezzato, ecco. Amazing Grace è un documentario lontano dalla grammatica attuale, dalla pulizia e precisione delle produzioni ultime (ormai in serie, senza sorprese, senz’anima) ma è un contenitore di emozioni e per quanto senza una storia, senza background, senza una voce guida riesce a raccontare tantissimo di un’epoca, di un’artista e di un popolo. Dimmi niente. (Sky, maggio e giugno 2022)

1954 – L’età dell’innocenza di Enrico Maisto, Italia 2021
Quarto film di Enrico Maisto che in un percorso di avvicinamento ai genitori cominciato con Comandante (Felice, l’ex militante di Lotta Continua protagonista, era amico del padre magistrato) e proseguito con La convocazione (la madre era giudice del processo di appello per la strage di Brescia). Ora c’è il nodo più doloroso e difficile da affrontare: il rapporto coi genitori, l’educazione sentimentale e il diventare adulti. L’età dell’innocenza di Scorsese era quella di un popolo, qui è di un autore che sa essere spudorato ma sempre ironico, senza mai diventare compiaciuto o personalistico, destreggiandosi con un equilibrio straordinario in una forma documentaria che diventa narrativa col valore autentico della realtà ripresa dalla telecamera. C’è un procedere per vignette molto morettiano, che ricorda Ecce bombo o Io sono un autarchico, ma qui è tutto vero anche se organizzato come una storia preordinata. Il film – prodotto grazie a Rai, Wanted e RTSI e vincitore come miglior documentario al Festival dei popoli 2021 – ha un incipit in voce off che dà già la chiave dell’incomunicabilità tra figlio e genitori: loro sono anziani, sono stati giudici – nel lavoro e forse nella vita – ed Enrico è stato un figlio unico. Attraverso una costruzione per aggiunte, evocativa, intensa, commovente, si arriva a una risoluzione liberatoria e gratificante: il figlio diventa adulto scalando assieme alla compagna quel vulcano che gli ha sempre fatto paura. Il film è un saggio di come il cinema sia strumento autoanalitico che dal personale diventa universale, è una storia di tutti seppure intima. C’è una delicatezza estrema e lo spettatore mette assieme i tanti pezzi, gli indizi nascosti delle tante assonanze che uniscono i genitori ai figli. Molto molto bello. (Cinema Beltrade, Milano, 25/5/22)

1955 – SuperNature di Ricky Gervais, Gran Bretagna 2022
Il nuovo spettacolo di Ricky Gervais punta subito sul tema attuale più dibattuto e anche più facilone: l’assunto – molto discutibile, perlomeno in Italia – è che viviamo in un’epoca in cui moralismi vari, etichette e woke assortiti stanno facendo perdere il senso della misura. Ricky dà subito le regole (cioè nessuna regola se non che quello che dice faccia ridere), ricorda che è un comico e che riveste un ruolo e poi spara a zero su tutto. O perlomeno, sembra che abbia una predilezione, ovviamente, proprio per gli argomenti più scottanti, irriverenti e – di questi tempi, secondo alcuni – intoccabili, tipo parlare di categorie di genere come le persone trans. Ecco, ma fa ridere? Così cosà. Anzi, per rimanere nel canone gervaisiano che sottolinea quanto la comicità sia soggettiva: a me fa ridere così e cosà. Lui è trascinante, ride come un pazzo di quello che dice, sa di spararla grossa e se la gode. Uno dei leit motiv è: Netflix dovrà tagliare ‘sto pezzo perché questo non si potrebbe dire etc. Ma poi ci ricorda anche (di nuovo tante volte) che è ricco, lo spettacolo è già pagato e lui fa un po’ il cazzo che vuole. E il pezzo – a dimostrazione che si può parlare eccome di qualunque cosa si voglia – non è mai tagliato. Ovviamente lui lo dice con una furbizia sopraffina, nessuno potrebbe credere che sia una prepotenza da ricchissimo bianco etero (cioè l’1%, una minoranza, come ironicamente sottolinea). E si mette sempre tra i presi in giro, non giudica, non moralizza e onestamente chiede non ci siano moralizzatori anche per il suo spettacolo. Mi sembra un atteggiamento giusto e condivisibile, anche perché non son parole dette a caso. L’unico pericolo sono semmai gli epigoni di Gervais che prendono lo spettacolo e il mestiere per un salvacondotto a dire la qualunque ma senza elaborazione. Ecco, e qui c’è un po’ l’inghippo, a parer mio ovviamente opinabile: l’intelligenza di Ricky gli consente di dire pressoché tutto ma talvolta si sente una nota stonata, il voler affrontare programmaticamente l’indicibile ma senza aver alcunché realmente di interessante o soprattutto divertente da tirare fuori. C’è una tirata sull’AIDS che non riesce (a me, di nuovo) a prendermi. O quando Gervais affronta la pedofilia. O quando insiste sulle persone trans con una superficialità volutamente brutale ma che sfocia giocoforza in battute da caserma. Però, ribadisco, è talmente bravo, è un interprete talmente partecipe, ha una mimica così perfetta che segui l’oretta di spettacolo sempre col sorriso sulle labbra, qualche volta anche come atto di fede, ecco. Per cui spettacolo piacevole ma un po’ fragile. Ovviamente lo attaccheranno dando un peso non meritato alle sciocchezze dette (ce ne sono) e lui se ne sbatterà allegramente il cazzo. Tanto è ricco. (Netflix, 27/5/22)

