neoliberalismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una guerra civile tutt’altro che nascosta https://www.carmillaonline.com/2024/01/24/una-guerra-civile-strisciante-e-costante/ Wed, 24 Jan 2024 21:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80832 di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), [...]]]> di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), Christian Laval (professore emerito di Sociologia all’Università di Parigi Nanterre) e Pierre Sauvêtre (docente di Sociologia presso l’Università di Parigi Nanterre) sullo stesso argomento e, ancor di più, scoprire che l’edizione originale di La scelta della guerra civile è uscita in Francia nel 2021. Lo stesso anno, appunto, in cui il redattore di queste note ha curato la pubblicazione di Guerra civile globale per l’editore Il Galeone di Roma.

Le similitudini non si fermano però soltanto ai titoli o alla data di prima pubblicazione poiché, in entrambi i casi, al centro dell’analisi ci sono le strategie economiche e repressive, oltre che politiche, messe in atto soprattutto in gran parte del mondo occidentale dai governo variamente neoliberisti che si sono alternati al governo degli stati presi in considerazione. Come si afferma nella Prefazione del testo qui recensito:

Quest’opera s’inscrive nella riflessione collettiva del Gruppo di studio sul neoliberalismo e le sue alternative (GENA). Questo gruppo, costituitosi nell’autunno del 2018, è transdisciplinare e internazionale. In particolare, esso si è dato come oggetto l’osservazione e l’analisi delle metamorfosi del neoliberalismo, considerandolo sotto l’angolazione delle sue varianti strategiche […] così come la diffusione su larga scala di modelli di governo nazionalisti, autoritari e razzisti, è stato il punto di partenza del nostro lavoro collettivo sul ruolo della violenza e la dimensione della guerra civile nella storia del neoliberalismo1.

D’altra parte, come potrebbe accadere, come testimoniano i dati forniti dall’ultimo rapporto Oxfam, che dal 2020 allo scorso novembre, i 5 uomini più ricchi del mondo ( Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato le proprie fortune (+ 114%), da 405 a 869 miliardi di dollari a un ritmo di 14 milioni l’ora, mentre i 5 miliardi di persone più povere del pianeta hanno visto rimanere sostanzialmente invariate o peggiorate le proprie condizioni (-0,2%), se non per mezzo di una coercizione sempre più violenta esercitata nei confronti di queste ultime, sia in termini di estrazione di pluslavoro attraverso l’intensificazione dello sfruttamento individuale e collettivo che di negazione dei servizi minimi necessari alla conduzione di una vita degna di questo nome?

Tali dati, confermando le affermazioni di Marx invece più sbeffeggiate dai rappresentanti della “scienza economica” istituzionale, ovvero quelle sull’impoverimento crescente della popolazione nel corso dello sviluppo capitalistico, non fanno altro che ricordare come ormai da anni, o forse da sempre, non soltanto gli uomini più ricchi (dato comunque relativo) ma l’intero sistema di appropriazione privata della ricchezza collettivamente prodotta, non si fondi altro che su una guerra continua condotta contro le classi meno abbienti da parte di coloro che detengono, soprattutto nel Nord del mondo (come rivelano ancora i nomi dei cinque uomini più ricchi), gran parte delle ricchezze e del potere politico “reale”, non formalizzato certo soltanto nelle istituzioni democratiche parlamentari o consimili. Soprattutto a partire dal trionfo politico e ideologico del neoliberalismo, come si afferma ancora nell’introduzione allo stesso testo.

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile […] Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge2.

Come afferma ancora il rapporto Oxfam, tra il luglio 2022 e il giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi del mondo, 82 sono finiti nelle tasche degli azionisti sotto forma di dividendi o di operazioni di riacquisto (buyback) invece di essere reinvestiti nello sviluppo delle aziende, causando così una sorta di soffocante spirale economica in cui la ricchezza si accumula su se stessa senza produrre alcun altro beneficio che non la crescita di capitale azionario e monetario già detenuto dagli stessi.

Un accumulo di ricchezza privo di qualsiasi altra prospettiva che non la ripetizione infinita dello stesso ciclo, anche a costo di guerre condotte all’interno contro le stesse popolazioni, anche nel Nord del mondo, oppure contro qualsiasi altro possibile competitor sia nazionale che internazionale, statale o privato.

Vale proprio per ciò la pena di ricordare che il 74,2% della ricchezza dei miliardari globali è concentrata nel Nord globale e che di questi il 65% è concentrato ancora nella stessa area geo-economica. Mentre il 69,3% della ricchezza globale è concentrata ancora nel Nord, dove però risiede soltanto il 20, 6% della popolazione mondiale. Non a caso, forse, è proprio in una parte di mondo non pienamente considerabile come appartenente al Nord, il Cile, che, nel 2019, ha inizio una formidabile e spietata repressione dei movimenti nati inizialmente per contestare l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana di Santiago.

Il 20 ottobre 2019, due giorni dopo l’inizio dei disordini nella metropolitana di Santiago a causa dell’aumento delle tariffe dei biglietti, il presidente cileno Sebastián Piñera non ha esitato a dichiarare lo Stato di guerra in questi termini: “Siamo in guerra con un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Per i cileni che lo ascoltano, questo utilizzo del termine “guerra” non ha niente di metaforico: l’esercito ha il compito di far rispettare l’ordine e i veicoli blindati ricompaiono per le strade di Santiago, riportando i più anziani a sinistri ricordi, quelli del colpo di Stato militare di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973. Nelle settimane successive, i Carabineros si assumeranno il compito di dare alla parola “guerra” un senso molto preciso, quello dello scatenarsi violento dello Stato contro comuni cittadini (stupri nei commissariati di polizia, auto della polizia lanciate sui manifestanti al fine di schiacciarli, centinaia di manifestanti feriti agli occhi o che hanno perso la vista a causa dell’utilizzo di proiettili contenenti piombo, ecc.).
Ma qual era il volto del “potente e pericoloso nemico” designato da Piñera? Il 18 ottobre 2019 debutta il movimento noto come “Risveglio d’ottobre”. In pochi giorni, questo movimento orizzontale, senza leader o capi politici, ha assunto la dimensione di una vera e propria rivoluzione popolare, senza precedenti per durata e intensità. È tutta la diversità della società a fare rumorosamente irruzione nello spazio pubblico. È significativo che gli striscioni femministi e le bandiere dei Mapuche si siano mischiati nelle manifestazioni. Le donne cilene sono state schiacciate da un familiarismo che esigeva da loro sempre più sacrifici, i Mapuche sono stati vittime di una “colonizzazione autoritaria interna”. Senza dubbio la guerra dichiarata da Piñera è una guerra civile, una guerra che richiede la costruzione discorsiva e strategica della figura del “nemico interno”. Nasce dalla scelta, da parte dell’oligarchia neoliberale, di fare guerra a un movimento di massa di cittadini che minacciano direttamente il suo dominio. Un graffito onnipresente sui muri lo mostra: “Dove il liberalismo è nato, il liberalismo morirà”3.

Slogan particolarmente significativo, quest’ultimo, poiché proprio in Cile, a partire dal ricordato golpe di Pinochet e dei suoi generali, la scuola economica dei Chicago Boys di Milton Friedman, antesignana del neoliberalismo, poté sperimentare ed esercitare in piena libertà le proprie teorie e pratiche di ridistribuzione della ricchezza esclusivamente verso l’alto4. Insomma, fu un golpe, un’autentica dichiarazione e pratica di guerra contro la società, a dare inizio a quelle leggi economiche che oggi giustificano tutte le scelte portate avanti dal capitale finanziario a livello nazionale e globale.

Nel periodo preso in esame dall’ultimo rapporto Oxfam:

Per quasi 800 milioni di lavoratori occupati in 52 paesi i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione e anzi il monte salari ha visto un calo in termini reali di 1.500 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022, una perdita equivalente a uno stipendio mensile per ciascun lavoratore. […] Vale naturalmente anche per l’Italia, dove dal 2000 a oggi, le quota di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta di 3,8 punti percentuali nel periodo 2000-2022, mentre la quota della metà più povera ha mostrato un trend decrescente, riducendosi nello stesso periodo di 4,5 punti percentuali5.

Così mentre un’opposizione da operetta, soprattutto nel Bel Paese, si preoccupa di braccia levate nel corso di manifestazioni folkloristiche più che politiche oppure di levare nei teatri urla commosse in difesa della “repubblica antifascista”, la vera guerra civile dichiarata dal Capitale e dai suoi funzionari e profittatori contro i lavoratori, i disoccupati, le donne, gli immigrati e le classi medie impoverite continua a svilupparsi sotto gli occhi di tutti, anche nel cuore di quello che è stato definito fino ad ora come “Nord” del mondo.

