neorealismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un neo-neorealismo è possibile https://www.carmillaonline.com/2023/05/14/un-neo-neorealismo-e-possibile/ Sun, 14 May 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77261 di Paolo Lago

Fabio M. Rocchi, La disputa sul raki e altre storie di vendetta, Besa Muci, Nardò, 2021, pp. 191, euro 15,00.

Parafrasando il titolo di un suggestivo pamphlet di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile (titolo che prende spunto da una frase che Picasso pronunciò di fronte al quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo), si potrebbe affermare, invece, che un certo neo-neorealismo è possibile. Intendendo con l’azzardata espressione “neo-neorealismo” un modo stilistico che per alcuni aspetti prende le mosse da quell’inesausto campo di discussione culturale che è stato il [...]]]> di Paolo Lago

Fabio M. Rocchi, La disputa sul raki e altre storie di vendetta, Besa Muci, Nardò, 2021, pp. 191, euro 15,00.

Parafrasando il titolo di un suggestivo pamphlet di Walter Siti, Il realismo è l’impossibile (titolo che prende spunto da una frase che Picasso pronunciò di fronte al quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo), si potrebbe affermare, invece, che un certo neo-neorealismo è possibile. Intendendo con l’azzardata espressione “neo-neorealismo” un modo stilistico che per alcuni aspetti prende le mosse da quell’inesausto campo di discussione culturale che è stato il neorealismo, la cui esigenza era di uscire dalle formule letterarie del ventennio fascista e di opporvisi: una discussione e una produzione di arte e di cultura, quindi, ben radicate in solide prerogative antifasciste. La convinzione che sia possibile si rafforza dopo la lettura della raccolta di racconti di Fabio M. Rocchi, “La disputa sul raki e altre storie di vendetta”. Se, probabilmente, non è più possibile guardare con occhio ‘neorealista’ a un territorio come quello italiano, ormai deturpato da sguardi estetizzanti e ‘borghesizzanti’ – incentrati appunto su una classe borghese ed alto-borghese – sia nella letteratura che nel cinema (ad eccezione, forse, delle opere di Claudio Caligari e di alcune pellicole di Matteo Garrone, di Emanuele Crialese e dei fratelli D’Innocenzo), è necessario rivolgersi a territori marginali, nel sud e nell’est del mondo. Ma anche a quelli più vicini in cui il concetto stesso di Europa e di benessere europeo si sfalda, quei “confini dell’impero”, per utilizzare il titolo di un bel libro del giornalista free lance Giuseppe Ciulla nel quale sono descritti “5000 chilometri nell’Europa dei diritti negati”: diritti civili, sociali e sul lavoro. Basta spostarsi a est, laddove è crollato su sé stesso il grande pachiderma sovietico lasciando soltanto rovine da dare in pasto al capitalista occidentale più cinico e spregiudicato.

Fra tali territori c’è anche l’Albania, che l’autore sceglie di declinare all’interno delle varie narrazioni in due momenti temporali diversi: la seconda metà degli anni Novanta, quando il paese era uscito da poco dalla dittatura e molti albanesi erano immigrati in Italia, attratti dalla ricchezza occidentale e gli anni più recenti, in cui l’Albania sta conoscendo un progressivo ingresso nel benessere europeo. Il paesaggio che fa da sfondo alle vicende sembra però non essere cambiato: campagne, colline, montagne brulle e spoglie, un universo di contadini e allevatori in cui sorgono misere abitazioni isolate o fatiscenti caseggiati in strade periferiche solcate da vecchie e scarburate Mercedes. È un territorio devastato da anni di dittatura non troppo dissimile dall’Italia, che negli anni Quaranta emergeva stremata dalla guerra e da un’altra dittatura, per come è stata raccontata da Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Carlo Levi e Ignazio Silone. L’Albania è un luogo divenuto terra di nessuno, in cui gli stessi abitanti si sentono soli e disperati, legati ad un universo arcaico e ancestrale, venato da tradizioni obsolete e crudeli come il crudo rituale della vendetta, che nei racconti compare nei modi più diversi ed anche solamente allusivi, una vendetta proveniente da una terra brulla e crepata dal sole. Su questo panorama si distende lo spettro di un benessere solo intravisto e poi raggiunto tramite l’emigrazione in Italia o in altri paesi europei. È soprattutto l’Italia il fantasma del benessere più vicino e incombente per molti albanesi che vi si recano per cercare fortuna, per lavorare anni ed anni in interstizi di crudeltà e di miseria.

Emergono allora personaggi cresciuti nella povertà e nella violenza, orgogliosi, coraggiosi e ostinati come il loro eroe nazionale, Giorgio Castriota Skanderbeg, il principe albanese che nel Quattrocento guidò il paese contro l’occupazione turco-ottomana fino ad entrare nella leggenda. Come Danush, protagonista del racconto Bulloni, che senza battere ciglio percorre fino in fondo il sentiero della sua vendetta, senza ripensamenti o pentimenti. È interessante anche il modo in cui molti di questi personaggi si esprimono. L’autore, dando loro voce, mette in scena un discorso indiretto libero di matrice verista nel quale spesso si incunea una regressione linguistica fatta di frasi brevi e spezzate, pensieri che si rincorrono secondo logiche astruse e irrazionali. Parlano e pensano così molti dei personaggi che si incontrano nei racconti: Danush; il tassista Gaz che vuole imbrogliare l’io narrante, un ingegnere idroelettrico italiano che fa costruire una diga a Peshnamar, mutando e ‘occidentalizzando’ il territorio rurale albanese; Aferdita, che per vendicarsi sceglie un “imbutino”; Arti, che si immerge nel benessere di Francoforte per andare a trovare la sorella, che lì era emigrata; i fratelli del racconto Non si decide a morire; Theo, Mehmet e Arben che si ritrovano, insieme all’io narrante italiano, per una “disputa sul raki”. Nelle narrazioni allestite da Rocchi (forse con l’unica eccezione di Il festival internazionale delle letterature, riuscita satira del mondo accademico) incontriamo quindi personaggi rivestiti di una “vita violenta” e predisposti quasi naturalmente a difendere il proprio onore e la propria rispettabilità, anche a costo di atroci vendette. Il riferimento pasoliniano alla “vita violenta” (espressione che riprende il titolo di un romanzo di Pasolini del 1959) non è casuale: nella raccolta Nuvole corsare, uscita nel 2020, che raccoglie racconti di diversi autori ispirati all’opera e alla figura di P.P.P., Fabio Rocchi inserisce infatti un altro racconto incentrato su una storia di vendetta, La catana, nel cui titolo viene esplicitato (come in Bulloni o L’imbutino) l’oggetto mediante il quale il personaggio progetta di vendicarsi.

