Netanyahu – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana https://www.carmillaonline.com/2024/09/22/il-nuovo-disordine-mondiale-26-la-guerra-post-umana/ Sun, 22 Sep 2024 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84603 di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i [...]]]> di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)

Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense ad una guerra sul fronte mediorientale.

Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano. Cosa che al momento attuale gli interessati evitano per non cadere nella trappola organizzata da Washington e Tel Aviv e non soltanto perché indeboliti dai ripetuti attacchi mirati contro comandanti e membri delle loro forze armate. Che, comunque, nel 2006, nonostante le distruzioni portate in Libano dai bombardamenti dell’aviazione dello Stato ebraico, bloccarono e di fatto sconfissero le truppe israeliane costringendole al ritiro dopo un’avanzata di pochi chilometri sul suolo della terra dei cedri.

I guerrafondai, quelli che vogliono prendere il mondo a manate si dichiarano sempre innocenti. I disordini non li hanno inventati loro, diamine… Agiscono, reagiscono, si difendono. Non cominciano nulla, semmai sono gli altri…[…] Prendete Beniamino Netanyahu. Sguazza dasempre nella confusione.[…] La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che, dopo un anno, appare senza uscita […] Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati. Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano a giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. […] Bene! Ma se gli sciiti della Bekaa non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano1.

Alle osservazioni del giornalista torinese occorre aggiungere soltanto che il tutto ha però bisogno anche di un peloso aiuto americano che, pur fingendo di cercare una soluzione altra al conflitto regionale, lo inciti all’azione. Magari per eliminare vecchi nemici come quell’ Aqil, responsabile di aver organizzato l’attentato contro la caserma dei marines a Beirut nel 1983. Come ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan: «E’ qualcuno che gli Stati Uniti avevano promesso di portare davanti alla giustizia molto tempo fa. Tante famiglie vivono ancora nel dolore provocato dalle sue azioni. E ogni volta che un terrorista che ha ucciso degli americani viene consegnato alla giustizia è un risultato positivo»2.

Inutile sottolineare come per il portavoce della Sicurezza nazionale “assicurare alla giustizia” e “assassinio mirato” siano di fatto sinonimi, atti soltanto a mascherare le azioni terroristiche portate avanti in tutto il mondo ormai da anni dalle forze armate statunitensi e israeliane, là dove occorre, per interposta persona. Ma queste riflessioni sulle motivazioni degli attentati in Libano e a Beirut, così come quelle sui maneggi delle borghesie arabe per liberarsi dell'”asse della resistenza” e indebolire l’Iran3, fanno ormai parte di una storia passata. La Storia di una terza (o quarta?) guerra mondiale già in atto e che soltanto il pieno dispiegarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina porterà al suo pieno compimento, anche per quanto riguarda il fronte ucraino.

Quello su cui occorre invece riflettere sono invece le nuove modalità di guerra imposte dall’evolversi dell’IA e del cosiddetto IoT (Internet of Things), Internet delle cose, alla guerra in atto. Guerra che se già ha prodotto l’uso su larga scala dei droni pilotati da remoto come micidiali strumenti di distruzione adottati su tutti i fronti delle guerre in corso e l’uso di missili di ogni tipo, genere ed età (dai razzi Katjuša di fabbricazione russa, risalenti ancora alla seconda guerra mondiale a quelli più recenti e ipersonici oppure alle cosiddette “bombe plananti” dotate di una certa intelligenza operativa nella scelta degli obiettivi da colpire una volta lanciate dai bombardieri), nel corso degli ultimi giorni ha visto un ulteriore salto di qualità, con l’uso di strumenti quali cercapersone, smartphone, computer o, come è stato segnalato ma senza certificazione ufficiale, pannelli solari, come armi.

Già da tempo si sapeva della possibilità di individuare soggetti e bersagli attraverso l’uso sprovveduto dei telefonini e degli smartphone, cosa per cui recentemente il leader di Hezbollah aveva consigliato ai militanti e responsabili operativi di utilizzare i cerca persone per tenersi in contatto, mentre Osama Bin Laden, Messina Denaro e Yahya Sinwar hanno sempre preferito comunicare per mezzo di “pizzini” consegnati a mano. Ma i recenti attacchi terroristici israeliani nei confronti di militanti, ma anche civili, libanesi hanno aperto una finestra sul possibile uso e le finalità intrinseche racchiuse nell’intelligenza digitale degli oggetti di uso quotidiano.

Certo, è possibile che l’operazione del Mossad e del gruppo 8200, l’Unità di guerra cibernetica capace d’intercettare tutto quanto viene detto o scritto sui canali di comunicazione nemici e alleati, attraverso cui è stato possibile colpire i vertici di militari di Hezbollah sia con i cercapersone che con i missili sganciati da due F 35 israeliani sul quartiere di Dahiya, alla periferia meridionale di Beirut, sia stata preparata con cura certosina nel corso di anni. Basterebbe infatti leggere un romanzo come La Tamburina di John Le Carré che, pur risalente agli anni Ottanta, è ancora estremamente utile per spiegare le sottigliezze, gli accorgimenti, la pazienza e le astuzie con cui i servizi israeliani operano in ogni angolo del mondo.

Ma tutto ciò non basta ancora: reti operative spionistiche e di intelligence e ditte fasulle prestanome costituiscono soltanto uno degli aspetti della questione. L’altro è costituito dalla diffusione delle tecnologie digitali che da strumento di possibile controllo si sono trasformate anche in strumenti da usare direttamente nel corso delle guerre. Sia tra gli Stati che civili, non solo più come indicatori della posizione di chi li usa, ma come autentiche armi.