Lo spettro della guerra civile non è mai stato brandito tanto quanto durante le ultime settimane della campagna presidenziale americana, mentre si producevano violenti scontri tra suprematisti bianchi e manifestanti antirazzisti a Portland o a Oakland. L’editorialista Thomas Friedman non ha allora esitato ad affermare sulla CNN che gli Stati Uniti erano alla vigilia di una seconda guerra civile. […] Lo spettacolo dell’irruzione del 6 gennaio 2021 a Washington ha rivelato un movimento radicato nelle profondità della società americana. Tutte queste violenze non svelano una classica guerra civile in cui due eserciti si affrontano, come durante la guerra di Secessione, ma una divisione profonda e duratura tra due parti della società, per troppo tempo occultata dal prisma deformante dell’opposizione elettorale tra democratici e repubblicani, e che oggi si presenta come una singolare forma di guerra civile. È troppo facile vedere in Trump un demiurgo che avrebbe creato questa divisione all’interno di una società in precedenza pacifica. Quello che Trump ha saputo fare è stato reinvestire su divisioni molto antiche, razziali, sociali e culturali, per meglio attizzarle a proprio vantaggio, ravvivando in particolare l’immaginario sudista fatto di schiavismo e di razzismo […] Ma la cosa più importante per il futuro è senza dubbio che Trump sia riuscito a tenere insieme intere fasce della popolazione, aumentando anche in modo significativo il numero di voti a suo favore tra il 2016 e il 2020 (da 63 milioni a 73 milioni nel 2020). Questa polarizzazione è stata resa possibile solo da una contrapposizione di valori, quelli della libertà e dell’uguaglianza o della libertà e della giustizia sociale […] È infatti questa contrapposizione ad aver dato senso all’odio o al risentimento provati da gran parte di questi elettori. Come dice Wendy Brown, il più grande risultato dei repubblicani in queste elezioni è stato quello di “identificare Trump con la libertà”: “Libertà di resistere ai protocolli anti-Covid, di abbassare le tasse ai ricchi, di espandere il potere e i diritti delle aziende, di cercare di distruggere ciò che resta di un Stato regolatore e sociale”6.

Ma, come si afferma ancora nello stesso testo:

Non possiamo attribuire all’estrema destra il monopolio della strategia neoliberale. La cosiddetta sinistra “di governo” […] ha condotto dagli anni Ottanta questa stessa guerra, certo in maniera più elusiva, ma sempre con terribili effetti sui rapporti di forza e sulle possibili alternative. Non solo non ha difeso le classi lavoratrici e non ha protetto i servizi pubblici, ma li ha impoveriti e indeboliti in nome del “realismo”, vale a dire in nome dei vincoli della globalizzazione o dei trattati europei, a seconda dei casi. L’ascesa del neoliberalismo nazionalista della destra radicale non avrebbe potuto captare il risentimento delle classi popolari senza questa partecipazione attiva della “sinistra” all’offensiva neoliberale7.

Sinistra di governo che, ammantandosi sempre di politically correct, nel tentativo di smarcarsi dalle proprie responsabilità politiche e amministrative all’interno dell’azione statale messa in atto da governi solo apparentemente diversi per orientamento ideologico, ha cercato ripetutamente di sottolineare come:

l’emergere di una destra autoritaria, nazionalista, populista e razzista corrisponde a uno sviluppo “mostruoso”, a una “creazione frankensteiniana” del neoliberalismo delle origini – quello di Friedrich von Hayek, Milton Friedman o degli ordoliberali tedeschi, che era incentrato sulla difesa del libero mercato e della morale tradizionale. […] Per altri ancora, l’attuale risorgenza della versione “autoritaria” del neolibealismo risalente agli anni Trenta sarebbe “l’espressione del suo indebolimento politico”, della sua “crisi di egemonia avanzata”. In ogni caso, il neoliberalismo, considerato a partire dalle sue forme contemporanee, starebbe subendo uno snaturamento o una degenerazione […] Tuttavia, se affrontato nella sua dimensione strategica, il neoliberalismo sembra essere sempre stato coinvolto in un insieme di relazioni (di composizione o di alleanza, ma anche di antagonismo) con altre razionalità politiche, essendosi quindi confrontato fin dall’inizio con l’obbligo di designare i nemici e di riflettere sulle modalità d’azione che avrebbero potuto garantire l’efficacia dell’offensiva. Riconoscere questa dimensione strategica del neoliberalismo implica come conseguenza il riproporre la questione delle sue origini storiche, per mostrare quanto il ruolo della strategia sia stato centrale sin dall’inizio8.

Ed è proprio questa indagine storica sulle forme e le strategie del neoliberalismo a costituire una delle parti più interessanti e convincenti del testo che, nel suo insieme , risulta diviso in dodici capitoli, ognuno destinato ad approfondire aspetti diversi dell’azione e della storia del neoliberalismo.

Si inizia dal Cile, con un capitolo significativamente intitolato Il Cile, la prima controrivoluzione liberale (pp. 29-54), per poi proseguire con la Demofobia liberale (pp. 55-71), l’Apologia dello Stato forte (pp. 73-95), Costituzione politica e costituzionalismo di mercato (pp. 97-117), Il neoliberalismo e i suoi nemici (pp. 119-141), Strategie neoliberali dell’evoluzione sociale (pp. 143-167), La falsa alternativa tra globalisti e nazionalisti (pp. 169-189), La guerra dei valori e la divisione del “popolo” (pp. 191-211), Sul fronte del lavoro (pp. 213-229), Governare “contro” le popolazioni (pp. 231- 247), Il diritto come macchina da guerra neoliberale (pp. 249-266) e Neoliberalismo e autoritarismo (pp. 267-294).

La raccolta di saggi, tutti rigidamente e consequenzialmente collegati l’uno all’altro, costituisce così un perfetto manuale politico per l’analisi del neoliberalismo, ultima e più recente del dominio del capitale sulla società e il mondo intero, dando vita, contemporaneamente, ad una autentica enciclopedia storico-politica sul tema della guerra civile come normale condizione di esistenza dell’ordine sociale dettato dall’attuale modo di produzione.

contrariamente a quanto sostiene il discorso del potere, la guerra civile non è ciò che lo minaccia dall’esterno: lo abita, lo attraversa e lo implica, perché “esercitare il potere è in un certo modo fare la guerra civile”. In questo modo, la guerra civile funziona come “una matrice all’interno della quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano”. È in tal senso che si può sostenere che, lungi dal porre fine alla guerra, “la politica è la continuazione della guerra civile” 9. […] Agli antipodi di una politica di protezione statale dei rischi sociali a opera dello Stato, lo Stato neoliberale mira a costruire il mercato e a proteggerlo dalle minacce di regolamentazione e di controllo da parte di uno Stato abusivo. Ma per adempiere a questa missione, lo Stato deve rimanere costantemente sul piede di guerra al fine di evitare che la democrazia interferisca sull’economia. Se siamo stati in grado di mostrare la natura “costruttivista” di un neoliberalismo che dà forma a un ordine economico concorrenziale, diventa di conseguenza necessario dare pieno risalto alle strategie di guerra civile condotte dai governi neoliberali contro tutto ciò che minaccia la “società libera”: governi e partiti socialisti, sindacati e movimenti sociali in lotta per rivendicazioni economiche, ecologiche, femministe o culturali. Una guerra che assume essenzialmente due forme: l’istituzione di uno Stato forte e la repressione di tutte le forze sociali e dei movimenti che si oppongono a questo progetto.
Vedere un’“ambiguità”, un “fallimento” o un “segno di crisi” nel fatto che la governamentalità neoliberale possa ricorrere contemporaneamente a forme costituzionali e a forme dirette di repressione statale significa, quindi, mancare proprio ciò che fa la coerenza strategica del neoliberalismo, poiché comprende appieno l’idea della necessità, almeno in certe situazioni, di ricorrere alla violenza. Occorre tuttavia precisare che la violenza neoliberale non è una violenza di tipo fascista, che si eserciterebbe contro una comunità designata come estranea al corpo della nazione, ma, sebbene possa mobilitare gli effetti di tale comunità, è innanzitutto caratterizzata dalla violenza conservatrice dell’ordine di mercato, rivolta contro la democrazia e la società. I neoliberali hanno la convinzione che la posta in gioco nell’ordine di mercato, molto più che una scelta di politica economica, sia un’intera civiltà, basata principalmente sulla libertà e la responsabilità individuali del cittadino-consumatore. Ed è perché la “società libera” poggia su tale fondamento che lo Stato, con tutte le sue prerogative, continua a mantenere un ruolo chiave, e ha persino il dovere di utilizzare i mezzi più violenti e più contrari ai diritti umani, se la situazione lo richiede. 10.

Per concludere, lasciando al lettore il piacere di trovare nel testo mille altri spunti di riflessione sull’azione “civilizzatrice” e fomentatrice di guerre intestine e esterne da parte del neoliberalismo, vale la pena di riprendere un’altra considerazione, contenuta nello stesso, adatta a riassumere il senso della guerra messa in atto dal capitalismo di stampo neoliberale e delle sue conseguenze sociali, politiche e repressive.