Per concludere, si può pensare che nello stesso titolo della raccolta (che, in parte, è anche il titolo dell’ultimo racconto) siano presenti tracce di quello che qui è stato arditamente denominato “neo-neorealismo”. Innanzitutto c’è la parola “disputa” che rimanda a una sfida, a un duello, una parola che però appare immediatamente associata al termine “raki”, che indica una bevanda alcolica turca all’anice ed anche un distillato di vinaccia greco e albanese. Esso appartiene ad un contesto decisamente più ‘basso’ che, appunto, abbassa la dimensione della disputa. Infine, c’è la parola “vendetta” che spicca nella sua assolutezza. Quella disputa, quindi, non potrà essere una semplice discussione ma un vero e proprio duello, uno scontro, una sfida che, per l’appunto, si viene a creare fra un turco, un greco e un albanese. Come quarto incomodo c’è anche un italiano, l’io narrante, che si fa portavoce della più nostrana grappa, parola che, come il raki, indica una bevanda alcolica di carattere popolare. E se spesso molti racconti mettono in scena un incontro o un avvicinamento fra un italiano che per i motivi più svariati si è trasferito in Albania, e un albanese, i risvolti vendicativi che segnano questi incontri corrono invece nella direzione di una fratellanza. Se negli anni Novanta erano stati gli albanesi a venire in Italia, negli anni Dieci sono invece gli italiani a cercare fortuna in Albania, dove magari trovano coloro che erano stati ex emigrati in Italia. Ecco che, come notato, si stabilisce un clima di aiuto reciproco non certo ignoto a molta tradizione neorealista. Alla fine, nel bene e nel male, a trionfare è una fraternità che accomuna i personaggi, di qualsiasi nazionalità essi siano, e li fa sentire vittime inconsapevoli di un cinico sistema che con il suo violento macchinario produttore di merci e ricchezze ingloba le loro esistenze.

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Quel brutto pasticcio della guerra (e della prigionia) https://www.carmillaonline.com/2023/02/01/quel-brutto-pasticcio-della-guerra-e-della-prigionia/ Wed, 01 Feb 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75802 di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio [...]]]> di Sandro Moiso

Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, a cura di Paola Italia, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 626, euro 35,00

Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è stato uno straordinario innovatore nell’uso della lingua nella prosa italiana. Autore di romanzi, racconti, saggi e traduzioni, soprattutto quest’ultime di testi del Siglo de Oro spagnolo, ha visto, però, la straordinaria varietà e ricchezza linguistica e l’ironia, spinta in taluni casi fin quasi al sarcasmo, che hanno connotato le sue opere maggiori trasformate in ostacoli che hanno reso talvolta più difficile l’approccio del grande pubblico ai suoi testi.

Testi che, soprattutto dal punto di vista linguistico, è infatti possibile avvicinare alle avanguardie letterarie, non solo italiane, più che alla letteratura tradizionale dell’Italia moderna, caratterizzata, fin dall’Ottocento, da certi scadimenti nazionalpopolari e melodrammatici che non sono migliorati nemmeno oggi, quando a tale tendenza si è affiancato, in tanta produzione letteraria degli ultimi decenni, un eccesso d’intimismo che non ha fatto altro che rafforzarne il sentimentalismo.

Tra gli autori italiani del ‘900 sono stati Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini a concentrare maggiormente l’attenzione sull’uso della lingua che lo scrittore, ingegnere di professione come ricordano le sue biografie, spesso dilatava in tutti i suoi infiniti registri stilistici nei suoi romanzi e racconti. Ma se Calvino, che può essere considerato insieme allo stesso Gadda e a Primo Levi uno degli autori italiani più attenti a ibridare il linguaggio tecnico-scientifico con la ricerca letteraria, non abbandonò mai la sponda illuministica della facoltà raziocinante e razionalizzatrice della creazione letteraria, Gadda invece, con un uso smodato della lingua in ogni sua forma tendeva a costringere la ragione, di cui lui, ingegnere, doveva esser portatore in ogni progetto, a fare i conti con una realtà magmatica, la cui oggettività poteva espandersi fino a diventare inafferrabile nei suoi sviluppi. Come affermò lo stesso Calvino, nella introduzione all’edizione americana del Pasticciaccio nel 1984:

È il ribollente calderone della vita, è la stratificazione infinita della realtà, è il groviglio inestricabile della conoscenza ciò che Gadda vuole rappresentare. […] La vera cosa che Gadda aveva da dire è la congestionata sovrabbondanza di queste pagine attraverso la quale prende forma un unico complesso oggetto, organismo e simbolo che è la città di Roma.
[…] La Roma stracciona e sbraitante del cinema neorealistico (che proprio in quegli anni viveva la sua età dell’oro) acquista nel libro di Gadda uno spessore culturale, storico, mitico che il neorealismo ignorava1.

