New York Dolls – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’anno degli anniversari / 1971 – 2021: FUORI tutti! https://www.carmillaonline.com/2021/10/06/lanno-degli-anniversari-1971-2021-fuori-tutti/ Wed, 06 Oct 2021 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68386 di Sandro Moiso

I met her in a club down in old Soho Where you drink champagne and it tastes just like Cherry Cola C-O-L-A Cola She walked up to me and she asked me to dance I asked her her name and in a dark brown voice she said, “Lola” L-O-L-A Lola, lo lo lo lo Lola (Ray Davies, the Kinks – Lola, 1970)

Ray Davies, cantante, chitarrista e leader dei Kinks, uno dei più longevi gruppi rock inglesi, ricorda come ad un concerto a New York della band, durante [...]]]> di Sandro Moiso

I met her in a club down in old Soho
Where you drink champagne and it tastes just like
Cherry Cola
C-O-L-A Cola
She walked up to me and she asked me to dance
I asked her her name and in a dark brown voice she said, “Lola”
L-O-L-A Lola, lo lo lo lo Lola

(Ray Davies, the Kinks – Lola, 1970)

Ray Davies, cantante, chitarrista e leader dei Kinks, uno dei più longevi gruppi rock inglesi, ricorda come ad un concerto a New York della band, durante gli anni ’70, al momento dell’esecuzione del brano “Lola”, uno dei primi a parlare apertamente di un rapporto omosessuale, centinaia di drag queen newyorkesi si levassero in piedi, tutte insieme, per cantare, parola per parola, ancheggiando e ballando, l’intera canzone insieme a lui e al gruppo.

Per avere un’idea più precisa di cosa ciò significasse, almeno sul piano dell’immagine, occorrerebbe far riferimento alla copertina del primo disco dei New York Dolls (1973), antesignani del punk di quella stessa città1, al travestitismo provocatorio del glam rock oppure alle scorrerie proto-punk di Wayne County (che in seguito avrebbe cambiato il suo nome d’arte in Jayne County) e i suoi Electric Chairs con brani dal titolo più che esplicito come Cream in My Jeans e Toilet Love.

Senza poi dimenticare che il tutto era stato preceduto e accompagnato dalle straordinarie provocazioni artistiche, filmiche e musicali di Andy Warhol e della sua Factory; a testimonianza di una sfida che nel suo manifestarsi in pubblico con tutta la forza di un’autentica e incontenibile joie de vivre rappresentava, prima di qualsiasi altra cosa, un’aperta e trasgressiva rivendicazione di alterità e libertà.

Well, I’m not the world’s most physical guy
But when she squeezed me tight she nearly broke my spine
Oh my Lola, lo lo lo lo Lola
Well, I’m not dumb but I can’t understand
Why she walked like a woman but talked like a man
Oh my Lola, lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Un atteggiamento che esplodeva e si dichiarava proprio in virtù di un clima “rivoluzionario” che in quegli anni percorreva l’Occidente; in cui le lotte degli studenti, degli operai, degli afro-americani (solo per citarne alcune) aprivano conseguentemente le porte ad una radicale presa di coscienza di sé e dei propri inalienabili diritti da parte delle donne e di tutti coloro vivessero, nel loro intimo e sulla propria pelle, tutte le conseguenze dei pregiudizi morali, sociali e famigliari che derivavano da un diverso orientamento sessuale e da una collocazione di genere che usciva dai confini di quella “normalità” che era considerata ancora come l’unica possibile. Creando un clima in cui, per la prima volta, l’unità nella lotta per la liberazione dall’oppressione perbenista borghese e capitalista portava in luce anche quelle, che allora ma troppo spesso ancora oggi, costituivano alcune delle contraddizioni più profonde della società e dei singoli individui atomizzati.

Well, we drank champagne and danced all night
Under electric candlelight
She picked me up and sat me on her knee
She said, “Little boy, won’t you come home with me?”
Well, I’m not the world’s most passionate guy
But when I looked in her eyes
Well, I almost fell for my Lola
Lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola
Lola, lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Sull’onda di tutto ciò, nasceva a Torino nel 1971 il FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) di cui ricorre in questi giorni il cinquantenario della formazione.
L’associazione, inizialmente di ispirazione marxista, era stata fondata dal libraio Angelo Pezzana, cui si doveva anche l’apertura della prima libreria “internazionale”, Hellas, autenticamente alternativa della città, ricca di opuscoli marxisti e giornali, soprattutto in lingua inglese e francese, dediti all’informazione controculturale, ed altri attivisti. L’acronimo faceva riferimento al FHAR francese (Front homosexuel d’action révolutionnaire) e all’espressione inglese coming out.

In realtà era stata preceduta dal lavoro di gruppi di omosessuali di varie città italiane che dall’autunno del 1970 si incontrarono per discutere dei problemi che affliggevano gli omosessuali italiani: il gruppo aveva assunto il nome di ASPS, “Associazione di Studi Psico-Sociali”, quindi ancora nascondendo l’identità gay. Nel Fuori!, intorno alla primavera del 1971, confluì anche il Fronte di Liberazione Omosessuale (FLO) fondato sempre nel 1971, dando così vita alla prima grande associazione gay italiana che, nei primi tempi della sua esistenza, avrebbe posto la questione dei diritti degli omosessuali nell’ambito del conflitto di classe tra borghesi e proletari, operando pertanto una rottura netta e totale con tutto quel che l’aveva preceduta fino a quel momento.

Angelo Pezzana enunciava in un editoriale sul primo numero del Fuori! le rivendicazioni dell’associazione: «Noi oggi rifiutiamo quelli che parlano per noi. […] Per la prima volta degli omosessuali parlano ad altri omosessuali. Apertamente, con orgoglio, si dichiarano tali. Per la prima volta l’omosessuale entra sulla scena da protagonista, gestisce in prima persona la sua storia […]. Il grande risveglio degli omosessuali è cominciato. È toccato a tanti altri prima di noi, ebrei, neri (ricordate?), ora tocca a noi. E il risveglio sarà immediato, contagioso, bellissimo».
La prima uscita pubblica di un certo rilievo avvenne il 5 aprile 1972, con la contestazione del I Congresso Italiano di Sessuologia a Sanremo, mentre in seguito il movimento avrebbe finito col federarsi con il Partito Radicale nel 1974 e la rivista sarebbe stata edita fino al 1982.

I pushed her away
I walked to the door
I fell to the floor
I got down on my knees
Then I looked at her, and she at me
Well, that’s the way that I want it to stay
And I always want it to be that way for my Lola
Lo lo lo lo Lola
Girls will be boys, and boys will be girls
It’s a mixed up, muddled up, shook up world
Except for Lola
Lo lo lo lo Lola

Oggi, presso il “Polo del 900” a Torino (dal 23 settembre al 24 ottobre), una mostra ne racconta la storia, anno per anno, attraverso fotografie, filmati, ricordi e testimonianze (vignette, copertine, manifesti). Il presidente del museo Diffuso della Resistenza, Roberto Mastroianni, ha dichiarato che: «Questa mostra ribadisce come il movimento, alla nascita, fosse autoironico e gioioso. Più di quanto non lo siano adesso certe sfumature e certi accenti. Fu una rivoluzione anche simbolica che ruppe l’ipocrisia nel Paese, anche verso quegli intellettuali che omosessuali lo erano, ma tendevano a non farlo vedere”.

Esplodeva la società ed esplodevano le contraddizioni, individuali e collettive, trascinando le lotte in un flusso generale e diffuso in cui l’individualità e il diritto individuale diventavano per forza di cose diritto collettivo all’espressione della propria classe, della propria generazione, del proprio genere e sesso e della comune e vitalistica volontà di vivere una vita che fosse finalmente altra e degna di tal nome in ogni sua manifestazione.