In primo luogo queste guerre, condotte su iniziativa dell’oligarchia, sono guerre “totali”: sociali, in quanto mirano a indebolire i diritti sociali delle popolazioni; etniche, in quanto cercano di escludere gli stranieri da qualsiasi forma di cittadinanza, in particolare limitando sempre più il diritto di asilo; politiche e giuridiche, in quanto utilizzano i mezzi della legge per reprimere e criminalizzare qualsiasi resistenza e contestazione; culturali e morali, in quanto attaccano i diritti individuali in nome della difesa più conservatrice di un ordine morale, spesso riferito ai valori cristiani. In secondo luogo, in queste guerre le strategie sono differenziate, si sostengono e alimentano a vicenda, ma non danno luogo a una strategia globale unitaria le cui strategie nazionali o locali sarebbero solo particolarizzazioni. In terzo luogo, esse non oppongono direttamente un “ordine globale” di tipo imperiale, anche se guidato da una potenza egemone, a popolazioni prese in blocco, così come non oppongono due regimi politici o due sistemi economici l’uno all’altro. Esse contrappongono oligarchie coalizzate ad alcune fasce della popolazione, con il sostegno attivo di altre fasce della popolazione. Ma questo sostegno non è mai dato in anticipo; deve essere ottenuto ogni volta, strumentalizzando le divisioni esistenti, soprattutto quelle più arcaiche. È così che queste strategie vanificano qualsiasi schema dualistico. Le guerre civili del neoliberalismo sono appunto civili, in quanto non contrappongono l’“1%” al “99%”, secondo uno slogan tanto famoso quanto fallace, ma mettono in tensione e quindi mettono insieme diversi tipi di raggruppamenti, secondo linee di clivaggio molto più complesse di quelle dell’appartenenza a classi sociali: le oligarchie coalizzate, che difendono l’ordine neoliberale con tutti i mezzi dello Stato (militari, politici, simbolici); le classi medie, che hanno aderito al neoliberalismo “progressista” e al suo discorso sui vantaggi della “modernizzazione”; una parte delle classi popolari e medie, il cui risentimento è catturato dal nazionalismo autoritario; infine, un ultimo tipo di raggruppamento, che si è formato in gran parte tra le mobilitazioni sociali contro l’offensiva oligarchica e che rimane legato a una concezione egualitaria e democratica della società (in cui troviamo in particolare le minoranze etniche, sessuali e delle donne)11.

In occasione della prima edizione del festival Meltemi, che si terrà alla Zam (Zona Autonoma Milano), via Sant’Abbondio 4, dal 26 al 28 gennaio con il titolo Cronache dalla fine dell’impero, La scelta della guerra civile verrà presentato il 27 gennaio da Max Guareschi, Andrea Fumagalli e Vittorio Morfino.


  1. Prefazione a P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, p. 9.  

  2. Ibidem, pp. 11-12  

  3. Ibidem, pp. 12-13 

  4. cfr. anche: A. Peregalli, S. De Guio, Chile despertó.: storia e prospettive di un’insurrezione popolare in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeeone Editore, Roma 2021, pp. 47-84.  

  5. I. Solaini, L. Becchetti, In un mondo con sempre più miliardari la diseguaglianza si sta facendo esplosiva, “Avvenire”, 16 gennaio 2024.  

  6. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 14-15.  

  7. Ibidem, pp. 15-16.  

  8. Ivi, pp. 20-21.  

  9. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973, EHESS/Seuil/Gallimard, coll. “Hautes études”, Paris 2013, p. 33; tr. it. di D. Borca, P.A. Rovatti, La società punitiva. Corso al Collège de France (1972-1973), Feltrinelli, Milano 2016, p. 45.  

  10. P. Dardot, H. Guéguen, C. Laval, P. Sauvêtre, op. cit., pp. 16-23.  

  11. Ivi, pp. 18-19.  

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Quando il sogno tecnomodernista si rivela un incubo https://www.carmillaonline.com/2023/06/04/quando-il-sogno-tecnomodernista-si-rivela-un-incubo/ Sun, 04 Jun 2023 20:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77364 di Gioacchino Toni

Nel volume 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi 2015) Jonathan Crary, docente alla Columbia University e tra i fondatori delle edizioni indipendenti Zone Books, ha argomentato come attraverso le innovazioni tecnologiche digitali il capitalismo sia giunto a inediti livelli di dissoluzione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. In continuità con quanto esposto in 24/7, Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi 2023), evidenzia come le disuguaglianze e il dissesto ambientale siano correlati al capitalismo digitale, da lui indicato come fase terminale del capitalismo globale votato alla finanziarizzazione [...]]]> di Gioacchino Toni

Nel volume 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi 2015) Jonathan Crary, docente alla Columbia University e tra i fondatori delle edizioni indipendenti Zone Books, ha argomentato come attraverso le innovazioni tecnologiche digitali il capitalismo sia giunto a inediti livelli di dissoluzione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. In continuità con quanto esposto in 24/7, Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi 2023), evidenzia come le disuguaglianze e il dissesto ambientale siano correlati al capitalismo digitale, da lui indicato come fase terminale del capitalismo globale votato alla finanziarizzazione dell’esistenza sociale, all’impoverimento di massa, all’ecocidio e al terrore militare.

Ritenendo assurda la pretesa di poter perseguire il cambiamento sistemico ricorrendo ai medesimi apparati che garantiscono la sottomissione a concessioni e regole imposte da chi detiene il potere, lo studioso denuncia come, a differenza di quanto sostenuto da alcuni ambienti di tecno-attivismo1, lungi dal poter essere strumento di cambiamento radicale, l’universo di internet sia del tutto incompatibile con una Terra abitabile e con le relazioni umane di stampo egualitario.

Ritenendo del tutto illusoria «l’idea che internet possa funzionare indipendentemente dalle dinamiche catastrofiche del capitalismo globale», lo studioso sostiene che la dissoluzione di tale sistema non possa che comportare «la fine di un mondo guidato dal mercato e modellato dalle odierne tecnologie in rete». I mezzi di comunicazione presenti in un mondo postcapitalista assomiglieranno necessariamente poco alle reti finanziarizzate e militarizzate dominanti, visto che i dispositivi e servizi digitali attualmente in uso «sono resi possibili dall’esacerbazione illimitata della disuguaglianza economica e dal deturpamento accelerato della biosfera terrestre, indotto dall’estrazione di risorse e dal consumo superfluo di energia» (p. 13).

Internet, sostiene l’autore, si è rivelato del tutto funzionale a quel processo di globalizzazione capitalista, con relativa «“dissoluzione della comunità” e di qualsiasi relazione sociale indipendente dalla “tendenza universalistica del capitale”», previsto da Marx.

Il complesso di internet è divenuto rapidamente parte integrante dell’austerità neoliberale, nella sua costante erosione della società civile e nella sostituzione delle relazioni sociali con dei loro simulacri online monetizzati. Esso promuove la convinzione di non essere più dipendenti gli uni dagli altri, l’idea per la quale siamo amministratori autonomi delle nostre vite, che possiamo gestire le nostre amicizie nella stessa maniera in cui gestiamo i nostri conti online (p. 15).

Tutto ciò ha dato luogo a quell’“apatia narcisistica”2 propria di individui sempre più «svuotati del desiderio per la comunità, che vivono nella passiva conformità all’ordine sociale esistente» e, continua Crary, al «deterioramento della memoria e l’assorbimento delle temporalità vissute; non tanto la fine della storia, quanto piuttosto il suo divenire irreale e incomprensibile» (p. 15). Una paralisi del ricordo che tocca tanto l’ambito individuale che collettivo e che – come sul finire degli anni Ottanta aveva intuito Guy Debord3 – nell’esaltazione dell’istantaneo lo perpetua, altro e identico, uguale a sé stesso.

Se storicamente i sistemi di comunicazione hanno sempre teso a disgregare le comunità locali inserendole all’interno di ambiti più allargati ove è stato mantenuto il monopolio del sapere e la dominazione culturale ed economica4, è possibile vedere in internet un sofisticato apparato globale volto alla dissoluzione della società.

«Internet disperde i senza-potere in un bazar di identità, sette e interessi separati, ed è particolarmente efficace nel solidificare le formazioni di gruppi reazionari. L’isolamento che produce diventa infatti un incubatore di particolarismo, razzismo e neofascismo» (p. 20). Storicamente, sostiene l’autore, i tentativi operati dai gruppi soggiogati di appropriarsi efficacemente dei media della comunicazione per portare avanti finalità politiche altre in fin dei conti non hanno ottenuto granché.

A meno che il difficile compito di creare nuove forme di vita comunitarie e cooperative non divenga una priorità politica, tutte le forme di attivismo online continueranno a essere del tutto innocue, incapaci di ottenere alcun cambiamento radicale o di fondo. Dimostrazioni, proteste, cortei hanno sì luogo, ma, al contempo, avviene una re-immersione nella separazione atomizzante della vita digitale. I legami che sembrano sbocciare nel mezzo dell’azione finiscono poi per evaporare. Persino negli effettivi eventi dei cortei, delle occupazioni, delle zone liberate e delle mobilitazioni di ogni tipo, la solidarietà di gruppo è affievolita da una massa critica di individui che sono sempre anche altrove, appiccicati ai loro dispositivi e alle risorse di autopromozione messe a disposizione dai social media (p. 22).

La retorica green con cui vengono presentati progetti e industrie per l’energia rinnovabile cela l’intenzione di mantenere modelli devastanti di consumo, competizione e disuguaglianze crescenti, pertanto nasconde secondo Crary un dispositivo di devastazione sociale e ambientale a cui occorre urgentemente contrapporre un immaginario in cui la dimensione sociale torni a ricoprire il ruolo che le spetta, cessando di essere una semplice appendice dell’universo online.