In occasione di una conferenza tenuta a Buenos Aires e pubblicata nel 1984 con il titolo Il libro, i libri, Calvino avrebbe ancora affermato: «In Italia il romanziere enciclopedico per eccellenza è Carlo Emilio Gadda, che nel Pasticciaccio brutto di Via Merulana condensa in un intreccio poliziesco i dialetti di Roma e di mezza Italia, l’arte barocca e l’epopea di Virgilio, la psicologia e la fisiologia, e soprattutto una filosofia della conoscenza»2. Mentre nella quinta delle Lezioni americane, avrebbe ancora sostenuto: «Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento»3.

Durante il suo primo viaggio in America, Calvino aveva avuto occasione, nel 1959, di mettere a confronto Gadda e Pasolini, proprio sul tema del linguaggio, in un discorso che sarebbe stato pubblicato in seguito con il titolo Tre correnti del romanzo italiano d’oggi:

Pasolini scrive i suoi romanzi nel dialetto o meglio nel gergo del sottoproletariato dei sobborghi di Roma […] Con ostinata volontà razionale, Pasolini contrappone nei suoi romanzi e soprattutto nelle sue poesie in lingua […] una sua idea di popolo come istintiva gioia sensuale e una sua idea di severa morale politica di riscatto sociale. Nell’una e nell’altra idea e soprattutto nella loro contrapposizione, c’è ancora una buona parte di ostinazione intellettuale e una buona parte di fervore romantico. […] Il maestro a cui Pasolini si richiama nei suoi esperimenti linguistici è uno scrittore ora già anziano, Carlo Emilio Gadda, che pur rappresenta nella letteratura italiana quasi direi l’unica punta d’avanguardia nella ricerca formale, che possa affiancarsi a consimili esempi stranieri. Il linguaggio di Gadda è la Babele, o meglio la stratificazione, di tutti i linguaggi: dialetti (milanese e romanesco soprattutto), linguaggio dell’antica tradizione letteraria, formule burocratiche, con mille modulazioni e riflessioni che paiono i virtuosismi d’un grande musicista e gli scatti d’insofferenza d’un nevrastenico. Più che a Joyce, a cui molti lo paragonano, Gadda può essere avvicinato a Rabelais. Il suo romanzo maggiore Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, a cui lavora da vent’anni, è una specie di storia poliziesca a cui tutta Roma ribolle come un immenso calderone. In modo paradossale e ossessionato, si compone in Gadda un’immagine dell’Italia d’oggi, sospesa tra umore popolaresco, tradizione, razionalità e nevrosi.

La lingua di Gadda, in cui il realismo si mescola con una fervida fantasia e una satira spesso violenta sembra infatti prendere spunto da quella di Rabelais; un’efficace mistura che avrebbe fatto sì che lo stesso Pasolini definisse Gadda come un «grosso anarchico buono come un ragazzo». I due si erano conosciuti nel 1955 e fin dal 1956 l’Ingegnere aveva collaborato alla rivista «Officina» fondata nel 1955 a Bologna da Pasolini insieme a Francesco Leonetti e Roberto Roversi. Per poi vedere separate le loro strade sul finire degli anni ’50, quando Pasolini iniziò il progressivo avvicinamento a nuove amicizie e sodalizi artistici (con Sergio Citti, Elsa Morante e Alberto Moravia) 4.

Il testo appena ripubblicato da Adelphi, apparso per la prima volta nel 1955, viene ora proposto, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte dell’autore, in una nuova edizione accresciuta da sei taccuini inediti, e ci permette, forse, di individuare l’origine di quella babele linguistica e di quello scontro tra volontà di mantenere fermo un punto di vista positivo e la realtà caotica della società moderna di cui hanno parlato comunque sia Calvino che Pasolini a proposito di Gadda.

Il giornale di guerra e di prigionia, infatti, ci consegna, non solo, il primo lungo esercizio di scrittura di un giovane Gadda arruolatosi come volontario e interventista nel Regio esercito italiano fin dai primi giorni di guerra, ma anche il tentativo di riporre ordine in un’esperienza caotica, disordinata, deludente e tutto sommato inafferrabile come quella della guerra (dall’agosto del 1915 all’ottobre del 1917), prima, e della prigionia (dal novembre 1917 al 29 dicembre 1918), poi.

Per il sottotenente Gadda, che l’aveva auspicata come «necessaria e santa», la Grande Guerra si rivela uno scontro durissimo. Più ancora che con il nemico, con ciò che scatenava in lui un’indignazione così violenta da sfiorare la «volontà omicida»: la meschinità della «vita pantanosa» di caserma; l’incompetenza dei grandi generali; l’indegnità morale dei vigliacchi, degli imboscati e dei profittatori, che costringevano gli alpini a marciare con scarpe rotte: « se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate » confessa.
Come afferma la curatrice, Paola Italia, nella Nota al testo:

Questa nuova edizione dei diari di guerra che Gadda tiene dal 24 agosto 1915, due mesi dopo l’inizio, a Parma, della sua milizia, alla fine del 1919 […] – edizione resa possibile dalla scoperta di sei quaderni inediti, di proprietà degli eredi Bonsanti – […] si rivela un’opera profonda e potente: pur difforme dai più celebri, e letterariamente atteggiati, diari di Soffici, Stuparich e Comisso, appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra, e basterebbe da solo ad assicurare a Gadda un posto nel nostro Novecento. Non si tratta, come inizialmente si è ritenuto, di una prova generale della sua narrativa (che prende avvio proprio durante la prigionia), ma di un’opera in sé, originalissima e autonoma. Un’opera che è anche un eccezionale documento storico. Gadda ha vissuto infatti non una, ma una pluralità di guerre, combattute su vari fronti e da lui registrate in maniera accurata e veridica: i diari ce lo mostrano dapprima a Edolo, dove, destinato al 5˚ Reggimento Alpini, giunge il 18 agosto 1915, e a Ponte di Legno, dove trascorre gli ultimi mesi del 1915 fino al gennaio 1916; poi, al termine dell’addestramento a Torino nel maggio 1916, lo seguono a Vicenza, nelle trincee dell’Altopiano dei Sette Comuni, sul monte Zovetto, a Cesuna, a Campiello e in Val d’Assa, dal giugno all’ottobre 1916. Il vuoto dal novembre 1916 all’ottobre 1917 è una voragine aperta nell’anima di Gadda, che, smarrito a Caporetto il prezioso quaderno di «Torino Carso Clodig» e fatto prigioniero il 25 ottobre 1917, ricomincia a scrivere su un quaderno – «acquistato nel Gefangenenlager presso Celle, (provincia di Hannover), alla Kantine del Block C» – che testimonia la sua vita di prigioniero nella «baracca dei poeti », dal maggio all’inizio del novembre 19185.

E forse qui, in questa autentica officina, il lettore attento potrà trovare tutte le inquietudini dell’autore: lo sconforto di non poter inquadrare secondo una logica efficace i fatti, la sconfitta, lo sfondamento delle linee a Caporetto, i cedimenti dei soldati e gli errori e la superficialità degli ufficiali e dei comandi. Il tentativo di descrivere ciò che fino ad allora nessuna aveva osato o saputo immaginare: una guerra devastante che avrebbe irrimediabilmente proiettato la sua ombra sul XX secolo e forse, come oggi purtroppo possiamo constatare, anche oltre.

Un’esperienza che, naturalmente non fu solo di Gadda6. Ma che spesso, proprio negli interventisti convinti scatenò le più forti delusioni ed emozioni. Come ad esempio dimostrano le poesie scritte dall’”interventista” Ungaretti durante la guerra, anch’esse datate come se si trattasse di un diario, certamente tra le più belle e significative dell’intera sua produzione.

Lì, nel fango delle trincee, nella confusione delle ritirate e delle sconfitte, nel sangue dei commilitoni, nel dolore per la scomparsa degli amici oppure, come nel caso di Gadda, di un fratello e nella scoperta della debolezza e insignificanza del singolo, nasceva la necessità di nuovi linguaggi, di nuove formule affabulatorie che potessero rendere l’idea di un caos che non si sarebbe mai potuto immaginare prima.

I soldati d’altri reparti, profughi e randagi, si frammischiavano alla nostra colonna, l’accompagnavano, la sorpassavano, facendomi inviperire per il disordine che ingeneravano. Il marciare uno per uno, in fila indiana e bene ordinata, divenne difficile. Nel scendere il breve tratto di china ripida e boscosa di arbusti, un 100 metri di pendio circa, con un dislivello di 50, infatti dovevamo perdere il collegamento. Cola aveva visto che in un certo punto alcuni ufficiali e soldati tentavano di costruire una passerella, in un punto in cui un masso emergente restringeva la larghezza del fiume. Era sceso lì: sopraggiunto anch’io, in coda alla colonna, vidi e approvai. Ma appena arrivato in fondo, Cola s’avvide che prima che l’incerta passerella fosse costruita occorreva tempo; e piegò subito verso Ternova, seguito dai primi soldati della 3.a Sez. che gli stavano appresso, e risalendo il corso dell’Isonzo (sempre s’intende sulla sinistra orografica). Ma i soldati in coda della 3.a sezione, stanchissimi, con le mitragliatrici a spalla, non poterono seguitare il passo troppo rapido e nervoso di Cola (Cola aveva un passo troppo nervoso, saltellante, irrequieto come il suo carattere, già altre volte riscontratogli), e s’accasciarono lì, pochi metri sopra l’acqua, nel gran disordine. Quando io sopraggiunsi poco dopo trovai i soldati lì, mezzo istupiditi dalla stanchezza, con le armi allato. Qualcuno già aveva smarrito un nastro o due; naturalmente li rimproverai, li copersi di rimproveri, ecc. e mi diedi a cercar Cola e gli altri, nella folla dei soldati e degli ufficiali di tutte le armi che s’affollavano presso la passerella. Cercai, chiamai, mi stancai andando su e giù: e potei radunare i soldati e le mitragliatrici che ancor rimanevano, e cioè la mia sezione e 1’arma della 3.a col Serg. Gandola. L’inquietudine e la responsabilità essendo rimasto solo, la situazione difficilissima, cominciarono a mettermi in gravi angustie. Ero inoltre arrabbiato con Cola e coi soldati per il distacco. Tuttavia mi raccolsi, nell’amarezza, e misurai la situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d’armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano, a rischio di precipitare nel fiume verso la passerella; il fiume non poteva guadarsi in alcun modo; l’Isonzo, sopra Tolmino, e anche ad Auzza, Canale, ecc. ha un letto stretto (20 m circa) a rive precipiti, e profondo (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l’azzurro cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima, torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti, e dal corso suo stesso ai piedi del S. Michele. Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestiti o con armi. – D’altra parte il tempo stringeva e l’affanno cresceva; sentivo ormai a poco a poco delinearsi il pericolo. Non in linea, non in posizione, dove avremmo potuto batterci con onore e infliggere anche ad un nemico preponderante terribili perdite; ma dispersi in ritirata fra una folla di soldati sbandati! Come la sorte s’era atrocemente giocata di me! Non l’onore del combattimento e della lotta, ma l’umiliazione della ritirata, l’abbandono di tanta roba, e ora questo maledetto Isonzo! questi ponti saltati7.

