New Orleans – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il profeta americano dell’illusione e il talento necessario per sopravvivere agli anni Sessanta https://www.carmillaonline.com/2024/10/30/tra-mozart-e-new-orleans-unaltra-storia-dei-talenti-americani-degli-anni-sessanta/ Wed, 30 Oct 2024 21:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85058 di Sandro Moiso

Robert Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 550, 20 euro

Un critico letterario americano ha definito Robert Stone (1937-2015) “il profeta americano dell’illusione”, una definizione che, pur essendo adatta anche a numerosi altri scrittori statunitensi, sicuramente calza a pennello per l’autore originario di Brooklyn. Cosa che il romanzo appena pubblicato da minimum fax, che dello stesso autore aveva già pubblicato in precedenza Dog Soldiers (qui), conferma senza alcun dubbio.

Con una differenza rispetto al precedente, però, poiché mentre Dog Soldiers era stato pubblicato originariamente nel 1974, in pieno [...]]]> di Sandro Moiso

Robert Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 550, 20 euro

Un critico letterario americano ha definito Robert Stone (1937-2015) “il profeta americano dell’illusione”, una definizione che, pur essendo adatta anche a numerosi altri scrittori statunitensi, sicuramente calza a pennello per l’autore originario di Brooklyn. Cosa che il romanzo appena pubblicato da minimum fax, che dello stesso autore aveva già pubblicato in precedenza Dog Soldiers (qui), conferma senza alcun dubbio.

Con una differenza rispetto al precedente, però, poiché mentre Dog Soldiers era stato pubblicato originariamente nel 1974, in pieno svolgimento della sconfitta americana in Vietnam e nel corso del disfacimento politico e sociale che ne era conseguito, il presente (titolo originale Hall of Mirrors) era stato pubblicato otto anni prima, all’alba di quella che sarebbe diventata l’estate dell’amore del 1967, del rinascimento psichedelico della California e di San Francisco e in pieno movimento per i diritti civili degli afro-americani (e non solo).

A Hall of Mirrors. il suo primo libro gli valse sia la Houghton Mifflin Literary Fellowship che il William Faulkner Foundation Award per il miglior romanzo d’esordio. Come afferma Assunta Martinese nel breve profilo bio-bibliografico anteposto all’edizione attuale:

Nel romanzo era già presente la struttura che caratterizzerà le migliori opere di Stone: l’intrecciarsi delle linee narrative di più protagonisti, in cerca di un brandello di significato a cui non sembrano giungere mai e sballottati da eventi sui quali sembrano non avere alcun controllo mentre la narrazione si muove inesorabilmente verso un epilogo apocalittico. Ambientato nel 1960 a New Orleans e ispirato in parte a eventi realmente accaduti, il romanzo descrive «il lato oscuro dell’America, che negli anni Sessanta emerse in modo esplosivo». Nonostante offra uno spaccato vividissimo dell’epoca – la scena politica dominata dal razzismo bianco, gli albori della controcultura, il movimento per i diritti civili – lo stile si discosta in modo evidente da quello dei primi esponenti del realismo sociale, avvicinandosi di più – con la sua alternanza di naturalismo e flusso di coscienza – a quello dei Beat1.

Dal romanzo fu tratto un film di Stuart Rosenberg – Un uomo oggi, con Paul Newman nel ruolo del protagonista – di cui Stone curò la sceneggiatura, rimanendo però profondamente deluso dal risultato finale, come sarebbe poi ancora successo con la trasposizione cinematografica di Dog Soldiers. Anche se, grazie al successo del romanzo, Stone ottenne la Guggenheim Fellowship, che diede inizio alla sua carriera di scrittore professionista.

La vicenda vede al suo centro due figure, egualmente disperate e reiette: l’alcolista Rheinhardt, clarinettista e un tempo, forse, buon esecutore di alcune delle opere più difficili di Mozart, e Geraldine, una giovane, forse giovanissima, ragazza fuggita da Galveston in Texas per finire, prima, a Saint Louis, nel Missouri, e successivamente a New Orleans. Sempre a caccia di un sogno che non la porterà ad altro che a lavorare nei bordelli o sulle strade, nelle mani di protettori sempre violenti e di poliziotti sempre corrotti. In una città che più che vocare lo splendore del passato coloniale e schiavistico, ne evoca soltanto il marciume e la miseria, economica e morale, mentre a dominare il paesaggio non sono il Mississippi o i locali noti fin dalle origini del jazz, ma le fabbriche chimiche e le paludi inquinate dalle stesse. Così, anche se su Congo Square non si vendono o acquistano più gli schiavi di origine africana, le onde radio continuano a portare nelle case un razzismo ugualmente feroce e condito di anticomunismo viscerale.

Le speranze di Geraldine sono accompagnati dalle canzoni di Faron Young e Hank Williams, dai dischi dei juke-box e dal ritmo di “Walk Don’t Run” dei Ventures; quelle di Rheinhardt dal sogno di diventare, o averlo potuto fare in passato, il migliore esecutore di Mozart. In particolare del quintetto in La maggiore per archi e clarinetti, comunemente noto come “Quintetto Stadler”. Musiche diverse per la colonna sonora di un medesimo e disgraziato film.

Una narrazione sempre sospesa tra dramma e ironia, talvolta feroce, che vede coinvolti anche altri comprimari, sia per brevi apparizioni che per ruoli più complessi e compositi. Marinai assatanati di sesso e di alcol per Geraldine oppure predicatori/truffatori come il Fratello Jensen, che Rheinardt aveva conosciuto in passato come marinaio Farley, originario della Nova Scotia e fondatore e pastore della Chiesa della visione del Potere dell’Amore. Un intreccio di storie ed esperienze, ora drammatiche ed ora esilaranti, che danno vita ad un incredible e policromatico arazzo da cui è quasi impossibile distogliere l’attenzione, anche se tutto sembra, fin dall’inizio, irrimediabilmente destinato a precipitare nel baratro.

Un mondo di derelitti e di sconfitti che, nonostante i sorrisi che lo scrittore riesce spesso abilmente a strappare al lettore, non si trasforma mai in “epica” dell’alcol, delle sbronze e dei perdigiorno affamati di sesso, come invece, troppo spesso, accade nella produzione letteraria di Charles Bukowski, contemporaneo di Stone, ma fatto di tutt’altra pasta.

Il sogno americano, grande o piccolo che sia, non porta a nulla se non alla morte, anche se si presenta tappezzato di richieste di nuovi talenti: talento per vendere il proprio corpo per pochi dollari per una ragazza come Geraldine oppure per prestarsi ad opera di imbonimento politico-religioso radiofonico nei confronti di altri poveri disgraziati, come lui, per Rheinhardt.

All’angolo tra Rampart e Canal Street c’era un negozio che vendeva oggettini splendenti. In una delle vetrine c’era una fila di telescopi d’acciaio, illuminati da una luce bianca; c’erano binocoli, radioline, treppiedi, shaker di metallo e medagliette cattoliche. Nella seconda vetrina, stesi su un velluto nero, c’erano revolver, coltelli a scatto e rasoi. […] La poesia stava tutta nei rasoi. I rasoi erano disposti a cerchi concentrici, o meglio, a forma di spirale, secondo la qualità della fattura. Quelli all’esterno erano modesti quanto i coltelli tedeschi; un uomo avrebbe potuto tranquillamente usarli per radersi. Quelli nel cerchio successivo erano più piccoli ma molto più graziosi; le lame erano affilatissime e limpide come specchi, e alcuni avevano manici pastello o a strisce o di plastica multicolore. Quelli nei cerchi più interni erano molto più festosi, ricchi di decorazioni colorate in plastica brillante: alcuni avevano la presa in legno, per quando ti sudavano i palmi; le lame avevano un luccichio particolare e parevano incredibilmente precise.
Al cuore di tanta ricchezza, esposto poco sopra gli altri e adagiato su una lussuosa pelle scamosciata, c’era un rasoio di circa trenta centimetri: il più maestoso, l’imperatore e campione dei rasoi. Non solo aveva il manico di madreperla viola, ornato da otto gemme di pietra dura, ma vi era stampata sopra l’immagine di una bionda dal seno sublime, che indossava solo una giarrettiera rossa, i cui tratti somatici mostravano, a un più attento esame, un’espressione di lascivo abbandono dedicato unicamente al suo possessore. La lama era come una musica: sembrava forgiata da una rara lega di metallo simile al ghiaccio, segretamente, di notte. […] Rheinhardt restò a guardarlo per molto tempo; dietro gli occhi gli scorreva una sinfonia che non riusciva a distinguere, antichi accordi suonati da corde perdute. Che rasoio è quello!, pensò. Dev’essere il Grande Rasoio Americano. Non riusciva proprio a distogliere lo sguardo. Da qualche parte, pensò tremando, da qualche parte, nel cuore di una montagna di pietra c’è un vecchio sfregiato dal volto demoniaco che indossa una camicia a righe e una sola bretella, e coi denti serrati e il mento umido di saliva prende quel rasoio e taglia un sudicio pezzo di spago. E mi uccide. Il Destino Americano, l’Angelo della Morte Americana, il Suo Rasoio2.