1956 – Lunana: il villaggio alla fine del mondo di Pawo Choyning Dorji, Bhutan 2019
Chissà se mai vedrò un altro film del Bhutan. Che poi dici Bhutan e subito pensi a Mike Bongiorno alla Ruota della fortuna che chiede se sia il paese “da dove sono origine le bhutane” (cit.). Beh, fatto sta che individuo il film in un cinema parrocchiale e impongo la visione a Barbara e a Elena che ancora subisce i diktat familiari. Ricordavo buone recensioni, premi internazionali e l’inserimento tra i titoli concorrenti all’Oscar per il film straniero quest’anno. E ci va bene perché Lunana è un film delicato, rigoroso, per nulla furbo. Ugyen è un giovane insegnante che non ama il suo lavoro e sogna di emigrare in Australia per fare il cantautore. I suoi dirigenti la pensano diversamente e lo spediscono nella scuola più remota al mondo, a 8 giorni di cammino dalla capitale Timphu, a 5000 metri d’altitudine. Il ragazzo, scocciato assai, arriva nel paesino e viene accolto da una comunità di contadini che vive con nulla. L’aula dove dovrebbe insegnare è senza lavagna, non c’è carta (preziosissima), niente quaderni, colori, libri. Chiaramente anche elettricità (e Ugyen deve rinunciare ad ascoltare il suo iPod). I bambini del villaggio, guidati dalla straordinaria Pen Zam, sono ansiosi di imparare e nasce un rapporto intenso che porta il protagonista riluttante a rivedere le sue priorità. Il ragazzino di città, un po’ viziato (secondo i loro canoni, eh) e sempre con le cuffie in testa impara un modo nuovo di relazionarsi con il creato tutto, insegnando il futuro a questi bambini splendidi. Ma arriva l’inverno e un visto per l’Australia e bisogna fare delle scelte. Tutto molto canonico ma il film riesce a intenerire, ad ammaliare con gli sguardi, con la semplicità di una vita remota, fuori dal (nostro) tempo e forse realmente felice come il Bhutan vanta da 50 anni. Lunana riesce a non essere retorico ma pulito, onesto, sincero. Gli attori (quelli del villaggio tutti non professionisti) sono bravi e ben diretti e i paesaggi imponenti e austeri sono fotografati senza furbate cartolinesche estetizzanti e musiche roboanti. Insomma, siamo soddisfatti. Io penso al mio Bhutan a Champoluc e riesco anche a tollerare due signore sedute dietro di noi che pensano che il cinema sia un posto dove andare a chiacchierare (oltretutto parlando di un viaggio da fare con uno che avrebbe il difetto di parlare tanto, lui, non loro…). E vabbeh: Lunana mi prende e dimentico le babbee sognando la felicità bhutanese e l’armonia con l’universo. Bel film. (Cinema Orizzonte, Milano, 28/5/22)