Well, I’d left home just a week before
And I’d never ever kissed a woman before
But Lola smiled and took me by the hand
She said, “Little boy, gonna make you a man”
Well, I’m not the world’s most masculine man
But I know what I am and I’m glad I’m a man
And so is Lola
Lo lo lo lo Lola, lo lo lo lo Lola

Ora, però, Angelo Pezzana ricorda:

“ho fatto il libraio per 23 anni in una città molto provinciale. Ed essendo un omosessuale che non ha mai avuto intenzione di nasconderlo, ho subito dato un’impostazione di questo genere al mio negozio. La clientela, però, era assolutamente etero (portavo anche copie di Playboy che all’epoca non era distribuito in Italia). Presto è diventata un’alleanza naturale senza ideologie, lontana anche dalle forze di sinistra che all’epoca erano considerate rivoluzionarie. Ma eravamo considerati inutili. Anche nelle manifestazioni per il 25 aprile o il 1° maggio venivamo lasciati al fondo. Noi non abbiamo mai inventato una teoria o una ideologia, non abbiamo mai avuto una linea e si spaziava dai marxisti ai liberali. Quando sento parlare di teoria gender, mi tiro indietro. […] Sembra di parlare di secoli fa, ma basta pensare che anche solo 50 anni fa non si era mai scritta la parola ‘omosessuale’ su un giornale Italiano”2.

Certamente rimane un fondo di amarezza nel ricordo di come certa sinistra, prima degli ulteriori sconvolgimenti portati dal ’77, non avesse il coraggio di affrontare questioni che il movimento generale della società nel suo insieme già poneva all’ordine del giorno e che furono pienamente comprese soltanto da sparuti gruppi del comunismo critico radicale.

Ma ancora più amaro è il calice che occorre oggi ingerire sugli stessi fenomeni e bisogni che, nonostante una maggior visibilità sociale del movimento LGBTQ, sono stati troppo spesso trasformati in rivendicazioni, queste sì oggi digeribili dalla stessa ipocrita sinistra che in quegli anni non seppe e non volle farsene carico in maniera conseguente, tese a riproporre la famiglia borghese monogama e perbenista come base di ogni riconoscimento. Con buona pace del mio amico Arnaldo che ancora, nei primi anni ’80, rivendicava: «Noi omosessuali siamo gli unici veri rivoluzionari, poiché miniamo la società fin dalle sue fondamenta patriarcali e famigliari.»

Così, nonostante una certa trasgressività formale e una certa tolleranza esibita nei giorni dei “pride” ma circondate ancora dal buio del pregiudizio diffuso, all’epoca del ritorno ad una concezione del diritto che, ancora troppo spesso inteso soltanto come specifico e strettamente individuale, diventa la vera tomba di ogni ipotesi rivoluzionaria, di quella intensa e infervorata stagione sembrano rimanere soltanto le ceneri ipocrite.

L’insipido dibattito parlamentare sul disegno di legge Zan, l’ulteriore abuso ai danni del corpo femminile operato per mezzo della pratica, data per scontata, dell’utero “in affitto”3 e l’aspirazione alla formazione “ad ogni costo” di una famiglia mononucleare e borghesissima, della quale, in un tempo non lontano, si sarebbe invece rivendicata la soppressione definitiva. Peccato, davvero, per una grande occasione mancata.


  1. Il cui manager Malcom McLaren avrebbe trasmesso la propria e loro esperienza ai Sex Pistols, ancora in formazione, negli anni immediatamente successivi  

  2. Intervistato in: Torino va “Fuori!”: una mostra al Polo del 900 per i 50 anni del primo movimento omosessuale in Italia, TorinOggi.it, 23 settembre 2021  

  3. Sull’argomento si confronti almeno: Melinda Cooper, Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi 2015 (qui la recensione su Carmilla).  

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Portare la guerra sul palco https://www.carmillaonline.com/2017/01/19/portare-la-guerra-sul-palco/ Wed, 18 Jan 2017 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36029 di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, [...]]]> di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, applausi e proteste di un pubblico sempre più esausto, per comprendere appieno il senso della frase della vocalist d’avanguardia riportata sopra e per assimilare anche solo in parte quale fu l’impatto provocato sul pubblico e sulla scena musicale degli anni ’70 dal duo composto da Alan Vega (nato Bermowitz, 1938 – 2016) e Martin Rev (nato Reverby, 1947).

Occorre però considerare che era dal 1970 che i due performer avevano iniziato a terrorizzare la scena musicale newyorkese con un misto di musica sperimentale eletttronica, vocalizzi esasperati e provocazioni fisiche nei confronti del pubblico (spesso scarsissimo) che impedì loro, per diversi anni, sia di individuare una casa discografica disposta ad incidere un loro disco che di trovare ingaggi continuativi nel locali in cui si esibivano gli altri musicisti della Grande Mela.

Kris Needs, giornalista e prolifico scrittore inglese, un tempo redattore per il New Musical Express e ZigZag, attraverso un lavoro di interviste durato sei mesi ricostruisce la loro storia, praticamente dalla nascita fino agli ultimi anni, con un’opera che intreccia la vita e le opere dei due musicisti con l’ambiente sociale, culturale e musicale in cui si trovarono a crescere e a veder maturare le proprie esperienze. Ma nel fare questo finisce col dar vita ad una delle opere più interessanti sulla storia culturale, architettonica e sociale di New York, dagli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta del XX secolo, che potrebbe anche costituire un ideale compendio novecentesco del lavoro svolto da Bruno Cartosio sulla storia della città tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.1

Suicide 1 Figli entrambi di famiglie della working class emigrate negli Stati Uniti dall’Europa Orientale a causa dei pogrom antisemiti, pur separati da una decina d’anni di età, i due futuri compagni di scorribande avanguardistico-musicali, ebbero modo di crescere in uno degli ambienti più vivaci dal punto di vista artistico-culturale della seconda metà del ‘900. La New York di Jackson Pollock, del Be bop e di Charlie Parker, della letteratura beat, del doo wop dei gruppi vocali di strada, di Miles Davis e della nascita del free jazz con Albert Ayler, John Coltrane e una schiera di altri musicisti afro-americani e bianchi dediti all’esplorazione delle sonorità più libere ed inaspettate, costituì infatti l’ambiente in cui Alan Vega e Martin Rev trascorsero l’adolescenza e la gioventù.

Un ambiente sul quale da lì a poco il rock’n’roll, la pop art e i suoni importati dall’Inghilterra avrebbero ulteriormente influito portando successivamente alla formazione di gruppi come i Velvet Underground legati alla Factory di Andy Warhol o come i Silver Apples, i primi a sperimentare forme di musica elettronica davanti ad un pubblico giovanile in attesa di un concerto rock.

In anni in cui i musicisti che si erano formati nello studio accademico della musica classica iniziavano a rompere le barriere tra i generi e, soprattutto, la barriera fittizia elevata da un sapere accademico classista e perbenista tra cultura alta e cultura bassa. Così come avevano fatto fin dal 1968 in Germania Irmin Schmidt e Holger Czukay, due ex-allievi di Karlheinz Stockhausen, dando vita ai Can. Un gruppo che non poco avrebbe influito sui futuri sviluppi della musica d’oltreoceano.

Anni, però, in cui gli Stati Uniti non avrebbero più smesso di essere in guerra, dalla Corea al Vietnam, dopo il predominio planetario assunto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Anni della cosiddetta guerra fredda che sarebbero sfociati in uno dei maggiori massacri imperialisti oltre oceano: quella guerra in Vietnam in cui furono coinvolti più di un milione di giovani americani, di cui quasi centomila tornarono in patria rinchiusi in un sacco nero e molti di più menomati fisicamente o psichicamente per il resto dei loro giorni.