Robert Anthony Stone era nato a Brooklyn il 21 agosto 1937, figlio di Homer Stone, un impiegato delle ferrovie, e Gladys Grant, un’insegnante. I genitori si separarono quando lui era ancora in fasce, e fino ai sei anni a occuparsi di lui fu prevalentemente Gladys, che però soffriva di un grave disturbo mentale, probabilmente schizofrenia. Insieme, Robert e la madre conducevano una vita
abbastanza isolata, tra piccoli monolocali e, quando la madre perdeva il lavoro a causa della sua malattia, rifugi per senzatetto (la cui descrizione riveste un aspetto importante nel corso dello svolgimento di Una sala di specchi).

Dopo l’internamento di Gladys in un ospedale psichiatrico nel 1943, Robert rimase solo e trascorse molti anni in un orfanotrofio cattolico. All’infanzia seguì un’adolescenza tormentata. Robert frequentò severissime scuole cattoliche, dove studiò il latino e imparò a scrivere bene, distinguendosi e vincendo anche un concorso di racconti, ma a causa dell’abuso di alcol e delle sue posizioni apertamente atee venne espulso per condotta immorale l’anno in cui avrebbe dovuto diplomarsi.

Da tutto questo, e dalle successive e disordinate esperienze di vita, Stone avrebbe tratto la sua poetica e la sua filosofia: «Le storie non sono un lusso che l’umanità si concede, inventarle è necessario quasi come il pane. […] Non possiamo contemplare e analizzare la nostra situazione se non abitando, per una parte del tempo, nel mondo dell’immaginazione, dove selezioniamo, classifichiamo e ridefiniamo la caotica promiscuità degli eventi»3.

Non può esserci alcuna bellezza nel delirio alcolico e, tanto meno, nel vendere il proprio corpo al bancone di un bar. Stone lo sapeva bene e, forse, anche per questo poteva affermare che in fin dei conti il suo modo di vedere le cose era intrinsecamente religioso, quasi mistico, nutrito però di «energie distruttive», come sostiene il suo biografo Madison Smart Bell.

Energie distruttive che, a loro volta, si nutrivano anche delle droghe che lo accompagnarono a lungo: Quaalude, peyote, eroina, Ritalin, benzodiazepine. Arrivò un momento in cui le droghe gli erano necessarie anche solo per alzarsi dal letto la mattina, ma Stone non smise mai di scrivere e di “cantare” la grande disillusione americana. Cui l’alcol non poteva certo portare, come d’altra parte le droghe, un reale beneficio.

Quando si fermò, la strada si era ridotta a due smilzi binari che si attorcigliavano tra due lotti vacanti. Tirò fuori il vino, gettò via la busta di carta, trascinò la valigia sulle assi marce sotto le rotaie e si sedette su un copertone nell’erba secca. Era circondato da magazzini dalle nere finestre quadrate, e da mozziconi di umide strade senza uscita. Le luci dello scalo merci ferroviario, seminascoste dal fumo, lampeggiavano in lontananza. Si accomodò e bevve il vino sciropposo, chiudendo gli occhi e ascoltando i tramestii nell’erba, le tubature fognarie che gocciolavano acqua piovana, il vento che trascinava le lattine di birra vuote sulla ghiaia umida e i vetri rotti.
Quando ebbe finito il vino e gettato via la bottiglia si rese conto di aver afferrato una qualche profonda verità, di aver avuto un’intuizione, o di aver colto un elemento di redenzione logica di straordinaria importanza. Non aveva idea, però, di cosa fosse.
[…] «Rheinhardt», disse, per sperimentare la sua nuova consapevolezza, reggendosi a una sbarra. «Rheinhardt». Immediatamente lo scalo ferroviario e i neri edifici smisero di esistere. […] Iniziò a venirgli la nausea. Vaffanculo, pensò. Era certo che l’intuizione non fosse quella. Afferrò la valigetta e barcollò attraversando il piazzale finché, dopo un po’, non si ritrovò immerso in una profonda tenebra, una rancida e mefitica tenebra colma di un suono che non aveva mai udito. Il suono si fece sempre più forte, sferragliando a ogni suo passo, e diventò un rombo mostruoso costellato di lamenti, urla e pianti che riecheggiavano e rimbalzavano contro mura invisibili, in un frastuono di onde dal ritmo ossessivo e soffocante; la tenebra ne era carica, pareva anzi che fosse proprio questo suono ad annichilire l’aria e la luce. Rheinhardt rimase immobile, trattenendo il respiro, ma il suono non si interruppe,così decise di ritornare sui propri passi, ma era troppo buio. Allungò una mano e toccò qualcosa dalla consistenza spugnosa e umida che gli si attaccò al palmo; fece un passo indietro, mollando la valigetta, e si sentì sprofondare fino alle ginocchia in una sostanza vischiosa che lo risucchiava. Fu colto dal terrore, balzò in avanti, cadde, si rimise in piedi a fatica; ferito e coperto di sudiciume cominciò a correre inciampando e sbattendo la testa contro colonne invisibili; aveva le mani sporche di sangue, e tutto attorno a lui il suono nero e rancido martellava e martellava e Rheinhardt non si fermò finché non vide, improvvisamente, la circonferenza della luna coperta da nuvole sudicie. Finalmente si fermò, alzando le mani insanguinate, si voltò in direzione del rumore e vide strisce di luce che, come lame di rasoio, disegnavano cerchi e spirali nell’aria notturna; al di sopra del rombo c’erano migliaia di fanali che arrivavano fino al cielo rosso e poi si disperdevano in un nero infinito4.

Il buio fitto del delirio alcolico in cui sprofonda Rheinhardt sembra richiamare i deliri ottocenteschi di un altro grande alcolista e visionario: Edgar Allan Poe. Deliri, come ha affermato David Samuels, stratificati «con pesanti distorsioni emotive e feedback in stile Jimi Hendrix»5, che forse proprio al suo romanzo si sarebbe ispirato per il titolo di uno dei suoi brani più famosi: Room Full f Mirrors.

Stone era l’unico tra i suoi coetanei letterari che poteva sentire in un registro emotivo che gli permetteva di seguire come le divine speranze di trasfigurazione in cui il sogno americano si mostrava in tutta la sua nuda bellezza fossero finite in tanta desolazione e confusione. C’era qualcosa di essenzialmente religioso nel cuore della sua visione, che gli permetteva di affrontare le terribili conseguenze del mondo reale del desiderio umano di trascendenza e di non distogliere lo sguardo6.

Così come il lettore non riesce a distogliere lo sguardo dalle più di cinquecento pagine del romanzo per leggerlo, tutto d’un fiato, fino alla fine.


  1. A. Martinese, Le storie non sono un lusso. Profilo bio-bibliografico in R. Stone, Una sala di specchi, traduzione di Dante Impieri, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 7-8.  

  2. R. Stone, op.cit., pp. 74-76.  

  3. cit in A. Martinese, op. cit., p. 13  

  4. R. Stone, op. cit., pp. 85-87.  

  5. D. Samuels, Il profeta americano dell’illusione: l’ultima grande intervista di Robert Stone, «The Daily Beast», 15 novembre 2013.  

  6. Ivi  

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Blue bayou https://www.carmillaonline.com/2024/10/16/blue-bayou/ Wed, 16 Oct 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84897 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.» (Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.»
(Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio quel superamento del limite dell’intimismo e della soggettività che tanto lo infastidiva nella maggior parte della produzione letteraria contemporanea. Soprattutto italiana.