Una fase cruciale della lotta degli anni a venire per una società equa consiste nella creazione di assetti sociali e personali che abbandonino il predominio del mercato e del denaro sulle nostre vite associate. Ciò significa respingere il nostro isolamento digitale, rivendicare il tempo in quanto tempo vissuto, riscoprire i bisogni collettivi e resistere ai livelli montanti di imbarbarimento, inclusi la crudeltà e l’odio che traboccano dall’online. Non meno importante è il compito di riconnettersi umilmente con ciò che resta di un mondo pieno di altre specie e forme di vita (p. 12)

Crary sostiene la necessità e la possibilità di attuare forme di rifiuto radicale contro la martellante pretesa dell’indispensabilità di internet e dell’insignificanza di tutto ciò che risulta refrattario ad assimilarsi ai suoi protocolli. L’accettazione passiva della «intorpidente routine online quale sinonimo di vita» palesa, secondo lo studioso, un deficit collettivo di immaginazione derivato dalla resa a una cultura e ad un’economia di matrice tecnoconsumista responsabili delle devastazioni ambientali e della vita degli esseri umani.

lo stesso storytelling dell’alfabetizzazione tecnologica necessaria a ridurre le diseguaglianze, sostiene Crary, si rivela un eufemismo che, nei fatti, si traduce in shopping, videogiochi, serie televisive e altre attività tendenti ad indurre a dipendenza; occorrerebbe guardare all’universo di internet come alla quintessenza del libero mercato deregolamentato del tardo capitalismo secondo cui tutto è permesso soltanto se può essere monetizzato e vendibile.

Se nel corso dello sviluppo del capitalismo industriale si sono approfonditi gli studi e le tecniche di gestione scientifica dei movimenti corporei al fine di renderli efficienti sul lavoro, ora i colossi tecnologici si concentrano invece sull’“economia dell’attenzione” monitorando e guidando i movimenti dello sguardo sugli schermi con l’obiettivo di addestrare la visione relegandola al ruolo di mero accessorio dell’elaborazione di informazioni. In linea con le richieste del capitalismo neoliberale, le architetture degli attuali dispositivi digitali agiscono omogeneizzando al ribasso e meccanizzando l’universo emotivo umano.

Internet, continua lo studioso, produce una sorta di naturalizzazione di un individualismo che ha fatto propria una logica di disimpegno nei confronti di un mondo vissuto in comune con gli altri5. Crary sostiene che sin dalla metà degli anni Novanta internet ha mirato a neutralizzare le energie ribelli dei giovani negando loro spazi e tempi di autonomia e autoriconoscimento collettivo, dunque la possibilità di costruirsi una memoria e di avere esperienze reali. Distolti dall’azione politica, i giovani sono divenuti il target su cui costruire conformismo tecnologico e consumistico inducendoli ad abitudini e comportamenti prevedibili e duraturi.

La vita online genera bisogni governabili all’interno della sua clausura autosufficiente e regolamenta ciò che è consentito sognare. È solo quando i desideri e le speranze si aggrappano alla vita di un mondo fisico condiviso, non importa quanto compromesso, che una persona cresce capace di rifiutare e di provare ostilità verso i poteri e le istituzioni che opprimono e soffocano queste speranze. […] Adesso l’obiettivo è impedire che i giovani godano mai delle circostanze nelle quali immaginare e costruire un futuro che appartenga a loro. Vediamo piuttosto un’infinità di notizie che ci parlano di giovani che utilizzano “creativamente” e in modo “dirompente” i loro strumenti e piattaforme digitali. La priorità è far deragliare la possibilità di una gioventù potenzialmente ribelle e, al fine di nascondere il loro futuro senza un lavoro e senza un mondo, abbiamo la triste narrazione di una generazione che aspira a diventare “influencer”, fondatrice di start-up, o altrimenti allineata a valori imprenditoriali senz’anima (pp. 52-54).

Insomma, sostiene lo studioso, le élite si preoccupano di mantenere gli individui rinchiusi all’interno delle “irrealtà aumentate” di internet, ove «l’esperienza è frammentata in un caleidoscopio di fugaci rivendicazioni di importanza, di ammonimenti senza fine su come condurre la nostra vita, come gestire il nostro corpo, cosa comprare e chi ammirare o temere. La separazione e atomizzazione indotta da internet è aggravata dall’umiliazione e lo sminuimento alimentati dalla cultura dei miliardari» (pp. 98-99). Rispetto al passato sembrano essersi ridotti i terreni comuni su cui «costruire nuove solidarietà che emergano dalle realtà e necessità del conflitto di classe. Nostro malgrado, capitoliamo di fronte al sentimento di impotenza o alle illusioni di “soluzioni” individuali» (p. 99).

Il fenomeno dell’atomizzazione della società in individui assorbiti dai contenuti dei propri schermi amplifica l’implosione dello spazio pubblico palesando il rifiuto della comunità voluto dal neoliberalismo. L’eliminazione dell’incontro, di un modello di vita fondato sulla comunità viene presentato dalla narrazione dominante come fastidioso effetto collaterale da concedere al sistema produttivo dell’era digitale.

Questa frammentazione di un mondo sociale si basa però sull’imperativo della frenesia e dell’essere sempre occupati. È irrilevante cosa si stia effettivamente facendo, se guardare, lavorare, mandare messaggi, fare shopping, navigare su internet, ascoltare musica, giocare o qualunque altra cosa. Il risultato è comunque l’acquiescenza di massa a un’impalcatura immateriale di separazione, sostenuta da un’attività fittiziamente autonoma e dall’indifferenza a qualsiasi cosa avvenga al di fuori di quella determinata pratica (p. 136).

Dopo il 2008 l’economia globale sembra essere tenuta in vita artificialmente dalle élite senza alcun calcolo di lungo periodo propense come sono soltanto ad incassare il possibile per poi cercare, invano, qualche esclusiva via di fuga prima della catastrofe finale6 anche se, ricorda Crary riprendendo Walter Benjamin, la vera catastrofe è piuttosto la perpetuazione dell’attuale mondo, il proseguimento delle sue forme di violenza, ingiustizia e devastazione. La stessa ossessione di sopprimere l’invecchiamento che caratterizza la contemporaneità deriverebbe dalla volontà di immaginare la vita come un presente esteso esente da decadimento e cambiamento7.

Per migliaia di anni, la finitezza della vita è stata ciò che ha dato significato, passione e scopo alla nostra esistenza e ai modi in cui amiamo e dipendiamo dagli altri. La svalutazione della finitezza umana, proponendosi di rendere la longevità delle persone un ricercato prodotto biotecnologico per ricchi, fa parte dell’estinzione di qualsiasi valore o credenza che trascenda la voracità del capitalismo. Con l’assimilazione del “tempo della vita” alla logica della finanziarizzazione, la mercificazione e privatizzazione del futuro si fa adesso esplicita (p. 81)

Ad essere ripresa dallo studioso è anche la convinzione di Robert Kurz secondo cui l’economia dell’informazione trainata dai servizi che ha preso il via negli anni Settanta non è in realtà mai riuscita ad inaugurare una vera e propria nuova fase di accumulazione; il collasso del 2008 ha strettamente a che fare con l’informatizzazione dell’economia globale, una volta che il lavoro e il tempo di lavoro cessano di essere la principale fonte e misura di ricchezza, sostiene Kurz, il capitalismo si indebolisce. Quest’ultimo «si approssima al suo esaurimento quando la tecnologia non si limita ad accrescere la produttività umana, ma a rimpiazzarla» (p. 65).

Ai sogni di un futuro migliore, ai piani per realizzarlo, si è così sostituito sul finire del vecchio millennio un immaginario votato al “presentismo” indotto da tecnologie progettate per abolire il tempo privilegiando l’“adesso” e l’illusione dell’istantaneità, dando luogo a un’accessibilità “on demand” che presuppone una realtà libera da vincoli spaziali, materiali e temporali. A ciò si associano maniacali analisi del rischio, previsioni e simulazioni volte a neutralizzare il futuro prima che esso si dia. D’altra parte, ricorda Crary riprendendo Joseph Gabel8, l’esperienza della temporalità prodotta dal capitalismo è sempre stata costruita su una concezione di progresso come successione quantitativa di momenti presenti volti a mantenere gli assetti socio-economici esistenti.

L’insistente promozione dell’universo tecnologico contemporaneo, sostiene Crary, cela il tendenziale relegamento degli esseri umani ai margini del sistema tecnologico. È, secondo lo studioso, mal riposta la convinzione che vede nell’interecciarsi di internet, intelligenza artificiale ecc. la nascita di un unitario assetto panottico di controllo sociale in quanto a darsi, a suo avvuiso, sarà piuttosto «un patchwork di sistemi e componenti incompatibili e in concorrenza tra loro, che produrrà malfunzionamenti, guasti e inefficienze» (p. 75).