Sono le ore che seguono la ritirata di Caporetto e precedono la resa al nemico, mentre le pagine sono completate nel campo di prigionia di Rastatt nel novembre dello stesso anno. I luoghi e i fiumi (Monte San Michele, Isonzo) sono gli stessi descritti nei versi di Ungaretti. Qui la ricerca di senso mescola la stanchezza dei vinti con la descrizione morfologica e idrogeologica del territorio, mentre nelle poesie di Ungaretti il senso cerca di esprimersi attraverso il minor numero di parole possibile e una scelta precisa delle stesse come in un haiku.

Un rituale della parola, che cerca di dare senso ad una realtà che sembra perderlo ad ogni passo, che avrebbe accompagnato l’esperienza letteraria di chi quella guerra visse sulla propria pelle e attraverso i propri occhi e le proprie orecchie, ben distante dai salotti letterari, che cercarono in seguito di dar voce alle classi subalterne guardandole da lontano, sempre immaginando scenari di redenzione e senza mai provare davvero il senso della sconfitta e della perdita di ogni riferimento.
Come ha affermato Antonio Gibelli:

Che una guerra con queste caratteristiche, fuori e oltre ogni tradizione culturale, ogni esperienza percettiva precedente e soprattutto ogni previsione, costituisse un elemento di rottura profonda e mettesse a dura prova ogni genere di linguaggi acquisiti, è evidente: sia i linguaggi verbali, sia i linguaggi non verbali […] La guerra fu così smisurata che persino gli esponenti delle avanguardie, i quali in genere l’avevano prevista, attesa e non di rado affrontata con entusiasmo come clamoroso inveramento delle loro estetiche, finirono in gran parte per ammutolire di fronte ad essa […] La realtà aveva insomma superato l’immaginazione, aveva chiamato a una sfida estrema il modernismo della visione artistica e spuntato più di una lancia nel campo della rappresentazione dell’orrore8.

Una scoperta e cognizione del dolore che si sarebbe manifestata in tante opere di Gadda, in cui il linguaggio della scienza e della tecnica e quello dell’accademia non sarebbero più bastati a descrivere il mondo. Motivo per cui, ancora oggi, si rende necessario tornare a Gadda e alla sua ricerca linguistica senza accontentarsi di tanto “populismo”, letterario e non, che travestendosi da progressismo non ha fatto altro che avvallare la realtà senza davvero cercare di coglierne l’essenza.


  1. R. Ceserani, Calvino e Gadda. Le tappe e i modi di un incontro, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies», Supplement no. 8, EJGS 7/2011-2017  

  2. Cit. in R. Ceserani, op. cit.  

  3. Ibidem.  

  4. Cfr: S. Corso, Gadda e Pasolini, in «The Edimburgh Journal of Gadda Studies» (EJGS 4/2004). EJGS Supplement no. 1, second edition (2004)  

  5. P. Italia, Nota al testo in C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Edizioni Adelphi, Milano 2023, pp. 555-556  

  6. Si pensi a quanto analizzato negli studi di Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna (il Mulino, 1984 e 2000), Eric J. Leed, Terra di nessuno (il Mulino 1985 e 2014), Paola Tonussi, War Poets. Nelle trincee della Prima guerra mondiale (Edizioni Ares 2022), solo per fare pochi esempi. 

  7. C. E. Gadda, op. cit., pp.317-319. 

  8. A. Gibelli, Introduzione all’edizione italiana di P. Fussell, op. cit., pp. XXII-XXIII  

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Il corpo e lo sguardo nel cinema della modernità https://www.carmillaonline.com/2020/09/24/il-corpo-e-lo-sguardo-nel-cinema-della-modernita/ Thu, 24 Sep 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62892 di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, [...]]]> di Paolo Lago

Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 211, € 12, 50.

È il corpo il protagonista del recente, interessante saggio di Alberto Scandola, Il corpo e lo sguardo. L’attore nel cinema della modernità, uscito per Marsilio. Il corpo degli attori più significativi e indimenticabili che hanno attraversato il cinema della modernità. Quest’ultimo, secondo Serge Daney, ha dei precisi confini cronologici: “Il cinema moderno è nato nell’Europa martoriata dalla guerra, con Rossellini, e sarebbe morto trent’anni dopo con Pasolini”. Nel cinema moderno, quindi, “i personaggi non sono più entità astratte” ma “corpi di carne”, spesso indolenti e stanchi come gli attori (e i non attori) chiamati a portare la loro verità a queste finzioni”. I corpi degli attori del cinema della modernità, perciò, come scrive Scandola in modo suggestivo, “desiderano vivere la propria vita e non quella del personaggio”. È questa l’idea di fondo del saggio, il quale, analizzando soprattutto le figure degli attori, ci offre un vero e proprio viaggio – probabilmente un viaggio mai percorso così in profondità da altri studiosi – attraverso lo stile e la poetica di tanti registi che fanno in modo che le storie raccontate “risultino la secrezione dei personaggi e non il contrario”.


