Neolitico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso/5: Giorgio de Santillana, “the cat who walks alone” https://www.carmillaonline.com/2024/04/04/elogio-delleccesso-5-giorgio-de-santillana-the-cat-who-walks-alone/ Thu, 04 Apr 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81750 di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale. (Amadeo Bordiga, “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965)

La ripubblicazione da parte delle edizioni Adelphi di Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana, apparso per la prima volta nel 1961 e tradotto in italiano nel 1966 nella versione di Giulio De Angelis riproposta anche per l’attuale edizione, permette non soltanto di affrontare un tema importante per la riflessione filosofica e scientifica, ma anche di riscoprire uno scienziato e filosofo cui, ad esempio, sia Wikipedia che l’Enciclopedia Italiana Treccani concedono uno spazio fin troppo esiguo, al limite dell’insignificanza. Oltre a ciò, tale riscoperta, potrebbe condurre ad una riflessione su quanto il pensiero e le conoscenze antiche siano state rimosse, se non in alcuni casi negate, per fare spazio alla “Ragione” illuministica e alla scienza applicata e strumentale successiva alla “Rivoluzione” industriale.

In fin dei conti i due spunti di riflessione si ricollegano poiché la negazione delle conoscenze scientifiche anteriori alla rivoluzione scientifica avvenuta a cavallo tra XVI e XVII secolo è proprio ciò che il filosofo della scienza di origini italiane ha contribuito a smontare con tutta la sua opera. Non tanto per quanto riguarda le “scoperte” effettuate quanto, piuttosto, per la concezione che per troppo tempo ha fatto sì che, tra gli antichi, soltanto ai greci fosse riconosciuto la stessa capacità di osservazione e astrazione che poi avrebbe caratterizzato la “scienza” moderna.

Non sappiamo quasi niente del pensiero, vuoi religioso vuoi scientifico, degli uomini dell’Età della Pietra. Ma dobbiamo indubbiamente a quegli ingegnosi tecnologi i principi fondamentali del trattamento della materia e dell’energia: suscitar il fuoco nel focolare, scoprire il principio della leva per lo scaglialancia, sfruttare la tensione e la torsione per far sfrecciare il dardo nell’aria, chiudere la trappola con uno scatto, fissare la scure al manico. Poiché le prime cose son sempre le più difficili, guardiamoci bene dal ritenere queste conquiste qualcosa di naturale. Ancora meno ovvie sono le conquiste della rivoluzione neolitica e dell’Età del Bronzo: la semina del grano, la fonditura, la tessitura, l’arte del vasaio, e tutti i mestieri. E neppure è facile capire come venne agli uomini l’idea di elevare piramidi a gradini quadrangolari che fungevano da abitazione ai loro dei. Solo culture altamente sviluppate possono esser state capaci di compiere imprese del genere. Gli umanisti e i filologi che si occupano di storia possono ben considerarle conquiste rudimentali, gli ovvi inizi di una società ancora legata alla terra. A costoro potremmo opporre ciò che aveva da dire Galileo, che di queste cose se ne intendeva: «E parmi che molto ragionevolmente l’antichità annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell’arti nobili, già che noi veggiamo il comune de l’ingegni umani esser di tanta poca curiosità … L’applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti e pensieri di spiriti sopraumani».
Dunque, niente di molto «primitivo» in tutto ciò. Un tempo gli studiosi davano per scontata l’identità del nostro passato con i «selvaggi» contemporanei che si astengono ostinatamente dalla produzione del cibo e quindi sono stati schedati sotto la voce «Età Paleolitica». Il «primitivo» degli studiosi ottocenteschi era semplicemente «pre-logico», un fanciullo che raccontava a se stesso storie ingenue, che noi ascoltiamo con divertita condiscendenza. La scala del Progresso partiva di lì1.

Giorgio de Santillana (1900-1974) prende spunto da colui che è considerato il fondatore del moderno metodo sperimentale scientifico per tornare a quei secoli, troppo spesso considerati oscuri, durante i quali la specie, nel muovere coscientemente i primi passi sulla superficie terrestre, elaborò le sue capacità logiche e razionali, ben prima che il pensiero borghese, di origine rinascimentale e illuminista, dividessero le età del mondo tra quelle considerate razionali e quelle irrazionali o primitive, insieme alle culture che ne avevano costituito la manifestazione epifenomenica.

Se, infatti, la critica illuministica della religione aveva un reale fondamento politico, l’estensione della critica alla superstizione che ne reggeva ancora la funzione sociale a tutte le conoscenze che avevano accompagnato la crescita delle società umane precedenti e “altre” finiva infatti col condannare all’oblio, senza possibilità di appello, non soltanto le forme prevalentemente folkloriche di tante conoscenze tradizionali, ma anche, e forse prevalentemente, quelle che avevano formato il substrato conoscitivo della resistenza comunitaria all’emersione del capitalismo mercantile e della sua “scienza” (in cui iniziava ad esser considerata come tale anche quella “economica”) come forma dominante di indirizzo della produzione e riproduzione sociale. Dando così inizio a una prima e definitiva cancel culture, ben più radicale e totalizzante di quella ritenuta attualmente tale.

Una trasformazione che era iniziata proprio nello stesso periodo della nascita e dello sviluppo delle moderne pratiche scientifiche che, in età rinascimentale dopo aver puntato menti e cannocchiali verso l’universo che circondava un pianeta che sempre meno avrebbe costituito il centro del cosmo creato da Dio per l’Uomo, avrebbero iniziato a stabilire, sulla Terra, precisi e più saldi confini nazionali, proprietari, sociali e conoscitivi. Confini che iniziavano a segnalare l’appropriazione privata o di classe non soltanto delle ricchezze materiali socialmente prodotte, ma anche di quelle immateriali ricollegabili alle conoscenze necessarie per la gestione dell’ambiente e delle società2.

Una modificazione del “potere conoscitivo” che oltre a ridurre enormemente, all’interno delle società “occidentali”, il potere che le donne si erano conquistate all’interno delle comunità di villaggio3, si era riappropriato del potere giudicante dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, “razionalizzandolo” e trasformandolo in un sistema di leggi che, una volta liberato dall’ingombro di carattere religioso, poteva presentarsi come “libero”, “indipendente” e più equo, ponendo il cittadino non più davanti al giudizio di Dio, ma a quello dello Stato (che sostituiva il primo nella funzione della distribuzione del premio e/o del castigo)4.

Sarà proprio de Santillana, in un’opera realizzata con Hertha von Dechend, a ricollegare le rivoluzioni scientifiche del XVI secolo, senza mai nominarle, con quelle operate millenni prima dai nostri antenati, quando le conoscenze del cielo, delle costellazioni, dei loro movimenti stagionali e degli equinozi, per dirla in breve “astronomiche”, costituivano un elemento importante per l’orientamento durante i viaggi e l’organizzazione della produzione sociale5. Ma la vera novità nell’opera di de Santillana e von Dechend era costituita dal fatto che il “mito” e i miti perdevano la loro connotazione primitiva e “irrazionale” per rientrare, invece, in una forma razionalizzata di conoscenza scientifica che, in età spesso precedenti l’invenzione della scrittura, poteva essere memorizzata e trasmessa oralmente da una generazione all’altra. Una forma di conoscenza, priva di copyright e brevetti “scientifici”, che apparteneva alle comunità che l’avevano prodotta. Come avrebbe affermato la von Dechend nella nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993:

De Santillana era approdato alla storia delle scienze esatte e alla storia delle idee partendo dalla fisica, e dopo essersi occupato a fondo della filosofia della natura nell’antichità. Io ero partita dall’etnologia storico-culturale, e più precisamente da Leo Frobenius. Avevamo in comune un profondo disagio nei confronti del modo dominante di interpretare e di giudicare tradizioni che non si erano espresse nella «lingua» a non famigliare, e cioè nell’idioma scientifico coniato dai Greci, in ragione del quale le nostre scienze portano nomi greci e i nostri concetti fondamentali – da «assioma» a «ipotesi», da «prassi» a «simmetria» e a «sistema» – sono vocaboli greci […] proiettando così all’indietro fino alla Grecia la concezione del mondo divenuta usuale a partire da Newton.