1957 – Metal Lords di Peter Sollett, USA 2022
Un teen drama abbastanza prevedibile e che stavo per mollare dopo una prima mezz’ora decisamente sgraziata. Poi pian piano il film prende quota, la trama (scritta da D.B.Weiss, una delle teste dietro Game of Thrones) è ben congegnata e io concludo la visione con un sorriso ebete sulle labbra. Eh sì, perché a me i film sull’adolescenza, sulla presa di coscienza entrando nel mondo adulto e sulla ricerca di un proprio ruolo, beh, in qualche maniera colpiscono sempre. Mi sembra un mondo emotivo che viene troppo spesso evitato pensando che gli unici possibili fruitori siano i coetanei di chi è messo in scena, ma questi non hanno fatto i conti col Cacace eterno Trofimov, eh. Qui abbiamo il metallaro marcio Hunter, orfano di madre e con padre ricco e anafettivo, che attraverso la musica cerca una sua affermazione, una considerazione sociale (e poi fama, ragazze etc.). Si accompagna all’improbabile batterista Kevin, bravo ragazzo e tamburino nella banda scolastica, che prova a convertire al credo metal più estremo. L’incontro di Kevin con una violoncellista drop out scatenerà confronti, gelosie e infine un’improbabile soluzione musicale e affettiva che vedrà i nostri protagonisti crescere e cambiare. Insomma, niente che non abbiamo già visto in ogni coming of age movie ma la scelta della musica metal dà un sapore interessante alla vicenda e, seppure tagliando tutto con l’accetta, del mondo dell’heavy metal vengono colte diverse cose azzeccate. La musica come forma di opposizione al mondo là fuori, la fuga, il piano fantastico che consente di trascendere la realtà orrenda che ci circonda. Sembra banale ma se uscite dai vostri schemi mentali (talvolta ricalcati in modo uguale e contrario dagli esagitati che pretendono di poter definire cosa sia il VERO metal), beh, il metal è una delle musiche più libere, libertarie e inclusive che esistano. Musica talvolta fracassona (e quale non lo è, e non parlo di volume), sicuramente escapista ma anche onestamente antagonista e capace di esprimere una angoscia sincera. Poi, certo, c’è il mercato, le baracconate, i costumi, i cliché, ma niente che non avvenga anche in tutti gli altri generi della musica popolare contemporanea però spesso senza l’anima e l’integrità che l’heavy metal ha maturato nel tempo. E nei barlumi di intimità e di onestà che vengono fuori nella seconda parte del film io vedo tantissimo metal, ecco, e non credo che la scelta di questo genere sia stata soltanto perché dà colore e perché ha in fondo un immaginario riconoscibile e viene subito compresa come classica musica oppositiva. No, c’è una comprensione molto consapevole. Vabbeh, non sto a menare più il torrone: cercatevi L’estetica del metallaro di Luca Signorelli e capirete meglio quanto vo dicendo confusamente. Alla fine piccolo film gradevole. (Netflix, 30/5/22)

1958 – Reservation Dogs di Taika Waititi e Sterlin Harjo, USA 2021
Quattro ragazzini di origine indiana in una riserva dell’Oklahoma. Pomeriggi indolenti, ricerca di un senso esistenziale e la decisione di dare una svolta alla propria vita fuggendo in California. Serie assolutamente originale, con cast e crew totalmente composti da nativi, conquista per lo stile scanzonato ma anche linguisticamente innovativo e dopo 5 minuti adori questi adorabili misfits delle pianure e ti sembrano gli unici americani per cui tenere in questo momento. Sotto traccia ma evidente c’è un orgoglio e una rivendicazione nei confronti dell’uomo bianco e del sistema capitalistico che ha fottuto tutto, il rapporto con la natura, con l’alimentazione, con la società, un modo discreto e intelligente per porre una critica alla realtà esistente, ma senza piagnistei o slogan a buon mercato. È tutto, ai miei occhi ingenui, molto… indiano. Sì, perché poi c’è sicuramente del razzismo mio inconscio nel liricizzare tutto, nel considerarli tutti belli e buoni perché vittime. Però, fuck yeah, che delicatezza, che leggerezza, che saggezza. Ogni tanto una sorpresa, finalmente. Bravi tutti, a partire da Taika Waititi – produttore – che evita sempre il predicatorio e il sentiero già battuto e sa mettere a frutto le possibilità che cerca e trova. Caruccio! (Disney+, giugno 2022)