Causando così al proprio interno una diffusa sollevazione popolare in cui giovani studenti bianchi, chiamati al servizio militare insieme ai loro coetanei neri, accanto ai militanti del Black Panther e ai reduci di una guerra imperialista insopportabilmente trasmessa dalle tv dell’epoca ad ogni ora del giorno, diedero vita ad un movimento che portò il paese quasi sull’orlo della guerra civile e che servì a ridestare sia i movimenti per i diritti civili degli afro-americani in patria che le coscienze dei giovani e dei lavoratori nel resto del mondo occidentale.

A tutto questo non poteva sfuggire l’ambiente musicale ed artistico bazzicato dai due che proprio sulla necessità di opporsi a quella guerra trovarono una prima base di accordo, sia artistico che amicale. Primi ad utilizzare il termine “punk” in tempi ancora non sospetti, diedero vita ad eventi che definirono all’inizio “punk mass”, traducibili sia con “massa di spazzatura” (con riferimento al muro di suoni prodotto) che con “messa per froci” (nell’accezione più offensiva di un termine che già serviva a definire qualcosa o qualcuno di bassa qualità) con un evidente provocatorio riferimento ad un tempo in cui il militarismo tendeva ad offrire un’immagine virile e forte dell’America in guerra.

Come afferma uno dei due: ”Convivevamo con la realtà della guerra e portavamo la guerra sul palco.Tutti ci odiavano”. Guerra alla guerra, ma anche guerra contro le convenzioni in cui la musica di una generazione veniva continuamente risucchiata, mentre “i due condividevano il desiderio comune di creare il manifesto più rumoroso e provocatorio possibile2
Alan avrebbe ricordato: “Suonavamo per ore e registravamo tutto. Dopo una sessione di circa tre ore, riascoltavamo quello che avevamo fatto e ci dicevamo «Siamo pazzi?». Ma lo adoravamo. Noi improvvisavamo, qualcosa che nessuno fa più. Da lì è arrivata anche la parte vocale. Non scrivemmo molte canzoni, ma continuavamo ad improvvisare, e lasciavamo che andasse da sé. Tutto venne fuori come fosse in stile free jazz”.3

Poiché le prove si svolgevano nel grande loft del Project of Living Artists, situato in una delle zone più degradate di Manhattan, di cui Alan era formalmente il custode, una notte il frastuono proveniente dalle alte finestre del locale attirò una folla nella strada sottostante, cosa che Alan avrebbe ricordato nei suoi colloqui con l’autore. “Suonavamo a volume davvero alto, direi assordante. Era una tiepida notte di primavera, stavamo suonando di brutto quando all’improvviso sentimmo della gente giù in strada dire «Ancora, ancora!». Guardai fuori dalla finestra e c’era, cazzo, un centinaio di ragazzini laggiù ad ascoltare noi che ci lasciavamo andare a questo flusso di coscienza sonoro. Non riuscivamo a crederci. Probabilmente si trattava dei fattoni di Washington Square Park”.4

Questo episodio può servire a testimoniare lo strano incontro tra rock’n’roll, elettronica, ricerca sonora e blues di strada che fini col costituire l’anima e il prodotto dei Suicide. Incontro magnificamente illustrato da un brano come Cheree, pubblicato nel primo album ufficiale registrato nel 1977 e prodotto da Marty Thau, capolavoro assoluto di quella che potrebbe essere definita poesia della strada e che consiglio ai lettori di ascoltare all’infinito mentre leggono questa recensione.

suicide 2 Questo insistere sull’improvvisazione, però, potrebbe far dimentica che almeno uno dei due , il tastierista Martin Rev, aveva avuto una educazione jazzistica tutt’altro che superficiale. Fu infatti allievo di un grande pianista misconosciuto come Lennie Tristano e, in seguito, ebbe modo di prendere lezioni da un percussionista fondamentale nella storia del jazz moderno come Tony Williams, di poco più vecchio e di cui divenne amico.

Un ambiente, quello del jazz tradizionale e soprattutto d’avanguardia, che non smise mai di affascinarlo e di ispirarlo e in cui ebbe modo di esibirsi al fianco di alcuni suoi importanti esponenti.
Alan invece iniziò la sua carriera artistica come scultore e creatore di strutture luminose, ricavate da materiali di scarto recuperati nelle strade oppure rubati qua e là. Una sorta di arte povera che in qualche modo si sarebbe poi anche riflessa negli strumenti utilizzati sul palco da Martin.

In un epoca in cui l’uso dell’elettronica in musica era ancora abbastanza limitato e in cui il Moog e il Theremin costituivano ancora gli unici “strumenti” disponibili sul mercato (a caro prezzo), i due si videro costretti ad inventare la strumentazione di cui avevano bisogno. Un po’ come già aveva fatto alla fine degli anni Sessanta Simeon Coxe III, tastierista dei Silver Apples, un duo costituito da lui e dal batterista Danny Taylor.

Come ha ricordato Alan ridendo: “Comprammo tutto per la somma di dieci verdoni perchè non potevamo permetterci di più: un organo giapponese scadente da cui non riuscivamo a cavare alcun suono e un ampli per basso […] Faceva schifo. Quindi iniziammo a comprare tutti questi booster per i toni acuti e per i bassi, oggettini da un dollaro che allora tutti volevano, delle puttanate elettroniche! Noi li saldammo insieme per ricavarne un altro suono. La tastiera di Marty aveva una fila intera di questi cosi e un sacco di comandi e altra roba. Schifo non è la parola giusta. Faceva più che schifo. Era straordinario! Era tutto un sound creato in base alla necessità di creare un sound perché non riuscivamo ad ottenere un sound. E venne fuori. Boom! Fu come il big bang!5

Una creazione artistica che, si potrebbe dire, più dal basso di così non avrebbe potuto iniziare. Eppure, eppure…gli album che ne sarebbero scaturiti, soprattutto i primi due ufficiali registrati rispettivamente nel 1977 e nel 1979, sarebbero stati destinati non a grandi vendite e successi, ma a modificare irrimediabilmente il gusto musicale dei decenni successivi. Due album di una discografia ridottissima (5 album in studio tra il 1977 e il 2002), ma “esagerata” fino alla fine. Come dimostra l’ultimo American Supreme, mal accolto (tanto per cambiare) dalla critica eppure violentissimo e ancora feroce nei confronti del sogno americano dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Kris Needs costruisce intorno alle vicende che avrebbero portato alla celebrità i due artisti newyorkesi un’opera “totale” in cui Sun Ra incrocia i Cramps e il glam dei New York Dolls si accompagna alle ricerche della musica d’avanguardia, mentre sullo sfondo nascono, crescono oppure letteralmente crollano come il Mercer, locali glamour e à la page oppure fatiscenti passati alla storia della musica come il Vanguard , il Max’s Kansas City, il CBGB e molti altri ancora. Così come gli imprenditori, talvolta legati al malaffare e talvolta soltanto appassionati di musica, che li animarono nel successo oppure che ne seguirono il rovinoso destino.

Tra personaggi come Fellini, Hendrix, Warhol, Burton Green, Joey Ramone e molti altri ancora l’autore ci guida così in una folle, appassionata e attenta ricostruzione della New York più vivace e attraente sia dal punto di vista musicale che intellettuale della seconda metà del Novecento. In cui , come in una canzone di De Andrè, i fiori nascono da un sottobosco urbano in cui drag queen, malavitosi, musicisti pieni di idee ma spiantati, snobismo, contraddizioni sociali enormi e povertà e tossicodipendenza diffusa hanno dato vita ad alcuni dei percorsi artistico-musicali più importanti del secolo appena trascorso.

Ancora una volta, dunque, occorre ringraziare le Edizioni Goodfellas per aver pubblicato il testo in italiano in una collana, la Spittle, di cui costituisce il terzo validissimo volume.