Per continuare poi ancora ricordando che:

Delle numerose cause del nostro disagio ne citeremo qui una soltanto: l’incompatibilità dei risultati matematico-tecnici che si possono dimostrare, in quanto si possono misurare, per le culture antiche, con il livello delle corrispondenti tradizioni «mitiche». Per fare un esempio specifico, l’incompatibilità delle piramidi e della loro disposizione esatta con l’apparente chiacchiericcio dei testi delle piramidi e del libro dei morti. Due sono le spiegazioni possibili: o gli Egizi non hanno costruito le piramidi […] oppure le moderne traduzioni dei testi sono fondamentalmente sbagliate. Il fatto che parecchi dei nostri contemporanei preferiscano impelagarsi in ipotesi di architetti extra-galattici piuttosto che ammettere l’esistenza di Egizi dotati di competenze eccezionali dimostra chiaramente come una semplicistica fede nel progresso e una storiografia improntata a un evoluzionismo volgare ci rendano più difficoltoso l’accesso alle civiltà antiche6.

Giorgio de Santillana era nato a Roma il 30 maggio del 1900 e avrebbe lasciato l’Italia nel 1936 a seguito delle crescenti restrizioni imposte dal regime agli accademici di origine ebraiche. Negli Stati Uniti svolse tutta la carriera successiva al MIT di Boston, dove sarebbe diventato noto come «the cat who walks alone» per l’abitudine di fare passeggiate notturne nel campus, probabilmente per scrutare quella volta celeste che così tanto avrebbe indirizzato i suoi studi. Nel 1955 pubblicò The crime of Galileo, un’indagine approfondita della crisi del Rinascimento e della condanna dello scienziato, ma nel frattempo si era imbattuto nelle riflessioni di Giordano Bruno per il quale il contenuto della filosofia egizia, in sostanza, non era altro che “astronomia”.

Dopo l’incontro con Hertha von Dechend a Francoforte nel 1958, le sue ricerche subirono una brusca virata verso un campo di studi che lo attraeva da tempo.

Per uno storico che ha esplorato l’inesorabile affermarsi del razionalismo scientifico, si tratta forse della massima sfida speculativa: risalire alle origini remote della scienza, verso un periodo anteriore all’invenzione della scrittura, di cui rimane un materiale documentario insolito, fatto di una prodigiosa abbondanza di miti e leggende accumulate nel corso dei secoli, le cui tracce sopravvivono in forme eterogenee […] Miti e leggende di provenienza diversa, in molteplici varianti, spesso incongrue, e per loro natura ostili al concetto e refrattarie alla formalizzazione.
[…] La sua «fuga verso le antiche età» (come descriveva le sue ultime ricerche nella conferenza di Palazzo Torlonia nel 1966) non è una semplice fuga saeculi, ma la ricerca di una visione sinottica in cui occorre complettere tutti i livelli dell’essere7.

Le idee espresse da de Santillana e von Dechend nel Mulino di Amleto sono molto ardite e soltanto oggi possono, forse, essere comprese appieno, in un momento in cui il declino dell’Occidente e delle sue cosmogonie politiche, economiche e scientifiche si fa sempre più evidente. Motivo per cui la convinzione dei due autori dell’esistenza di conoscenze astronomiche avanzate già in epoca neolitica, può fare il paio con l’attuale scoperta del peso del pensiero e dell’agire coloniale sull’emarginazione delle culture e delle società “altre”, sottomesse e definite primitive per pure esigenze di carattere imperialistico e di dominio e sfruttamento economico.

Fatto sta che, secondo de Santillana, queste conoscenze astronomiche avanzate erano divenute già di difficile interpretazione nella civiltà egizia e babilonese, e l’astrologia ne era solo una tardiva degenerazione […] Le grandi idee cosmologiche sembrano fiorire soprattutto tra nomadi e navigatori e, tra popoli che non possedevano ancora una scrittura, e venivano trasmesse per via unicamente verbale e mnemonica, in un linguaggio intessuto di storie e altamente tecnico, che pur essendo di natura non matematica, era tuttavia dominato, se non ossessionato, dalla precisione (perché ciò che non è esatto è ingiusto). Secondo de Santillana la perdita di questo tesoro di conoscenze arcaiche […] sarebbe essenzialmente dovuta a «due grandi sciagure nella storia». La prima avvenuta quando l’uomo abbandona il nomadismo e si mette a coltivare la terra. La seconda, quando l’uomo ha inventato la scrittura. Con il suo avvento, intorno al 4000 a. C., si forma «una classe in grado di fissare i dati e conservarli per farne uno strumento di potere. La scrittura nasce fondamentalmente come contabilità… con la sua invenzione cessa il pensiero e inizia l’amministrazione»8.

Sicuramente l’invenzione della scrittura segna l’atto di nascita delle società divise in classi, mentre l’ipotesi di una scienza “diversa” da quella affermatasi in Occidente dal XVI secolo ad oggi non è estranea nemmeno al pensiero scientifico contemporaneo.
Infatti, come ricorda Eugene P. Wigner, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1963, ricostruendo il percorso della sua formazione scientifica a Princeton, fu forte la confusione quando qualcuno gli manifestò le sue perplessità riguardo al fatto che, nello scegliere i dati su cui verifichiamo le nostre teorie, operiamo una selezione alquanto ristretta.

«Se costruissimo una teoria su fenomeni che trascuriamo e trascurassimo invece alcuni dei fenomeni che attirano la nostra attenzione, non arriveremo forse ad un’altra teoria che, pur avendo poco a che fare con la precedente, spieghi altrettanti fenomeni di questa?». Bisogna ammettere che non abbiamo alcuna certezza che non possa esistere una teoria cosiffatta9.

Da cui consegue, sempre secondo il Premio Nobel, che “le leggi di natura sono tutte proposizioni condizionali, e che si riferiscono soltanto a una parte minima della nostra conoscenza”10.

E’ un pensiero radicale quello di de Santillana, radicalismo che forse è alla base della scarsa considerazione che, come si è affermato all’inizio, ne ha ridotto le note biografiche su Wikipedia o sull’Enciclopedia italiana, ma che può essere ancora foriero di interessanti e utili riflessioni, anche per chi non si interessi direttamente di storia della scienza e del pensiero scientifico. Ed è forse questo il motivo per cui può rendersi necessaria la lettura a quasi sessant’anni dalla sua prima pubblicazione italiana del saggio qui “recensito”: Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C. Saggio in cui si rivela centrale, proprio per l’attinenza con quanto fin qui riportato, il sesto capitolo, L’universo del rigore (pp. 122-147), dedicato a Parmenide di Elea, una colonia greca dove il filosofo nacque intorno al 525 a. C. Oltre ad essere il promulgatore di un codice di leggi per cui, per generazioni, gli Eleati furono soliti raccogliersi una volta l’anno per riconfermare la loro fedeltà alla costituzione di cui era stato il promotore,

per caso sappiamo anche, attraverso testimonianze frammentarie, che dette contributi importanti alla geometria e all’astronomia; classificò le figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del Mattino e nella Stella della Sera (Lucifero e Vespero) un unico pianeta; delimitò sul globo terracqueo le cinque zone in cui è suddiviso dai tropici e dai circoli artici; se poi si deve credere a Teofrasto, che è il nostro più autorevole informatore, fu lui, primo tra i pitagorici, a proclamare la sfericità della Terra e la teoria che la Luna brilla di luce riflessa. Nonostante questi grandi contributi scientifici la sua gloria deriva da un campo diverso: è famoso come inventore della implicazione logica11.