Un soggettivismo e un intimismo che, troppo spesso, si cela anche all’interno di storie forzatamente drammatizzate, ma sostanzialmente prive di alcuno spessore epico, sociale e collettivo, che qui invece il lettore potrà trovare. Un’epica non basata su avvenimenti roboanti, portati in giro sotto le spoglie di comode etichette già da tempo cadute in disuso, ma sui fatti della vita quotidiana e della normalità esistenziale che si intrecciano con i movimenti della storia e della società nel suo caotico complesso. Una vicenda in cui, comunque, l’essere collettivo domina sull’essere individuale, irrevocabilmente destinato alla sconfitta.

Una storia di amicizia e, in qualche modo, di “tradimento” che ha fatto venire in mente a chi scrive queste righe, anche se non si tratta assolutamente di un noir, il romanzo forse più bello di Raymond Chandler: Il lungo addio. Metafore, entrambe le opere, dello scorrere inarrestabile del tempo e della vita, destinato come un grande fiume a portare via con sé amicizie, esperienze, vite e amori. Tutti espressione di momenti e di istanti irripetibili, che sembrano galleggiare disordinatamente sulla corrente, a tratti impetuosa e a tratti rallentate, della memoria collettiva o del singolo.

E’ certamente un luce crepuscolare quella che illumina le vicende, grandi e piccole, drammatiche o romantiche, che costellano la narrazione. Attenzione però, una luce crepuscolare che non corrisponde alla sempre banale e distorta nostalgia del ricordo a sé stante. Isolato dal contesto specifico e ridotto a semplice testimonianza dell’esperienza del singolo.

La storia del legame di amicizia, fratturato e contorto, tra Rhys Campbell, l’io narrante che come afferma lo stesso ha «scavalcato i sessanta da qualche anno», e Sal Smolinski, «di due anni più giovane», si snoda attraverso la storia sociale, politica ed economica degli Stati Uniti del secondo Novecento e degli inizi del secolo attuale. Anche se non mancano, attraverso altre presenze e personaggi, riferimenti ai tempi della schiavitù o delle lotte sindacali del periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Una narrazione pacata e allo stesso tempo radicale, che ci accompagna in un viaggio ambientato per due terzi in Louisiana lungo le sponde del Mississippi, a New Orleans e nel bayou che caratterizza la regione1, ma che non manca di rinviare alla descrizione di altre città come New York, Chicago, Kansas City e Los Angeles, di cui vengono forniti ritratti sintetici ma efficaci, per poi concludersi a Londra, sulle rive di un altro fiume, il Tamigi.

La scelta della città in cui si ambienta la maggior parte della vicenda, New Orleans, con le vicine De Allemands e Venice, non è certo casuale poiché attraverso le memorie custodite tra le vie e le piazze di questa città è possibile ricostruire lo sviluppo della società americana e dell sue culture. Dalla tratta degli schiavi in Congo Square alla nascita del jazz fino all’uragano Katrina del 2005, anticipazione drammatica di tutti gli uragani a venire, fino a quelli che hanno recentemente colpito la Florida e altri stati del Sud degli Stati Uniti, e che sembra aver malignamente portato via con sé i ricordi di una storia secolare insieme ai quartieri più poveri della stessa città.

Una città di musica che è presente quasi in ogni pagina del romanzo: musica cajun dei francesi immigrati lì fin dal Settecento dopo la loro espulsione dai territori canadesi da parte dell’impero britannico, all’epoca ancora in piena espansione; lo zydeco derivato dall’incrociarsi di questa con quella degli schiavi africani portatori dei ritmi caribici; il blues e il jazz delle origini insieme al rock’n’roll e alle ballate folk del recentemente scomparso Kris Kristofferson, l’indimenticabile interprete del Billy the Kid portato sugli schermi da Sam Peckinpah. Ma tutte queste forme di espressione musicale, che compaiono in vari momenti della narrazione, non costituiscono però mere note di colore, marcandone piuttosto il ritmo: ora triste, ora allegro, ora solenne e talvolta caotico.

Si diceva all’inizio del paragone possibile con Il lungo addio di Chandler, ma qui non ci sono delitti o crimini evidenti. Il “tradimento” di Sal, in fin dei conti, non è soltanto nei confronti dell’amicizia con Rhys o dell’amore, mai del tutto compiuto, per la figlia Belle, è un tradimento “generazionale”. La fuga verso il successo individuale contro il sogno comunitario e ribelle di una generazione, o più generazioni, che hanno cercato e cercano di superare i limiti dell’esistente attraverso, sì, il disincanto (rappresentato nel romanzo dal personaggio di Marc, il “marxista” del gruppo), ma anche per il tramite della condivisione degli affetti e delle esperienze, delle storie vicine e lontane, per quanto drammatiche queste possano essere.

Tutto scorre, come nel celebre romanzo di Vasilij Semënovič Grossman. Scorrono i fiumi, il tempo, le vite, le rivolte, gli amori, le amicizie e i modi di produzione e riproduzione della vita stessa. Senza sosta, senza nostalgie, senza i sempre inutili rimpianti. Ciò che è stato è stato e non è possibile comunque tornare indietro, sembra suggerire l’autore. Che, con quest’opera, fa viaggiare il lettore avanti e indietro anche nel suo stesso percorso di scrittura, ricerca, vita e impegno: dai testi sul Mississippi e il Tamigi oppure su città come New York e Londra, a quelli sulla cultura e letteratura degli Stati Uniti (di cui è stato per anni docenti presso l’Università Statale di Milano); dalla vicinanza politica alla Sinistra Comunista fino ai testi, pubblicati già all’inizio degli anni Settanta sulle culture dell’Underground, la musica rock e popolare americana e la rappresentazione letteraria e politica della storia della lotta di classe in America (qui ).


  1. Il bayou (dalla lingua dei nativi Choctaw bayouk, che significa “tortuosità”) è un ecosistema, caratterizzato da acquitrini, fitte foreste e case su palafitte tipico del delta del Mississippi, in Louisiana. E’ costituito da distese paludose che si sviluppano tra i diversi bracci dello stesso fiume, mentre i corsi d’acqua formano una rete navigabile che la popolazione locale ha usato per secoli per spostarsi, pescare ed eventualmente sottrarsi al braccio del potere, come, ad esempio, ben narrano i romanzi noir di James Lee Burke.  

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Un trattato di ecologia politica ad uso delle giovani generazioni https://www.carmillaonline.com/2019/09/18/trattato-di-ecologia-politica-ad-uso-delle-generazioni-future/ Wed, 18 Sep 2019 21:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54627 di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale [...]]]> di Sandro Moiso

Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro

L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)

Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale della società in cui viviamo. Non solo in Occidente, ma su scala planetaria.

L’autore, nato nel 1975, è attualmente professore presso il Centro Émile Durkheim dell’Università di Bordeaux e fa parte del comitato di redazione della rivista “Actuel Marx”. Oltre a ciò è riconosciuto come uno dei più esperti conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci e ha aderito al  Nouveau Parti anticapitaliste oltre che aver firmato, nel 2014, l’appello del Movimento per la VI Répubblica avviato da Jean-Luc Mélenchon e dal Parti de gauche.

Una militanza politica e culturale “di sinistra” e “gramsciana” che traspare da ogni pagina di un testo che, proprio per questi motivi, è allo stesso tempo stimolante e discutibile (a causa di una manifesta e forse eccessiva speranza riformistica ) per tutti coloro che si occupano attualmente dei problemi legati alla crisi ambientale, a quella economica e a quella climatica e dei risvolti che queste possono avere sui conflitti sociali sia già in corso che futuri.

Uscito per la prima volta in Francia nel 2014, il testo si articola sostanzialmente intorno a tre temi ritenuti fondamentale dall’autore e che costituiscono le tre parti che lo compongono: il razzismo ambientale, la finanziarizzazione della natura attraverso le pratiche assicurative nei confronti dei rischi climatici e la militarizzazione dell’ecologia. Tutte strettamente collegate tra di loro.

Tre argomenti attraverso i quali l’autore delinea e delimita un discorso al centro del quale è posto continuamente in risalto il tema delle diseguaglianze sociali, economiche e “razziali” che costituiscono il problema centrale e, certamente, maggiormente conflittuale dell’attuale emergenza climatica. Un’emergenza che, al di là dei suoi connotati ambientali e fisici, si rivela essere innanzitutto ancora una questione di classe.