1960 – Lightyear – La vera storia di Buzz di Angus MacLane, USA 2022
Da grande appassionato della saga di Toy Story arrivata ad apparente conclusione col magnifico quarto capitolo, avevo qualche dubbio su questo Lightyear, visto anche il tenore qualitativo calante delle ultime uscite della Pixar. Poi il caldo e la temperatura rilevata in casa (29°) mi hanno convinto che fosse il caso di andare al cinema a prendermi un bell’accidente sotto un getto di aria condizionata gelida. Dunque: Lightyear è una derivazione curiosa, sarebbe il film che nel 1995 avrebbe convinto Andy a farsi regalare il giocattolo dell’esploratore spaziale che sarebbe diventato rivale del cowboy Woody nel primo Toy Story. Con questa premessa siamo su tutt’altro piano, insomma, cosa che giustifica anche l’adozione di un diverso segno grafico (peraltro clamoroso dal punto di vista tecnico, fotograficamente e scenograficamente). Ma in sala nessun genitore sembra sapere di questa deviazione narrativa e in effetti la distanza dalla grazia e dall’accessibilità dei vari Toy Story è siderale. Dopo una prima parte claudicante il film mette il turbo e accumula azione su azione, risultando alla fine anche passabile, proprio perché accumula e distrae. Ma non c’è mai magia, incantamento, poesia: la morale molto blanda è che l’unione faccia la forza, che l’individualismo non paghi e che è possibile anche sbagliarsi perché dagli errori si impara. Nessuno mette in dubbio la bontà dei messaggi ma manca un’epica che dia forza a queste semplici asserzioni. E anche una partecipazione: qui il massimo del coinvolgimento è riconoscere qualche citazione o vedere la riproposizione dell’immaginario degli anni Ottanta (soprattutto Guerre stellari). Una SF non troppo high tech, un po’ cicciotta e rugginosa che si trovava – per esempio – anche in tanto fumetto argentino (Juan Gimenez è il primo che mi viene in mente). Perlomeno questo ricordo io. La sala è zeppa di bambini che durante la proiezione sono stati spaventati o annoiati da un film che sostanzialmente è un’avventura fantascientifica che alterna momenti di tensione e altri più leggeri (affidati per lo più a un gatto robot) ma che non si direbbe un film per l’infanzia in senso stretto. I vari Toy Story avevano la grande ricchezza di poter essere affrontati a diversi livelli (seppure la tensione sia sempre stato un elemento presente), qui il mish mash non è riuscito, con i sapori che non si amalgamano e alla fine Lightyear è al massimo un divertissement per gli adulti e qualcosa di troppo complicato per i piccini, all’insegna generale di un po’ di noia. Trama: l’esplorazione di un pianeta alieno inospitale costringe alla fuga Buzz Lightyear e altri due Space Ranger ma a causa di un suo errore di manovra lui e tantissimi compagni in ibernazione e poi scongelati diventano naufraghi spaziali. Il protagonista prova invano con voli a velocità relativistica a cercare il modo di scappare ma ad ogni volo da 4 minuti passano 4 anni sul pianeta. Per cui Buzz non invecchia ma quelli intorno a lui sì, visto che s’incaponisce a provare e riprovare. Questa prima parte è abbastanza amorfa, vorrebbe sintetizzare poeticamente gli anni che passano e invece risulta molto fredda. Il film acquisisce un po’ di ritmo quando Buzz trova un modo per risolvere i problemi di una comunità che in realtà s’è adattata e s’è fatta una vita e da lì scaturiscono nuove avventure, dubbi, scoperte e nemici. Si arriva all’ora e mezza canonica, ti passa, ma rimane l’insoddisfazione per un prodotto senza vera necessità se non vendere pupazzi e astronavi. Alcuni hanno criticato il cencellismo politicamente corretto che vede personaggi di diverse etnie e (pensa!) addirittura un castissimo bacio omosessuale. Il fatto che si notino con fastidio queste scelte dimostra quanto sia ancora dura digerire che non sempre i protagonisti siano uomini bianchi etero e che non si arrivi a capire che, cinicamente, non solo sta cambiando la testa della gente ma anche dei consumatori. Tirando le somme, meglio così, finché certe scelte non vanno a inficiare la qualità del film. Che ripeto, è un MEH senza entusiasmo, ma non per questi motivi. (Cinema Anteo CityLife, Milano, 18/6/22)

1961 – Occhiali neri di Dario Argento, Italia/Francia 2022
Flop micidiale, maltrattato dalla critica e irriso da molti appassionati del genere, l’ho visto pregustando un fetecchione di cui sghignazzare e invece, beh beh beh. Oddio: ci sono attori con l’espressività di un cactus, serviti pure male da un copione che sembra scritto per luoghi comuni e frasi fatte; il plot poi è di una semplicità quasi commovente. Dopo Nonhosonno del 2001 io Argento lo avevo evitato con cura ma se potete sorvolare su un finale realmente cagnesco e sulle cose di cui a lui non è mai fregato nulla (per esempio proprio la recitazione) e invece vi piace quel suo cinema quasi infantile negli snodi e sviluppi, se apprezzate ancora la fotografia vivida col grandangolo sparato, i primissimi piani frontali, la natura ostile, la città metafisica e vuota e la musica che aggiorna il modello dei Goblin con iniezioni di elettronica, beh, allora questo Occhiali neri non è proprio proprio malaccio. Oddio: è un film fuori dal tempo, sì, non ci piove, ma fare gli indignati ora quando Argento già perdeva colpi dalla fine degli anni Ottanta mi sembra ingeneroso. Io qui vedo la zampata del vecchio leone, debole, scomposta, ma non posso che volergli bene, anche e soprattutto se per dare un brivido in più mette una fumettistica Tigre di Martini in un ruscello nel bosco vicino a Formello (nella fattispecie dei serpenti!). (A chi sa cosa sia una Tigre di Martini offro una birra). La protagonista principale, Ilenia Pastorelli, mi è sembrata pure brava e nel cast c’è anche la mia vecchia conoscenza Asia Argento (vedi alla recensione 582 qui). Insomma, dài: per me è un 6 stiracchiato ma lo do con affetto. (Prime, 25/6/22)