D’altra parte, da tempo, si discute della sicurezza delle rete e degli oggetti ad essa collegati oppure della possibilità di incendio ed esplosione delle batterie al litio, sia che si tratti di smartphone oppure di auto elettriche.
La batteria dei cercapersone esplosi infatti dovrebbe essere una batteria al litio, esattamente come quella dei nostri smartphone. Per rispondere a questa domanda bisogna guardare a qualche caso di cronaca del passato Nel 2016 Samsung ha presentato il Galaxy Note 7, uno smartphone tra i più potenti usciti in quell’anno. Questo dispositivo è diventato noto alle cronache proprio per le esplosioni. Un difetto di fabbrica, presente soprattutto nei primi modelli commercializzati, provocava un surriscaldamento delle batterie. Da qui partiva un effetto a catena che portava prima le batteria a gonfiarsi e poi a prendere fuoco. Il problema era così evidente che alcune compagnie aeree hanno vietato ai passeggeri di portare il dispositivo sul mercato. Samsung alla fine ha ritirato il modello. Le batterie al litio che abbiamo nei nostri dispositivi elettronici non sono tutte uguali. In base alla tecnologia con cui sono costruite hanno reazioni diverse alle sollecitazioni esterne. […] Negli ultimi anni sono emersi diversi casi di incidenti che hanno coinvolto le Tesla. Parliamo di batterie diverse, sia per le dimensioni che per le composizione. Anche in questo caso però vediamo delle caratteristiche simili. In caso di incidente le batterie non sono direttamente esplose ma hanno preso fuoco4.

Tralasciando, però, i problemi collegabili all’uso delle batterie al litio, diventa necessario addentrarsi invece nel labirinto delle differenti applicazioni e intelligenze digitali usate quasi quotidianamente da tutti.

Mentre ci si interroga su quale sia il peso della guerra cyber nel conflitto tra Russia e Ucraina, basterebbe fare un piccolo sforzo di astrazione e proiettare in un futuro non molto lontano quello che vediamo a trarne una debita conclusione. Facciamo un passo alla volta e diamo uno sguardo a quale sarà il nostro radioso futuro grazie alle tecnologie dell’informazione. Con diverse velocità, tutti i Paesi del mondo sono proiettati verso la digital transformation, termine vago e utilizzato in maniera ondivaga. Forse sarebbe più comprensibile se si parlasse di grande convergenza, ovvero quel processo che progressivamente interconnetterà tutte le tecnologie digitali. In effetti esse sono più numerose di quanto si possa pensare e per anni sono state separate, alcune completamente altre meno. L’esempio più evidente riguarda il mondo IT, a cui appartengono software e hardware che la stragrande maggioranza delle persone utilizza per lavorare, e quello OT (Operational Technology), che comprende i sistemi industriali destinati a gestire milioni di macchinari e strutture compresi acquedotti, reti elettriche, impianti ferroviari. Un terzo ambito è l’Internet delle Cose, diciamo quelle più piccole: dalle prese elettriche ai termostati di casa per arrivare fino ai dispositivi di quella che si chiama telemedicina. Si tratta di una quantità enorme di oggetti (in Italia sono circa 95 milioni) accomunati tutti dall’aggettivo “smart”. L’obiettivo è l’integrazione di tutte queste tecnologie per raggiungere livelli di servizio e di efficienza impensabili. […] Ecco, alla fine, che giunge l’ultima e forse più potente delle tecnologie: l’intelligenza artificiale, sistemi specializzati e addestrati a gestire enormi basi dati per estrarre conoscenza e quindi suggerire la giusta decisione. Ecco la grande convergenza, e la sua apoteosi sarà rappresentata dalla Smart City5.

Che questi sistemi siano stati e siano tutt’ora facilmente attaccabili è cosa risaputa, anche se spesso il maggiore allarme proviene dai rischi connessi all’uso di dati personali e bancari oppure al sabotaggio hacker di reti di servizio. Pericoli segnalati con dovizia di particolare in riviste e articoli specializzati.

Ogni singolo sistema tecnologico che ho citato presenta dei punti deboli. I sistemi OT hanno cicli di vita molto lunghi, spesso pluridecennali: questo significa che i software che li supportano sono obsoleti e presentano delle vulnerabilità note che non saranno mai corrette. Una volta connessi a Internet saranno raggiungibili attraverso i sistemi IT, esponendo le loro debolezze potenzialmente a chiunque. Il mondo dell’Internet delle Cose è già popolato da svariati miliardi di oggetti, il più delle volte connessi in rete senza alcun tipo di autenticazione. Allo stato attuale la gestione dei dispositivi domestici è affidata nella maggior parte dei casi ai singoli cittadini che dovranno occuparsi anche degli aspetti di sicurezza. A tutto questo aggiungiamo l’intelligenza artificiale la cui fragilità è pari alla sua potenza. È stato dimostrato che modifiche nelle basi dati con cui vengono addestrate oppure nei dati di input le inducono a commettere errori molto grandi. […] L’accessibilità dei sistemi, la complessità gestita da molteplici intelligenze artificiali specializzate che dialogheranno tra loro e l’insieme delle diverse debolezze di ognuna delle tecnologie produrranno una moltiplicazione e dilatazione dei rischi proporzionale alle opportunità. Se c’è del vero nell’affermazione che le auto a guida autonoma potrebbero quasi azzerare gli incidenti stradali, altrettanta verità vi è nella considerazione per cui un malware inserito nei sistemi di aggiornamento delle autovetture smart potrebbe causarne in dieci secondi centinaia di migliaia. Ora possiamo trarre almeno quella conclusione di cui scrivevamo al principio ponendoci una domanda: per colpire una smart city saranno più efficaci ed efficienti i missili o i virus informatici6?