Tale impostazione permette all’autore sia di superare le posizioni ecologiste tipiche di un movimento come Fridays For Future che, in linea con le correnti ecologiste tradizionali, sembra voler accomunare tutta l’umanità, senza distinzioni di classe o di appartenenza alle aree più povere del pianeta, in una comune battaglia per la salvezza di una casa ritenuta “comune”, sia le posizioni di quelle sinistre che, in nome di un progresso sempre meno credibile e di uno sviluppo sempre più devastante, respingono le lotte ambientali ritenendole un mero prodotto dell’ideologia borghese.

Se è infatti vero che, all’interno dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico, il green capitalism può porsi come strumento di rilancio di dinamiche innovative e produttive utili alla ripresa di processi di accumulazione sempre più asfittici, è altresì vero che proprio queste politiche, che pretendono di proporre un modello di sviluppo maggiormente sostenibile, tenderanno ad accentuare le differenziazioni di classe e a separare sempre più la grande maggioranza della società che, di fatto, le subirà da una minoranza che ne trarrà profitto.

A dimostrazione di ciò basti riflettere sul fatto che lo stesso movimento francese dei gilets jaunes è sorto proprio a partire da un aumento del costo del carburante giustificato dalla comune necessità di finanziare iniziative in difesa dell’ambiente o di rinnovamento degli apparati produttivi in chiave green. Uno degli slogan del movimento affermava infatti che a pagare la crisi ambientale dovessero essere prima di tutto coloro, governanti e imprenditori, che di tale crisi erano la causa.

Inquadrare quindi l’attuale emergenza planetaria da un punto di vista di classe (cui poi andrebbero aggiunti, come fa l’autore, quello razziale e di genere, essendo spesso le donne a costituire l’anello più debole e vulnerabile della catena di coloro che ne subiscono maggiormente le conseguenze) diventa quindi importantissimo per il rilancio di una comune richiesta di giustizia ambientale che non si basi ancora una volta su principi universali, troppo spesso generici ed inafferrabili, ma sul superamento di un disagio estremamente concreto e sulle risposte da dare a necessità e bisogni che non apprtengono in maniera uguale a tutti i settori dlla popolazione, ma che, troppo spesso, si concentrano soprattutto nelle aree abitate dalle fasce più povere e disagiate.

Sia che si tratti di discariche di rifiuti tossici prossimi ad aree urbanizzate degradate, sia che si tratti delle diverse conseguenze che catastrofi presunte “naturali” (ad esempio l’uragano Katrina del 2005) possono avere su settori differenti di cittadini: perdita della casa e di ogni avere per una (ad esempio la componente afro-americana di New Orleans) e guadagni enormi sulla speculazione edilizia legata alla ricostruzione per l’altra (bianca e ricca).

Ma, come dimostra bene il testo anche le guerre portano (oserei dire da sempre) il loro contributo alla devastazione ambientale, dando vita a movimenti migratori, di differente intensità a seconda del conflitto e delle aree interessate, di cui oggi vediamo le conseguenze nell’immensa mole di profughi che cercano fuggire da tutto ciò. E per i quali la “casa comune” di cui parla Greta Thunberg davvero non esiste ancora.

Guerre che, inoltre, depositano sui territori e sui corpi il loro ricordo a lungo indimenticabile: dall’agente arancio in Vietnam, che ha devastato quel paese per anni ancora dopo la fine della guerra e i corpi di molti di coloro che l’hanno combattuta su un fronte o sull’altro, all’uranio arricchito che ha a sua volta impestato gli ambienti, e ancora una volta i corpi, in tutte le aree in cui la Nato è intervenuta per le sue missioni di pace.

La natura, come recita il titolo del testo, è quindi davvero un campo di battaglia, anzi è teatro di un’autentica guerra di classe, non dichiarata e di fatto negata proprio da coloro che l’hanno iniziata e la stanno portando avanti in nome del profitto e dell’interesse privato, e il libro di Keucheyan ci aiuta a comprenderlo ancora meglio.
Per far sì che, alla fine, a morire sia proprio il capitalismo.

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“Ci sono ancora persone sobrie nella Riserva” https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/ci-sono-ancora-persone-sobrie-nella-riserva/ Tue, 15 May 2018 21:12:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45498 di Giacomo Marchetti

Il silenzio, dicono, è la voce della complicità Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione (Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali. Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009. E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica. La pellicola è una co-produzione, anche italiana, [...]]]> di Giacomo Marchetti


Il silenzio, dicono, è la voce della complicità
Ma il silenzio è impossibile.
Il silenzio urla.
Il silenzio è un messaggio,
così come fare nulla è un’azione

(Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali.
Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009.
E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica.
La pellicola è una co-produzione, anche italiana, che nasce da un progetto del Torino Film Lab, selezionata per la sezione Panorama della Berlinale di quest’anno, svoltasi alcuni mesi fa.
“La terra” nella finzione filmica è una riserva indiana chiamata “Prairie Wolf”, ma nella realtà del set è un territorio di confine tra USA e Messico: Tijuana, a qualche km da quel muro che divide “artificialmente” gli States dal Messico
Un confine che è stato al centro della propaganda politica elettorale presidenziale di Orange Man, attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cesura che non ha nulla di naturale, quella tra USA e Messico, ma è il prodotto storico di un esproprio compiuto dagli Stati Uniti a metà dell’Ottocento in una delle prime guerre di conquista che ne caratterizzeranno la storia, così come nulla di “naturale” ha l’attuale situazione dei nativi americani in cui l’inizio del loro Olocausto coincide con l’approdo di padri pellegrini sul Mayflower nelle coste orientali del continente Nord-Americano a Cape Cod l’11 novembre del 1620.

Buona parte del territorio del sud degli Stati Uniti è infatti il risultato di una “guerra di rapina”, recentemente rievocata da un bel romanzo di Pino Cacucci: Quelli del san Patrizio in cui si narra le vicende dei disertori, per la maggior parte di origine irlandese, che passarono dalla parte dei messicani, formando un battaglione d’artiglieria nominato appunto San Patrizio al comando di John Riley, uno dei primi fulgidi esempi di “traditori di razza” della storia popolare nord-americana.

La linea di confine, “il dentro” e il “fuori”, la costruzione dell’identità, sono al centro della riflessione filmica, così come anche il tema del “traditore” – in questo caso traditrice – di razza, un ruolo – quest’ultimo – riservato nella pellicola ad una teenager bianca scevra dei pregiudizi della propria famiglia sui nativi americani, curiosa di conoscere la Storia, anzi le storie, di un popolo che vive ridotto alla condizione di reietto.
I nativi sono ancora odiati dai parenti della giovane che non provano alcun rispetto per “gli indiani” ma di cui hanno ancora timore.
I nativi costituiscono ancora una delle maggiori fonti di ricchezza attraverso la vendita di alcolici, business che oltre a lucrare sull’esistenza dei “pellerossa” contribuisce alla loro “anestetizzazione” sociale, rendendoli dipendenti dall’alcol (e quindi da chi lo vende) e incapaci di difendersi dai propri carnefici.
L’alcol ha svolto, e svolge, per i nativi americani la stessa funzione della diffusione massiccia di droghe nei ghetti delle città metropolitane nei confronti degli afro-americani: “la guerra chimica” denunciata ai suoi tempi della Pantere Nere.

Per citare la strofa di un verso di una famosa poetessa chicano-americana Gloria Anzaldua: to survive the Borderlands / you must live sin fronteras / to be a crossroads…
Il regista sembra ispirarsi proprio a questa strofa e stimolato da un servizio, apparso sul Guardian, si reca – per produrre il film – due volte in Nord America, visita una trentina di riserve e compie la selezione degli attori attraverso un casting aperto tra i nativi americani, persone che hanno quindi vissuto sulla propria pelle quella condizione che vuole far emergere, rendendo il film una sorta di docu-fiction in stile iper-realista.