1962 – Midsommar – Il villaggio dei dannati di Ari Aster, USA/Svezia 2019
La protagonista Dani è reduce dalla morte dei genitori e della sorella suicida e il suo ragazzo, Christian – spalleggiato dai suo amici studenti di antropologia – la evita. Un viaggio tutti assieme in Svezia per assistere a una cerimonia folkloristica pagana sembra il modo per ricomporre i cocci della relazione, per trovare una semplicità, una purezza, per pulirsi dalle tossine della società urbana occidentale. Appena inizia il soggiorno in un bucolico villaggio svedese fuori dal tempo, ho pensato: ma è The Wicker Man (vedi rece 460, qui)! E questa consapevolezza mi ha tolto un po’ del divertimento. L’aggiornamento è elaborato (mascolinità tossica, presunzione nordamericana, cristianesimo prepotente e ipocrita) e servito in una veste registica sontuosa, con scenografie e fotografia clamorose. Bravi anche gli attori ad assecondare un clima paradossalmente sereno e allucinato e sempre più allarmante. Il film è lunghetto ma devo dire che regge bene, non riesci a mollarlo: la costruzione alterna scene più elaborate ad altre veloci e la corsa verso l’epilogo è inesorabile e non puoi che condividere il sorrisetto soddisfatto con cui si conclude la vicenda. Alla fine sono contentone e ho pure fatto un mezzo pensiero a darmi a un orgiastico ritorno neopagano in mezzo a bionde svedesotte, l’estate prossima. Forse non trovo Midsommar così magnifico come avevo letto, nel senso che è quasi lezioso nella magnificenza della messa in scena, però, ecco, senti lo stacco con un film come Occhiali neri, lo ammetto. (Prime, 26/6/22)

1964 – Most Beautiful Island di Ana Asensio, 2017
Film indipendente firmato dall’attrice protagonista, una sorta di horror realistico perché la realtà per una immigrata senza documenti negli Stati Uniti è terrore puro, sempre. Certo, io poi sono uno spettatore plagiato in partenza: mi ha sempre messo angoscia vedere la vita di tutti i giorni per le strade di New York, sia nei film sia quando ci sono passato tra 2001 e 2019, come se immaginassi già che quella immensa fornace risparmierà qualcuno che fungerà da trabocchetto per la trappola del Grande Sogno Americano in cui cadranno e bruceranno, prima o poi, tutti gli altri. Luciana è nella Grande Mela, a Manhattan, nell’“isola più bella”, per qualche casino combinato a Barcellona, dove non vuole tornare. Non ha un dollaro bucato e non sa come fare per tirare avanti. Accetta un lavoro propostole da una immigrata russa con cui ha fatto volantinaggio per strada: 2000 dollari e nessuna domanda. Si trova così invischiata in un gioco pericolosissimo per lo spasso di una manica di ricchi stronzi che scommettono sulle vite di alcune belle ragazze. E se prima l’orrore era quello della nuda esistenza combattendo la povertà in una società che nella povertà vede uno stigma e una colpa, adesso l’orrore è reale e ci si gioca la vita in pochi minuti sollazzando gente annoiata. Il film inquieta e poi fa venire il classico spaghetto con una scena nel prefinale da angoscia autentica, con te che ti contorci sul divano, ti tormenti le mani e provi a distogliere lo sguardo da quell’insostenibile televisore. Beh, ottimo, purtroppo. Cinematografia secca, veloce, essenziale per un film ben accolto ovunque e in effetti di valore alto: tiene sulla corda senza annacquare il proprio messaggio politico. Niente niente male. (1/7/22)