Secondo Federico Rampini, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden avrebbe messo al bando il software cinese installato sulle automobili, decisione che oltre a confermare l’escalation del protezionismo, è anche figlia dell’ultimo exploit del Mossad, poiché col passare dei giorni lo «sterminio dei nemici attraverso gadget tecnologici» ha suscitato altre analisi, ivi compreso nella comunità della difesa Usa.

Dal punto di vista strettamente tecnologico, infiltrare e manipolare a distanza degli apparecchi di uso quotidiano, non è una novità. Gli esperti hanno riesumato dagli archivi molti precedenti, israeliani e non. Gli stessi americani avevano fatto qualcosa di simile, che il mondo intero scoprì all’epoca delle rivelazioni di Edward Snowden: l’intelligence Usa aveva manomesso i cellulari di leader amici, tra cui l’allora cancelliera Angela Merkel, per intercettarne le comunicazioni. Un altro precedente celebre fu l’operazione israelo-americana che entrò nei comandi informatici di una centrale nucleare iraniana guastandola. E tuttavia quelli furono casi di uso «passivo» dei gadget, per fare spionaggio o sabotaggio, non per ucciderne gli utenti. L’exploit libanese (non rivendicato) del Mossad, pur non essendo veramente nuovo, ha oltrepassato numerose linee rosse: in termini di spettacolarità, e per il bilancio di vittime. Perciò ci si chiede se non abbia legittimato una nuova forma di guerra. La cyber-guerra del futuro, quella in cui ogni confine tra militari e civili sarà cancellato, le convenzioni internazionali diventeranno sempre più irrilevanti (non che siano mai state molto rispettate). La banalità degli oggetti in questione — i cerca-persone pre-smartphone — diventa un’aggravante. Perché non immaginare che qualcuno stia studiando di utilizzare a fini bellici i semiconduttori che fanno funzionare i nostri computer e cellulari così come i nostri elettrodomestici, praticamente ogni oggetto animato da memorie e circuiti elettronici? E le nostre automobili, per l’appunto, che ormai sono delle centraline digitali7.

Glenn Gerstell, per anni consigliere generale della National Security Agency, ha recentemente osservato sul «New York Times», a seguito degli attacchi israeliani, che le esplosioni sincronizzate di dispositivi wireless attivate dall’intelligence israeliana contro le milizie islamiche libanesi, rappresenta una impressionante anticipazione dell’accelerazione digitale della guerra. “Questo potrebbe essere il primo e spaventoso scorcio di un mondo in cui, in definitiva, nessun dispositivo elettronico, dai nostri cellulari ai termostati, potrà mai essere considerato completamente affidabile”.

Mentre Alessandro Curioni, esperto in sicurezza informatica ed ex- direttore del Centro di Ricerca IBM di Rüschlikon, si è spinto più in là nella riflessione immaginando come in un conflitto caratterizzato da una cyber war come quello in corso su più fronti anche le caldaie controllate da remoto potrebbero trasformarsi in micidiali strumenti di distruzione di interi stabili oppure di singoli appartamenti8, così come avvenne già durante il bombardamento di Dresda nel 1945 quando migliaia di persone morirono letteralmente bollite vive nelle cantine usate come rifugi antiaerei in cui avevano trovato riparo a causa del surriscaldamento e successiva esplosione delle caldaie a causa dell’innalzarsi della temperatura esterna dovuta all’uso di bombe incendiarie al fosforo da parte dell’aviazione alleata9.

Tutto ciò deve spingerci a riflettere su come tecnologie apparentemente docili e sistemi apparentemente intelligenti costituiscano in realtà, non per complotto programmato ma per semplice costrutto definito dal tempo in cui si vive, un autentico inserimento delle attività belliche in ogni ambito della vita civile, dimostrando come la guerra non costituisca un “errore” nel contesto del modo di produzione capitalistico, ma una costante mentre soltanto la cosiddetta pace, per quanto momentanea, può essere ritenuta “impropria”.

Ma oltre a questo ancora un’altra riflessione si impone a proposito di Intelligenza Artificiale e del suo uso così come è stato immaginato. Talvolta anche a “sinistra” e soprattutto in ambito fantascientifico. Una IA che se lasciata fuori controllo potrebbe essere causa di attacchi nei confronti della specie umana, ma che se usata con piena coscienza potrebbe costituire un’occasione evolutiva per la specie stessa e contribuire al miglioramento delle sue condizioni di vita e dell’organizzazione sociale. Sostanzialmente una visione culturalista, riformista e progressista che annulla l’azione di classe e della specie per il necessario ribaltamento politico delle strutture di governo ed economico-proprietarie legate all’attuale modo di produzione.

Un dibattito che fu particolarmente vivace, fiducioso e ottimistico, al limite della naiveté, nell’ambito del primo Cyberpunk e dei manifesti cyber degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto a proposito dell’integrazione tra mente umana, rete e AI oppure della democrazia rappresentata dall’uso delle rete, che allora si andava appena delineando, e che ancora oggi attraverso il post-umanesimo o il trans-umanesimo oppure ancora per mezzo della corrente letteraria del Solarpunk si illude di poter utilizzare gli stessi strumenti per superare l’esistente senza per forza ricorrere agli obbligatori strumenti politici della lotta di classe e della rivoluzione.