Insomma, secondo lo studioso, la logica capitalista del costante rinnovamento dettato dall’obsolescenza programmata, da una complessità tecnica sempre maggiore, dal taglio dei costi e dalla smania di introdurre aggiornamenti non necessari e non ancora rodati, entra inevitabilmente in conflitto con la stabilità richiesta ad un funzionamento efficiente di un controllo autoritario. Crary prospetta un futuro prossimo non dissimile da quello messo in scena da film distopici in cui la pretesa del controllo sociale assoluto tende a risolversi, di fatto, nell’ingovernabilità.

La soglia di un mondo postcapitalista non è lontana, al massimo pochi decenni. Ma a meno che non vi sia una prefigurazione attiva di nuove comunità e formazioni capaci di autogoverno egualitario, proprietà condivisa e cura per i propri membri più fragili, il postcapitalismo sarà un nuovo regno di barbarie, dispotismi regionali e, ancora peggio, nel quale la scarsità prenderà forme inimmaginabilmente feroci. Sartre vide che le insorgenze emergenti avevano una capacità unica di rompere le maglie della sottomissione ad “apparati antisociali” e di trasformare la passività e l’isolamento in nuove forme di solidarietà. I gruppi rivoluzionari, diceva, nel rispondere allo stato di emergenza potevano definire la propria temporalità e determinare “la velocità con cui l’avvenire gli viene incontro”. Oggi, a oltre mezzo secolo di distanza, tra le fiamme e le devastazioni del nostro mondo vitale, ci rimane poco tempo per andare incontro a un futuro di nuovi modi di vivere sulla Terra e tra di noi (p. 141).

Circa il come far sì che che il postcapitalismo anziché ridursi a ulteriore barbarie si traduca in nuove forme di vita comunitaria cooperativa è tremendamente difficile pronunciarsi. Non a caso lo stesso libro di Crary, opera di denuncia dal registro a tratti apodittico, evita di avventurasi sul che fare. Iniziano ad essere tanti i testi che infrangono la narrazione dominante sull’universo digitale e questo è certamente un primo passo positivo e necessario, restano da trovare le modalità per compiere collettivamente i passi successivi volti al superamento del sistema di sfruttamento contemporaneo.


  1. Su posizioni differenti è, ad esempio, Carlo Milani, Tecnologie conviviali (elèuthera 2022) il quale, ritenendo che il potere debba essere distribuito affinché non si accumuli strutturando gerarchie di dominio, invita a concepire gli strumenti elettronici come potenziali alleati per costruire relazioni solidali e libertarie [su Carmilla]. Autori come Henry Jenkins hanno insistito sull’inedito potenziale partecipativo dei media contemporanei mettendone in luce la possibilità allargata di produzione mediatica, o di incidenza sui contenuti prodotti da altri. A differenza di studiosi come John Banks e Sal Humphreys, che denunciano come il fenomeno partecipativo rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle aziende del settore, Henry Jenkins individua nella pratica partecipativa una possibilità di trasformazione sociale emancipativa dal basso. Cfr.: Henry Jenkins, Collaboration, participation and the media, in “New Media & Society”, vol. 8, n. 4, 2006, pp. 691-698; Henry Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Adria 2014; John Banks, Sal Humphreys, The labour of user co-creators: Emergent social network markets?, in “Convergence: The International Journal of Research into New Media Technologies”, vol. 14, n. 4, 2008, pp. 401-418. . 

  2. Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni. Individuo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 

  3. Cfr. Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2019. 

  4. Cfr. Harold Innis, Impero e comunicazioni, Meltemi, Roma 2001. 

  5. Éric Sadin ha denunciato come l’universo di internet tenda a relegare gli individui ad una “sferizzazione della vita” che li isola all’interno di bolle tendenti a vincolarli alle abitudini consolidate e a limitare le occasioni di confronto con l’extra-sfera di appartenenza, dunque a far percepire l’esistenza – reale o vissuta come tale – come del tutto immodificabile. Al posto di una società composta da una pluralità di persone chiamate a confrontarsi, sembra prendere piede «un ambiente costituito da un brulichio di monadi felici di godere continuamente di ciò che si presume possa fare al caso loro in ogni momento. Una nuova condizione, questa, destinata a diventare naturale o a dare la misura di ogni cosa» Éric Sadin, Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, Luiss University Press, Roma 2022, p. 97 [su Carmilla 1 e 2]

  6. Le élite sembrerebbero procedere senza alcuna pianificazione, interessate ormai alla ricerca di una frenetica, quanto improbabile, via di fuga. Si veda a tal proposito Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi, Luiss University Press, Roma 2023 [su Carmilla]

  7. La studiosa Alessia Buffagni ha indagato l’estensione temporale delle esistenze degli individui determinata soprattutto dalla tecnica medica che ha innalzato l’aspettativa di vita e aumentato la popolazione anziana concentrandosi in particolare sull’estensione anatomica protesica nel corso dei secoli e sull’estensione qualitativa contemporanea. «Il concetto di estensione – prolungamento, allungamento – della vita, del suo limite temporale, è una costante nella storia della nostra specie. All’estensione temporale si accompagna l’urgenza di estensione ‘materiale’: l’estensione materiale delle prestazioni – e della prestanza. In principio per normalizzare le proprie funzionalità (in caso di handicap), quindi per accrescerle, e infine, dove possibile, per estremizzarle, fino a metterne alla prova i limiti» Alessia Buffagni, Modellare la tecnologia su un corpo che invecchia. La ricerca di un metodo, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 71 [su Carmilla]

  8. Cfr. Joseph Gabel, La falsa coscienza. Saggio sulla reificazione, Dedalo, Napoli 1967. 

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Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo https://www.carmillaonline.com/2019/07/12/por-la-vida-y-la-libertad-il-messico-di-amlo-tra-resistenze-e-capitalismo/ Thu, 11 Jul 2019 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53572 di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra [...]]]> di Fabrizio Lorusso

[Pubblichiamo come segnalazione un estratto di Fabrizio Lorusso dal libro, a cura di Andrea Cegna*, Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo, Agenzia X, Milano, 2019. Il libro, illustrato, contiene un’interessante introduzione sulla storia recente del Messico di Andrea Cegna, un prologo di Pino Cacucci e interviste con Juan Villoro, Paco Ignacio Taibo II, Raúl Zibechi, Fernanda Navarro, Gilberto López y Rivas, Fabrizio Lorusso, Oswaldo Zavala, Pablo Romo, Araceli Olivos, Gustavo Esteva, Amaranta Cornejo, Federico Mastrogiovanni, Claudio Albertani, Carlos Fazio, Guillermo Briseño].

Nota di contesto. Alla guida di una coalizione di centrosinistra e supportata da alcuni movimenti sociali, Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, è il vincitore delle ultime presidenziali in Messico, un’elezione che ha suscitato molte speranze, anche se le riforme proposte non sono molto diverse da quelle di chi lo ha preceduto.
Por la vida y la libertad è una visione caleidoscopica del Messico di oggi e una tesi, ovvero che nulla come l’insurrezione zapatista e la firma del Nafta, entrambi nel 1994, hanno determinato una radicale trasformazione del paese. Due fronti opposti per un conflitto che ha molto da insegnare anche a noi. Il 2019 è un anno cruciale per capire i nuovi rapporti di forza che si stanno sviluppando tra il potere costituito e l’Ezln, tra Obrador e tutte quelle voci fuori dal coro che non hanno alcuna intenzione di illudersi. In questi anni l’autore ha collezionato numerosi viaggi nel paese centroamericano, le opinioni qui raccolte rappresentano alcuni punti di vista critici, un insieme di riflessioni da diversi profili intellettuali, artistici e militanti che garantiscono al lettore una straordinaria immersione nella contemporaneità messicana.

Intervista di Andrea Cegna con Fabrizio Lorusso

A.C.: Immaginando due linee, la prima che rappresenta il potere, le leggi, lo stato, l’economia e la repressione; la seconda le resi- stenze, le ribellioni, i movimenti Possiamo immaginarle che si muovano con direzioni differenti per lunghi tratti dello spaziotempo che va dalla fine della rivoluzione messicana al luglio 2018. In questo loro movimento indipendente, però, ci sono stati dei momenti in cui le due linee si sono incrociate. Nel 1968, nel 1988, nel 2012 e sicuramente il 1° gennaio del 1994 con l’entrata in vigore del Nafta da una parte e l’inizio dell’insurrezione zapatista dall’altra. Cosa è diventato il Messico venticinque anni dopo quel primo gennaio del 1994?

FL: L’incontro-scontro tra la linea dei movimenti e quella politica istituzionale è sicuramente una costante della storia messicana. Anche nel 1985, l’anno in cui il terremoto del 19 settembre fece circa 10.000 morti e decine di migliaia di persone si riversarono per le strade in preda al panico ma altre invece erano lì con la voglia di aiutare e organizzarsi. Così facendo, però, segnalarono l’inerzia e le menzogne del governo del presidente Miguel de la Madrid che voleva far credere alla comunità internazionale che tutto andava per il meglio, che i morti erano relativamente pochi e che lo stato aveva mantenuto il controllo e l’ordine. 