  1. Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917), Feltrinelli 2007  

  2. pag.108  

  3. pag.109  

  4. pag. 110  

  5. pag. 120  

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Questa musica non è normale https://www.carmillaonline.com/2016/09/28/questa-musica-non-normale/ Wed, 28 Sep 2016 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33511 di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, [...]]]> di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, ma siamo bravi a muovere il culo a tempo” (Poison Ivy)

Erick Lee Purkhiser (1947 – 2009) in arte Lux Interior, nome ispirato dalla grossolana pubblicità dei lussuosi interni di un’automobile, e Kristy Marlan Wallace (classe 1953) in arte Poison Ivy, nome ispirato sia da una delle più velenose nemiche di Batman che dal titolo di uno dei più celebri brani del quintetto doo-wop dei Coasters, hanno costituito una delle coppie più selvagge del rock’n’roll. Sulla scena e nella vita.

cramps_1 Al comando di uno sgangherato vascello che prendeva il nome dai dolori mestruali, Cramps, nonostante i numerosi cambiamenti tra i membri dell’equipaggio, ne hanno saldamente retto il timone per più di trent’anni, dai primi difficili esordi newyorchesi alla metà degli anni ’70 fino alla morte, per dissezione aortica, di Lux il 4 febbraio 2009. Su un oceano tempestoso fatto di mode passeggere, synth-pop, case discografiche interessate soltanto a trasformare l’oro della selvaggia violenza del primo rock’n’roll e del primissimo punk nella merda più adatta ad essere trasmessa con successo dalle radio del mainstream culturale e musicale, i due compagni di vita, di avventure e di suoni distorti hanno continuato intransigentemente a perseguire il loro scopo: portare il verbo del blues delle origini e del rockabilly del Sud degli Stati Uniti alle orecchie e attraverso la pelle di tutti i giovani ribelli che ancora non ne conoscevano l’esistenza.

Decisi a cantare la vitalità, l’energia e l’eccesso e ispirati dai B movie horror, sexploitation e di fantascienza non si sono arrestati davanti a nulla e non si sono lasciati intimorire mai, né dal conservatorismo musicale delle major, né tanto meno da quello delle presunte avanguardie art-rock e post-punk che li deridevano, né, ancor meno, da qualsiasi tipo di moralismo religioso, culturale o pseudo-politico.

Ha affermato Poison Ivy: “Suonando rock’n’roll noi siamo in qualche modo anche una blues band.Un sacco di gente dice che noi siamo troppo ossessionati dal sesso, come se questa fosse una tendenza anomala, ma non ho mai sentito dire che Muddy Waters fosse un maniaco sessuale per aver cantato «Little Red Rooster». O Willie Dixon, o Howlin’ Wolf, non sono mai stati definiti ossessionati dal sesso per via di ciò di cui cantavano, eppure l’argomento era sempre quello1

Riscoprire le radici autentiche del blues, non il presunto piagnisteo derivato dal canto nero cristianizzato e indirizzato a forza nei gospel e negli spiritual, ma l’esplosione di energia vitale e sessuale che aveva fatto sì che i bianchi benpensanti e puritani finissero col definirlo Musica del Diavolo. Quella eccitazione elettrizzante, sensuale e conturbante che gli accordi delle chitarre nere avevano trasferito a quei giovani bianche del Sud che, stufi di chiese metodiste e citazioni bibliche, avevano iniziato a portare giacche di cuoio, a truccarsi gli occhi col mascara come Elvis e a suscitare problemi di ordine pubblico nelle piccole comunità rurali e in quelle più grandi urbane.

cramps-nagasaki Juvenile delinquent, così li avrebbe definiti un sociologo americano degli anni ’50 che avrebbe così contribuito a scatenare una caccia alle streghe degna di Cotton Mather nei confronti di fumetti, libri tascabili, film, dischi e comportamenti che potessero offendere la buona morale cristiana, disturbare, anche solo con il rumore prodotto, la pace borghese e infrangere le norme patriarcali sociali e famigliari che avevano sempre e solo saputo produrre niente altro che noia, sfruttamento, diseguaglianza, morte e distruzione.

Dick Porter, in un magnifico libro che ricostruisce intelligentemente il ruolo avuto dal rock’n’roll nel modificare la società americana degli anni ’50 e ’60 e che si legge come un fumetto, accende l’animo di chi legge di insane passioni musicali e non solo e trasporta i lettori in un tornado di storie, avventure, delusioni, sconfitte e trionfi i cui eroi e protagonisti portano i nomi di Little Richard, Elvis Presley, Hasil Adkins, Link Wray, Duane Eddy, Gene Vincent, Charlie Feathers, The Phantom, Screamin’Jay Hawkins, Sonics, Shadows of Knight, Stooges, New York Dolls e molti altri ancora fino a Lux Interior e Poison Ivy. Tutti pericolosi in un modo o nell’altro. Tutti selvaggiamente vorticanti in un rito voodoo di suoni elettrici, frasi sconnesse ma urticanti e tutti ugualmente urlanti la loro rabbia o la loro gioia di vivere contro un mondo bigotto e falso.

cramps-3A proposito dei testi di molte di quelle effervescenti canzoni, Lux ebbe modo di sentenziare: “Penso che sia rischioso per i ragazzini non venire a contatto con questo genere di brani…crescono, vanno a scuola, trovano un lavoro e poi muoiono senza mai essersi divertiti davvero. Fate molta attenzione.2 E parlando di un grave incidente in cui era incorso uno dei suoi idoli, The Phantom, avrebbe poi in seguito aggiunto: “Una notte era ubriaco e volò giù da un dirupo con la macchina. Disse «Quando mi accorsi di essere paralizzato, mi sono incazzato davvero di brutto». E’ proprio un fuori di testa – tutti i vecchi rockabilly erano come lui, ed ecco come stavano le cose all’epoca. Erano troppo selvatici per darsi una calmata, quindi finivano nei burroni – questo è il rockabilly3

E fu proprio quella follia, quell’energia che i Cramps portarono prima sul palco del CBGB, nella Bowery in cui mossero i primi passi, e poi in tour per tutto il pianeta. A proposito delle esibizioni in Gran Bretagna, l’allora secondo chitarrista del gruppo, Kid Congo Powers, avrebbe in seguito ricordato: “Quegli show furono pazzi, magici, pervasi di voodoo e Lux fece cose incredibili sul palco, pericolose e folli, come saltar giù da una pila di casse o roteare il microfono con un cavo talmente lungo che pensavo che prima o poi mi avrebbe decapitato […] Legava le mie gambe con il filo del microfono e mi trascinava in giro per il palco mentre suonavo – di solito durante «Surfin’ Bird»4

cramps-2 Gli show dei Cramps corrispondevano allo spirito degli antenati che Lux e Ivy riportavano in vita con le loro esibizioni e i loro dischi: ”Tutti i musicisti rockabilly delle origini erano individui davvero pericolosi, aggressivi, passionali. Che avevano solo una cosa in testa – o forse due, o tre al massimo […] Ho sempre pensato che gli artisti che hanno suonato questa musica per primi fossero dei veri pazzi, gente davvero fuori di testa, molto più avanti di chiunque altro5 avrebbe ancora sottolineato in più di un’occasione Lux.