L’analisi è svolta seguendo un rigoroso ordine cronologico: si parte dagli anni quaranta del Neorealismo per approdare agli anni ottanta. Una delle interpreti più significative del Neorealismo è sicuramente Anna Magnani. Icona del cinema neorealista – basti ricordare l’interpretazione della popolana Pina in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini – in Bellissima (1951) di Luchino Visconti ella diviene il fulcro di numerosi rimandi metacinematografici. È la stessa Maddalena, personaggio del film interpretato dalla Magnani, a attuare diverse allusioni alle precedenti interpretazioni dell’attrice fino a trasformarsi in una comédienne dell’Ottocento durante la scena della toilette davanti allo specchio (“In fondo che è recità?” si chiede Maddalena ed ecco il personaggio che si finge attrice: “due colpi di pettine sui capelli scarmigliati, la mano destra sul petto come una comédienne dell’Ottocento, e una fortissima key light puntata sul viso”). L’analisi, passando attraverso la figura di una altro grande attore di questi anni, Massimo Girotti (emblema, nelle sue prime interpretazioni, della “maschilità latina forte e sana” e traghettato al Neorealismo da Luchino Visconti con Ossessione), ci conduce fino a una caratteristica stilistica del Neorealismo, e cioè la scelta di attori non professionisti (una pratica, del resto, prescritta già da importanti registi e teorici come Vertov, Bazin e Ejzenstejn) e di attori bambini. L’analisi si incentra allora sull’interpretazione di Edmund offerta da Edmund Meschke in Germania anno zero (1948) di Rossellini. “Non sappiamo se questo attore bambino – scrive Scandola – scoperto in una famiglia di circensi, sul set faccia davvero, come sostiene il regista, solo ciò che è abituato a fare. Di certo, a più di settant’anni di distanza, il suo corpo gracile e nervoso resta forse l’emblema più alto del sogno neorealista, che era quello di catturare il reale senza le mediazioni dell’attore e del personaggio”.

Secondo lo studioso, l’attore della modernità gravita sostanzialmente fra due stati: “L’immobilità, grado estremo dell’inazione potenziato” (in autori come Ferreri, Pasolini, Straub o Fassbinder) e “una sorta di movimento perpetuo, il quale si configura come camminata, vagabondaggio o viaggio. Un vero e proprio viaggio, come già accennato, è anche quello che facciamo noi lettori nella modernità cinematografica grazie al saggio di Scandola: proseguendo, incontriamo così il secondo capitolo, dedicato soprattutto al cinema francese degli anni sessanta e alla Nouvelle vague. Secondo Robert Bresson, “l’attore ideale è la persona che non esprime nulla” ed è così che egli chiede ai suoi attori di essere semplicemente se stessi, di non compiere gesti intenzionali ma automatici, di essere, in sostanza degli “automi” che si muovono in un racconto filmico messo in scena non per imitare il vero ma per mostrare l’infinito mistero racchiuso in esso. Alain Resnais, invece, in L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière a Marienbad, 1961) chiede a Delphine Seyrig, altra importante attrice di questo periodo, di lasciar trasparire la letterarietà e, quindi, il lato più fantastico e irreale, dal suo personaggio (addirittura denominato solo con una lettera, A). Lo stesso corpo dell’attrice, come gli “oggetti desueti” (per dirla con Francesco Orlando) che formano l’arredamento dell’albergo e gli elementi decorativi del parco, subisce un vero e proprio processo di frammentazione (basti ricordare anche l’incipit di Hiroshima mon amour, dello stesso Resnais, “dove a stento si riesce a distinguere una parte del corpo da un’altra”).

La Nouvelle vague offre poi un nuovo processo di immedesimazione fra attore e personaggio: sul set l’attore non interpreta più un altro da sé, ma semplicemente se stesso. E questi nuovi attori vengono filmati in pose e modalità molto diverse: dall’inazione più totale fino all’erranza e al movimento quasi incessante. Un importante punto di riferimento, in questo senso, può essere sicuramente uno dei vertici del cinema di Orson Welles, e cioè Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955), in cui il movimento incessante del protagonista Guy van Stratten (Robert Arden) assume la dilatazione di un vero e proprio viaggio ludico e ipertrofico sulla scacchiera di un’Europa uscita da poco dal secondo conflitto mondiale. L’erranza, il viaggio e la fuga diventano infatti delle vere e proprie cifre stilistiche del cinema moderno, anzi delle vere e proprie figure. Errano e si muovono i personaggi di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, ma anche quelli di Fellini (La dolce vita, 1959), Pasolini (Accattone, 1961, Mamma Roma, 1962), Bertolucci (Strategia del ragno, 1972).

Altre importanti figure di attori analizzate dal saggio sono Brigitte Bardot (soprattutto nell’interpretazione di Il disprezzo, 1963, di Jean-Luc Godard) Claudia Cardinale (musa, fra gli altri, di Visconti e Zurlini) e Jean-Pierre Léaud, il quale si configura non solo come uno degli attori prediletti da François Truffaut ma anche come “il corpo del Sessantotto”, basti pensare all’interpretazione di La cinese (La chinoise, 1967) di Jean-Luc Godard ma anche a quella di Porcile (1969) di Pasolini.

E dal moderno il viaggio continua, fino a “oltre il moderno”. Incontriamo così altri attori significativi come Marcello Mastroianni, Chaterine Deneuve, Gérard Depardieu e Isabelle Huppert. Se il Mastroianni di Fellini si configura come un indolente homo deambulans, perduto nella sua erranza, “mediatore tra l’occhio dell’artista e l’orrore del mondo” (8 ½, La dolce vita), quello di Ferreri diviene corpo sofferente e morente, segnato nel profondo dalla “sfera rabelaisiana” individuata da Michail Bachtin e attraversata dai “vicinati” cibo-sesso-morte (La grande abbuffata, 1973). E, per quanto riguarda Chaterine Deneuve, fra le tante, doveroso è ricordare la sua interpretazione in Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel. Secondo Scandola, “nessuno meglio di Buñuel ha saputo sfruttare in senso espressivo la soglia, sottile, che in Deneuve separa la carne dalla porcellana, restituendoci proprio il momento in cui la donna diventa bambola o più semplicemente potiche (e viceversa)”. Un altro attore capace di abitare il personaggio anziché lasciarsi abitare da lui è Depardieu, il quale ci regala appunto dei personaggi caratterizzati da instabilità caratteriale e ipersensibilità emotiva, inclini a muoversi, a errare, a vagabondare, senza mai perdere la propria, originaria “identità agricola e proletaria”. Infine, Isabelle Huppert o “il desiderio come enigma”: icona di un femminino, intravisto probabilmente per la prima volta da Claude Chabrol, “attratto dalle zone oscure del piacere”, sia esso libertino, extraconiugale, incestuoso. Nelle interpretazioni della Huppert, inoltre, si possono rintracciare elementi riconducibili a una ferinità quasi animale: una ferinità che diviene anche e soprattutto felinità. Proprio come un gatto, la Huppert sembra guardare gli “altri”, cioè noi spettatori solo “per vedere”: secondo Derrida, infatti, il gatto è l’incarnazione di un senso dell’alterità da cui ha origine il pensiero stesso. E, con Isabelle Huppert, l’intrigante e avventuroso viaggio allestito dallo studioso si chiude, dopo aver incontrato corpi e sguardi dai quali nascono storie, dalla cui inazione o vagabondaggio erratico si dischiudono nuovi percorsi di liberazione del nostro immaginario.