Era l’epoca del vecchio Pri, il partito egemonico e quasi unico della “dittatura perfetta” del Novecento e della transizione al neoliberalismo. Oggi le famiglie dei desaparecidos hanno creato un imponente movimento di “cercatori di tesori”, di resti dei loro familiari scomparsi, e hanno trovato migliaia di ossa nelle fosse clandestine. Oggi, come nel 1985, la società è sottoposta a vessazioni e repressioni che evidenziano l’incapacità, la mala fede e la collusione narco-politica delle autorità. Per mesi e mesi anche Enrique Peña Nieto, presidente del Messico rappresentante del cosiddetto nuovo Pri neoliberista dal 2012 al 2018, il quale dopo la sparizione forzata dei quarantatré studenti e l’uccisione di tre di loro e di altre tre persone a Iguala, il 26 e 27 settembre 2014, ha provato in tutti i modi, senza riuscirci peraltro, a ricostruire un’immagine del Messico da cartolina a uso e consumo della platea internazionale dei turisti e degli investitori stranieri. Ha cercato anche di nascondere le responsabilità statali, federali e governative specialmente dei depistaggi nelle indagini condotte dalla procura, anche mediante l’uso di tortura e manipolazione delle prove.

Il 1985 credo sia stato un punto di svolta importante in cui la società civile è potuta riemergere come un attore decisivo, almeno nella capitale, e ha portato alla vittoria delle sinistre guidate da Cuauhtémoc Cárdenas alle elezioni del 1988. Sappiamo però che la storia andò diversamente. Durante i giganteschi brogli del sistema, Salinas de Gortari, del Pri, si insediò alla presidenza e spinse il Messico sempre più nella direzione della globalizzazione neoliberale. Il suo modo di condurre il paese fu sregolato, selvaggio, incomparabile rispetto alle realtà europee. Il mercato e la concorrenza cominciarono ad applicarsi sfrenatamente in ogni campo, erodendo il tessuto sociale e la solidarietà in ampi settori della popolazione, distruggendo le comunità indigene e rurali perché, secondo il dogma, sarebbero stati “ostacoli per la modernizzazione del paese”. Nel 1994 le promesse di Salinas relative all’ingresso del Messico nel “primo mondo” si infransero contro il muro della degna rabbia dell’insurrezione zapatista, di certo uno dei momenti più importanti nella storia dei movimenti sociali a livello globale contro il capitalismo, specialmente nella sua versione neoliberale e la globalizzazione, non quella delle culture, dei popoli e dei saperi ma quella della finanza, del gran capitale e dell’accumulazione per spoliazione. Forse a Seattle nel 1999, a Porto Alegre nel gennaio 2001 e a Genova nel luglio dello stesso anno si vissero momenti più alti e intensi, ma anche i più duri dei movimenti globali che lottavano per un altro mondo possibile e contro la globalizzazione neoliberale, del quale gli zapatisti del Chiapas erano un riferimento importantissimo.

Il Nafta non nasce il 1° gennaio del 1994, quella è la data simbolica che norma una legge che permette a Peña Nieto, durante il suo mandato, di applicare le cosiddette cinque riforme strutturali che erano già state progettate da Salinas de Gortari negli anni Come e perché il Nafta è stato deflagrante per il Messico e come si inserisce dentro le logiche del potere messicano?

Quando il Messico entra nel Gatt, nel 1986, inizia ad applicare le politiche di aggiustamento strutturale dell’economia secondo le ricette standardizzate dell’Fmi. Salinas promulga la legge mineraria e apre la possibilità di vendere le terre comuni delle campagne messicane. Intanto si privatizza e liberalizza l’economia a marce forzate. Questi provvedimenti, potenziati e ampliati dai governi successivi, aprono la strada al land grabbing, cioè all’espropriazione di terre e all’incremento drammatico delle concessioni per lo sfruttamento del sottosuolo e delle risorse naturali. Il Nafta diventa quindi il suggello di una strategia più ampia e articolata ed è questa la condizione che influenzerà gli eventi futuri, tanto dal lato dell’espansione capitalista accelerata, quanto da quello delle resistenze, delle assimilazioni, delle pratiche e delle socialità che emergono come conseguenza. Dal 2000 in poi le imprese minerarie, in gran parte statunitensi e canadesi in associazione con poche poderose famiglie appartenenti al Consiglio messicano degli affari (Cmn, Consejo mexicano de negocios), vedranno moltiplicarsi le concessioni e saranno al centro di conflitti sociali a causa degli avvelenamenti e della distruzione del territorio. Soprattutto con il fracking e le mine a cielo aperto, ma anche perché non pagano praticamente le tasse e operano in combutta con il crimine organizzato e le autorità pubbliche per reprimere la dissidenza sociale, far sparire o ammazzare persone, oppure corrompere le autorità locali e statali. Solo una misera parte dei loro guadagni finisce alle comunità, che vedranno compromessi per sempre il tessuto sociale e la loro salute, vedendo invece una quantità di soldi considerevole confluire nelle casse di politici locali, in quelle delle forze armate nazionali e in quelle di gruppi criminali difficili da descrivere come narcotrafficanti che assomigliano sempre più ai paramilitari colombiani.

Nel 1994 Salinas lascia il governo a Ernesto Zedillo e il sogno “da primo mondo” si trasforma in un incubo quando all’inizio del 1995 esplode una delle più gravi crisi finanziarie e del debito nota come El efecto tequila: svalutazione e nuove misure draconiane fanno sprofondare il paese nella morsa delle istituzioni creditizie internazionali e delle agenzie di rating. La povertà torna ad aumentare, arriva a oltre il 60% e, come negli anni ottanta, si parla di un altro decennio perduto. Gli economisti dicono che la medicina neoliberale va rinforzata e che la crisi è dovuta alla poca risolutezza nell’applicazione della formuletta magica.

Il Nafta era entrato in vigore nel gennaio del 1994, e proprio il primo giorno di quel mese l’Ezln ricordava al mondo e al governo messicano che esisteva un “Messico altro” che era stato abbandonato e che ora esplodeva, rivendicando autonomia e riconoscimento. Curiosamente, anzi in modo calcolato, il trattato di libero commercio che avrebbe dovuto sancire il take off del Messico, entrava in vigore mutilato: piena libertà commerciale in Nord America, anche se gli Usa si riservavano la protezione a oltranza del settore agricolo e della proprietà intellettuale, con libera circolazione dei capitali, ma nessuna libera circolazione delle persone. Anzi, Clinton si dedica alla costruzione del muro alla frontiera e la militarizza pesantemente, una politica seguita praticamente da tutti i suoi successori. Trump non ha inventato nulla, solo qualche tweet in più e una retorica razzista palese, ma di fatto la frontiera è stata blindata giusto quando entrava in vigore il trattato per evitare i flussi di persone. La frontiera è diventata dunque una risorsa strategica per la creazione di valore e di consensi politici. La migrazione si è trasformata in una questione di sicurezza. Questo ha provocato il Nafta. I principi classici del libero commercio in economia sono stati violentati perché, direbbe Smith, senza la libera circolazione di tutti i fattori produttivi non c’è libero commercio ed equilibrio. Ma va meglio così, anzi il modello è pensato apposta per lo sfruttamento della frontiera e per i territori che si estendono a sud di essa.

Dunque il Messico di oggi è la conseguenza di decisioni politiche che invece vengono spesso presentate come scelte tecniche, economiche e neutrali, come se l’economia non fosse parte delle scienze sociali e della politica. Però il Messico che lotta e resiste è senza dubbio debitore dell’insurrezione zapatista e di tutta la storia dei ribelli chiapanecos. La costruzione dell’autonomia nei caracoles e di altre comunità messicane come Cherán o Ostula serve da esempio per le nuove e le vecchie generazioni, anche se l’élite preferisce cancellarla o occultarla dietro al miraggio del consumismo e al mito della meritocrazia e le pari opportunità. Una linea contestataria dal basso ha continuato a creare immaginari e rinnovare repertori a favore della trasformazione con i movimenti dei genitori dei quarantatré studenti di Ayotzinapa, con il femminismo, il movimento per la pace Giustizia e dignità, il #YoSoy132 e le proteste dei docenti democratici della Cnte (Coordinadora nacional trabajadores de la educación) contro la riforma educativa, che in realtà punta solo a precarizzare il lavoro. Ricordo che la Cnte rappresenta l’ala dissidente dei docenti, nata negli anni settanta e molto forte a Oaxaca, Guerrero, Michoacán, Chiapas e Città del Messico, un’organizzazione che lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori, non per la loro cooptazione governativa, e per la democratizzazione del sindacato più grande dell’America Latina, il Snte (Sindicato nacional trabajadores de la educación) che per anni è stato legato a livello corporativo ai governi del Pri e del Pan. Dall’altra parte il neoliberalismo, nonostante il suo discredito dopo la crisi del 2007 e 2009, è incarnato nella politica dei tecnici che con Peña Nieto hanno approvato le riforme strutturali, tra cui spicca quella energetica, e resta un sistema di pensiero egemonico che deve essere sconfitto attraverso un lavoro fino di accompagnamento delle grandi lotte nazionali o regionali a livello locale.