1966 – 2022: I sopravvissuti di Richard Fleischer, USA 1973
Soylent Green, rivisto in originale, è un solido film di fantascienza apocalittica del 1973 che data al 2022 il collasso della terra e del sistema. Direi che 50 anni dopo il genere da fantascientifico è diventato realistico e la situazione che si prospetta in pellicola s’è praticamente realizzata: nel film fa un caldo fottuto (30°, vabbeh: MAGARI!), i ricchi sono ricchissimi e godono ancora di carne, acqua e verdure fresche e gli altri poveracci sopravvivono per strada (vedi Los Angeles e San Francisco come son ridotte adesso, per dire) e si cibano di alimentari confezionati artificiali o sintetizzati. La trama vede il poliziotto Thorn (l’aitante Charlton Heston che sembra un Francesco Totti spigoloso) indagare sulla morte di tal Simonson, uno dei dirigenti della Soylent, l’azienda monopolista che produce cibo ridotto in gallette e liquidi. Thorn capisce che il suo assassinio è stato commissionato per eliminare un testimone scomodo di quanto stia accadendo e la sua investigazione va di pari passo all’uccisione di altri che sanno troppo. Il film è intrigante, clamorosamente azzeccato e tutto sommato tiene bene quanto ad azione e belle sequenze. Vale più per le cose che dice, però, che per la cinematografia in sé e, anche se mi ha mandato a letto con una certa inquietudine, ha meritato il mio tempo. All’epoca godette di alterna fortuna critica ma – thanks to Wikipedia – è da notare il giudizio sprezzante della recensora che si alternava con Pauline Kael sulle pagine del New Yorker, Penelope Gilliatt, che reagì scrivendo che in quella situazione ci sarebbe stata una reazione popolare e sarebbe bastato andare a votare per evitare il collasso della società. Vivesse oggi questa tizia prenderebbe la cittadinanza italiana solo per votare Italia Viva, viste le tante castronerie scritte in una sola recensione. E vabbeh. Film profetico, ad ogni modo, e allarmante. Ma vedrete che se votate come diceva la Gilliatt si risolve tutto, eh! (2/7/22)

1970 – La mala di Chiara Battistini e Paolo Bernardelli, Italia 2022
Molto molto riuscito. Il racconto degli anni Settanta a Milano, con la città fulcro prima della mala delle rapine e delle bische, poi dei sequestri e infine della grande malavita organizzata e delle mafie. Il ritratto è ricco, con belle testimonianze e interventi sia dei protagonisti – guardie e ladri – sia di magistrati, amici, giornalisti e avvocati. Il montaggio è ben gestito, con gran ritmo, musiche scelte con gusto e grafiche azzeccate. Si è travolti da tante informazioni, forse fin troppe, ma viene fuori il sentimento di un’epoca, di un altro mondo, e vengono meno anche certi racconti un po’ idealizzati di una mala romantica: questi erano delinquenti veri e assassini, magari con un loro codice d’onore e sicuramente un’umanità che viene fuori dalle interviste molto intense, ma di fronte alla riga di ammazzamenti raccontati, vendette incrociate e regolamenti di conti, per dire, ecco che il bel René – Vallanzasca, protagonista assoluto – sembra meno simpatico e guascone di quanto ci avesse raccontato Carlo Bonini ne Il fiore del male. Ad ogni modo: serie documentaria monumentale, bravissimi gli autori Battistini e Bernardelli, complimenti. (Luglio 2022, Sky)

(Fine – 86)

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L’anno degli anniversari / 1971 – 2021: FUORI tutti! https://www.carmillaonline.com/2021/10/06/lanno-degli-anniversari-1971-2021-fuori-tutti/ Wed, 06 Oct 2021 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68386 di Sandro Moiso

I met her in a club down in old Soho Where you drink champagne and it tastes just like Cherry Cola C-O-L-A Cola She walked up to me and she asked me to dance I asked her her name and in a dark brown voice she said, “Lola” L-O-L-A Lola, lo lo lo lo Lola (Ray Davies, the Kinks – Lola, 1970)

Ray Davies, cantante, chitarrista e leader dei Kinks, uno dei più longevi gruppi rock inglesi, ricorda come ad un concerto a New York della band, durante [...]]]> di Sandro Moiso

I met her in a club down in old Soho
Where you drink champagne and it tastes just like
Cherry Cola
C-O-L-A Cola
She walked up to me and she asked me to dance
I asked her her name and in a dark brown voice she said, “Lola”
L-O-L-A Lola, lo lo lo lo Lola

(Ray Davies, the Kinks – Lola, 1970)

Ray Davies, cantante, chitarrista e leader dei Kinks, uno dei più longevi gruppi rock inglesi, ricorda come ad un concerto a New York della band, durante gli anni ’70, al momento dell’esecuzione del brano “Lola”, uno dei primi a parlare apertamente di un rapporto omosessuale, centinaia di drag queen newyorkesi si levassero in piedi, tutte insieme, per cantare, parola per parola, ancheggiando e ballando, l’intera canzone insieme a lui e al gruppo.

Per avere un’idea più precisa di cosa ciò significasse, almeno sul piano dell’immagine, occorrerebbe far riferimento alla copertina del primo disco dei New York Dolls (1973), antesignani del punk di quella stessa città1, al travestitismo provocatorio del glam rock oppure alle scorrerie proto-punk di Wayne County (che in seguito avrebbe cambiato il suo nome d’arte in Jayne County) e i suoi Electric Chairs con brani dal titolo più che esplicito come Cream in My Jeans e Toilet Love.