Un dibattito di fatto reso nullo dall’attuale attività di controllo dell’enorme quantità di dati, Big Data, che da semplice strumento di controllo dei gusti e delle tendenze degli utenti dei social e di Internet si è trasformato in strumento di violenza e distruzione omicida, sia individuale che collettiva. Uno strumento totalmente sfuggito alle mani degli idealisti della rete e dell’IA e che ormai soltanto i signori del traffico delle informazioni e della guerra possono usare a proprio vantaggio.

Come dimostra anche il recente spostamento verso posizioni trumpiane e ultra-conservatrici, ma fa lo stesso per quelli ancorati al progetto “democratico” della Harris, dei miliardari più rappresentativi di quella che nel periodo sopracitato fu vista come l’utopia “hippie-cibernetica” della Silicon Valley californiana10, «dove esiste una nota “filiera” di innovatori direttamente collegati ad alcuni settori delle forze armate israeliane. Nei dintorni di Stanford e Palo Alto, Cupertino e Mountain View, cioè negli stessi luoghi celebri per i quartieri generali di Google, Apple e Facebook, esistono decine di società di cyber-sicurezza fondate da membri della Unit 8200, una divisione dell’esercito israeliano. È il modello che fu creato dal Pentagono con la Darpa, la sua filiale per il venture capital»11 che Israele ha portato all’ennesima potenza.


  1. Domenico Quirico, Quelle linee rosse disegnate apposta per costringere il nemico alla guerra, 20 settembre 2024 «La Stampa»  

  2. Paolo Mastrolilli, Israele-Libano, raid e missili. Gli Usa: “Evitare l’escalation”, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  3. F. Paci, Intervista a Gilles Kepel: “Netanyahu fa il lavoro sporco che nessuno vuole fare”, 23 settembre 2024 «La Stampa»  

  4. Valerio Berra, Perché non è possibile che i nostri smartphone esplodano per un attacco hacker, 18 settembre 2024.  

  5. A. Curioni, La convergenza fragile dei sistemi digitali e le opportunità del futuro, 7 aprile 2022 – «il Sole 24 ore».  

  6. Ivi.  

  7. F. Rampini, E l’America vieta il software cinese sulle auto, Corriere della sera 23 settembre 2024.  

  8. A. Curioni, La vera vulnerabilità è nell’Internet delle cose, 21 settembre 2024 «il Messaggero»  

  9. Su tale drammatico bombardamento, durato più giorni, si vedano: F. Taylor, Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca, Arnoldo Mondadori editore, Milao 2005: J. Friedrich, La Germania bombardata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004: W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Edizioni Adelphi, Milano 2004; K. Vonnegut jr., Mattatoio n.5 ovvero la crociata dei bambini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970.  

  10. Si veda G. Riotta, Silicon Valley. In fondo a destra, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  11. F. Rampini, cit.  

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Fermiamo il genocidio in Palestina! https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/fermiamo-il-genocidio-in-palestina/ Wed, 15 Nov 2023 16:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79979 [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese; e raccogliendo l’invito pressante dei Giovani palestinesi d’Italia a dare maggiore concretezza alla solidarietà con la resistenza del popolo palestinese; il SI Cobas ha deciso di indire per venerdì 17 novembre una giornata di sciopero nazionale nel settore privato, che si pone in continuità con le iniziative contro la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina del 21 ottobre scorso – in particolare con la manifestazione di impronta internazionalista e disfattista tenuta a Ghedi, davanti alla principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana.

Questa decisione di sciopero si ricollega alle prime iniziative contro il traffico di armi per Israele in corso a Oakland, in Belgio, in Australia e, da ultimo, a Genova, e soprattutto alle immense dimostrazioni per la liberazione della Palestina in corso in tutto il mondo. L’invito che essa esprime è a sostenere in pieno, senza tentennamenti di sorta, la resistenza dei palestinesi contro il colonialismo razzista e a pretendere l’immediata cessazione della carneficina portata avanti da Israele con la complicità degli Stati Uniti e delle potenze capitalistiche occidentali.

“I lavoratori e i proletari hanno il dovere di mobilitarsi ovunque possibile – si legge in una dichiarazione del SI Cobas – per fermare questa mattanza, bloccando i principali snodi della produzione, dei trasporti e del profitto, in particolare i traffici di armi e di merci dirette ad Israele.
Contro la guerra, l’economia di guerra e i governi della guerra! Contro il colonialismo sionista! Palestina libera!”.

Il giorno successivo allo sciopero, sabato 18 novembre, si terrà a Bologna (con partenza alle ore 15 da piazza XX settembre) un corteo indetto insieme dal SI Cobas e dai Giovani palestinesi d’Italia, dall’Unione democratica arabo-palestinese, dall’Associazione palestinesi in Italia, dal Movimento palestinesi in Italia, che ha già ricevuto molte adesioni.

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Storie di un dio bugiardo e sciocco https://www.carmillaonline.com/2023/11/08/storie-di-un-dio-in-difetto-e-di-una-cultura-scomparsa/ Wed, 08 Nov 2023 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79923 di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non [...]]]> di Sandro Moiso

Frank B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 156, 10 euro

«Ormai avete capito che il Vecchio non sempre era saggio, anche se ha creato il mondo e tutto ciò che contiene. Spesso si ficcava nei guai, ma poi in qualche modo accadeva sempre qualcosa per cui riusciva a cavarsela.» (Aquila di Guerra, stregone dei Blackfeet)

In periodi come questo, in cui il male di vivere occidentale si manifesta con tutte le sue contraddizioni, convulsioni e i suoi disastri che, oltre che a precederne la fine inevitabile, non risparmiano i popoli che non hanno ancora voluto sottomettersi alle sue leggi, ideologie e condizioni, può rivelarsi utile affrontare letture come quella proposta da Mattioli 1885 con il testo di Frank Bird Linderman appena pubblicato.