Tant’è che uno dei concerti più famosi del quartetto, show che rientra a tutto titolo nella mitologia del rock’n’roll, si tenne al California State Mental Hospital di Napa, un istituto californiano per malattie mentali: “Dal momento che non eravamo mai soddisfatti dei nostri spettatori, abbiamo sempre desiderato suonare in un istituto per malattie mentali – fu la spiegazione di Lux – Credevamo che se avessimo suonato in un manicomio, il pubblico avrebbe collaborato ed è andata così! C’erano pazienti, uomini e donne, che cercavano di accoppiarsi sul pavimento. E’ stato lo show più assurdo che abbiamo fatto […] C’era chi leccava le pareti, chi giaceva disteso su qualcun altro e balzava su all’improvviso per dirci qualcosa mentre suonavamo, ma soprattutto c’erano persone che ballavano le danze più strane che io abbia mai visto […] Continuavano a gridare ‘Reparto T! Reparto T!’ e solo dopo abbiamo scoperto che il Reparto T è il padiglione da cui nessuno ritorna […] Dicevano che noi provenivamo da quel reparto. Molti di loro non erano poi così strani. Semplicemente ignoravano che ragazzi e ragazze non dovrebbero accoppiarsi sul pavimento, tutto qui6

Con costumi che andavano dal pesante trucco trash agli abiti neri della famiglia Addams e dal burlesque al latex e ai tacchi a spillo (per uomini e donne del gruppo) ispirati ai giochi sado-maso, i Cramps con ironia e sincerità portavano in scena e nella loro musica una joie de vivre che materializzava per il pubblico ciò che andrebbe autenticamente inteso quando si parla di macchine desideranti, ovvero tutto ciò che già Lacan aveva individuato nel godimento (jouissance) al di là del principio del piacere.

Lux/Erick era originario dell’Ohio. Nato nella cittadina operaia di Stow, nelle vicinanze di Akron, la capitale mondiale della gomma, aveva usufruito di quel genio che avrebbe animato le più importanti uscite dall’aria inquinata di quella città: Devo, Pere Ubu, Electric Eels.

Ivy/Kristy era nata in California, a San Bernardino, e dalle onde dell’Oceano Pacifico avrebbe portato per sempre le stimmate delle Fender usate dai gruppi surf dei primi anni sessanta, diventando un’autentica sacerdotessa di quel dio senza nome del riverbero e del twang che Link Wray, soprattutto, e Duane Eddy le avrebbero rivelato con i loro dischi. E che poi altri, come lei e dopo di lei, sulla scia anche di Dick Dale, avrebbero riconosciuto come loro autentico e unico Dio: da Bill Frisell a Eyal Maoz (solo per citare alcuni dei migliori).

Negli album ufficiali (otto in studio e due live), nel numero infinito di sette pollici e di bootleg tratti dai loro concerti, Ivy fin dall’inizio avrebbe infiammato ogni passaggio vocale di Lux con autentiche sciabolate elettriche, sospese tra il suono cupo e drammatico che Link Wray aveva usato in “Rumble” e l’autentico caos sonoro provocato da un muro di feedback, distorsioni e dissonanze che affondavano le loro radici nel chitarrismo spezzato e disarticolato dei primi dischi di Gene Vincent e i suoi Blue Caps. E la stessa Ivy a confermarci le sue influenze musicali: “Buona parte della mia tecnica viene dall’ascolto di vecchi dischi. C’è una produzione talmente strana dietro molti di loro, cose che le persone non fanno più7

link-wray E più oltre avrebbe aggiunto: “Link Wray è il mio più grande eroe e penso sia davvero sottovalutato. Possedeva il suono più monumentale e apocalittico che avessi mai sentito – davvero emozionante, così schietto e allo steso tempo violento. E’ la perfetta rappresentazione del rock’n’roll, che dovrebbe essere violento e pericoloso e avere un suono pericoloso. Lui è stato dall’inizio la mia principale fonte di ispirazione, e lo è ancora […] Lui è…è una chitarra che suona mentre il mondo sta finendo. Così austera. E così drammatica. La cosa sicura è che Link riesce a ottenere il meglio con il minimo possibile8

Nel corso di una polemica sul presunto sessismo dei testi e degli atteggiamenti dei Cramps, suscitata da alcune testate musicali inglesi, ebbe occasione di affermare: “E’ un po’ strano, noi saremo anche sessisti, ma loro non si sono mai soffermati sul mio stile particolare nel suonare la chitarra, non lo hanno mai commentato, ed è questo che io considero davvero sessista. La cosa più carina che siano riusciti a dire è che riesco a suonare come un uomo. Questa è un’affermazione molto sessista. Il mio stile è inconfondibile, innovativo, originale. Io produco questa band, io faccio da manager a questa band e chiunque dica che siamo sessisti è ottuso e bigotto9

cramps-5 E Lux avrebbe aggiunto: “Ci piacerebbe portare un po’ più di umorismo vizioso nel rock’n’roll, che al giorno d’oggi è fin troppo sano. E’ orribile, intollerabile – tutte queste rock star che fanno del bene in giro per il mondo, eccetera – cristo, quando è troppo è troppo!10

Ispiratori di gruppi come i Gun Club o i White Stripes oppure ancora dei dischi di Holly Golightly e Billy Childish, Ivy e Lux ci hanno lasciato un patrimonio enorme di magnifiche cover e brani originali dai titoli indimenticabili: “Kizmiaz”, “Can Your Pussy Do the Dog?”, ”Hypno Sex Ray”, “Like a Bad Girl Should” solo per citarne alcuni a caso. E soprattutto un messaggio di anticonformismo e ribellione contro la morale corrente e il perbenismo musicale che il libro di Porter, arricchito anche da una ricca documentazione iconografica e da una vastissima discografia del gruppo, traduce e trasmette magnificamente con le sue pagine.


  1. pag. 14  

  2. pag.59  

  3. pag. 165  

  4. pag.180  

  5. pp. 182 – 183  

  6. pp.121 – 122  

  7. pag.212  

  8. pp.28-29  

  9. pag.215  

  10. idem  

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 57 https://www.carmillaonline.com/2014/03/13/divine-divane-visioni-cinema-de-papa-0506-57/ Thu, 13 Mar 2014 22:40:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13380 di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005 Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta [...]]]> di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005
Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta distrutti sul pouf di casa (non abbiamo ancora un divano!) e al cinema mai, giusto alcuni Dvd musicali oggetto di recensioni per le mie scorribande editoriali e poco altro. E quando guardavo lo scarno elenco di titoli (il mio computer è pieno di elenchi – nomi, dischi, libri, film, diete, amici, nemici etc. – e, lo so, un Lexotan aiuterebbe) aggiungevo un commento qui, un parere là, una curiosità, e voilà, eccoci daccapo. Come sempre senza ordine, intelligenza e competenza, ma francamente non ci sono mai state e quelle potete cercarle – buona fortuna – in tutti i recensori ufficiali che infestano qualunque pubblicazione. Perché criticare non costa nulla e nessuno vi dice mai cos’ha visto prima e soprattutto cos’ha mangiato quel giorno lì. Ma niente polemiche oziose: come diceva Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue.
Qui c’è posto e, se vi accontentate: prego, dopo di lei.
Dunque: la piccina dormicchia e, dopo un’ottimo primo mese, con le classiche 5 o 6 sveglie notturne, abilmente gestite in decrescita, Barbara e io abbiamo poi aspettato la cosiddetta svolta del 70° giorno, evento mitologico che secondo alcuni pediatri dovrebbe sancire la fine dei pasti della notte. Invano. No. Da noi non è arrivato, ‘sto cazzo di miracolo del 70° giorno. Però, pian pianino siamo venuti a capo della faccenda. Certo, abbiamo le facce come due zombie, specialmente da quando Sofia ha deciso che svegliarsi all’alba e non addormentarsi più sia cosa salutare. Ma finalmente adesso, a 5 mesi di vita, cominciamo a ragionare, con una o due sveglie al buio. E adesso ci guardiamo un film, che va bene le gioie della paternità e tutto il resto, ma c’è vita anche nel cinema. La scelta cade su un prestito che, guarda il caso, è un film per bambini. A visione ultimata, che dire? Come sempre, grande Pixar. Ottimo l’apparato scenografico, divertente la storia, azzeccato il disegno dal tratto spigoloso. Diverse ideuzze che rendono scoppiettante le vicende di una famiglia di super eroi a riposo. Buono, con la scena finale col bimbetto rovente superlativa. Carini gli extra. Sì, lo so: sembra il rapporto di un carabiniere, ma il mio cervelletto, oggi, non può elaborare diversamente e se non vi va potete non firmare il verbale, ok? (Dvd; 18/9/05)