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La maniera liquida del cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2016/12/02/la-maniera-liquida-del-cinema-italiano/ Fri, 02 Dec 2016 22:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34621 di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua [...]]]> di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua introduzione all’opera, Roberto De Gaetano sostiene che essendo i sentimenti a definire l’orientamento nel mondo di un individuo e di una comunità, se questi non danno forma a comportamenti finiscono col riversarsi nelle forme di rappresentazione. Secondo lo studioso l’elaborazione dei sentimenti popolari operata dal cinema italiano, soprattutto attraverso la commedia ed il melodramma, ha provveduto a dare espressione a sentimenti e stati d’animo altrimenti privi di espressione. «Nella nostra tradizione si viene dunque a determinare una frattura decisiva tra le forme del sentire e quelle dell’azione. Le prime, non trovando risposta efficace nelle seconde, trapassano nelle forme di espressione, a partire dal cinema, che diventano i veri operatori di una individuazione senza identità (nazionale), della creazione di uno stile di vita, di un modo di immaginare e abitare il mondo» (Vol. I, p. 9).

Secondo De Gaetano quello italiano «è un cinema che, contrariamente alla letteratura, non si è di fatto mai posto un problema di identità nazionale, ma è stato sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia» (Vol. I, p. 11).

Se l’America può dirsi coincidere con il suo cinema in quanto questo risulta direttamente iscritto nel dispositivo produttivo capitalista, non si può invece dire che l’Italia sia il suo cinema nonostante questo possa definirsi profondamente italiano avendo raccontato, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” attraverso il suo essere radicato nella realtà.

lessico_del_cine_546e10358a219«Da Roma città aperta a Salò, dalle torture dei nazisti a quelle dei fascisti, è un arco di tempo che dal 1945 al 1975 non solo segna un trentennio in cui il cinema italiano, proprio essendo specificamente italiano, ha avuto capacità e forza di conquistare (per credito e fama) il mondo intero, ma segna il momento in cui il dispositivo cinematografico, interno alla macchina capitalista, rivela il suo rovescio. Se il capitalismo è un sistema produttivo e culturale che agisce sulla sfera di una potenza sempre continuamente attualizzata, che tende a non lasciare varchi né faglie ma a suturare infinitamente tutto (e di cui il denaro è il segno distintivo), e se Hollywood ha rappresentato la forma stessa di questa saturazione progressiva, nei modi di un’adozione infinita, attiva e passiva, di immaginari e stili di vita, il cinema italiano ha rappresentato l’altro lato di questa potenza pura, non quella di cui si è appropriato il capitale, svuotandola in una perenne alimentazione di sé, ma quella che, smascherando il dispositivo di appropriazione e rivelandone le falle interne, ha avuto la capacità di affermare, anche in forme esagerate, la potenza eccedente ogni attualizzazione (di cui è immagine icastica e cliché insuperato l’otium italiano). E se il neorealismo lo ha fatto […] affermando lo splendore, sia pur nel dramma, della contingenza, e una certa commedia lo ha fatto riconsegnando alla maschera la capacità di scartare da se stessa (è il caso di Sordi), questa affermazione, dopo il passaggio attraverso il “libero indiretto” degli anni sessanta, giunge a Pasolini, dove la potenza svincolata dall’atto viene a coincidere con la morte. Il cerchio si è chiuso: le torture di Salò svuotano il corpo di ogni potenza, lo abbandonano come cosa inerte, lo separano da sé riconsegnandocelo come “nuda vita”, invertendo il percorso avviato da Roma città aperta, dove il corpo torturato era comunque redento dal suo sacrificarsi per la rinascita e la libertà di una comunità, e diventava dunque il corpo di un martire, come quello della Magnani caduto a terra inseguendo l’uomo amato prelevato dai tedeschi, o come quello dei resistenti torturati e uccisi, come don Pietro, sotto gli occhi dei bambini-testimoni» (Vol. I, pp. 30-31)