Senza poi dimenticare che il tutto era stato preceduto e accompagnato dalle straordinarie provocazioni artistiche, filmiche e musicali di Andy Warhol e della sua Factory; a testimonianza di una sfida che nel suo manifestarsi in pubblico con tutta la forza di un’autentica e incontenibile joie de vivre rappresentava, prima di qualsiasi altra cosa, un’aperta e trasgressiva rivendicazione di alterità e libertà.

Well, I’m not the world’s most physical guy
But when she squeezed me tight she nearly broke my spine
Oh my Lola, lo lo lo lo Lola
Well, I’m not dumb but I can’t understand
Why she walked like a woman but talked like a man
Oh my Lola, lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Un atteggiamento che esplodeva e si dichiarava proprio in virtù di un clima “rivoluzionario” che in quegli anni percorreva l’Occidente; in cui le lotte degli studenti, degli operai, degli afro-americani (solo per citarne alcune) aprivano conseguentemente le porte ad una radicale presa di coscienza di sé e dei propri inalienabili diritti da parte delle donne e di tutti coloro vivessero, nel loro intimo e sulla propria pelle, tutte le conseguenze dei pregiudizi morali, sociali e famigliari che derivavano da un diverso orientamento sessuale e da una collocazione di genere che usciva dai confini di quella “normalità” che era considerata ancora come l’unica possibile. Creando un clima in cui, per la prima volta, l’unità nella lotta per la liberazione dall’oppressione perbenista borghese e capitalista portava in luce anche quelle, che allora ma troppo spesso ancora oggi, costituivano alcune delle contraddizioni più profonde della società e dei singoli individui atomizzati.

Well, we drank champagne and danced all night
Under electric candlelight
She picked me up and sat me on her knee
She said, “Little boy, won’t you come home with me?”
Well, I’m not the world’s most passionate guy
But when I looked in her eyes
Well, I almost fell for my Lola
Lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola
Lola, lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Sull’onda di tutto ciò, nasceva a Torino nel 1971 il FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) di cui ricorre in questi giorni il cinquantenario della formazione.
L’associazione, inizialmente di ispirazione marxista, era stata fondata dal libraio Angelo Pezzana, cui si doveva anche l’apertura della prima libreria “internazionale”, Hellas, autenticamente alternativa della città, ricca di opuscoli marxisti e giornali, soprattutto in lingua inglese e francese, dediti all’informazione controculturale, ed altri attivisti. L’acronimo faceva riferimento al FHAR francese (Front homosexuel d’action révolutionnaire) e all’espressione inglese coming out.

In realtà era stata preceduta dal lavoro di gruppi di omosessuali di varie città italiane che dall’autunno del 1970 si incontrarono per discutere dei problemi che affliggevano gli omosessuali italiani: il gruppo aveva assunto il nome di ASPS, “Associazione di Studi Psico-Sociali”, quindi ancora nascondendo l’identità gay. Nel Fuori!, intorno alla primavera del 1971, confluì anche il Fronte di Liberazione Omosessuale (FLO) fondato sempre nel 1971, dando così vita alla prima grande associazione gay italiana che, nei primi tempi della sua esistenza, avrebbe posto la questione dei diritti degli omosessuali nell’ambito del conflitto di classe tra borghesi e proletari, operando pertanto una rottura netta e totale con tutto quel che l’aveva preceduta fino a quel momento.

Angelo Pezzana enunciava in un editoriale sul primo numero del Fuori! le rivendicazioni dell’associazione: «Noi oggi rifiutiamo quelli che parlano per noi. […] Per la prima volta degli omosessuali parlano ad altri omosessuali. Apertamente, con orgoglio, si dichiarano tali. Per la prima volta l’omosessuale entra sulla scena da protagonista, gestisce in prima persona la sua storia […]. Il grande risveglio degli omosessuali è cominciato. È toccato a tanti altri prima di noi, ebrei, neri (ricordate?), ora tocca a noi. E il risveglio sarà immediato, contagioso, bellissimo».
La prima uscita pubblica di un certo rilievo avvenne il 5 aprile 1972, con la contestazione del I Congresso Italiano di Sessuologia a Sanremo, mentre in seguito il movimento avrebbe finito col federarsi con il Partito Radicale nel 1974 e la rivista sarebbe stata edita fino al 1982.