Siamo in uno dei tanti territori rimasti ai margini dello sviluppo economico americano, dopo esserne stato al centro, qui si tratta di quella frontiera mobile un tempo fondamentale per l’espansionismo statunitense, ma la condizione di esistenza potrebbe essere la stessa, mutando di paesaggio e di composizione “etnica”: la periferia di Detroit, un tempo Motorcity, un villaggio ex-minerario nei Monti Appalachi, un quartiere di New Orleans colpito dall’uragano Katrina, in una tante città della rust belt: umanità di scarto in qualsiasi di questi contesti…

È la storia di una famiglia di nativi americani che vive nella riserva, e che passa gran parte della sua esistenza fuori dal territorio nativo stesso: un fratello, Ray, ex alcolista e diabetico lavora con il figlio in un allevamento di bovini mentre un altro combatte nell’Air Force degli Stati Uniti in missione in Afghanistan, un altro, Wes, passa la sua giornata in uno store fuori dalla riserva a bere birra (l’alcol è vietato nella riserva) con la madre – cattolica praticante ma tutt’altro che remissiva e perno del nucleo familiare – che lo porta in macchina quando inizia la sua giornata e lo va a prendere al calar del sole, mentre un terzo, che sembra godere di una certa agiatezza, si dedica al contrabbando di alcol nella riserva e non vive nella casa familiare.
La narrazione filmica si svolge quasi esclusivamente dentro le mura domestiche della famiglia nella riserva, dentro e nelle vicinanze del negozio che vende prevalentemente alcolici, nell’allevamento di bovini e lungo le strade polverose che collegano questi punti.
La riserva è una specie di non-luogo, solcato raramente da chi non ci vive ed è raro che qualcuno l’attraversi per raggiungere “un’altra meta”: non è mai un approdo, se non per chi ci vive come fosse un quartiere dormitorio in cui l’autorità poliziesca è svolta dalla tribe police, il cui unico compito sembra essere quello di verificare la presenza di alcolici sulle persone che ritornano alla Riserva.

Fuori dall’esercizio commerciale la telecamera si adagia sui nativi che passano il proprio tempo a bere, ridotti ad uno stato larvale, mentre sulle pareti un murale raffigurante il prigioniero nativo americano Leonard Peltier, e alcune scritte murali come “native proud” non potrebbero dare un senso di maggior contrasto tra una storia fatta di resistenza e volontà di riscatto ed un presente di marginalità e rassegnazione, a cui nel corso del film i protagonisti reagiscono trasformando una narrazione distopica nel suo contrario.

Gli eredi dei cowboys, non sembrano essere meno aggressivi dei loro predecessori e la tensione è palpabile in ogni scambio verbale tra i membri della famiglia che gestisce lo store, tranne la già ricordata teenager (l’unica che si interessa del co-protagonista alcolizzato), e la famiglia di nativi americani: la linea di separazione tra le due comunità deve essere netta e invalicabile, l’ostilità reciproca il metro del loro relazionarsi, non ha caso alla ragazza viene impedito di frequentare Wes.
La linea del colore, per citare W.E.Du Bois è ancora una discriminante e demolisce le retoriche obamiane della società statunitense come post-razziale.
In questo tempo, fuori e dentro, la riserva il tempo sembra essersi fermato.
Sanno che con i fumi dell’alcol Wes, perde i suoi filtri, e riporta a galla la storia, anche recente, di sopraffazione che la giovane non deve ascoltare: ma è proprio dalla comprensione di ciò che è attraverso ciò che è stato che la ragazza diviene complice indiretta della reazione dei nativi americani, provando probabilmente quello stesso senso di identificazione che le prime abolizioniste provavano nella condizione degli afro-americani di fronte al potere degli WASP, come ci ricorda Angela Davis in un libro recentemente ri-tradotto e ri-pubblicato: Donne, razza e classe.

L’unica attività di svago sembra essere il combattimento tra galli, che la crudeltà umana piega alla sua etica di scontro mortale cingendo con una lama metallica affilata ricurva una zampa del volatile.
Il combattimento tra questi animali, che è una sequenza centrale di Land, è una metafora di questa lotta mortale tra discendenti dei coloni e quelli dei nativi su una terra arida, sullo sfondo di uno sviluppo che concede solo le briciole in quella terra di nessuno alla componente bianca e che continua quel rapporto di dominio iniziato con la “Conquista del West”.

Il motore filmico è la notizia dell’uccisione del fratello in missione in Afghanistan, e le vicende si svolgono lungo il tempo d’attesa della possibilità di riavere il corpo del defunto per celebrare il rito funebre.
La “locandina” del film riprende un frame della pellicola nella scena al confine tra il territorio degli Stati Uniti e quello della riserva, con la bara coperta dalla bandiera statunitense e cattura lo sguardo d’odio del padre verso la cassa da morto in cui un vi è il corpo senza vita del figlio.

I parenti di Floyd e gli abitanti della riserva attendono la salma, sostituendo la bandiera a stelle a strisce e il picchetto d’onore dell’aeronautica: uno dei dialoghi più intensi del film è quello della nonna e del padre con l’ufficiale dell’Air force che ha il compito di occuparsi del figlio morto.
Floyd è morto “per il proprio Paese” secondo l’ufficiale, mentre per la sua famiglia quello era solo il suo lavoro, saranno loro a seppellirlo e non i militari nonostante la prassi esiga il contrario.
I nativi americani sono tra coloro che sono destinati essere la “carne da cannone” per le imprese belliche dell’Impero americano, ed il mestiere delle armi è una delle poche possibilità, insieme al crimine, di emancipazione economica per le “minoranze razziali” statunitensi.

La cerimonia funebre è dilatata nel tempo a causa dell’inchiesta che deve rilevare i motivi del decesso, e se il militare si è attenuto al regolamento, il che permetterebbe di godere alla famiglia di una cifra pari a 100.000 di dollari di risarcimento come militare ucciso in combattimento, rispetto ad una decima parte che gli spetterebbe comunque come soldato in missione.
La voce dell’ufficiale sfuma in questa scena che si svolge nell’ufficio della base militare dell’aeronautica, mentre elenca i vari benefits di cui ha diritto comunque la famiglia a causa del decesso (tra cui l’accesso a cure mediche gratuite…).

Nel tempo dell’attesa l’aggressione fisica gratuita da parte dei figli dei gestori dello store nei confronti del fratello etilista è l’altro motore filmico che fa schizzare la tensione tra gli eredi dei cowboys e quello dei guerrieri “indiani”. L’attesa della vendetta e della possibile reazione a questa in un contesto in cui non c’è alcuna autorità legittima che tuteli l’incolumità dei cittadini e ne punisca i trasgressori proiettano la vicenda in un continuum storico in cui la violenza era e rimane il rapporto sociale tra questi raggruppamenti umani che si tratti dello stupro travestito da prostituzione, o del linciaggio vero e proprio come strumento per imporre con il terrore il proprio dominio se minacciato.

Ed è significativo che la violenza che si consuma su Wes da parte dei due giovani avviene a causa della sua insistenza nel volergli ricordare un linciaggio di due “cacciatori indiani” avvenuto in passato recente di cui loro padre dovrebbe serbare ricordo, cioè esserne probabilmente il responsabile e non è difficile supporre si tratti proprio dell’uccisione del padre di Wes, di cui non si parla mai esplicitamente nel film.

L’equilibrio dato dall’impunità della sopraffazione si rompe e se ne stabilisce un altro in cui la possibilità di rispondere agli attacchi perpetrati nei confronti dei nativi americani non solo vendica un torto subito, ma stabilisce un precedente: ci sono ancora persone sobrie nella riserva risponde la madre zittendo la gestrice dell’attività commerciale che gli paventa rappresaglie per la giusta punizione inflitta ai suoi figli per ciò che hanno fatto a Wes.
Ed anche il figlio etilista, può farcela, se aiutato a disintossicarsi…

E in questa riaffermazione di sé e della propria storia di resistenza, che le parole dell’ex leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, citate all’inizio della recensione ritrovano la loro forza vitale.
Peltier ha scontato ingiustamente 40 anni di carcere e ora settantenne è chiuso dietro le sbarre di una prigione, per avere difeso armi in pugno la propria comunità dagli assalti alla riserva di Pine Ridge, sfuggita alla dinamiche “interne” di perpetuazione della dominazione dello Zio Tom.
La poesia citata si conclude con queste strofe: Voi siete le vostre azioni / voi siete il risultato delle vostre azioni / diventate il vostro messaggio / Voi siete il messaggio.