Scrisse una sola opera i versi, intitolata Della Natura, suddivisa in due parti, una «Via della Verità» che tratta delle necessità del pensiero in se stesso, e una «Via dell’Opinione» che sembra dovesse costituire un’ambiziosa cosmogonia unita a una teoria fisica, anche se di questa seconda parte sono sopravvissuti solamente frammenti così miseri da renderne impossibile la ricostruzione del piano generale. Così, come afferma ancora de Santillana: «Il poema è stato descritto come “ispirato dal rapimento della logica pura” e come il primo testo filosofico in senso moderno, ma la sua diretta attinenza al pensiero scientifico ci sembra sia stata trascurata»12.

In realtà, anche se la «Via della Verità» venne consacrata come «fondamento della metafisica», a causa del fatto che molti suoi contemporanei dovevano aver pensato che a quell’uomo fosse stato concessa, nel trattare dell’Essere e del Non-Essere, la visione di cose inesprimibili,

vi sono tuttavia prove innegabili del fatto che Parmenide, affrontato sul suo terreno, appartiene a buon diritto anche alla scienza. Se interpretiamo il termine “Essere” non come una misteriosa potenza verbale, ma come una parola tecnica che designa qualcosa che il pensatore aveva in mente ma non poteva ancora definire, e sostituiamo ad esso una x nel contesto dell’argomentazione di Parmenide, ci sarà facile vedere che vi è un altro concetto, e solo uno, che può essere messo al posto di x senza dar luogo a contraddizioni in qualsiasi punto del testo; quel concetto è il puro spazio geometrico (per designare il quale mancava ai Greci una parola, conoscendo essi solo termini relativi come “luogo”, “aria”, “respiro”, “vuoto”). Inoltre, esso è costruito gradualmente, usando il principio di indifferenza o ragion sufficiente, che già era noto ai predecessori naturalisti di Parmenide; ma esso è ora applicato per la prima volta coscientemente come strumento fondamentale della logica scientifica, mentre Platone e Aristotele discutono l’Essere con strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici13.

Fermiamoci qui, soltanto per notare che de Santillana riesce a cogliere e sottolineare un momento fondamentale della perdita delle conoscenze scientifiche precedenti la civiltà classica e come questo sia forse la causa principale della riduzione a “filosofia” di ogni precedente conoscenza tecnica.
Dando inizio a quel “trionfo” della cultura classica umanistica che ancora ci perseguita e limita ogni nostra reale prospettiva di conoscenza del passato e del futuro (e delle loro possibili culture e conoscenze).

Conoscenze tutt’altro che mesmeriche o metafisiche, ma che soltanto l’ignoranza dei posteri, già all’epoca, ha potuto relegare a “misteri” e culti misterici.
Così come, tutto sommato, la scienza del capitale, ha cercato di fare con tutte le conoscenze un tempo utili alla conduzione della società umana e, troppo spesso, relegate a credenze, miti e aspetti folklorici inadatti alla conoscenza necessaria allo sviluppo degli interessi materiali dello stesso.

Ma questa considerazione finale su un grande storico della scienza e della conoscenza e la sua opera “eccessiva”, che lo ha relegato a camminare da solo, o quasi, nella notte della ricerca storica, non sarebbe completa se non si cogliesse in tutto ciò anche la condanna di coloro che, nel pensarsi “critici” del capitale e del suo modo di produzione e della sua scienza, finiscono col trattare i popoli e le conoscenze altre con la stessa logica da “sbaracco”, accettando di fatto l’irrazionalismo senza essere capaci,invece di cogliere le logiche e la profonda razionalità connesse a quelle stesse conoscenze. Scambiando la scienza con la magia e riducendo le competenze cosmologiche ad astrologia da quattro soldi.


  1. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 16-17.  

  2. Su tali argomenti, si vedano: C. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019 e R. Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014.  

  3. Si vedano ancora: M. Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, Edizioni Tabor 2021 e S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.  

  4. Si vedano in proposito: R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza Editore, Bari 1971 e I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.  

  5. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 1983 (prima edizione americana 1969).  

  6. H. von Dechen, Prefazione all’edizione tedesca in G. de Santillana, H. von Dechen, op. cit., edizione riveduta e ampliata, Adelpi 2000, pp. 12-13. Sull’influenza rimossa delle culture egizie e africane sul quella cultura si veda ancora M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano, 2011. Per la provenienza “extra- galattica” delle conoscenze degli antichi si vedano le numerose opere di Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (1922-1984), all’epoca giornalista di area marxista-leninista e corrispondente del quotidiano «l’Unità». L’eccesso di scrupolo “progressista” lo portò a diventare uno dei maggiori esponenti dell’archeologia misteriosa e della teoria degli antichi astronauti. Per le sue opere di maggior successo la casa editrice Sugar creò un’apposita collana “Universo sconosciuto”. Dal 1960 si era avvicinato al maoismo e si occupò anche di astronautica, sessuologia, parapsicologia ed esobiologia.  

  7. M. Sellitto, La scienza, prima del mito (e dopo) in G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, Edizioni Adelphi, Milano 2020, pp. 158-159.  

  8. M. Sellitto, op. cit., pp. 161-162.  

  9. E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sci­ences, conferenza tenuta alla New York University nel 1959 ora in E.P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Edizioni Adelphi, Milano 2017, p. 12.  

  10. E.P. Wigner, op. cit., p. 21.  

  11. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, op. cit., p. 123.  

  12. Ivi, p. 124.  

  13. ibidem, pp. 130-131.  

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Per una nuova interpretazione dei corridoi del tempo https://www.carmillaonline.com/2018/10/03/per-una-nuova-interpretazione-dei-corridoi-del-tempo/ Wed, 03 Oct 2018 20:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48913 di Sandro Moiso

Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 236, € 24,00

Per chiunque si occupi di discipline storiche e storiografiche, sia a livello professionale che per semplice interesse personale, la ricerca di Daniel Lord Smail, docente di Storia a Harvard, costituirà sicuramente una lettura straordinaria e stimolante. Anche per coloro che alla fine non dovessero condividerne gli assunti e le conclusioni. L’intento dichiarato dall’autore è quello di spingere le barriere della storiografia attuale ben al di là dei quattromila [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Lord Smail, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 236, € 24,00

Per chiunque si occupi di discipline storiche e storiografiche, sia a livello professionale che per semplice interesse personale, la ricerca di Daniel Lord Smail, docente di Storia a Harvard, costituirà sicuramente una lettura straordinaria e stimolante. Anche per coloro che alla fine non dovessero condividerne gli assunti e le conclusioni.
L’intento dichiarato dall’autore è quello di spingere le barriere della storiografia attuale ben al di là dei quattromila anni prima di Cristo che hanno costituito il canone della storia ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana del mondo occidentale, superando, allo stesso tempo, anche il limite del documento scritto che di fatto, e ancora per gran parte della storiografia attuale, ha finito col costituire il confine tra Storia e Preistoria.

Per rendere possibile questo approccio il docente di Harvard si affida non soltanto ai risultati ottenuti dall’antropologia e dalla paleontologia, ma anche ai più recenti risultati delle ricerche condotte nei settori dell’etologia, della biologia, della genetica, della fisiologia e della neuro-fisiologia. Non soltanto della specie umana.
Volendo, e citando un autore che resta in qualche modo sullo sfondo della ricerca senza mai essere direttamente nominato, l’opera può essere compresa tra due affermazioni di Karl Marx: la prima è quella in cui il filosofo tedesco prende in considerazione il fatto che l’umanità non sia ancora uscita dalla Preistoria, mentre la seconda riguarda la necessità che la storia dell’Uomo in quanto specie, debba prima o poi giungere a fondersi con la storia della Natura.