I pushed her away
I walked to the door
I fell to the floor
I got down on my knees
Then I looked at her, and she at me
Well, that’s the way that I want it to stay
And I always want it to be that way for my Lola
Lo lo lo lo Lola
Girls will be boys, and boys will be girls
It’s a mixed up, muddled up, shook up world
Except for Lola
Lo lo lo lo Lola

Oggi, presso il “Polo del 900” a Torino (dal 23 settembre al 24 ottobre), una mostra ne racconta la storia, anno per anno, attraverso fotografie, filmati, ricordi e testimonianze (vignette, copertine, manifesti). Il presidente del museo Diffuso della Resistenza, Roberto Mastroianni, ha dichiarato che: «Questa mostra ribadisce come il movimento, alla nascita, fosse autoironico e gioioso. Più di quanto non lo siano adesso certe sfumature e certi accenti. Fu una rivoluzione anche simbolica che ruppe l’ipocrisia nel Paese, anche verso quegli intellettuali che omosessuali lo erano, ma tendevano a non farlo vedere”.

Esplodeva la società ed esplodevano le contraddizioni, individuali e collettive, trascinando le lotte in un flusso generale e diffuso in cui l’individualità e il diritto individuale diventavano per forza di cose diritto collettivo all’espressione della propria classe, della propria generazione, del proprio genere e sesso e della comune e vitalistica volontà di vivere una vita che fosse finalmente altra e degna di tal nome in ogni sua manifestazione.

Well, I’d left home just a week before
And I’d never ever kissed a woman before
But Lola smiled and took me by the hand
She said, “Little boy, gonna make you a man”
Well, I’m not the world’s most masculine man
But I know what I am and I’m glad I’m a man
And so is Lola
Lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Ora, però, Angelo Pezzana ricorda:

“ho fatto il libraio per 23 anni in una città molto provinciale. Ed essendo un omosessuale che non ha mai avuto intenzione di nasconderlo, ho subito dato un’impostazione di questo genere al mio negozio. La clientela, però, era assolutamente etero (portavo anche copie di Playboy che all’epoca non era distribuito in Italia). Presto è diventata un’alleanza naturale senza ideologie, lontana anche dalle forze di sinistra che all’epoca erano considerate rivoluzionarie. Ma eravamo considerati inutili. Anche nelle manifestazioni per il 25 aprile o il 1° maggio venivamo lasciati al fondo. Noi non abbiamo mai inventato una teoria o una ideologia, non abbiamo mai avuto una linea e si spaziava dai marxisti ai liberali. Quando sento parlare di teoria gender, mi tiro indietro. […] Sembra di parlare di secoli fa, ma basta pensare che anche solo 50 anni fa non si era mai scritta la parola ‘omosessuale’ su un giornale Italiano”2.

Certamente rimane un fondo di amarezza nel ricordo di come certa sinistra, prima degli ulteriori sconvolgimenti portati dal ’77, non avesse il coraggio di affrontare questioni che il movimento generale della società nel suo insieme già poneva all’ordine del giorno e che furono pienamente comprese soltanto da sparuti gruppi del comunismo critico radicale.

Ma ancora più amaro è il calice che occorre oggi ingerire sugli stessi fenomeni e bisogni che, nonostante una maggior visibilità sociale del movimento LGBTQ, sono stati troppo spesso trasformati in rivendicazioni, queste sì oggi digeribili dalla stessa ipocrita sinistra che in quegli anni non seppe e non volle farsene carico in maniera conseguente, tese a riproporre la famiglia borghese monogama e perbenista come base di ogni riconoscimento. Con buona pace del mio amico Arnaldo che ancora, nei primi anni ’80, rivendicava: «Noi omosessuali siamo gli unici veri rivoluzionari, poiché miniamo la società fin dalle sue fondamenta patriarcali e famigliari.»

Così, nonostante una certa trasgressività formale e una certa tolleranza esibita nei giorni dei “pride” ma circondate ancora dal buio del pregiudizio diffuso, all’epoca del ritorno ad una concezione del diritto che, ancora troppo spesso inteso soltanto come specifico e strettamente individuale, diventa la vera tomba di ogni ipotesi rivoluzionaria, di quella intensa e infervorata stagione sembrano rimanere soltanto le ceneri ipocrite.

L’insipido dibattito parlamentare sul disegno di legge Zan, l’ulteriore abuso ai danni del corpo femminile operato per mezzo della pratica, data per scontata, dell’utero “in affitto”3 e l’aspirazione alla formazione “ad ogni costo” di una famiglia mononucleare e borghesissima, della quale, in un tempo non lontano, si sarebbe invece rivendicata la soppressione definitiva. Peccato, davvero, per una grande occasione mancata.


  1. Il cui manager Malcom McLaren avrebbe trasmesso la propria e loro esperienza ai Sex Pistols, ancora in formazione, negli anni immediatamente successivi  

  2. Intervistato in: Torino va “Fuori!”: una mostra al Polo del 900 per i 50 anni del primo movimento omosessuale in Italia, TorinOggi.it, 23 settembre 2021  

  3. Sull’argomento si confronti almeno: Melinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015 (qui la recensione su Carmilla).  

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