Il Nafta entra nella logica del potere messicano da due punti di vista: esterno e interno. Da una parte è un trattato geopolitico con il Messico che si separa idealmente dal resto dell’America Latina e dalla solidarietà subcontinentale per abbracciare Washington. In Sud America il caso più simile è forse quello della Colombia. La politica statunitense passa da questi fedeli alleati che, guarda caso, sono anche quelli più coinvolti e penalizzati, in termini di vittime e di economia, dalla cosiddetta guerra alle droghe: sangue e armi a sud, droghe e denari a nord. Ma c’è dell’altro. Questo posizionamento, forse più stringente nel caso messicano per motivi geografici e storici, implica una sovranità limitata e il pagamento di un costo umano enorme: oltre 250.000 morti in Messico e 36.000 desaparecidos dal 2007 a oggi per una guerra al narcotraffico che, in realtà, si traduce in una politica di sicurezza interna militarizzata. E qui arrivo agli affari interni. La guerra alle droghe giustificata e rilanciata dagli Usa, dopo che si è spenta la guerra al “pericolo comunista” con la caduta dell’Urss, è la versione latinoamericana della guerra al terrore o al terrorismo post attentato alle Torri gemelle del 2001 e in qualche modo la completa, la rinforza.

Andiamo al 2006, alla guerra alla droga di Calderón. Possiamo responsabilizzare il Nafta o i taciti accordi congiunturali se il Messico è diventato un paese di transito di droghe e migranti?

Internamente Messico e Colombia usano questa guerra e i finanziamenti generosi del governo americano per fini di controllo sociale della popolazione, non delle droghe. I due paesi vivono in uno stato di eccezione permanente, come descritto da Walter Benjamin, che è diventato la regola: i militari s’incaricano della sicurezza pubblica, che sarebbe appannaggio delle polizie, con la scusa che un presunto nemico dello stato (i narcos) sta prendendo il sopravvento, lo stato in parte è colluso e corrotto, ma apparentemente sta combattendo dal lato dei buoni contro i cattivi trafficanti. Con questa retorica ufficiale il governo può militarizzare intere regioni e violare costantemente i diritti umani (sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziarie, spostamenti di popolazione, tortura), la lotte ai narcos, che vengono mitizzati ed esaltati oltremodo mediante narrazioni propagate dalle autorità e dai mass media, è solo una scusa mentre il vero obiettivo è l’espropriazione dei territori e l’implementazione di politiche neoliberiste che favoriscono una minoranza rapace di investitori stranieri e nazionali.

Queste politiche distruttive del tessuto sociale hanno suscitato nel 2017 circa 1200 conflitti sociali legati all’attività delle compagnie minerarie. La repressione, specialmente per quanto riguarda quella armata interna, viene delegata alle forze armate con uno stato d’eccezione, sostenuto da training e finanziamenti degli Usa. Certamente esistono gruppi criminali più o meno potenti e più o meno organizzati, ma ormai la maggior parte lucrano tanto con il traffico di droga quanto con quello di persone e armi, con l’estorsione e la tratta, con il furto di combustibile e il riciclaggio. I business criminali si sono moltiplicati, ma va detto che quelli che sono stati ampliati o legalizzati con le riforme strutturali degli ultimi sei anni, per esempio quelli relazionati alle concessioni minerarie, alla privatizzazione dell’acqua, allo sfruttamento dei boschi e all’estrazione di idrocarburi, sono diventati preda dei poteri de facto sul territorio, cioè delle compagnie straniere o nazionali, comunque private, e dei gruppi armati organizzati che lavorano per queste e cogestiscono l’estrazione di risorse, oltre che delle autorità stesse. L’esercito in molte zone si dedica a controllare gli affari leciti e illeciti e a partecipare come azionista nella ripartizione delle prebende del narcotraffico, utilizzando come braccio armato le polizie locali colluse con gli stessi gruppi criminali. Si può parlare tranquillamente di paramilitarismo in ampie zone del paese. Lo stato e la politica, nell’ambito del modello socioeconomico adottato, sono da intendersi come precondizioni per lo sviluppo dei business illeciti: paramilitarizzazione, vendita di protezione e traffico di armi e persone, droghe, espropriazioni, land grabbing, furto e contrabbando di combustibili, compravendita di permessi, appalti e concessioni, estorsioni ecc. E si occupano anche di creare mercati attraverso la regolazione selettiva dell’economia per favorire i settori più potenti delle élite. Il potere dei gruppi armati e dei narcotrafficanti, a volte notevole, è spesso sovrastimato dall’opinione pubblica e dalla mitologia del narco come se si trattasse di entità onnipotenti. Questo deriva da una serie di affari legali, nel limbo della legislazione oppure totalmente illegali, i quali non sarebbero possibili senza la partecipazione di alcuni apparati statali, funzionari pubblici e imprese regolarmente operanti nel mercato. La situazione è dunque molto più articolata e complessa, frammentata e diversa a seconda delle regioni e delle autorità coinvolte, rispetto a quella dipinta dai media in questi anni.

Anche l’insurrezione zapatista non nasce il 1° gennaio del 1994. Si forma in almeno dieci anni di preparazione clandestina e ha le sue radici a Monterrey con le Fln. In che maniera lo zapatismo ha influenzato i movimenti messicani e in generale tutta la società?

I movimenti messicani, almeno dal 1968 in poi e di nuovo dal 1994, hanno vissuto fasi alterne, ondulatorie con esplosioni entusiasmanti e riflussi, senza riuscire del tutto a vincolarsi a livello nazionale, internazionale o nelle singole lotte. Spesso quando nasce un movimento, i resti dei suoi predecessori tendono a unirvisi e a sommare le domande sociali, con il rischio però di diluire l’essenza del nuovo movimento e creare contraddizioni. Si percepisce quindi una certa discontinuità, determinata anche dalla vigorosa repressione e dagli strumenti di cooptazione che lo stato messicano ha dispiegato dall’epoca del partito egemonico (Pri al governo dal 1929 al 2000) fino a quella attuale in cui la violenza di stato viene giustificata e legittimata dalla permanente “narcoguerra” militarizzata. Il Chiapas e il Guerrero, da sempre in povertà estrema, sfruttati e militarizzati per le loro immense ricchezze naturali, esprimono alti potenziali di ribellione dovuti alle disuguaglianze e grazie alla tradizione storica di lotta indigena e dissidenza sociale. Queste regioni sono state dagli anni sessanta dei laboratori della repressione e delle sue legittimazioni ideologiche in voga attualmente. Ciudad Juárez e la frontiera settentrionale lo sono stati dalla metà degli anni novanta con l’entrata in vigore del Nafta, il boom delle maquiladoras e il fenomeno criminale dei femminicidi. Juárez inquadrata mediaticamente dal governo come “il centro del male”, è stata un laboratorio dove sperimentare la militarizzazione in modo diverso perché si trattava di una metropoli di frontiera, non di una regione montagnosa o tropicale come il Guerrero e il Chiapas. In realtà però i centri del dolore e della violenza sono stati e sono molti di più, al di là delle costruzioni mediatiche e politiche di alcuni luoghi ben delimitati ed emblematici. È provato inoltre che, come è successo a Juárez, la strategia d’invasione militare del governo ha portato a maggiori indici d’omicidio, femminicidio e violenza in generale, mostrando apertamente come l’obiettivo non era risolvere un problema (il narcotraffico, i business illeciti, le pandillas, l’insicurezza ecc.) ma mantenerlo e magari riportarlo sotto il controllo delle forze federali e della sovranità centrale. A ogni modo le diverse grida di ribellione e ondate dei movimenti messicani degli ultimi anni, almeno dal 1994 zapatista in avanti, hanno sempre lasciato boccioli d’insurrezione, repertori, esperienze condivise, narrazioni e immaginari che sono passati e si sono riprodotti nel tempo grazie al lavoro incessante di mantenimento e rielaborazione della memoria, individuale e collettiva, di militanti e attivisti, dei loro movimenti, delle loro azioni, delle loro vittorie e dei loro errori.

Non credo che il Nafta sia il solo responsabile del fatto che il Messico sia diventato lo snodo di flussi migratori ed economici, tra cui anche il trasporto di droga. Tuttavia il Nafta e la globalizzazione, non controllabile del tutto, hanno anticipato e accelerato processi e problematiche in atto, anche perché il contesto era quello di un paese in forte crisi, con un sistema politico in disfacimento alla fine del periodo egemonico del Pri e con una democrazia in transizione, una struttura sociale ed economica sempre più esposta e lasciata alle forze del mercato e anche al capitalismo de compadres. C’è anche da tenere da conto la democratizzazione lenta e deludente dei paesi del Centroamerica dopo la fine delle guerre civili negli anni ottanta e novanta. In realtà la regione non ha recuperato la pace e i problemi che segnalavano los de abajo si sono esacerbate con il neoliberalismo. La migrazione è di certo un fatto prevedibile e strutturale in una situazione del genere. Inoltre il Messico è diventato un paese di transito di droghe e, in parte, di consumo, soprattutto dagli anni 2000. È tra i primi al mondo in quanto a produzione di oppiacei e marijuana. La coca colombiana e peruviana, così come i precursori chimici per produrre metanfentamine, hanno nel Messico un grande hub, uno snodo di elaborazione e redistribuzione, per cui le organizzazioni criminali messicane hanno guadagnato importanza da una parte, ma dall’altra la loro supremazia e le loro attività dipendono dalla presenza e dalla partecipazione degli apparati di stato agli affari criminali. Storicamente buona parte del business del narcotraffico è stato gestito dal potere politico. Quando l’alternanza al potere in vari stati e a livello federale si è rotta, il sistema si è spezzettato in tanti centri di potere, legittimati dalla legge e non, ma comunque in rapporto dialettico tra loro. La guerra al narcotraffico può anche essere intesa come una forma di riconquista di equilibri di sovranità in parte perduti dalle autorità federali rispetto a quelle locali e ai gruppi armati, siano essi criminali o legali, come alcune polizie comunitarie e autodefensas. Ma non penso si possa prescindere dal fatto che il narcotraffico è stato nella storia un affare di stato, cogestito da bande paramilitari di poliziotti e militari di vari livelli gerarchici che, in momenti diversi della loro “carriera”, si unirono alle file della delinquenza organizzata o furono da questa stipendiati e fondarono nuovi gruppi armati per proteggere interessi del capitale privato.