Il testo pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1915, con il titolo “Indian Why Stories: Sparks from War Eagle’s Lodge-Fire”, sotto le innocenti apparenze di una raccolta di racconti per bambini nasconde una visione del mondo, della natura e del divino distanti anni luce da quella imposta a suon di cannoni, inquisizioni e violenze dall’Occidente fin dall’inizio delle sue avventure e conquiste coloniali.

A riportarci indietro nel tempo e alle fondamenta di culture ormai scomparse è Frank Bird Linderman (New York, 25 settembre 1869 – New York, 12 maggio 1938), uno scrittore, politico, alleato ed etnografo dei nativi americani. Nato a Cleveland, Ohio, si recò nel West all’età di sedici anni, dove si innamorò della vita sulla frontiera del Montana e delle tradizioni dei suoi abitanti originari, con le cui tribù Salish e Blackfeet, visse e cacciò per diversi anni, imparando le loro lingue e tradizioni e i loro modi di vivere. Abitudini e stili di vita a cui si adeguò talmente da diventare noto tra i Crow come “Sign-talker” o, a volte “Great Sign-talker”; mentre i Blackfeet lo chiamavano “Tooth”, i Kootenai lo conoscevano come “Bird-Singer” e i Cree e Chippewa “Occhi” o “Sings-like-a-bird”.

Tornato tra i “bianchi”, divenne in seguito un sostenitore dei diritti degli indiani delle pianure settentrionali. Scrisse delle loro culture e lavorò, anche come uomo politico eletto per il partito repubblicano nel 1902 e nel 1904, per aiutarli a sopravvivere alle pressioni degli europei americani e continuò come avvocato per i nativi americani fino alla sua morte.

Pubblicò la sua prima raccolta di storie tribali dei nativi americani nel 1915 e scrisse altri venti libri nei due decenni successivi. Scrisse per condividere ciò che sapeva sulle culture dei nativi americani e per preservare le loro storie tradizionali.

Aveva passato la sua vita a raccogliere storie, e sentiva il dovere di scriverle. Scrisse altrettanto in una lettera a un amico: “Sento che è un dovere, in qualche modo, preservare il vecchio West, in particolare il Montana, nell’inchiostro della stampante, e se posso solo realizzare una piccola parte di questo, morirò soddisfatta”. Scrisse sei libri di leggende dei nativi americani, un’autobiografia, una raccolta di storie di frontiera, sei romanzi, tre storie di animali e una raccolta di ricordi sul suo amico e artista Charles Marion Russell. Le sue opere più importanti, tuttavia, rimangono le biografie di Pretty Shield e Plenty Coups. Anche se antropologi ed etnologi hanno notato che Linderman rimaneggiò le narrazioni in modo significativo, ma tuttavia hanno dovuto poi riconoscere che il suo lavoro contiene tutt’ora informazioni utili sulla vita dei nativi e dei Crow in particolare.

I venti racconti che Linderman immagina narrati da uno stregone Blackfeet ai giovani della tribù, sono sufficienti a delineare una cosmogonia molto articolata e complessa, in cui non vi è differenza gerarchica tra uomini e animali, tra natura e civiltà. Anzi sono spesso gli uomini e le loro usanze a dover sottostare alle leggi e alle norme della Natura e del mondo animale. Non per forza e costrizione, ma per saggia osservazione della realtà.

Anche se negli ultimi decenni il delirio new age ha trasformato troppo spesso questa visione del mondo e dei racconti che la tramandano in filosofia spicciola oppure in spiritualità da operetta, è piuttosto importante osservare come al loro interno questo rispetto arcaica della Natura e di coloro che condividono con l’uomo l’ambiente, pur non essendo umani, non danno vita ad una vera e propria religione. Non sono presenti Manitù e il sacro bisonte bianco, se non su uno sfondo piuttosto distante e sbiadito, mentre è presente, in quasi tutti i racconti, la figura del Vecchio Uomo, o Napa come è noto tra i Blackfeet, che è:

il personaggio più strano del folklore indiano. A volte appare come un dio o un creatore, e altra come uno sciocco, un ladro o un pagliaccio. Ma per l’indiano, Napa non è la Divinità; occupa una posizione alquanto subordinata, e possiede molti attributi che a volte hanno fatto sì che venisse confuso con lo stesso Manitù. […] Su quest’ultimo non si raccontano storie futili […] Ma con Napa la questione è completamente diversa. Non sembra aver diritto a nessun rispetto; è uno strano miscuglio fra un umano fallibile e un potente dio minore. Commette parecchi errori e raramente ci si può fidare di lui, e le sue azioni e scherzi variano dal sublime al ridicolo1.

Vicino ai semidei greci e alla inaffidabilità di tante divinità dell’Olimpo ellenico, Napa ci rivela un altro modo di intendere la religiosità: dubbioso quasi sempre, spesso ironico e mai del tutto succube dell’insegnamento, che va sempre interpretato oppure non ascoltato come se fosse una verità assoluta. Lontano tanto da Jahvè, i cui insegnamenti si vedono oggi in azione nelle striscia di Gaza per opera del “profeta” Netanyahu, quanto dalle interpretazioni di Allah rappresentate dal fanatismo islamista, ma anche dalle interpretazioni più autoritarie del Dio dei cattolici e dei protestanti.