556 – Born to Boogie, e chi no?, di Ringo Starr, UK 1972
1972. I figli della rivoluzione non aspettano altro: un folletto che sappia riprendere in mano la tradizione del rock n’roll di vent’anni prima, quando con Little Richard trionfavano una sensuale ambiguità e un’animalesca glossolalia. Marc Bolan, il ragazzo del ventesimo secolo, aggiunge alla formula un po’ di britishness, potenziando il look con lustrini e trucco. E il rock – dopo anni di troppo impegno che hanno distanziato la mente dal corpo – diventa glam e torna a liberare da lavoro, genitori e morale corrente. Born to Boogie è un rockumentary d’ingenuità commovente: mette in fila diverse esibizioni di Bolan e dei suoi T.Rex e le raccorda con surreali intermezzi felliniani (indovinate un po’: nani e suore). Ma nella sua semplicità, racconta un’epoca attraverso musiche, colori e facce: quelle estasiate del pubblico, quella sognante di Bolan, quella non ancora calcolatrice di Elton John (coi capelli veri) e infine quella del regista: il Beatle minoritario, ma non meno intelligente, Ringo Starr. Ricchissimo di extra (due documentari, due concerti e altri bonus), Born to Boogie è il modo perfetto di riproporre un vecchio film su Dvd: con amore. (Dvd; 1/10/05)

DDV5702 Suspiria557 – L’ansimante Suspiria di Dario Argento, Italia 1977
‘Anvedi! Storia che va subitissimo in vacca (perlomeno ai miei occhi, che sono dei piccolo Rudolph Giuliani a tolleranza zero), attori ultracani, ambientazione in una scenografia scintillante, coloratissima, folle e completamente falsa. Argento ha rivendicato l’ambientazione fiabesca e il film andrebbe visto così: una favola horror, onirica e straniante. Barbara rantolava dopo pochi minuti, a me invece Suspiria ha tutto sommato divertito, perché è un film pazzoide e senza senso alcuno se non il piacere ludico del racconto e della folgorazione visiva (e non è poco) e sto vivendo ancora una sorta di euforia post partum che mi rende imprevedibile anche nei giudizi. Chissà, in altri momenti, davanti a un film così, avrei potuto sparare al televisore. Magari a Miguel Bosé (è nel cast, assieme a Jessica Harper e Stefania Casini, la grande che in Novecento ha stretto contemporaneamente i membri di De Niro e Depardieu). Ah: due settimane fa è morto Franco Scoglio, allenatore cosmico del Genoa, poeta, professore e santone. L’ho intervistato nel 2002 e prima mi ha fatto venire un infarto per telefono, facendomi credere di essersi dimenticato l’appuntamento e di essere all’estero, poi mi ha preso per il culo durante e dopo l’intervista chiamandomi affettuosamente tutto il tempo “testa di cazzo”. “Quanti modi esistono per battere un calcio di rigore, mister?”, gli ho chiesto: “Ventuno… e sono tutti sbagliati”. Era un grandissimo e – come diceva lui – non parlava mai ad minchiam. (Dvd; 17/10/05)

558 – 1-2-3-4! End of the Century: the Story of the Ramones di Michael Gramaglia e Jim Fields, USA 2004
Certe volte il miglior rock nasce da grandi antagonismi: è il caso dei Ramones, quattro misfits affratellati dalla comune refrattarietà a tutto ciò che li circondava. È il 1974 quando, reietti di quel Queens troppo lontano da Manhattan, i Ramones spazzano via i fratelli maggiori capelloni e manierati e gettano i semi di tutto il rock a venire, ispirandosi alle sonorità di Stooges e New York Dolls. Le canzoni tornano a durare un paio di minuti e a colpire duro. Le canta Joey, il nerd per eccellenza, ipersensibile e naif, e le suona su una Mosrite scrostata il dittatoriale e cinico Johnny, mentre l’eroinomane bruciato Dee Dee percuote un basso. Oggi i Ramones originali sono tutti morti, eccetto il batterista Tommy che se n’è tirato fuori per primo garantendosi la vita, ma il suono, quella ruvida attitudine filtrata da un ampli scassato, è destinato ad accompagnarci per sempre, dalle cantine ai palchi di tutto il mondo. End of the Century racconta in maniera spietata e toccante di come dal letame (magari al CBGB) nascano i fiori e quattro asociali, brutti, sporchi e (talvolta) cattivi abbiano saputo scuotere dalle fondamenta e rifondare il rock. Gran film e gran gruppo, perché la musica non è solo musica. Gabba gabba hey! (Dvd; 23/10/05)

DDV5703 Emerson Lake559 – Welcome my friends to Beyond the Beginning di Nick Ryle, UK 2005
Visione divertentissima della storia di uno dei gruppi più tamarri e sboroni della storia del rock, gli Emerson Lake & Palmer. Dovendo intervistare a breve due terzi della band per Rolling Stone ho unito lavoro e colpevoli passioni e faccio un preambolo per chi ignora chi siano questi signori: se sei un perverso o se ami il prog più avventuroso (le due cose non si escludono) gli ELP sono la morte tua: tecnica micidiale e sfrenata teatralità, con in repertorio – tra le altre cose – un congegno che permetteva ad Emerson di performare per aria, legato a uno Steinway rotante, tipo il Corsair del lunapark. Dopo l’uscita della programmatica autobiografia del tastierista, Pictures of an Exhibitionist, dove trovate con autoironia e franchezza sesso, droga e liti della band più fastosa dei Settanta, è arrivato, per l’evidenza visiva, anche il monumentale dvd Beyond the Beginning, con assortite melodie dolcissime, cavalcate strumentali e diversi momenti esilaranti. Come il batterista Palmer che, in un assolo che lo impegna come un polipo, riesce anche a suonare una campana tirandone la corda coi denti. O come il circense Emerson che accoltella il suo organo, lo prende a calci, gomitate e ceffoni e infine lo monta, nel senso che se lo fotte allegramente pur di tirarne fuori suoni inediti. Visto il simpatico prodottino digitale, che mette in fila la biografia della band con interviste abbastanza prevedibili e immagini invece decisamente interessanti, vi relaziono sugli incontri coi suddetti musicisti. Keith Emerson, l’uomo che quando eravamo piccini suonava il pianoforte sulla spiaggia nella sigla di Variety, è al Live Club di Trezzo. Mi presento offrendogli una bottiglia di Fernet Branca, di cui lo so ghiotto. Imbarazzo: lo hanno da poco operato al cuore e rifiuta con fermezza. Cerca di mettermi a mio agio definendosi ipocondriaco ma quest’uomo s’è rotto (suonando il piano) dita, naso e costole e, cadendo dalla moto, s’è pure aperto la testa (“Il mio teschio è bianco!”). Oggi s’è dato una calmata ed è un amabile sessantenne in forma, che compone ancora al piano ma ha l’iPod col quale ascolta jazz dei fifties. Negli ultimi vent’anni l’amore per la musica è andato di pari passo alla disattenzione per gli affari e un recente divorzio lo ha steso finanziariamente. Per cui ha venduto i coltelli della gioventù hitleriana (dono di Lemmy dei Motorhead, allora suo roadie) con cui massacrava il suo Hammond e nei vari traslochi ha perso di vista la mitica giacca d’armadillo o certi costumini sbarluccicanti che lo facevano sembrare un cioccolatino Quality Street. Il punk diede una spallata al prog, e mi fa notare che oggi vive a cinque minuti da Johnny Rotten. Lui in un condominio, Rotten in un villone. Ma i rovesci della vita non gli hanno tolto il piacere dell’improvvisazione e, in un concerto dove ci delizia con un repertorio che spazia dai Nice al ragtime, si toglie lo sfizio di eseguire la Toccata e fuga di Bach al contrario (cioè suonando l’Hammond da dietro). Una settimana dopo, vicino a Como, incontro Carl Palmer. Ha fama di precisino e lo conferma dicendomi tutti i titoli esatti degli album che tiene nel suo iPod (anche lui jazz). Carl non ha mai smesso di suonare e ha cavalcato la nascente MTV con gli Asia. Oggi ammette che per quelli della sua generazione è più difficile di un tempo, ma il passato è passato ed è nella dimensione live che trova ancora la sua realizzazione (“Suonando sono una persona migliore”). È conciliante con chi scarica la musica da Internet, confessa di guardare golosamente un programma tivù domenicale con cori di chiesa e riesce a indignarsi sinceramente per la guerra in Iraq. Poi il concerto: può un batterista fare uno show per appassionati delle pelli e divertire anche gli altri? Può, altroché. Il pub Black Horse ospita buona musica rock mentre ti servono fantastici burritos e altre ghiottonerie da vecchio West. È stipato di fanatici che studiano religiosamente la batteria ancora silente di Carl o le chitarre in parata dell’axeman italiano per eccellenza, Andrea Braido (c’è chi sostiene che abbia un dito scarnificato, per ottenere sonorità inedite toccando le corde; non verifico). Quando lo show comincia è un’epifania di tecnica: ci sono i classici degli ELP e assortite acrobazie chitarristiche ma anche un appassionante assolo di batteria, cosa che mai avrei detto. E che fine ha fatto il saccarinoso Greg Lake? Prima o poi becco anche lui, promesso. (Dvd; 7/11/05)