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American Horror (Hi)Story https://www.carmillaonline.com/2016/05/11/american-horror-history/ Wed, 11 May 2016 21:30:17 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29007 di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, [...]]]> di Gioacchino Toni

american horrFederico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 125 pagine, € 12,00

Se da una parte l’immaginario orrorifico gotico è utile alla cultura dominante per potervi sublimare i traumi e le ingiustizie occidentali, riportando «ciò che non vuole (riconoscere di) essere in una dimensione “altra”, immaginaria, dove una realtà fatta di ingiustizie e soprusi viene contraffatta e proiettata nelle figure perturbanti di fantasmi, mostri e altri abominî» (p. 11), dall’altra non viene meno l’aspetto sovversivo del gotico, visto che, «benché contraffatto, l’elemento perturbante torna comunque a infestare la società, suggerendo che l’orrore e il terrore rappresentati potrebbero scaturire da noi, potrebbero parlare di noi» (p. 11).
Il gotico americano non avvalora di certo il mito dell’America come paese di speranza ed armonia e «se il gotico americano ha una sua caratteristica distintiva, forse è proprio quella di porsi come critica a tale mito nazionale, fondato sulla a-storicità e l’innocenza di un intero paese, su un immaginario di purezza ed eguaglianza» (p. 12). Si può dire, secondo l’autore, che il gotico americano recupera quella storia americana che è stata dimenticata o rimossa, dunque intende rendere visibile l’invisibile.

Il saggio di Federico Boni analizza la serie televisiva American Horror Story (dal 2011) individuando in questa una mappatura delle diverse declinazioni dell’American Gothic. Nel primo capitolo del volume l’autore contestualizza la serie all’interno dell’horror televisivo mettendo in luce tanto gli elementi di novità, quanto quelli di continuità, rispetto alla tradizione del gotico televisivo. Vengono dunque analizzati il rapporto tra il mezzo televisivo e la dimensione del perturbante, il panorama dell’horror television a partire dagli anni ’50 e gli aspetti produttivi della serie, come l’aver optato per una scansione antologica ma su base stagionale. Nel secondo capitolo vengono passati in rassegna gli spazi orrorifici che strutturano le diverse stagioni della serie (la casa stregata, il manicomio…) che rappresentano i luoghi ove si concentra l’immaginario perturbante del gotico americano. Si tratta di luoghi in cui si esercitano istanze di potere e, di conseguenza, gli spettri che abitano tali spazi possono essere identificati come “spettri del potere”. Infine, nel terzo capitolo vengono analizzate alcune tematiche affrontate dalla serie.

In American Horror Story ogni stagione ruota attorno ad un luogo specifico e questo è indicato sin dal titolo che identifica la stagione. La prima serie, Murder House (titolazione aggiunta a posteriori), ruota attorno alla casa stregata di Los Angeles ove si trasferisce la famiglia Harmon, la seconda, Asylum, è ambientata nell’ospedale psichiatrico di Briarcliff, nei pressi di Boston, la terza stagione, Coven, è collocata a New Orleans, in particolare in una scuola per streghe, la quarta, Freak Show, si concentra attorno ad un circo itinerante americano nella Florida del 1952, proprio all’epoca della scomparsa di questo tipo di spettacoli. Al momento della stesura del saggio non era ancora stata trasmessa la quinta stagione, Hotel. Ad ognuno di questi luoghi l’autore associa un elemento caratterizzante del gotico: il fantasma (ritorno del rimosso) per l’haunted house, la violenza dell’istituzione totale per l’ospedale psichiatrico, la stregoneria e la caccia alle streghe per la scuola di New Orleans, l’orrore grottesco per le deformità dei corpi per il freak show e la rimozione dei traumi della storia statunitense per l’hotel della quinta stagione.

boni_american_horror_story_cover«La casa stregata della prima stagione di American Horror Story, appropriatamente ribattezzata Murder House, è la “casa stregata dell’America”, il deposito delle violenze e degli orrori di cui si è macchiata la sua storia» (p. 52). Se il gotico europeo, soprattutto inglese, ha scelto di far dimorare i fantasmi soprattutto in castelli, monasteri od antiche dimore, il gotico americano opta spesso per una casa. Dalla Casa degli Usher (1839) di Poe in poi, sostiene l’autore, la haunted house ha assunto un ruolo molto importante nell’immaginario americano. «Nell’immaginario costruito da Poe, Hawthorne e Thoreau prima, e poi da Faulkner, James, Fitzgerald e tutta la schiera di scrittori statunitensi contemporanei, la casa trasforma il sogno americano in un incubo. Un vero e proprio “incubo americano” […] la haunted house americana è davvero il ricettacolo dell’orrore dell’America» (p. 53). E la Murder House della prima serie è stata «edificata sui cadaveri dei nativi, dei neri portati dall’Africa, degli stessi coloni più deboli – quelli sfruttati, emarginati, annichiliti, fantasmizzati. E lo racconta a suo modo, in una ridda di riferimenti alla letteratura, al cinema, alla cultura “alta” e alla cultura pop, che non è puro gusto citazionistico e intertestuale, ma – questa è peraltro la tesi dell’intero volume – una mappatura barocca del topos della casa infestata nel gotico americano, delle sue retoriche narrative e discorsive; un’esplorazione dei sensi di colpa di una nazione seppelliti nelle fondamenta o nella cantina – ma anche nascosti in soffitta – di una casa che vive e si nutre di traumi e violenze del passato e del presente» (p. 54).
I fatti che accadono presso l’istituto psichiatrico di Briarcliff, nella seconda stagione, Asylum, secondo Federico Boni, ricordano le colpe della società americana che ha voluto rimuovere e reprimere coloro che non si sono adeguati ad un ordine sociale puritano, anche se “veri mostri” sono da ricercarsi, sottolinea l’autore, in quei meccanismi di potere che portano l’istituzione totale manicomiale a distinguere tra cittadini dotati di diritti ed esseri privi di essi.

In Coven, terza stagione di American Horror Story, si fronteggiano due tipi di streghe, quelle provenienti da Salem in Massachusetts, cittadina famosa per la caccia alle streghe di fine Seicento, con quelle vudù di derivazione afro-caraibica. A livello narrativo, soprattutto nella parte finale della stagione, lo stile sembra «votato all’eccesso e all’artificio, enfatizzato dagli interni della scuola, dell’elegante dimora di Madame LaLaurie e di altri spazi della New Orleans del presente e del passato, fa da contrappunto estetico a una serie di richiami ad alcuni degli episodi più dolorosi della storia degli Stati Uniti: la “caccia alle streghe”, e dunque la repressione femminile, e la schiavitù. Anzi, qui la stregoneria può essere vista come una vera e propria risposta ai soprusi del potere da parte di una società patriarcale e razzista» (p. 66).

La quarta stagione, Freak Show, ha come luogo privilegiato il circo popolato da corpi deformi e grotteschi. Nella sua analisi, Boni riprende gli studi di Laslie Fiedler (Freaks, Miti e immagini dell’io segreto) in cui viene descritto il passaggio da una lettura del freak come fenomeno divino ad una che vi individua malattie scientificamente definite. «La centralità del passaggio dal regime discorsivo teologico a quello teratologico (e infine, a quello clinico) in Freak Show è evidente sin dalla collocazione temporale delle vicende narrate. La quarta stagione […] è ambientata nella Florida del 1952, quando il “Cabinet of Curiosities” di Elsa Mars è uno degli ultimi freak show presenti nel paese […] i freak di Freak Show sono una razza in via di estinzione: sempre più individui affetti da malformazioni classificabili clinicamente, e sempre meno meravigliosi “scherzi della natura”. Siamo quindi nell’epoca del tramonto di questo tipo di spettacolo, soppiantato soprattutto da una nuova, temibile, concorrente: la televisione» (p. 76). Vale la pena sottolineare come la fine dei freak show coincida con l’avvento della televisione che, per certi versi, rende davvero obsolete tali forme di spettacolo ed al tempo stesso le assorbe all’interno del suo palinsesto quotidiano seppur in nuove forme.

I mostri che compaiono in American Horror Story, tanto quelli tipicamente americani, quanto quelli derivati dalla tradizione europea, sostiene Boni, possono essere interpretati come reificazioni di traumi ed orrori reali. Alla figura del mostro la società tende ad applicare quei valori negativi che le consentono di costruire, per opposizione “altro”/”io”, un’identità positiva. L’autore, riprendendo le riflessioni di W. Scott Pole (Monsters in America. Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting), sostiene che «questi “mostri della storia americana sono reali”, metafore di una serie di circostanze e azioni storiche ben più che mere immagini della letteratura, del cinema o della televisione. Guardare all’America attraverso i suoi mostri offre una nuova prospettiva ad antiche questioni, senza sconti per nessuna di queste. Anzi, la prima vittima di questo orrore è il tanto celebrato “eccezionalismo americano”, che vorrebbe l’America un “Nuovo Mondo” innocente e puro, in grado di insegnare la democrazia in giro per il mondo» (p. 84).