Un modo di vivere la religiosità prossimo allo spettacolo della natura, lontano da ogni forma di fanatismo e per niente avvezzo a credere alla superiorità dell’Uomo e dei suoi dei sulle altre creature. Prossimo a una concezione cosmica lucreziana: Nessuna centralità dell’uomo nell’universo […] e nessuna gerarchia tra le foglie degli alberi, i fiocchi di neve, i sassi del fiume, le messi, gli arbusti, le specie dei viventi, il cielo, il mare, la terra2.

Creature che, come in ogni favola che si rispetti, sono altrettanto dotate di parola e saggezza sia che si tratti di castori che di uccelli oppure di topi, orsi, lupi e coyote. Animali, spesso totemici, che sono molto spesso i veri protagonisti delle favole narrate da Aquila di Guerra, insieme agli uomini e a Napa che, talvolta, deve rassegnarsi ad accogliere i consigli di che è più saggio di lui pur provenendo dal mondo animale.

Napa, il Vecchio, è davvero molto vecchio. Ha creato questo mondo e tutto ciò che vi sta sopra. […] Il Vecchio viveva in questo mondo con gli animali e gli uccelli. Allora non c’erano altri uomini o donne, e lui era il capo di tutti gli animali e di tutti gli uccelli.[…] Il Vecchio però commise anche grandi errori anche se poi sgobbava per far sì che tutto tornasse a posto. Spesso, tuttavia, faceva grandi dispetti e insegnava cose cattive. Tutti avevano paura del Vecchio e dei suoi inganni e delle sue bugie, persino gli animali, prima che creasse uomini e donne3.

Un dio ingannevole, infido e burlone non obbliga certo a una grande devozione e questo sembra essere l’intento centrale di un insegnamento che più che a servire il Cielo mira a rendere gli uomini e le donne più capaci di scegliere e comprendere ciò che va fatto per vivere in armonia con chi e cosa ci circonda. Eppure, eppure…

Come ci ricorda l’autore in prima persona, non fu quella società e non furono quegli insegnamenti a sopravvivere se non a livello di folklore nativo, come insegna, al termine della raccolta, il fantasma di un bisonte a un vecchio indiano che, nelle Badlands, si domanda dove siano finite le grandi mandrie che un tempo pascolavano sulle pianure create dal Missouri e quale sarà il destino del suo popolo.

Oh, uomo rosso, la mia gente se n’è andata tutta […] tutta la mia tribù è andata a pascolare tra le colline dell’ombra [quando] arrivò l’uomo bianco e ci fece guerra senza motivo o necessità. Io fui uno degli ultimi a morire, e con mio fratello fuggii in queste terre impervie per potermi nascondere; ma un giorno in cui la neve ricopriva il mondo, un bianco assassino seguì le nostre impronte, e con la sua arma rumorosa mandò i nostri spiriti a unirsi alle grandi mandrie d’ombra. Carne? No, non prese la nostra carne, ma dalla nostra carne tremante prese e strappò le vesti che Napa ci diede per riscladarci, e ci lasciò in pasto ai Lupi. Arrivarono quella notte e litigarono, si azzuffarono, si spartirono i nostri corpi, lasciando solo le ossa a salutare il Sole del mattino. I Coyote e altre bestie più deboli le trascinarono queste ossa e le scorticarono, e poi le scorticarono ancora, finché l’ultimo pezzo di carne o muscolo non scomparve, Poi giunse il vento con la sua canzone e tutto terminò4.

Oggi, mentre sta per avverarsi la profezia dei nativi americani5, è giusto, bello e utile ripercorrere queste pagine per tornare ad immaginare un mondo che non è più, ma che potrebbe tornare a vivere oltre l’avidità e l’egoismo causati dal capitale e dal mondo che ne è risultato. Fino ad ora.


  1. F. B. Linderman, Attorno al fuoco (a cura di N. Manuppelli), Mattioli 1885, Fidenza (PR) 2023, pp. 10-11.  

  2. I. Dionigi, L’Apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore, Raffaele Cortina Editore, Milano 2023, p. 15.  

  3. F. B. Linderman, op. cit., pp. 16-17.  

  4. Ivi, pp. 147-148  

  5. Stan Steiner, Uomo bianco scomparirai, Jaca Book, Milano 1978.  

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Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/ Sat, 14 Oct 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79556 di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco [...]]]> di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.

Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.

Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.

Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.

La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.

E’ soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.

Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.

L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.

Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi .
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.

Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.

Come afferma Francesca Mannocchi su La Stampa del 15 ottobre:

Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi fossero «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti»5.

Anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto, oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio dei popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.

In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)6.

Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. E’ successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi7, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.

Eppure, eppure…è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:

questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] esso ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo8.

Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.

Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»9 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza10.

Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon11. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite12.

Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro ancora, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:

con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)13.

Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.

Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano14.

Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.

Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati15.

Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrlevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel16 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.

Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata17. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero di affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese18. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”19.

Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo20. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta di fondamentale importanza.


  1. Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13  

  2. Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci. 

  3. Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.  

  4. Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.  

  5. F. Mannocchi, Israele, la disumanizzazione del nemico, La Stampa, 15 ottobre 2023  

  6. Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22  

  7. A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997  

  8. Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23  

  9. Ivi, p. 22  

  10. cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023 

  11. Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.  

  12. “L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
    “Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.  

  13. Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30  

  14. Ivi, pp. 25-26  

  15. Ivi, pp. 36-37  

  16. “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”  

  17. La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.  

  18. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.  

  19. Somdeep Sen, op. cit., p. 16.  

  20. “Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.  

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La nuova guerra civile europea https://www.carmillaonline.com/2018/05/03/la-nuova-guerra-civile-europea/ Wed, 02 May 2018 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45285 di Sandro Moiso

Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.