Daniel Lord Smail spinge così lo sguardo storico nella profondità del tempo, almeno fino alla comparsa dell’Homo ergaster, un milione e settecentomila anni fa. Primo rappresentante del genere Homo ad avere un apparato dentale, una scatola cranica e un rapporto dimensionale tra maschi e femmine simile a quello dell’Homo odierno. Anche se in realtà, seguendo i percorsi di ricerca delle scienze naturali applicate all’evoluzione delle forme di vita e delle specie, lo storico spinge il suo sguardo ben più indietro: non solo alla comparsa dei primati ma addirittura a quella dei rettili.

Il fine di tale sguardo nei corridoi del tempo che la storia umana «condivide con i dirupi del Grand Canyon, dove la semplice immensità del tempo è sotto gli occhi meravigliati di tutti», non è quello di stupire o abbacinare il lettore con luminose e affascinanti letture del nostro passato, alla ricerca di una mai meglio definita genuina natura umana, ma è piuttosto quello di dimostrare come sia necessario superare i limiti di una Storia basata sulle civiltà, gli Stati, le forme proprietarie e sociali sviluppatesi a partire dai millenni successivi al Neolitico e alla rivoluzione agricola, per arrivare a comprendere il complesso e lunghissimo processo di formazione delle società e dei comportamenti umani.

Una Storia che inizia, come minimo, nell’età della pietra antica e che ha visto almeno tre tipi di umanità succedersi, espandersi e, a tratti, convivere sul pianeta in aree diverse, in sequenze temporali sempre più brevi. Prima l’Homo ergaster tra 1.700.000 anni fa e circa 100.000 anni fa (essendo ormai largamente condivisa tra i paleoantropologi l’ipotesi che H. ergaster e Homo erectus di fatto coincidano) che lasciò il continente africano di origine circa un milione di anni fa per iniziare la colonizzazione del mondo a partire dall’Asia Meridionale. Poi, circa 600.000 anni fa, una seconda diaspora che vide la nascita di un «ramo del cespuglio evolutivo ominide che si è estinto con i Neanderthal, all’ incirca tra i 30.000 e i 40.000 anni fa». E, per finire, con la comparsa in Africa circa 140.000 anni fa della nostra specie attuale, H. sapiens, che intraprese un terza diaspora, lasciando il continente d’origine «tra 85.000 e 50.000 anni fa per stabilirsi nel Vicino Oriente, in Asia, in Australia, in Europa e nelle Americhe nel corso di un processo incredibile che non poté dirsi concluso fino a quando anche l’ultima isola del Pacifico venne raggiunta negli ultimi 1.000 anni. Tutte le popolazioni non-africane provengono da questa diaspora. Resta da vedere se gli esseri umani moderni sopravvivranno al di fuori dell’Africa tanto quanto H. erectus».

Questi dati potrebbero apparire al lettore più attento come già ampiamente noti, ma ciò che colpisce nell’intreccio tra dati storici, biologici e antropologici messo in opera da Lord Smail è offerto dal fatto che queste migrazioni e successive colonizzazioni dei nostri più lontani antenati costituiscano già di per sé elementi imprescindibili della storia dell’uomo. Storia che, nell’esposizione, non ha bisogno delle cosiddette civiltà per diventare tale, poiché è proprio nella sua profondità che si sono venute a creare le caratteristiche bio-culturali della nostra specie.
Ipotesi che non soltanto porta l’autore a chiedersi, con gli esponenti dell’antropologia radicale come Marshall Sahlins, se davvero l’agricoltura sia stata una conquista oppure una scelta obbligata , collegata alla riduzione della megafauna presente sui territori colonizzati; neppure la più intelligente, una volta considerate le conseguenze della stessa (nascita di società in cui il potere era concentrato nelle mani di un numero ristretto di individui, generalmente maschi, con una riduzione e specializzazione delle funzioni legate al sesso femminile; aumento delle ore di lavoro necessarie per il mantenimento degli standard alimentari e conseguente riduzione della varietà della dieta; nascita di religioni organizzate tese a consolare i nuovi “sudditi” per la perdita dei vantaggi e delle libertà individuali e di gruppo appartenenti alle società pre-neolitiche).

L’autore , però, non è alla ricerca né di una presunta e perduta età dell’oro né di comportamenti umani “innati” quali avrebbe voluto individuare la prima socio-biologia. Il suo è invece un tentativo, in gran parte convincente ed interessante, per collegare la naturale evoluzione delle specie individuata da Charles Darwin con una sorta di adattamento lamarckiano della stessa, ma di carattere storico-sociale oltre che ambientale.

Proprio per questo motivo nei due capitoli più interessanti ed innovativi del suo studio, il quarto e il quinto, intitolati rispettivamente «La nuova neurostoria» e «Civiltà e psicotropia» lo storico statunitense fa largo ricorso alle più recenti scoperte della neurofisiologia, della biologia e della genetica per rintracciare una storia dello sviluppo del cervello umano e delle funzioni dell’intero sistema nervoso legate in particolare alla chimica, potremmo dire, delle sinapsi e di tutte quelle sostanza prodotte dal nostro corpo (dopamina, ossitocina , adrenalina solo per citarne alcune) che di volte in volta alterano in maniera spiacevole oppure piacevole i nostri comportamenti e il nostro modo di percepire noi stessi e, allo stesso tempo, l’ambiente e la società che ci circondano.

Ecco allora che la leopardiana ricerca del piacere trova nella chimica del cervello, soltanto per fornire una definizione approssimativa di ciò di cui si parla, una spiegazione scientifica di non secondario valore mentre, allo stesso tempo, l’abitudine alla sottomissione e alla paura dell’autorità (politica, religiosa o gerarchica, qualunque essa sia) oppure la rivolta contro i meccanismi sociali e psichici che le producono a loro volta trovano, nell’interdizione o nella produzione guidata di sostanza psicotrope, nuovi elementi di comprensione del comportamento umano. Sia individuale che sociale.

È chiaro a questo punto che i testi scritti, la cui storia è ambigua, come i differenti motivi della loro produzione, e molto più recente rispetto al lento formarsi e definirsi dei processi chimici che costituiscono il “programma adattativo” dei nostri comportamenti individuali e collettivi, diventano strumenti di ricostruzione storica molto meno importanti di quanto fino ad ora la storiografia “istituzionale” abbia potuto pensare ed affermare. Non diventano, certo, per questi motivi inutili, ma si rivelano strumenti adatti soltanto a percepire una ristrettissima sezione di tempo dell’umano divenire, quello che per mille motivi, non ultimo forse quello legato alla comparsa della proprietà privata (come aveva forse intuito il giurista tedesco Samuel Pufendorf già nel corso del XVII secolo), è stato definito storico e civile rispetto ad un precedente tempo barbaro, primitivo e senza storia, quindi Pre-istorico.

Guarda caso una definizione di ciò che è storico rispetto a ciò che non lo è, che calza a pennello con gli ideali della colonizzazione “bianca” e occidentale del resto del globo in epoche recentissime (sostanzialmente gli ultimi cinque secoli), durante le quali più volte i conquistatori hanno classificato i popoli sottomessi come senza storia. Rifiutando di vedere o cogliere la limitatezza, questa sì davvero barbarica, di una visione che dà alla scrittura e alla narrazione ordinata secondo date legate al calendario gregoriano una funzione fondamentale nella ricostruzione del nostro (?) passato. Come afferma lo stesso autore:

Anche se l’esclusione dell’Africa dal racconto della storia dell’umanità fosse il risultato dell’inerzia culturale piuttosto che deliberato razzismo, credo che siamo moralmente obbligati a esaminare quelle eredità non evidenti che continuano a impedirci di insegnare una storia che inizi in Africa. Mentre ci spostiamo dal sacro all’umano, da un tempo storico strutturato all’interno della cronologia mosaica a un tempo definito dal cervello e dalla biologia, dobbiamo imparare a pensare all’Africa come nostra madrepatria. 1

Credo sia qui inutile sottolineare come oggi, più che mai, si stiano raccogliendo i frutti amari di un insegnamento della Storia monco a tutti gli effetti di qualcosa come un milione e settecentomila anni oppure anche soltanto di 134.000 anni. Insegnamento che ha posto al centro della sua riflessione e ricostruzione elementi estremamente volatili e volubili della conoscenza umana quali la scrittura, il potere politico, lo Stato nazionale e l’economia legata alla proprietà e alla appropriazione privata del frutto del lavoro collettivo, di cui una miriade di profughi dispersi in mezzo a un mare un tempo ritenuto nostrum non sono altro che la prova materiale più evidente.