Le figure degli zombie in American Horror Story riprendono la “versione originaria” haitiana che vuole lo zombie non come mostro ma come vittima di chi riporta in vita gli individui riducendoli ad una “schiavitù post-mortem”. Gli zombie di American Horror Story, nel loro «mettere insieme la versione “originaria” del morto vivente con l’estetica della “zombie renaissance” cinematografica e televisiva contemporanea, […] recuperano le attuali metafore dello zombie, che vedono questo “schiavo eterno” come vittima dello sfruttamento, delle nuove schiavitù, delle migrazioni, ma anche come “proletariato inattivo” per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi involontario (come negli zombie della saga cinematografica di George A. Romero)» (p. 86). Se da un lato lo zombie può incarnare la figura della schiavitù, dall’altro, però, incarna anche l’idea di ribellione.

pretend we're deadTrattando la figura del serial killer, che certo non mancano in American Horror Story, l’autore sottolinea come questa, pur derivando da matrici europee, rappresenti una tipicità americana: «l’idea di una sorta di “fordismo” dell’omicidio, un’arte dell’uccidere “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, appunto un’arte dell’omicidio in serie, che riporta tale mostruosità nell’alveo del gotico americano» (p. 87). Riprendendo le riflessioni di Annalee Newitz (Pretend We’re Dead. Capitalist Monsters in American Pop Culture), l’autore sostiene che i serial killer che popolano le vicende narrate da Murphy e Falchuk, «sono “mostri del capitalismo”, la loro brutalità condanna i metodi della produzione capitalistica americana portandoli al loro estremo, arrivando in definitiva alla produzione di massa (in serie) di corpi morti. Il serial killer restituisce una versione gotica e orrorifica del “lavoro morto” marxiano, proiettando sulle vittime i sentimenti distruttivi ispirati dal luogo di lavoro» (p. 88).
Per certi versi, continua Boni, anche il mad doctor è un mostro del capitalismo. «L’“americanità” di fondo di tale figura […] è legata al suo legame col capitalismo statunitense: i dottori della tradizione del gotico americano sono infatti portati alla follia, in parte, perché ritengono di dover lavorare ai loro progetti ininterrottamente, senza pausa, in un lavoro intellettuale che prevede la vendita delle proprie idee a istituzioni professionali. […] In un paese, come l’America, che ha conosciuto una progressiva “proletarizzazione” della professione medico-scientifica, il mad doctor diviene un mostro perché scisso tra manie di grandezza e lavoro alienato; così diviso, non è mostruoso perché devia dalla sua professionalità, ma proprio perché la incarna» (pp. 89-90).

Risulta interessante la parte del saggio in cui l’autore riprende l’analisi di Helen Wheatley (Gothic Television) che, considerando la tv un mezzo gotico, enfatizza il ruolo del televisore di portare l’orrore esterno all’interno delle abitazioni fino a metterlo a contatto con le ansie domestiche. Federico Boni sottolinea che quando «a essere trasmessi sono testi gotici che rappresentano case infestate o edifici inquietanti, in quel caso è possibile parlare di un incontro tra “due case gotiche”: una è quella rappresentata nel testo televisivo, dove la narrazione si ripete serialmente e dove quindi le immagini ritornano – come dei revenants – con cadenza giornaliera o settimanale; l’altra è quella che ospita il mezzo televisivo e dove avviene la visione, e che corrisponde dunque allo spazio domestico e familiare. La televisione diviene così il vero spazio perturbante della casa, un vero e proprio “fantasma in casa”, la soglia che ci porta “ai confini della realtà” e che restituisce una accezione inquietante e perturbante dell’idea della televisione come “finestra sul mondo” e come “specchio” dell’interno (dell’inferno) domestico» (p. 93)

In alcuni episodi di American Horror Story viene enfatizzato il ruolo perturbante ed orrorifico della televisione. Ad esempio, in Coven Madame LaLaurie, riportata in vita negli anni Duemila, nello scoprire la televisione non manca di denunciare come questa sia di fatto basata sull’umiliazione dei suoi “ospiti”, mentre invece in Freak Show, la televisione viene indicata come “l’orrore contemporaneo” e come creatrice di freak. A tal proposito risultano interessanti le analisi di Jon Dovey (Freakshow. First Person Media and Factual Television) sulla reality television, riprese dal saggio di Boni, che evidenziano come tale tipo di programmazione sfrutti il bisogno di esprimere la propria identità da parte di individui che rivendicano con orgoglio il loro essere freak e che sentono la necessità di mettere in scena «l’ordinarietà della loro straordinaria soggettività» (p. 95).

Altra questione su cui si sofferma il volume è quella relativa a diverse figure femminili presenti nella serie; molte delle donne presenti in American Horror Story risultano accomunate da una vita segnata da ingiustizie e sofferenze a cui, però, reagiscono ribellandosi. «In Murder House la stessa haunted house protagonista della stagione è associata al corpo femminile, e di rimando il corpo femminile è associato alla casa […] Il femminile, del resto, è da sempre presente nel topos narrativo della haunted house, soprattutto laddove la donna, a cui è negato lo spazio esterno della vita pubblica, viene relegata negli spazi chiusi dell’ambiente domestico» (p. 97).
Il saggio passa in rassegna anche quelli che definisce gli “spettri della sessualità” soffermandosi in particolare sulla coppia gay dei vecchi proprietari della casa della prima stagione, Murder House, ridotta ad essere una coppia fantasma in linea con la fantasmizzazione, dunque repressione, dell’omosessualità. «E però, lo spettro torna a infestare i vivi: così fantasmizzata, l’omosessualità si ripropone comunque e si impone nel presente e nella coscienza della nazione» (p. 100). In Asylum si fa riferimento anche all’omosessualità femminile; Lana verrà rinchiusa e sottoposta a terapie disumane al fine di “curare” il suo lesbismo.

In American Horror Story è presente anche la questione del razzismo, soprattutto in Coven, tematica spesso presente nel Southern Gothic, in particolare a proposito della segregazione razziale. Boni, a tal proposito, riprendendo alcune considerazioni di Teresa Goddu (Gothic America) evidenzia come le storie narrate dal gotico americano «ben lungi dall’essere storie che ci proiettano in mondi lontani e di fantasia, quelle gotiche sono storie intimamente connesse alla cultura che le produce […] Questo genere registra le contraddizioni della sua cultura, presentando una versione distorta della realtà, ma non scollegata da essa» (p. 101).
Alcune considerazioni interessanti riguardano anche le giovani presenze nell’immaginario gotico. Se storicamente nel gotico non è infrequente imbattersi in giovani “posseduti”, vittime di colpe non proprie, nel panorama del cosiddetto New Teen Gothic, i giovani tendo ad abbandonare il ruolo di vittime per divenire la fonte stessa dell’orrore. Tale cambiamento parrebbe aver ricevuto un netto impulso dai tragici eventi della Colombine High School del 1999.

È nota l’importanza del mito della frontiera all’interno della cultura americana e la stessa serie American Horror Story, a partire dal suo essere una sorta di cartografia del gotico americano, non manca di evidenziarlo. Si intrecciano nelle diverse stagioni itinerari e frontiere di diverso tipo, ad esempio: in Murder House gli Harmon nel trasferirsi da Boston a Los Angeles compiono il medesimo itinerario (da Est ad Ovest) dei pionieri. Facendo invece riferimento all’ospedale psichiatrico della seconda stagione, la (labile) frontiera sembra essere quella tra ragione e follia. In Freak Show la carovana itinerante sembra invece ormai essersi insabbiata nelle paludi della Florida in procinto di essere inghiottita definitivamente dalle sabbie mobili rappresentate dal nascente mostro televisivo.
Chiudendo la disanima, non resta che segnalare un’ultima riflessione proposta dal saggio. L’ossessione americana per il mito dell’apertura offerta dalla frontiera, associata allo spirito chiuso del puritanesimo, nel momento in cui si esaurisce la frontiera storica, a fine Ottocento, implode in una forsennata ricerca di nuovi spazi anche attraverso il ricorso della “furia catalogatrice” che, secondo F. Tarzia ed E. Ilardi (Spazi (s)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano) porterà ad un puritanesimo inquisitorio e poliziesco che dal Proibizionismo conduce alla cacce alle streghe comuniste per arrivare fino ad Echelon ed al Patriot Act: ogni ambito dell’esistenza umana deve essere catalogato ed etichettato.