2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla [...]]]> di Sandro Moiso

Oggi, 3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto dei vuoti rituali della politica guardano a ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di Notre Dame des Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello Stato francese.

2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.

Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.

Mentre qui da noi i “nuovi” nani della politica inscenano il solito e nauseante teatrino, dimostrando di non essere altro che novelli e miseri gattopardi (specialisti nel cambiare tutto affinché nulla cambi) decisi a tutto pur di salvaguardare in qualche modo proprio ciò che gli elettori italiani, con il voto maggioritario ai 5 Stelle e alla Lega, si erano illusi di scacciare definitivamente dai loro incubi (PD, Renzi, Forza Italia e Berlusconi), là il cambiamento si gioca direttamente, faccia a faccia, tra chi questo osceno modo di produzione vuole continuare a salvaguardare e chi vorrebbe invece affossarlo per sempre.

Non a caso la ZAD è stata da tempo definita come zona di “non Stato” dalle stesse autorità francesi e non a caso proprio il non marché, l’area in cui era possibile prelevare o scambiare i prodotti dell’agricoltura locale senza ricorrere al denaro, è stata la prima area ad essere distrutta, ricostruita in pochi giorni e nuovamente rasa al suolo dalle ruspe delle forze del dis/ordine. Rendendo così evidente che non si tratta di riportare l’ordine repubblicano in un territorio di quasi 1700 ettari sfuggito al suo controllo, ma di ristabilire le norme della civile società del mercato, del profitto e dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo e dell’ambiente.

Ma qui, nell’Italietta sempiterna fascista e democratico-parlamentare allo stesso tempo, in questa grande unica Brescello di Don Camillo e Peppone, anche le forze che si vorrebbero “altre” sembrano preoccuparsi più della raccolta firme per le prossime elezioni amministrative oppure delle fratture interne legate ai vari mal di pancia individuali e di gruppuscolo oppure, ancora e semplicemente, di ricondurre il gregge degli scontenti all’interno dell’alveo parlamentare, più che di elaborare strategie ed iniziative adeguate ai mutamenti in atto nella società odierna. Dimostrando così, ancora una volta e semmai ce ne fosse ancora bisogno, che l’elettoralismo è sinonimo soltanto di negazione delle lotte e della reale liberazione da un esistente morto da tempo e di cui, per ora, soltanto i riti voodoo parlamentari riescono ancora a tenere nascosta la constatazione del decesso.

Parlando a Strasburgo davanti al parlamento europeo, il 17 aprile di quest’anno, Emmanuel Macron ha sottolineato il rischio che in Europa possa esplodere una guerra civile. Per una volta il giovane e rampante rappresentante della grandeur francese non ha mentito. Non ha mentito sapendo benissimo di che cosa stava parlando, essendo lui stesso uno dei promotori della stessa. Una guerra che, ormai da anni, il capitale finanziario sta conducendo contro i cittadini d’Europa, soprattutto là dove quegli stessi cittadini non si lasciano ingabbiare dalle logiche nazionaliste, populiste e razziste (che lo stesso capitale finanziario promuove facendo allo stesso tempo finta di combatterle).

Così mentre viene invocato ed applicato l’uso della forza aerea e militare contro la Siria di Assad per l’uso dei gas e delle armi chimiche che questi avrebbe fatto nei confronti della popolazione civile, allo stesso tempo si usano su tutto il territorio europeo i gas CS, proibiti dalla convenzione di Parigi (qui), per gasare i manifestanti dalla Val di Susa a tutta l’Europa. Oppure i gas paralizzanti e inabilitanti, insieme a flashball e proiettili di gomma, contro i difensori della ZAD di Notre Dame des Landes o in altre parti della Francia.

La guerra preventiva è diventata forma di controllo planetaria, e anche se in Europa non abbiamo ancora assistito agli orrori di Gaza, investita dalla vendetta del fascista Netanyahu, o del Rojava, investito dalla furia del sultano Erdogan, è certo che la logica della violenza aperta e dichiarata è diventata la formula corrente per il governo delle contraddizioni politiche e sociali.

In ogni angolo del continente europeo e del mondo i margini della trattativa si sono ridotti ad una mera logica di scontro e di rapporti di forza, anche e forse soprattutto militari. Vale per la concorrenza tra potenze tardo-imperialiste e neo-imperialiste, ma vale soprattutto per il conflitto di classe all’interno degli Stati. E non vi è più parlamento nazionale che possa effettivamente risolvere le contraddizioni interne, siano esse economiche o sociali, senza far ricorso all’uso dell’intimidazione e della violenza.

Proprio per questi motivi la solidarietà tra gli oppressi non può più misurarsi soltanto sulla base delle generiche petizioni di principio che hanno costituito il paravento dietro al quale sinistre ormai decrepite, nostalgiche e asfittiche, istituzionali e non, si sono riparate per decenni. Non bastano più e non ci sono proprio più, come la scarsa informazione su Gaza o su quello che succede alla ZAD ben dimostra.

Come negli anni della guerra civile spagnola oppure, ancor prima, delle guerre di indipendenza europee dell’Ottocento, la solidarietà si manifesta attraverso la partecipazione o il sostegno diretto alle lotte, dal Rojava alla Val di Susa, dalla Zad alla Palestina.
Una nuova generazione e un nuovo paradigma politico di lotta e resistenza si stanno imponendo, proprio a causa di quell’imposizione violenta dell’ordine e della volontà di dominio che il capitalismo internazionale sembra intendere come unica forma di governo sovranzionale.