DDV5704 Grateful Dead560 – The Grateful Dead Movie, uno sballo di Jerry Garcia, USA 1977
Utopia hippy, ritorno alla natura, recupero delle forme musicali tradizionali, l’idea di una famiglia che non sia vincolata dal sangue, uso liberale di sostanze per permettere alla mente e al corpo (e alla musica) di spaziare… Questo e altro erano i Grateful Dead, band e concetto che potevano nascere solo nella California degli anni Sessanta e prosperare nell’America prima illusa e poi presa per il naso, dagli anni Settanta fino ai Novanta. Prevedendo uno iato nell’attività concertistica, nel 1974 Garcia decise: giriamo un film. Una troupe in acido agli ordini di Leon Gast (il genio di Quando eravamo re, documentario sullo storico match in Zaire tra Muhammed Ali e Gorge Foreman), riprese i concerti tenuti al Winterland di San Francisco e, dopo tre anni di lavoro per il montaggio, nelle sale arrivò The Grateful Dead Movie. Oggi, recuperato dagli archivi, è il Graal dei Deadhead, il colorato pubblico dei fan dei Grateful che hanno continuato a seguire religiosamente i concerti del gruppo fino alla morte del buon Jerry, nel 1995. Lungo come solo certe jam chitarristiche del leader, piacevolmente datato, è la messa in scena dell’ultimo sballo collettivo, già nostalgico e fuori tempo. All’epoca se lo filarono in pochi, oggi è la dimostrazione che quando uno è un’artista, può creare un universo immaginifico con una chitarra ma anche montando una pellicola. Cosa sono 5 ore di tempo di fronte alla vostra vita? Vi aspettano film, musica celestiale e bonus in abbondanza, da vedersi magari con un’innocente paglia in mano: Garcia vi benedirà col suo sorriso bonario dall’alto dei cieli. (Dvd; 21/11/05)

561 – L’emozione fredda di Mad Dog and Glory di John McNaughton, USA 1993
Commedia strana, algida e inaspettata, conosciuta in Italia col titolo da strapazzo Lo sbirro, il boss e la bionda (complimenti vivissimi ai distributori nostrani), è frutto del regista dell’osannato Henry pioggia di sangue, film che anni addietro mi ha fatto cagare a sifone. Un boss mafioso (De Niro, prigioniero della parte) vuole sdebitarsi con un fotografo della polizia (Bill Murray) e gli regala una settimana con Glory, cameriera in debito (Uma Thurman). I due si innamorano, complicazioni. Ne esce una storia carina a tratti, però trattenuta, ed è più l’incertezza del piacere, come se non decollasse mai e dove molte volte mi chiedo: ma dovevo ridere, qui? Boh: gode di statura di film di culto, ma praticamente tutti i film dove ha recitato Bill Murray lo sono e io non faccio parte del fandom. Per cui, niente, non lo consiglio granché. (Dvd; 6/12/05)

DDV5705 Weather Underground562 – The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel, USA 2003
Anche gli americani hanno avuto i loro “terroristi”. Il ritratto è impietoso e per fortuna poco corretto politicamente: una banda di sfigati in fuga perenne, idealisti fino all’autolesionismo, ignoranti come delle capre, cui però, in qualche maniera, non puoi che voler bene. Il racconto è chiosato da storici destrorsi che non risparmiano stilettate e noi europei rimaniamo interdetti: una cosa grave come la lotta armata non può essere gestita da degli hippie frustrati. Però questi sapevano bene chi e cosa colpire: non gli uomini ma i simulacri del potere, i palazzi e le banche. Una lotta velleitaria, confusa, ma sincera. La fine ingloriosa e l’infinitesimale incidenza sull’opinione pubblica sono riscattati dall’umanità di questi non tanto beautiful losers e dalla compassione che suscitano per una scelta apparentemente suicida ma in realtà altissima perché veramente ideale e non calcolata. Il film è molto stimolante (anche se sinceramente sopravvalutato) e io e Barbara abbiamo avuto un tuffo al cuore quando abbiamo visto dove sono nati i Weathermen: al motel Capri di San Francisco dove eravamo finiti tra le bestemmie una notte dell’agosto 2002, dopo aver cercato per una giornata intera una camera nella Napa Valley. (Dvd; 9/12/05)

DDV5706 Festival Express563 – Si parteeee! Festival Express di Bob Smeaton, USA 1994
Chi era particolarmente ricco, un tempo, il tour se lo faceva in aereo (vedi il faraonico Starship One usato da Led Zepp e compagnia cantante). Se no c’era il buon vecchio pullman, con centinaia di musicisti dimenticati in aree di servizio mentre pisciavano o indulgevano in altre attività ricreative. Finché a qualcuno non venne un’idea folle: la tournée, stavolta, facciamola in treno! Siamo nel 1970 e a bordo zompano Janis Joplin, Grateful Dead, the Band, Buddy Guy e altri hobos affamati di avventure. Le fermate sono ai festival di Toronto, Winnipeg e Calgary, in Canada. Ovviamente il pubblico hippie vuole assistere gratis ai concerti: casini a non finire, discussioni tra artisti e management e poi, ogni sera, il miracolo di performance elettrizzanti. Janis strapazza il blues, i Dead sono nel periodo campestre, la Band sprigiona insospettabile energia, Buddy Guy sembra connesso all’amplificatore… Dal treno era difficile scendere e i musicisti si dedicarono anima e corpo ad alcol, droghe assortite e jam straordinarie. E i pochi che dormivano, si persero decisamente qualcosa. Nessuno sperava che esistessero immagini di questa allegrissima follia, finché dagli archivi, nel 1994, non son saltate fuori delle bobine sospette. Bob Smeaton (già compilatore del monumentale ed essenziale The Beatles Anthology) s’è messo al lavoro e oggi possiamo staccare anche noi il biglietto del Festival Express per viaggiare a fianco della compagnia di sballoni. Rigorosamente in inglese, con tante bonus tracks: una pacchia per chi ama le buone vibrazioni, una scoperta per chi non sa da dove veniamo. E quando Janis si scortica la gola, io ho pianto, giuro. All aboard! (Dvd; 10/12/05)