Insegnamento che, oltre tutto, nell’esaltare le conquiste tecnologiche delle civiltà, soprattutto nella raccolta e nella trascrizione delle informazioni, dimentica quali enormi potenzialità biologiche di apprendimento e conoscitive, legate a tutti i sensi del nostro corpo, la specie abbia messo da parte o abbandonato più o meno inconsapevolmente in tempi recenti (approssimativamente gli ultimi 6.000 o 10.000 anni). Come afferma l’autore la storia non potrà in futuro fare a meno della biologia, così come l’evoluzione degli studi della stessa non potrà più fare a meno della Storia. Proprio come un certo filosofo originario di Treviri aveva predetto alla metà del XIX secolo.

Avvertenza:
Il presente articolo è già comparso, soltanto in forma lievemente diversa, sul numero di agosto della Rivista di Studi Italiani, ma l’importanza degli argomenti trattati nel testo di Smail mi ha spinto a riproporlo su Carmillaonline.


  1. D. Lord Smail, Storia profonda, pag. 24. L’autore fa qui particolare riferimento alla fondamentale opera di Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore , Milano 2011 

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Homo Sapiens, piante e CO2 https://www.carmillaonline.com/2017/09/21/homo-sapiens-piante-co2/ Wed, 20 Sep 2017 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40558 di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo [...]]]> di Sandro Moiso

Luigi Mariani, Origini e viaggi avventurosi delle piante coltivate, Mattioli 1885 2017, pp. 90, € 9,90

L’agile, sintetico e, talvolta, problematico testo di Luigi Mariani, docente di Storia dell’agricoltura presso l’Università di Milano, può costituire un’interessante integrazione al testo di Nikolaj Ivanovič Vavilov sulle origini delle piante coltivate recensito qualche tempo fa proprio qui su Carmilla. Certamente tra le due pubblicazioni sono trascorsi almeno novant’anni, ma i riferimenti che l’autore fa, soprattutto all’inizio del testo, all’opera al genetista e botanico sovietico rende questa pubblicazione di Mattioli 1885 iscrivibile nella grande ricerca iniziata, ormai più di un secolo or sono, sull’interazione tra uomo, ambiente e sviluppo dell’agricoltura.

Il contributo dato da Mariani si fonda soprattutto sulle conoscenze metereologiche sviluppate nel corso del suo precedente insegnamento di Agrometereologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Milano e questo lo contraddistingue dall’opera di Vavilov citata,1 per l’ampio spazio dato, nella prima parte del testo, alla metereologia, alle correnti atmosferiche e all’importanza dell’anidride carbonica (CO2) per lo sviluppo della vegetazione sulla terra.

Anche se l’autore si concentra in particolare sull’Olocene, l’ultima fase del Quaternario che ha avuto inizio dai 10 agli 11.000 anni fa e che corrisponde grosso modo al Neolitico, il periodo in cui ha avuto inizio e si è sviluppata l’agricoltura, non manca di spingersi più indietro nel tempo fino a milioni di anni fa per rilevare i ripetuti periodi di riscaldamento e di glaciazione del pianeta che hanno di volta in volta favorito o rallentato lo sviluppo della vita sulla terra.

Utilizzando, fin dove è possibile, le serie storiche e i dati accertati e affidandosi, in altri casi, alle testimonianza degli scrittori antichi oppure dei testi mitologici, non ultima la Bibbia, Mariani riesce, in maniera convincente, a tracciare l’intricata interazione tra ere geologiche, modificazioni climatiche e successive attività umane.

Soprattutto prendendo a modello la vite da uva e la sua diffusione verso il Mediterraneo a partire dal Caucaso come case study , Mariani riesce a riunire tra di loro le comuni memorie mitiche del Diluvio Universale, appartenenti a popoli e culture estremamente diverse e lontane tra di loro, collegandole tutte al momento in cui l’innalzamento di circa 120 metri del livello dei mari e degli oceani ebbe luogo tra i 14.000 e egli 8.000 anni fa al termine dell’ultima grande glaciazione.

Sembra giusto parlare di “grande glaciazione” poiché nei secoli seguenti si alternarono periodi in cui secoli di siccità anticipavano e avrebbero poi seguito periodi di nuove, piccole glaciazioni. L’ultima delle quali, studiata in particolare dallo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, sarebbe avvenuta tra la metà del XIV secolo e la metà del XIX.2 Tale periodo, legato probabilmente ad una minore attività del Sole e delle macchie solari,3 seguì infatti ad un periodo in cui sulle Alpi era possibile trovare vigneti fino ad un’altezza di 1250 metri slm, mentre ancora oggi l’altezza massima a cui è possibile rintracciare la viticoltura si aggira intorno agli 800 metri.

La vite coltivata (Vitis vinifera) afferisce al genere Vitis, le cui impronte fossili sono state reperite nel Nord Europa e risalgono al Terziario antico, intorno a 65 milioni di anni fa. Durante il Terziario recente, iniziato 23 milioni di anni fa, la separazione tra l’America e l’Eurasia favorì la speciazione degli antenati della vite, per cui in America e in Asia Orientale si registrò l’evoluzione di diverse specie mentre in Europa e Asia Occidentale si affermò un’unica specie, Vitis vinifera ssp. sylvestris, antenato selvatico della vita domestica.
Nel corso delle glaciazioni quaternarie (ultimi 2,5 milioni di anni) la zona mite a sud del Gran Caucaso fu un’importante zona rifugio per molte specie tra cui la vite. Ciò probabilmente promosse il consumo di uva selvatica da parte dei cacciatori- raccoglitori ponendosi all’origine della successiva valorizzazione di questa pianta da parte delle popolazioni neolitiche insediatesi in ambito sub-caucasico
4 Ecco fin dove si spinge la storia del bicchiere di vino che magari sta accompagnando chi legge queste poche righe.

Il libro di Mariani costituisce una lettura che, nonostante il numero limitato di pagine, farà fare al lettore un’incredibile ed emozionante cavalcata attraverso le culture, le vie (non ultima quella della Seta), i traffici, i contatti, le navigazioni e gli scambi che hanno accompagnato l’interazione tra Homo Sapiens e piante da coltura fin da prima della Rivoluzione Neolitica.
Come afferma l’autore, infatti, “la dispersione delle piante e dell’uomo nel nostro pianeta è un vero viaggio nel tempo5

Oggi siamo per lo più abituati a considerare che sia l’uomo ad «imporre» alle piante i caratteri «domestici» (dimensione, colore, sapore, etc.) ma un ruolo di rilievo può essere stato giocato anche dagli animali consumatori. Un esempio in tal senso è offerto dal melo, che nell’areale di origine (il Kazakistan) sarebbe stato selezionato dall’orso, il quale avrebbe scelto individui con grandi frutti, sapore dolce (accumulo di amido e poi di glucosio), un calendario di maturazione amplissimo e che si estende da luglio a novembre con varietà precoci e medie da consumare in estate e varietà molto tardive che si conservano fino a fine inverno per cui possono essere consumate all’uscita del letargo (le odierne mele invernali da cuocere). Il melo si sarebbe poi diffuso dal kazakistan verso occidente e verso oriente lungo la via della seta, grazie alla diffusione dei semi con le feci degli esseri umani e dei cavalli che si nutrivano di mele passando per il Kazakistan6