Nel cinema italiano, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60, si è sviluppata una tendenza inaugurata dai generi popolari come il “western all’italiana”, che mette in scena un sentimento scettico e cinico della vita lontano dal moralismo della commedia e, a tal proposito, sostiene De Gaetano che nel cinema dei generi popolari, e soprattutto nel western all’italiana, «L’uniforme diventa un’esplicita, ironica e grottesca veste che non si modella più sulla vita sociale ma sulle derive di un immaginario cinematografico scaturito dalla grande tradizione americana. Dal mito dell’America, avviato dall’antologia del 1941 di Vittorini, poi ripreso nel secondo dopoguerra dal neorealismo, dal boogie, dal piano Marshall, da Nando Mericoni, dalla Hollywood sul Tevere, si giunge con il western all’italiana a ribaltare dall’interno quel mito, smascherando il motore del capitalismo americano: l’adozione, non più di stili di vita […] ma di un immaginario svuotato, restituito in forma esagerata e ironica. […] nel western all’italiana viene svelato ed esautorato il motore stesso del capitalismo americano, la sua pratica adottiva, ridotta all’esposizione ironica e grottesca di un immaginario non più simbolizzabile. Il “nudo immaginario” di Leone (e del western all’italiana), grado estremo di un’adozione vuota, fa da pendant alla “nuda vita” di Pasolini, e getterà un ponte verso il futuro, con un potere d’anticipazione straordinario. È qui che il nostro cinema popolare di genere comprende cosa resta di un immaginario triturato da forme di vita perennemente alimentate e bruciate dal consumo e dalla spettacolarizzazione di tutto, dove il cinismo dell’eroe del western all’italiana diviene immagine di un disincanto profondo nei confronti del mondo, e la forma si trasforma in un campo d’azione meramente ludico» (Vol. I, pp. 34-35).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volDunque, il “nudo immaginario” che attraversa il cinema italiano dai film di Leone fino al citazionismo di Sorrentino, sostiene De Gaetano, si pone come alternativa al filone avviato dal neorealismo. Questo cinema nazionale che ha preso il via con il western all’italiana appare «caratterizzato da uno “strizzare l’occhio” allo spettatore, che diviene l’indice più rilevante di una scrittura ironica, che liquida il debito nei confronti di qualsivoglia tradizione (italiana in primis), si estromette dalla Storia, fagocita e denuda immaginari privi di mondo, come privi di mondo, e perfino di nome, sono i suoi protagonisti» (Vol. I, p. 37).

Tale direttrice di cinema ha finito col dare forma ad un immaginario sempre più disincantato. «Un cinema fatto da un popolo senza uniforme, che se in politica ha significato attitudine ad indossarne molte, e dunque al trasformismo, in arte e nelle forme di vita quotidiana ha riguardato vicinanza alla potenza e ambivalenza della vita, che è stata anche la ragione per cui, pur essendo singolarmente e specificatamente italiano, il nostro cinema è stato universale. È stato il rovescio del cinema americano, ha espresso le profonde contraddizioni di una società e di un sistema culturale incapace di assimilare potere economico e potenza della vita (come nel pieno capitalismo). Tutte le contraddizioni di un sistema di vita e culturale che il cinema americano ha saputo raccontare in forma impareggiabile, ma rimanendo sempre all’interno di quella “assimilazione”, per cui la vita e la sua potenza tendono ad essere suturati dal potere e dall’azione (anche immaginaria) del capitale, si sono trasformate nel cinema italiano in opportunità impareggiabili per far emergere nel e attraverso il cinema qualcosa che eccede e scarta quest’assimilazione, rivelando attraverso stasi ed esagerazioni lo stallo non solo dell’azione (Antonioni), ma anche di una società divenuta spettacolo (Fellini) e perfino della civiltà stessa (nelle visioni apocalittiche di un Pasolini e di un Ferreri)» (Vol. I, p. 38).

Da tali considerazioni del curatore prende il via Lessico del cinema italiano ove, attraverso ventuno voci affrontate dai diversi autori, il cinema italiano viene indagato con nuove modalità. Ognuna di queste voci viene affrontata passando in rassegna venticinque film a partire da un’opera recente.

Secondo Francesco Casetti, che con la sua Postfazione chiude il Terzo volume e l’intera opera, «ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta […] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura “all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce”» (Vol. III, p. 474).

Nel corso della sua storia il cinema italiano ha saputo sfruttare diversi modelli senza che questi giungessero mai a stabilizzarsi secondo un canone definito. Secondo lo studioso si può parlare di formule ricorrenti che scompaiono e ricompaiono in altri modi. «Le formule non mancano, ma la loro tenuta fa problema; sono pronte a riapparire, ma anche a squagliarsi. Il sentimento della vita è ciò che entra nel cinema attraverso queste faglie, queste rotture. È ciò che emerge quando una formula, anziché consolidarsi e diventare un canone, comincia a sbriciolarsi o a ristrutturarsi in altre condizioni» (Vol. III, p. 475).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-vol-3Le formule della cinematografia nazionale sembrano presentarsi come “nonformule”, come un insieme di variazioni su un tema. Il cinema italiano «si è costantemente trovato a mal partito con i generi che riposano su un forte processo di astrazione, o che si appoggiano a degli schemi ideali. In particolare, il cinema italiano sembra incapace di praticare da un lato la tragedia, dall’altra il melodramma (nel senso anglosassone del termine). La coesistenza di due opzioni entrambe necessarie ma incompatibili, e che dunque non lasciano via d’uscita (tragedia), o il conflitto tra due modelli di condotta tra cui un soggetto è obbligato a scegliere, perdendo comunque una parte di sé (melodramma), non fanno parte dei plot ricorrenti […] La versione italiana della tragedia è Il sorpasso, in cui la corsa verso la morte è guidata non dal destino, ma dal caso; così come la versione italiana del melodramma non è tanto il filone di Catene e Tormento, quanto C’eravamo tanto amati, in cui sono i fatti della vita a modellare gli ideali cui ispirarsi, e non viceversa» (Vol. III, pp. 477-478).

Se da una parte la blanda formalizzazione nel cinema italiano ha permesso al sentimento della vita di emergere, ciò non vuol dire, puntualizza Casetti, che non sia possibile individuare “maniere” italiane, ma storicamente queste sono state individuate soprattutto da “occhi stranieri”. La “maniera” italiana «non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una “maniera” che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera “dislocata”. È spesso anche una maniera che funziona da “abbozzo”, da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera “liquida”» (Vol. III, p. 481).

Di seguito la successione con cui in milleseicento pagine Lessico del cinema italiano procede nell’indagare Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume I (2014): Introduzione del curatore. Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi). Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova). Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Postfazione di Francesco Casetti.

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