DDV5707 Parenti serpenti564 – Parenti serpenti di Mario Monicelli, Italia 1992
Visto a Natale, giustamente in famiglia, a Genova. Buona partenza che promette tantissimo, ma poi il film non mantiene e diventa presto una rottura di palle. Sarà pure cattivo (e lo è fino in fondo, senza assoluzioni di comodo, ed è il grande pregio del film), ma serve ritmo, cari. Monicelli dispensa il consueto cinismo, ma ne risente anche il film, piagato da sciattezza visiva e con troppe vignette che sfociano nella macchietta (il cast non è eccezionale, purtroppo). Una riunione di famiglia vede diversi nuclei riunirsi a Sulmona intorno agli anziani genitori, che annunciano che poi qualcuno se li dovrà prendere a carico. Finale col botto, coerentemente maligno, dopo aver descritto un’Italietta meschina attaccata a denaro, ignoranza e tornaconto. Mah. Rivisto, mi ha deluso molto: si affloscia nella seconda parte, senza verve, al risparmio. Oh, lo vedi, perché Monicelli è mica un fesso, però è più il dispiacere per lo spreco che la felicità per quel che vale. (Diretta La7; 26/12/05)

565 – Un soffio al cuore di natura elettrica di Pietro Maria Tirabassi e Riccardo Sgalambro, Italia 2005
Il titolo riesce a dire tutto: trattasi di dvd-concerto allegato all’ultimo live di Franco Battiato, notevole sia per la qualità della performance (rarefatta ma molto rock) che per la soluzione produttiva, con l’alta definizione che permette una regia minimale e inventiva e una troupe ridotta all’osso. E Francuzzo beddo nostro è sempre grandissimo. (Dvd; 28/12/05)

DDV5708 Five Easy Pieces566 – Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, USA 1970
Storico titolo che racconta dell’insofferenza di Bobby (Jack Nicholson) verso la famiglia e la società. Un inno alla libertà (anche se quando è così “individuale” vedo anche dell’egoismo, ma non sto a sottilizzare), un po’ datato ma ancora valido, con almeno una scena stracult, quando Nicholson parla col padre malato che però ormai non capisce più una mazza. Vedendolo non posso non pensare alla parodia di Riccardo Pangallo (Lo spezzone) in onda su RaiTre a Va Pensiero quasi vent’anni fa. Film pensoso-anni Settanta, Cinque pezzi facili non è facile per niente, ma è libero e sincero e comunque godibile, forse più per i significati che gli attribuiamo che per quello che realmente dice. Ma sto anche diventando cinico, per cui poco attendibile. Il finale con Jack Nicholson che abbandona in una stazione di servizio l’insopportabile (e mostruosa) Karen Black è impagabile. Bello. (Diretta Sky; 29/12/05)

567 – L’inaspettato Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Italia 2005
Beh, non male. Figlio dodicenne di ricconi bresciani in crociera viene recuperato e portato a terra da dei migranti. Tornato a vivere coi suoi, decide di dare una possibilità a chi lo ha salvato, con conseguenze non pienamente prevedibili. Ovviamente – siccome si parla di immigrazione clandestina – il film non se l’è cagato quasi nessuno perché al posto della meglio gioventù qui si parla della peggio adultità e ci sono molte facce scure. Però m’è sembrato un film civile senza essere edificante, schematico com’è sempre Giordana, ma coraggioso, non facilmente consolatorio e con un elemento fantastico, fiabesco, che illude e (forse) affranca dalle sofferenze terrene. (Dvd; 30/12/05)

DDV5709 Viva Zapatero568 – Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, Italia 2004
Film decisamente interessante, anche se non so fino a che punto riuscito, per un argomento molto difficile da toccare senza essere frainteso. Servirebbero più pagine per un’opera che è volutamente provocatoria, scostante, ambigua, personalistica, maligna e paracula al tempo stesso, e affronta il caso di censura subito dall’autrice col suo programma televisivo Raiot, occasione per allargare il discorso anche allo stato della libertà dell’informazione nel nostro paese. Ma non ho né competenza dialettica né voglia: la Guzzanti – autenticamente geniale sinché l’ormone non le oscura il lobo frontale – non mi merita, neanche se avessi cose intelligenti da dire. (Dvd; 2/1/06)

569 – Il pippatissimo Scarface di Brian De Palma, USA 1983
Drogato, urlato ed esageratamente divertente, gli anni Ottanta su pellicola, con godibile ambiguità. (Dvd; 6/1/06)

570 – L’ubriacante Mondovino di Joseph Nossiter, Francia 2004
Il business del vino, tra produzione industriale, standardizzazione del gusto e resistenze locali. Cinematograficamente non vale molto: ripetitivo, girato veramente col culo e organizzato male. Ma il tema è spumeggiante e la galleria di personaggi molto curiosa (e in taluni casi inquietante). Per cui alla fine me lo sono scaraffato e ingollato con soddisfazione. Sa un po’ di tappo, con sentori di sottobosco e letame, ma il retrogusto è singolare e – oh, siamo tutti antiamericani o sono loro un po’ birichini? – alla fine hai la conferma che il Capitale distrugge tutto, anche una bevanda antica come il vino. (Dvd; 17/1/06)

DDV5710 negrita571 – Viaggio Stereo di Gianni Russo, Italia 2003
I miei amati Negrita, in un live in qualche modo amaro (di lì a poco il batterista originale avrebbe mollato il colpo) e con un repertorio che pesca nell’ultimo album (Radio Zombie), interlocutorio. I concerti hanno perso progressivamente l’improvvisazione e l’estensione dei pezzi, cosa che negli anni passati mi faceva godere di bestia, ma c’è sempre un bell’approccio ruvido. In un’intervista che gli feci a fine 1998 mi ero fatto promettere solennemente che non avrebbero mai abbandonato il funky rock degli esordi. Evidentemente si cresce e si cambia. E la colpa, è chiaro, è mia che voglio tornare ai miei vent’anni (quando però avevo ragione quasi su tutto). Siccome i cinque della band non fanno proclami politici di bassa lega, non pubblicano inascoltabili dischi finto-impegnati e non offrono golosi spunti per il gossip, non sono i beniamini della stampa specializzata e/o militante né hanno mai raggiunto un successo di massa da stadio. Meglio così: lascio gli altri a ubriacarsi di Negramaro novello o a calarsi qualche merda afterhours: io preferisco sempre il mio Chianti dei colli aretini, ormai vecchio di dieci anni e sempre gagliardo. (Dvd; 17/1/06)

572 – Il folgorante Che idea nascere di marzo di Osvaldo Verri, Italia 2005
Un collega adorabile, uno che qualunque cosa sia accaduta negli anni Settanta, lui c’era (ed era probabilmente colpevole!), ha girato questo straordinario corto sulla morte di Fausto e Iaio – diciottenni del Leoncavallo assassinati nel marzo 1978 –, difficile ma, nella pur breve durata, pieno di tuffi al cuore e di speranza. Come Ma chi ha detto chi non c’è sui titoli di coda. E bravo Osvi! (Dvd; 22/1/06)

573 – Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, Giappone 1953
Come certi vini: fermo, completamente. Ma invecchiato benissimo e di pronta beva. Viaggio a Tokyo è splendido: un’emozione antica che ho delibato con commozione. (Oh, dopo aver visto Mondovino non riesco più a evitare paragoni enologici!). (Vhs da RaiTre; 28/1/06)

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(Continua – 57)

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