Lo Stato così come è stato concepito dalle borghesie liberali è morto. E’ morto fin dai primi del ‘900, quando la grande paura delle insurrezioni e delle rivoluzioni “rosse” portò alla costituzione di nuovi organismi statali e partitici che coincisero con il fascismo, il nazismo e lo stalinismo.

Anime belle e pie affermarono allora che occorreva lottare contro quei mostri per tornare ai rapporti democratico-parlamentari precedenti. Ma se è vero che non vi è direzione teleologica della Storia, ovvero che la Storia non ha di per se stessa un fine, è anche vero che difficilmente lo sviluppo sociale e politico potrà tornare sui suoi passi. Con buona pace delle teorie sull’eterno ritorno e sulla circolarità della Storia stessa.

Fascismo e nazismo soprattutto non furono sconfitti nella riorganizzazione della forma Stato, che in effetti non ci fu affatto. A parte il farsesco processo di Norimberga in cui i vincitori, dopo aver messo in salvo gli avversari più prestigiosi e più utili, finsero di eliminare l’idra dalle molte teste, quasi ovunque, e soprattutto in Italia dopo la spettacolare eliminazione del Duce con una fine teatrale che servì al contempo a farlo tacere per sempre sui suoi rapporti con le forze politiche ed economiche che avrebbero preso in mano le redini della Repubblica, gli apparati dello Stato, le strutture economiche e sindacali (la concertazione, emanazione diretta di quella Carta del Lavoro voluta dal regime per dirimere senza conflitto i rapporti tra imprese e lavoratori), le strutture dedite alla repressione di classe e le forze armate rimasero sostanzialmente ancorate e fondate sulle pratiche e sulle idee del ventennio.

Basti rinviare ancora una volta alla mancata epurazione e all’amnistia concessa dal guardasigilli Togliatti, più attento a reprimere i sovversivi alla sua sinistra che a punire i rappresentanti degli apparati e del regime e che permise a un numero non piccolo di fascisti di reintegrarsi non solo nella DC, ma anche nel PCI, di cui in alcuni casi sarebbero diventati esponenti importanti.

Ma oggi quell’organizzazione statale nuova e democratica che, dietro ad un gran polverone di principi, formule e parole, aveva continuato, con l’antifascismo formale, la tradizione fascista del coinvolgimento del cittadino nelle strutture dello Stato, più ancora che attraverso la partecipazione alla vita politica per il tramite del parlamentarismo “democratico”, attraverso la sua completa sussunzione nello stesso tramite l’ideologia nazionalista, l’assistenzialismo diffuso e il rimbecillimento mediatico e associativo, non basta più. Semplicemente costa troppo. Anche per il “ricco” Occidente. Da qui i “populismi” e il loro feroce, volgare e superficiale attacco alle prebende parlamentari, alle spese inutili o l’uso di slogan che sembrano voler far riecheggiare l’antico chi non lavora non mangia, oggi diretto soprattutto ai migranti e giovani disoccupati non intenzionati a farsi sfruttare come bestie.

Da qui le fittizie contese sul lavoro e sulle pensioni, utili solo a raccattare voti tra ciò che resta della classe operaia e della classe media impoverita. Da qui un terzomondismo povero di idee, oggi ancor più di quello di ieri, che invece di guardare avanti, verso una società senza stato, sfruttamento, proprietà privata dei mezzi di produzione, salari e consumo di merci, guarda indietro, a rapporti più “equi” nello sfruttamento capitalistico e nell’appropriazione, nazionale o privata non importa, delle risorse e del loro prodotto.

Volutamente sono stati qui messi insieme slogan e atteggiamenti che appartengono a forze politiche apparentemente diverse tra loro, che però ubbidiscono ancora tutte ad una logica e a un immaginario che, se non fosse proprio per il teatrino mediatico e politico che contribuiscono tutte ad alimentare, avrebbero già potuto essere seppelliti da tempo. Come la crisi istituzionale che andrà in scena nei giorni a venire non farà altro che confermare definitivamente.

Chi oggi vuole cambiare l’esistente lotta sulle barricate della ZAD, in Val di Susa, nelle strade di Parigi del primo maggio o nel Rojava. Luoghi, insieme a molti altri, che sanno accogliere chi lotta, chi fugge e chi migra. Luoghi pericolosi perché non rappresentano il locale e l’immediato, ma il mondo di domani.

Come, tutto sommato, ha capito Macron che, dopo aver dichiarato il 17 gennaio di quest’anno definitivamente chiusa la possibilità di realizzare il secondo aeroporto di Nantes, ha scatenato i suoi cani da guardia contro coloro che, su quei territori, hanno già sconfitto il passato e lo Stato, in tutti i sensi e senza bisogno di partiti.

Fornendo un magnifico esempio al nuovo maggio di lotte che, a cinquant’anni di distanza dal 1968, sta tornando a divampare in Francia tra i lavoratori dei trasporti, gli studenti, i giovani senza lavoro e che ha già visto un sempre giovane Karl Marx tornare a prendere il posto che gli spetta nei cortei di testa.

Avvertenza
Con il presente articolo si inaugura una nuova rubrica di Carmilla, che i lettori troveranno in basso nella colonna di sinistra, dichiaratamente ispirata alla definizione di comunismo data dal giovane Marx: Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Al suo interno troveranno spazio tutti quegli interventi, redazionali e non, che vorranno occuparsi dello sviluppo dei movimenti di lotta contro i differenti aspetti della società che ci circonda e indirizzati ad un suo sostanziale cambiamento.
Resta naturalmente evidente che la responsabilità per il contenuto degli stessi rimane esclusivamente a carico degli autori e non della Redazione di Carmilla nel suo insieme.

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