Ciò che rende invece il libro problematico, senza per questo renderlo meno interessante, è il fatto che l’autore sembra voler far dipendere l’attuale situazione climatica quasi esclusivamente dai fattori di lungo termine (ad esempio l’attività solare) e troppo poco dalle scelte fatte dall’uomo e dal modo di produzione vigente, anche là dove si afferma che “il trend di crescita delle temperature in atto dalla fine della piccola era glaciale è probabilmente influenzato dalle attività umane. In tal senso Ziskin e Shaviv, applicando un Energy Balance Model, hanno stimato che il 60% del trend crescente delle temperature globali osservato nel XX secolo è di origine antropica ed il 40% sarebbe di origine solare. Al riguardo si deve considerare che nel XX secolo il sole ha fatto registrare uno dei periodi di maggiore attività dalla fine dell’ultima glaciazione, tanto che per trovarne uno analogo occorre portarsi a oltre 8800 anni or sono e cioè all’inizio del grande optimum post-glaciale7

Gli altri due punti, ad avviso di chi scrive, discutibili riguardano l’eccessiva fiducia riposta nell’importanza dell’anidride carbonica per lo sviluppo delle piante, senza tenere sufficientemente conto dei danni provocati da questa a livello respiratorio per la specie umana, anteponendo, probabilmente involontariamente, la redditività degli investimenti nell’agricoltura alla salute. Come pure, sempre anteponendo l’aumento della produttività alle sue conseguenze, la fiducia riposta in quella che l’autore definisce come la decima rivoluzione tecnologica tra quelle che più hanno segnato la storia dell’agricoltura: quella genetica.

Per eccesso di entusiasmo, forse tipico degli ambienti universitari se si prendono ad esempio i suggerimenti dell’Università di Bari a proposito della coltura dell’ulivo nel Salento,8 le modificazioni genetiche introdotte industrialmente per aumentare la produttività (quasi mai la qualità) agraria, vengono messe sullo stesso piano delle modificazioni apportate sì dall’uomo sulle piante da coltura attraverso la loro domesticazione e selezione, dimenticando però che tale processo si è svolto nell’arco di secoli e millenni ed è stato sperimentato sempre a partire da areali ridotti prima di essere riconosciuto come valido, utile e non dannoso per l’applicazione successiva e vantaggiosa in altre aree coltivate.

Detto questo, il testo rimane di grande utilità per chi si interessi, non solo a livello professionale o di studio, di agricoltura, ambiente e dei rapporti che questi intrattengono con la specie umana di ieri, oggi e (speriamo) soprattutto domani.


  1. Nikolaj Vavilov, L’origine delle piante coltivate. I centri di diffusione delle diversità agricole, Pentàgora, Savona 2016  

  2. E. Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi 1982 (prima edizione francese 1967)  

  3. Anche se attualmente non è noto nessun collegamento diretto tra basso numero di macchie solari e basse temperature terrestri (Radiative Forcing of Climate Change: Expanding the Concept and Addressing Uncertainties, National Research Council, National Academy Press, Washington, D.C., 2005)  

  4. pag.69  

  5. pag.7  

  6. pag.15  

  7. pp. 42-43  

  8. Cfr. https://www.carmillaonline.com/2017/09/03/guerra-agli-ulivi/  

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Laboratorio Rojava https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/ Wed, 16 Nov 2016 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34508 di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia [...]]]> di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia Todeschini, pp.246, 2016 todessil@gmail.com € 10,00

Immagino lo storcimento di naso che alcuni avranno fatto di fronte alla notizia, comunicata nei primi giorni di novembre dalle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza arabo-curda che agisce sul territorio siriano, l’offensiva congiunta su Raqqa la “capitale” siriana dell’Isis. Soprattutto, considerato che tale coalizione ha ricevuto l’appoggio dall’aviazione statunitense.

Certo nella vicenda c’è dell’ambiguità. Da parte degli Stati Uniti che, mentre da un lato hanno tra gli alleati i maggiori finanziatori dell’Isis (Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia) dall’altro, cercano di sfruttare la legittima aspirazione all’autonomia dei curdi in funzione del proprio progetto di disarticolazione dello stato siriano e del regime di Assad. Oltre che, al momento attuale e dopo le capovolte di Erdogan, per fare indispettire il dittatore turco. Senza magari domani rinunciare ad abbandonare alla sua vendetta i curdi del Rojava in nome di una recuperata “sicura” alleanza. Cosa già messa in atto, tra l’altro dalle forze russe, dopo il riavvicinamento tra Putin ed Erdogan.

D’altra parte, a partita già iniziata e non da ora, come dovrebbero muoversi i curdi del Rojava per continuare a difendere i territori già liberati e per scacciare definitivamente i mercenari dell’Isis dai propri territori?
Certo qualcuno avrebbe trovato da ridire anche in occasione del trasferimento su un treno militare tedesco, da Zurigo a San Pietroburgo, di Lenin nel 1917 o chissà in quante altre occasioni, compresa la guerra civile spagnola, in cui chi la Rivoluzione la stava facendo, o almeno stava provando a realizzarla, è stato colpito dall’ostracismo ideologico di fazioni avverse ”più radicali” o “ortodosse”.

i-dont-fight-3 Non andrebbe però dimenticato che proprio la guerra siriana ha causato malumori tra gli stessi militari americani impiegati che, utilizzando i social network, hanno manifestato la loro contrarietà a combattere una guerra a vantaggio di Al Qaeda e contro le popolazioni civili, pubblicando foto in cui si coprivano il volto con scritte del tipo “I will not fight for Al Qaeda in Syria” oppure “Obama, I will not fight for your Al Qaeda rebels in Syria. Wake Up People!”. Contribuendo così, anche indirettamente, al successivo trionfo elettorale di Donald “Duck” Trump e alla sua, probabile, rottura con la tradizionale politica filo-jihadista della Segreteria di Stato americana, impostata a suo tempo dalla Clinton e dalla lobby petrolifera.

Certo, la semplificazione con cui i media, soprattutto nostrani, dipingono l’alleanza in atto nel Rojava come un’alleanza tra curdi e arabi potrebbe far pensare ad un indesiderabile accordo tra le forze delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg – Yekîneyên parastina gel) e le forze arabo-saudite. In realtà sul territorio del Rojava le unità militari curde operano con le formazioni militari locali create dalle comunità arabe e turcomanne che risiedono nello stesso territorio e che hanno accettato i presupposti di autogestione e confederalismo democratico e territoriale proposto dalle e dagli esponenti delle forze rivoluzionarie curde.

riv-rojava Proprio per comprendere meglio un esperimento complesso ed innovativo come quello in atto nel Rojava, la Red Star Press ha edito, nel giro di pochi mesi, due utili testi. Il primo, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA, è stato scritto da una giornalista nata a Istambul nel 1974, che vive e lavora in Turchia ed è nota per suoi reportage dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente.

Il secondo, LABORATORIO ROJAVA, è opera di uno storico che da sempre studia la questione curda e le pratiche alternative al capitalismo nell’età moderna (Michael Knapp), di un’etnologa che ha trascorso due anni nella resistenza femminile curda (Anja Flach) e di un ingegnere ambientale che vive nel Kurdistan del Nord ed è impegnato in particolare nelle lotte per la salvaguardia delle acque (Ercan Ayboga).