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Blue, uno sguardo sul jazz nell’epoca del suo tramonto https://www.carmillaonline.com/2014/02/07/blue-sguardo-sul-jazz-al-tramonto/ Thu, 06 Feb 2014 23:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12341 di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da [...]]]> di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da Arrigo Polillo e ci si accontentava di una critica spesso rivolta ancora a definire il canone jazzistico in base al jazz di New Orleans e a quello suonato dall’orchestra di Benny Goodman oppure, al massimo, al be-bop e al cool jazz californiano. Eppure quel libro fu la causa del mio successivo entusiasmo per la musica afro-americana (naturalmente insieme all’ascolto, avvenuto qualche anno prima, di “Hit The Road Jack” di Ray Charles).

Insieme ad un mio compagno di classe, altrettanto appassionato di musica, andavo scoprendo il blues di John Mayall e di Eric Clapton e il sax di Charlie Parker, la chitarra elettrica di Jimi Hendrix e la poesia cosmica di John Coltrane, l’urlo libero di Ornette Coleman e il soul/funk delle metropoli industriali degli Stati Uniti, la suite per la libertà adesso e subito di Max Roach e Miles Davis che, da lì a qualche tempo, avrebbe finito col fondere il tutto in un calderone magico da cui sarebbero usciti “In A Silent Way” e “Bitches Brew”.

Oggi, a distanza di tanti anni, il libro di Nisenson, critico ed autore di importanti testi sul jazz e il suo mondo, ha causato in me lo stesso stupore, ha riacceso la stessa passione e lo stesso interesse nei confronti di tutta quella musica.
E di altro ancora, perché mi sono ritrovato tra le mani un libro appassionato, scritto con il rigore dello studioso e la furia del cultore, tutto rivolto non a ricostruire per l’ennesima volta lo storia della musica jazz e dei rapporti sociali che l’hanno prodotto, ma a trasmettere l’idea di cos’è , cosa è stato e cosa dovrebbe essere il jazz. E guardate che, non è cosa da poco, ci riesce benissimo.

Di storie della musica afro-americana ne esistono oramai anche troppe. Negli ultimi anni anche qui in Italia ne sono state pubblicate tantissime: tutte colte, tutte ricche di discografie e bibliografie, tutte scontate. Tanto, dal punto di vista storico-sociale, quella recentemente ripubblicata di Eric J. Hobsbawm, precedentemente edita sotto falso nome nel 1961 e poi nel 1982 con l’attribuzione all’autore reale, da sola potrebbe già bastare1.
Anche Blue ricostruisce gli snodi più importanti della storia del jazz e della sua evoluzione, ma non è mai scontato. Trasmette ad ogni pagina la voglia di andare avanti nella lettura per vedere cosa succederà ancora. Anche a chi quella storia e quell’evoluzione un po’ già le conosce.

L’intenzione dell’autore non è, come ho già detto, quella di riscrivere la storia di quella che forse è stata la musica più importante di buona parte del ‘900. No, l’intento è polemico. Proprio contro coloro, quelli che l’autore chiama i jazzisti neo-classici, che attraverso la ricostruzione storica e la riproposizione musicale più accurata vorrebbero trasmettere un ben preciso ed unico canone di quella musica. E che, così facendo, la stanno appunto uccidendo.

Il tentativo di definire un canone unico per il jazz non è nuovo e non lo è per l’arte in generale. E ogni volta tale tentativo ha trovato sempre chi lo negasse e lo superasse, nei fatti, con la propria opera, spesso destinata a stravolgere gli schemi con cui la critica accademica, e non, guardava alle manifestazioni artistiche e musicali. Ma, nel jazz e in tutto quello che riguarda le culture afro-americane, c’è sempre stato un elemento in più ad intorbidare le acque: quello razziale.

La più importante musica americana è nata dall’incontro tra la cultura bianca e cristiana e quella africana, tribale e pagana. La libertà presupposta dall’ideale contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti si scontrava così direttamente con i suoni e i sogni di coloro che da tale libertà erano esclusi senza possibilità di redenzione: gli schiavi africani e i loro discendenti.
Questo dava vita non solo ad un mercato separato ( da una parte la musica bianca ed all’altra i race records destinati all’ascolto dei neri), ma a tutta una catena di conseguenze economiche e culturali in cui le industrie discografiche che stampavano la musica prodotta dai neri, i locali in cui questi si esibivano e la critica che li giudicava erano, nel 99% dei casi, di appannaggio dei bianchi, americani e non.

Ma, c’è sempre un ma…quella musica nera, tutt’altro che domata dal puritanesimo religioso dello schiavismo bianco, iniziò, molto prima dell’avvento di Elvis the pelvis e del rock’n’roll, ad attrarre molti giovani bianchi. E non solo come fruitori, per così dire, a sbafo, ma anche come autentici protagonisti e creatori. Chi potrà mai negare il contributo dato al jazz da Bix Beiderbecke, Bill Evans, Lennie Tristano, Scott La Faro, Chet Baker, Dave Brubeck, solo per citare alcuni dei principali innovatori bianchi tra i tanti che lo suonarono?

Ecco, qui si apre il problema affrontato da Nisenson nel suo testo: coloro che oggi rifiutano di ammettere qualsiasi contributo bianco al jazz, Wynton Marsalis e le sue serate jazz al Lincoln Center oppure critici “neri” come Stanley Crouch e Albert Murray, non rischiano di essere razzisti a loro volta interiorizzando proprio quella visione del “negro” come barbaro felice, unico depositario del ritmo e delle spontanee forze della natura, che ha contraddistinto la lettura sbiancata delle culture “altre” dall’Illuminismo in poi?

Se poi gli stessi insistono col trasferire sul pentagramma, nota per nota, tutta la grande musica improvvisata del passato per darle la stessa dignità della musica classica, europea e bianchissima, non accettano forse in pieno una visione culturale egemonica e bastarda che per secoli ha stabilito, a priori, cosa fosse civiltà e cosa fosse barbarie? E se, poi, gli stessi personaggi finiscono col ripudiare il free jazz come non musica e con l’abbracciare le ideologie più retrive del repubblicanesimo reganiano, non diventano essi stessi forze della conservazione e della reazione culturale e politica più bieca?

Questo è uno dei nodi centrali dell’opera e coinvolge, per alcuni aspetti, non solo una prospettiva di stampo genuinamente artistico, ma anche una visione del mondo e una prospettiva sostanzialmente politica che prova a capire perché il jazz oggi sta morendo nonostante siano in molti a suonarne la gran cassa. Anche se, in fin dei conti, è proprio la fine del predominio americano sul mondo a segnare la fine del secolo americano anche dal punto di vista musicale, e l’autore ne è pienamente consapevole, e quindi di tutte le sue “musiche”. Bianche, nere o meticce che siano. Ma il potenziale lettore non si deve preoccupare perché il libro fila via liscio anche per chi non ha mai letto nulla sull’argomento.

Anzi, si può dire che questo, attualmente, è forse il miglior testo in circolazione per cominciare a comprendere il suono nero e i suoi sviluppi. Specialmente per i giovani.
Louis Armstrong, George Russell, Sonny Rollins, Gil Evans, Sun Ra, Dizzy Gillespie, Lester Young, Duke Ellington, Albert Ayler, Thelonious Monk e tutti gli altri, dopo questa lettura non saranno più soltanto dei nomi o delle “figurine” sull’album dei collezionisti, ma figure vive e vere, in attesa di suonare ancora per chi li vuole ascoltare e capire davvero.

Intanto Nisenson, morto nel 2003 a 57 anni, da qualche parte sta ancora ascoltando, sicuramente, tutti quei musicisti che, dopo aver dato l’assalto al cielo, stanno ancora improvvisando insieme, senza distinzione di nazionalità o di colore della pelle.


  1. Eric J. Hobsbawm, Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma 1982  

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