Già il lungo elenco di sigle di formazioni politiche e militari operanti sul territorio del Kurdistan, compreso nelle prime pagine del testo di Arzu Demir, dovrebbe da solo bastare a far comprendere la complessità di una situazione, sia politica che militare e territoriale, che non può essere liquidata semplicemente come “questione curda”. Da qui discende la necessità di rimarcare le differenze intercorrenti tra alcune delle principali organizzazioni: PDK (Partito Democrtaico del Kurdistan – iracheno), PKK (Partîya karkerén Kurdistan – Partito dei lavoratori del Kurdistan – turco) e PYD (Partiya yekîtiya demokrat – Partito dell’unione democratica – siriano).

lab-rojava Il primo è il partito che governa il Kurdistan meridionale (Bajûr, Nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG) dopo la cacciata di Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003. E’ un partito nazionalista e decisamente schierato a fianco della politica americana nella regione e, di fatto, rappresenta gli interessi politico-petroliferi del clan Barzani. Il termine peshmerga, che storicamente definisce genericamente ogni “guerrigliero” o “soldato” curdo, ha finito col rappresentare i combattenti del PDK e del PUK (Yekêtiy nistîmaniy Kurdistan – Unità patriottica del Kurdistan – iracheno) di Talabani; mentre i partigiani del PKK e del PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni oppure come gerîlla o partîzan. Ma è proprio sulla genericità e ambiguità del termine peshmerga che si è potuta costruire gran parte della confusione imperante nei media occidentali.

Il PKK opera da circa trent’anni nel Kurdistan settentrionale (Bakûr, sud-est della Turchia) per sostenere l’autodeterminazione e la sopravvivenza del popolo curdo contro l’aggressione e occupazione militare dello Stato turco. Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dai paesi occidentali (USA ed Europa), sta provando a superare l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una critica radicale degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito e l’abbandono dell’obiettivo di uno stato curdo indipendente, attraverso la proposta di un confederalismo democratico rivolto a tutte le differenti comunità presenti sul territorio in cui opera.

Il PYD, le cui formazioni militari sono YPG e YPJ (Yekîneyên parastina jinê – Unità di difesa delle donne), è il partito maggioritario del Kurdistan occidentale (Rojava, Siria del nord). Condivide con il PKK la prospettiva della costruzione di una federazione di comunità indipendenti e autogovernate al di là dei confini nazionali, etnici e religiosi, le cui basi sono costituite dalla partecipazione dal basso, la parità di genere e la difesa dell’ambiente. Prospettiva che, a detta dell’autrice di La rivoluzione del Rojava, sta cercando di realizzare a partire dall’insurrezione di Kobane nel luglio del 2012.

Il testo di Arzu Demir si basa, principalmente su un lavoro di intervista condotto sul campo a donne e uomini delle comunità coinvolte nella guerra siriana e contro l’avanzata dell’Isis. Ma è una guerra condotta anche in casa, dove i residui del passato patriarcale, ancora sin troppo presente, dovranno essere seppelliti non dopo la lotta contro i regimi autoritari e il capitalismo che li ha prodotti, ma durante e insieme a loro.

L’essenza delle politiche del regime siriano verso il Rojava è stata quella di abbandonare la regione alla povertà e alla miseria politica, sociale, culturale ed economica per renderla dipendente dallo stato centrale. In altre parole lasciarla senza identità e senza riconoscimento. Da questo punto di vista ci sono delle somiglianze con le politiche coloniali dello stato turco nel Kurdistan settentrionale. L’unica differenza è che i curdi in Siria, almeno fino alla rivolta di Qamishlo nel 2004, non si sono mai ribellati in maniera aperta e diretta contro il regime e per questo il numero di massacri è molto minore […] La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana.” (pag. 31)

Parte da queste considerazioni una lunga ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo della resistenza curda e dell’attività forzatamente clandestina condotta dai partiti curdi in Siria almeno dal 1960 e dei motivi che hanno condotto il PYD a non schierarsi né con il governo di Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una terza via che è consistita nel liberare e difendere il proprio territorio per amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società non solo curda, in una specie di “democrazia cantonale dal basso”.

donne-curde-1 In questa azione, che è stata politica e militare nel suo insieme, le donne hanno svolto un ruolo nuovo ed importante e la costituzione delle loro unità di difesa (YPJ) ha finito con l’essere uno dei punti di forza nella difesa del Rojava sia dai lealisti di Assad che dai “ribelli siriani” e dall’ISIS e jihadisti vari. Donne di ogni estrazione sociale, e spesso provenienti da altre nazioni, che ormai da anni versano il loro sangue e prestano le loro energie intellettuali e fisiche alla causa della rivoluzione. Come ben dimostrano le numerose interviste condotte dall’autrice a donne poi cadute in combattimento.

Una delle cose che la rivoluzione ha fatto per le donne del Rojava – in queste terre in cui il fatto che un uomo possa sposarsi con quante donne voglia o con una ragazzina è riconosciuto come un diritto culturale e legale – è stata quella di proibire il matrimonio in giovane età, la poligamia o i matrimoni combinati.[…] All’inizio del 2015 è stata emanata la cosiddetta «Legge delle donne», che tutela i diritti di queste ultime. Il primo articolo della legge in questione recita così: «la lotta alla mentalità patriarcale è responsabilità che poggia sulle spalle di tutti gli individui del Rojava autonomo e democratico». Con la Legge delle donne è stata riconosciuta parità di diritti in materia di eredità, divorzio e testimonianza in sede legale. La legge ha posto fine a pratiche, come lo herdel1 o la compravendita della sposa, che mercificavano la donna” (pp. 70-71)

Il testo però non dedica soltanto spazio alla situazione femminile nel Rojava e all’apporto che le donne hanno dato e danno all’esperimento sociale in corso, ma illustra anche con dovizia di fatti e di interviste un po’ tutti gli aspetti dello stesso: dalla gestione amministrativa comunalistica alle nuove forme di organizzazione economica e di autodifesa. Contribuendo così non soltanto all’informazione su ciò che sta succedendo nella Siria del nord, ma anche alla discussione su quali possano essere le forme organizzative, sociali, amministrative e culturali là dove sia già possibile una società in divenire.

Il taglio storico ed ambientalistico contraddistingue il secondo testo pubblicato dalla Red Star Press, che fin dalle prime pagine sembra aprirsi a scenari complessi.
I curdi sono il terzo gruppo etnico del Medio Oriente dopo arabi e turchi. Le stime sul numero dei curdi variano in modo notevole, ma le più realistiche si aggirano fra i 35 e i 40 milioni di persone.
L’area di insediamento curda, sebbene relativamente compatta, si trova oggi a cavallo tra gli Stati di Turchia, Iraq, Iran e Siria. La regione è d’importanza strategica anche per la facilità d’accesso all’acqua: i fiumi che bagnano la Siria e l’Iraq scorrono entrambi nella parte turca del Kurdstan (Bakûr). I linguisti collegano di comune accordo la lingua curda al ramo iraniano della famiglia indoeuropea, nonostante il curdo possa differire in modo significativo dal farsi. Non esiste una lingua comune curda, né un alfabeto standard o scritto, in parte a causa della divisione del Kurdistan e della proibizione della lingua curda in molti stati. I curdi parlano cinque dialetti principali o gruppi dialettali […] Questi dialetti sono talmente differenti che non sempre gli interlocutori riescono a intendersi
”. (pag. 23)

Primo problema: spesso a proposito del Medio Oriente, si parla di petrolio, ma troppo spesso ci si dimentica come per il futuro, e già oggi per il vicino Oriente, la questione della disponibilità d’acqua e del suo controllo sia vitale. Prova ne sia il conflitto aperto da Israele con la Siria per il controllo del Golan. Quindi un Kurdistan ricco di acque potrebbe essere in prospettiva più appetibile e più importante del Kurdistan ricco di petrolio.

Secondo problema: una lingua dispersa che potrebbe ritrovarsi a ragionare in maniera prossima all’iraniano potrebbe costituire un ulteriore motivo di contenzioso per l’attuale espansionismo iraniano che, come ho già spiegato in altra sede,2 è uno dei fattori degli attuali conflitti mediorientali.
Così un testo come Laboratorio Rojava può essere utile non solo per ciò che espone direttamente, ma anche per i problemi che può far sorgere indirettamente a seguito di una sua più attenta lettura.

donne-curde-2 Il testo si differenzia dal precedente soprattutto per il fatto che mentre Arzu Demir fa ancora uso di una lettura e, talvolta, di una retorica ispirate dal marxismo-leninismo,3 gli autori di Laboratorio Rojava si rifanno decisamente al nuovo corso ispirato dalle riflessioni del leader storico del PKK: Abdullah Öcalan.

Nel suo tratteggiare le tradizioni comunaliste della società primitiva, Öcalan si volge verso quella che lui stesso definisce società organica o naturale, esistita a suo parere alcune decine di migliaia di anni fa, organizzata in modo comunalista ed egualitario. Era una società matriarcale e si distingueva per l’uguaglianza di genere: «Nel Neolitico fu creato, attorno alla donna, un ordine sociale genuinamente comunalista, il cosiddetto ‘socialismo primitivo’, un ordine sociale che ‘non conosceva le pratiche coercitive dello Stato’» […] dal punto di vista del materialismo storico marxista, il «comunismo primitivo» doveva necessariamente essere superato per arrivare alla società statalista attraverso le varie fasi dello sviluppo economico, dalla società schiavista al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo, in una successione di passaggi teleologica, deterministica.4 Nella visione di Öcalan, l’emergere della gerarchia, del dominio di classe e dello statalismo non era inevitabile: «La gerarchia e il conseguente sorgere dello Stato fu agevolato dall’ampio ricorso alla violenza e all’inganno. D’altra parte, le forze essenziali della società naturale hanno resistito senza tregua e devono essere continuamente respinte (dallo Stato stesso). Contro il principio marxista del passaggio necessario attraverso fasi di sviluppo, Öcalan ha elaborato la costruzione della democrazia radicale qui e ora” (pp.51-52)

Per questo motivo il modello organizzativo proposto per il Kurdistan è sostanzialmente quello della democrazia consiliare che ebbe inizio dalla Comune di Parigi. In questa formazione di una società civile senza Stato alcuni principi sono comuni a tutti gli aspetti della riorganizzazione sociale, sia per il movimento delle donne che per il sistema sanitario, la difesa, l’amministrazione della giustizia e altro ancora. “Le persone si organizzano in Comuni, formano commissioni e lavorano insieme alle organizzazioni democraticamente legittimate” (pag. 125)

Il testo dedica molto spazio alle forme organizzative e legislative che si sviluppano in questi ambiti e per questo vale veramente la pena di condurne una lettura attenta e meditata in quanto, ancora più che per il precedente, ogni pagina non è volta soltanto a ricostruire le vicende del Rojava rivoluzionario, ma anche a suggerire prospettive per il futuro. Compreso il nostro.

donne-curde-3 Il terzo testo, quello di Silvia Todeschini, che si può richiedere direttamente all’autrice tramite l’indirizzo e-mail sopra segnalato, si occupa specificamente dell’azione femminile nel Rojava e si basa ancora una volta sull’esperienza di soggiorno e sulle interviste raccolta dall’autrice tra le donne del Rojava. Come dice la stessa Todeschini in apertura: “Questo non è un libro sul Rojava; questo non è un libro sulle donne. Questo è un libro sulla rivoluzione, dal punto di vista delle donne” (pag.6)

Da questa impostazione sorgono ancora numerose riflessioni di cui varrebbe la pena di parlare, ma che richiederebbero una trattazione a sé stante e molto ampia (così come, tra l’altro, la richiederebbero anche molte parti del testo precedente), ma almeno due considerazioni vanno qui prese in esame. La prima riguarda il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato nel trattare un genere ancora poco favorito dalla nostra lingua.

Afferma Silvia nella sua Piccola nota sul “maschile neutro” che non viene usato in questo libro: “In italiano, al contrario di molte altre lingue, non esiste il genere neutro. In italiano, per descrivere un gruppo di persone in cui sono presenti sia maschi che femmine, si usa il maschile. Se per esempio c’è un gruppo di 15 giardinieri, di cui 13 donne e 2 uomini che ha fatto n buon lavoro, secondo la grammatica italiana si dice «i giardinieri sono stati bravi». Equiparare il neutro al maschile è chiaramente sessista, perchè la presenza delle donne viene ignorata, vengono assimilate ai maschi. Che fare quindi? Secondo me è da modificare la lingua italiana, inserendo un plurale effettivamente neutro (come del resto esiste in curdo e in altre lingue). In attesa che si modifichi la lingua, come esprimersi in un modo che non sia sessista ma che resti comprensibile? […] altra possibilità è quella di coniugare il plurale neutro al femminile, «le giardiniere sono state brave»: questa possibilità è discriminante nei confronti dei maschi; però perlomeno è facile da leggere. E comunque potrebbe essere un buon mezzo per far comprendere quanto maschilista sia il maschile neutro. In attesa che la lingua venga modificata, e possa esistere un plurale non escludente, verrà quindi per questo libro assunto il femminile come plurale neutro: ciò significa che quando leggerete espressioni come per esempio «le compagne», è possibile che nel gruppo siano presenti anche compagni maschi” (pag.2)

La seconda, invece, tocca il tema della «bellezza», tema che troppo poco spesso o quasi mai i rivoluzionari hanno seriamente preso in considerazione.
Per lottare, infine, è necessaria la bellezza. E’ necessaria l’estetica. Non solo quella esteriore, ma anche o soprattutto quella dei comportamenti. Perché dire che stai dicendo cose giuste, ma il modo in cui le dice è sbagliato, equivale a dire che è sbagliato tutto, perché il modo in cui si fanno le cose è parte integrante di ciò che si fa. Perché il fine non giustifica i mezzi: i mezzi al contrario devono contenere in se stessi il fine, devono rispecchiarlo, i mezzi stessi sono parte del fine. Perché la strada deve essere innanzitutto essere bella, per poter essere percorsa..Perché non c’è una via verso la libertà che non ne contenga i semi al proprio interno; non è sufficiente avere un buon obiettivo, è necessario conseguirlo in maniera giusta, in maniera corretta. Un caro compagno un giorno mi ha detto che puoi riconoscere se una lotta è giusta in base a quanto bene stai nel farla. La bellezza della lotta non è secondaria, perché la lotta è bellezza. E la gioia che provoca, il sorriso sui nostri volti,è già di per se un coltello nel fianco del nemico. In Rojava si dice che l’estetica è come una rosa, a cui sono necessarie spine per difendersi; queste spine sono l’etica, i valori, ma sono anche la lotta, perché la bellezza senza lotta diventa vuota” (pag. 196)

E queste considerazioni finali mi portano a comprendere ancora di più la straordinaria vicinanza tra lotta dei curdi del Rojava e l’esperienza del Movimento No Tav in Val di Susa. Per cui mi permetto di segnalare, in chiusura, tre agili e sintetici, ma tutt’altro che superficiali, libretti prodotti da una casa editrice vicina al movimento No Tav sulla questione fin qui esplorata:

Dai monti del Kurdistan. Intervista a più voci in un villaggio del Kurdistan turco, Alpi libere, Cuneo maggio 2012, pp. 32, € 2,00

pepino-kurdistan Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, TABOR edizioni, Valle di Susa, dicembre 2014, € 2,00

Janeth Bielh, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, TABOR “materiali”, Valle di Susa , giugno 2015, € 2,00


  1. Pratica matrimoniale che consiste nello scambio di spose tra famiglie. E’ spesso utilizzata per mettere fine a sanguinose faide inter-famigliari  

  2. https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/  

  3. Riferibili, o almeno così sembrerebbe dopo una prima lettura, in alcuni casi alle posizioni del Mlkp (Marksist-Leninist komünist partisi – Partito comunista marxista-leninista)  

  4. Questa ricostruzione, di per sé corretta, risente tuttavia delle forzature interpretative del pensiero di Marx fatte dagli stessi marxisti. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

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