Nel nord del Messico la storia racconta che sono stati proprio i governatori, per esempio nel Sinaloa, a cominciare i traffici di morfina e marijuana nella prima metà del XX secolo. Gli Stati Uniti in questa partita sembrano uscirne vincitori, i soldi che si muovono beneficiano il sistema finanziario, sempre meno regolamentato e controllato. Per anni le droghe sono state usate negli Usa anche come strumento di controllo sociale. Si pensi al crack, sottoprodotto dannosissimo della coca, spacciato o spinto dalla Cia nei ghetti neri di Los Angeles, in accordo con i narcotrafficanti messicani che cogestivano il business con la Dfs (Direzione federale di sicurezza, la Fbi messicana negli anni ottanta). I guadagni venivano reinvestiti dalla stessa Cia, illegalmente e a insaputa del Congresso, per armare i paramilitari-contras che facevano la guerra sporca al regime rivoluzionario sandinista in Nicaragua. Infine gli americani muovono anche la loro industria bellica con la scusa della guerra alle droghe attraverso la Iniziativa Mérida (Messico) e il Piano Colombia, oltre a mantenere il controllo più o meno diretto delle risorse naturali in territori strategici. Dire che il Messico è governato dai narcos o altri gruppi criminali fa parte di una narrativa che giustifica la lotta a quel poco che resta di buono dello stato contro le sue parti viziate e i delinquenti trafficanti. In realtà mi pare che ci sia maggiore complessità e anche zone oscure che ancora non riusciamo a decifrare. Non è che non esista la violenza tra bande o cartelli, nel senso di criminalità organizzata, ma il ruolo principale della violenza che vive il Messico, ai massimi storici nel 2017 e nel primo semestre 2018, con oltre centotrenta candidati e politici ammazzati nei nove mesi di campagna elettorale del 2018, deve essere spostato dalle organizzazioni criminali alle forze di sicurezza, specialmente i militari e i federali. Prima della “guerra” lanciata nel 2006-2007 da Calderón, il Messico viveva gli anni più pacifici della sua storia, ma da allora la militarizzazione dei territori e il tentativo di stabilire uno stato di eccezione ha reso le masse, i militanti, gli indigeni, i cittadini comuni, i giornalisti e più o meno tutto il popolo, il bersaglio casuale di una violenza senza controllo in una situazione che alcuni esperti, come Andreas Schedler, definiscono come una guerra civile non ideologica o politica, ma economica.

Seguendo la pista indicata qualche anno fa dalla giornalista Dawn Marie Paley con il suo libro Capitalismo antidroga. Una guerra contro il popolo (disponibile on line gratis in spagnolo), non possiamo eliminare la dimensione politico-ideologica del conflitto messicano ma dovremmo invece considerarlo come una guerra di tipo antinsurrezionale per l’imposizione del neoliberalismo mediante il saccheggio e la combinazione di interessi, poteri e violenze di tipo simbolico, territoriale, economico-strutturale, sociale e politico, tanto legali (statali o sanciti dalla legge) quanto illegali, tanto nazionali quanto transnazionali.

Siamo come l’homo sacer di Agamben, umani sacrificabili, immersi nella precarietà della vita stabilita dal controllo biopolitico che si manifesta con le sparizioni forzate, con l’amministrazione del dolore, con gli omicidi, con le incarcerazioni ingiuste e le esecuzioni extragiudiziarie. In media, nel 2018, sono state assassinate ottantanove persone al giorno. Ci vuole un cambio di vedute e di rotta, a partire dalla revisione profonda del modello economico e dalla gestione della sicurezza.

In Messico la violenza di genere e le disparità uomo/ donna, oltre che quelle legate a differenti scelte e orientamenti sessuali, è un un grosso Le donne zapatiste già nel 1994 hanno mostrato una via diversa. Si può pensare che il femminismo in Messico sia una chiave di volta per trasformare il paese andando oltre al paradigma capitalista, machista che si replica da anni. In questo che ruolo ha avuto e ha lo zapatismo?

Non sono un esperto del movimento femminista in Messico anche se ho vissuto qui molte manifestazioni di piazza e dibattiti. Mi pare sia un movimento vitale e attivo, anche se forse più frammentato e magari meno visibile rispetto all’Argentina o alla Spagna o il resto d’Europa, più concentrato in alcune città del paese, in primis la capitale. Il tema del femminicidio è un problema strutturale, si contano almeno sette donne uccise al giorno nel paese, la violenza di genere è molto presente, ma c’è da dire che Città del Messico e Guadalajara sono avanti una generazione rispetto alle altre città. Di fatto la capitale è un’isola rispetto al resto del Messico perché è riconosciuto il diritto ad abortire e al matrimonio egualitario. Vivo a León, nel Guanajuato, da un paio di anni. È lo stato più cattolico e conservatore del Messico, un feudo del destrorso Partido acción nacional e delle manifestazioni per la famiglia, antiabortisti detti pro-vida e contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso. La ferocia del conservatorismo qui è proverbiale e terrificante, i cortei per la Madonna di Guadalupe sono i più folti e partecipati del paese e le donne che interrompono la gravidanza sono incarcerate. Il Messico è molto eterogeneo e la lotta per l’uguaglianza (di opportunità e nei risultati) è condotta in un contesto di repressione e violenza estrema. Lo zapatismo in questo senso ha vissuto i suoi processi evolutivi, infatti inizialmente lo si tacciava di essere un movimento patriarcale dominato da figure maschili. In effetti il mondo rurale messicano e in parte le comunità indigene mantengono molti tratti di questo tipo. Con il tempo però le donne zapatiste, anche se non propriamente come parte di un movimento femminista di tipo occidentale, hanno saputo collocare il tema dell’uguaglianza e dei diritti nelle comunità proponendo cambiamenti nelle relazioni di genere. Nel marzo 2018 c’è stato un importante incontro in Chiapas in cui la Comandancia Generale dell’Ezln ha convocato 8000 femministe del mondo per il primo incontro internazionale, politico, artistico, sportivo e culturale delle donne che lottano. Un’iniziativa inedita per un internazionalismo femminista in cui le zapatiste hanno dato un messaggio di speranza e resistenza: “Non ti arrendere, non ti vendere, non rinunciare” per continuare “in vita e nella lotta”. Da quando è nato il movimento, le indigene zapatiste hanno lottato dentro e fuori le comunità per conquistare diritti negati mediante un femminismo sui generis, determinato soprattutto dalle differenze del patriarcato nei contesti urbani e rurali, per via dell’ambiente in cui si sviluppa e della situazione di subalternità dei popoli di cui fanno parte, come afferma per esempio l’antropologa femminista messicana Sylvia Marcos. Nel senso che si muovono su più fronti e in modo più collettivo in quanto comunità originarie che agiscono idealmente come uno stormo per tutti e tutte nel quadro di limiti strutturali e locali, specialmente evidenti nel mondo rurale. Il processo di autonomia e empoderamiento politico dello zapatismo sicuramente può favorire nello specifico l’organizzazione delle donne.

Il Messico è un paese di rivoluzioni e rivolte in cui l’assenza di strutture nazionali conflittuali è sempre stato un elemento asimmetrico rispetto al potere dello stato, soprattutto del partito-stato L’Ezln dalla sua nascita ha provato a colmare questo buco. Ti chiedo una valutazione sui risultati ottenuti dalle zapatiste e dagli zapatisti anche in relazione al tentativo di raccogliere le firme per candidare Marichuy alle elezioni presidenziali del 2018.

La candidatura di Marichuy è stata una sfida enorme, come direbbe Boaventura, “anticoloniale, antipatriarcale e anticapitalista”, dunque diversa dalle altre e di rottura. È stata osteggiata dal sistema elettorale, pensato per le classi medie e le città. L’app che si usava per raccogliere le firme dei candidati indipendenti era disfunzionale, inaccessibile ai più, soprattutto dove il Congresso nazionale indigeno ha le sue basi. I due candidati che sono riusciti a raccogliere le oltre 860.000 firme necessarie, Margarita Zavala (moglie ed erede politica dell’ex presidente guerrafondaio Calderón) e Jaime Rodríguez “El Bronco” Calderón (governatore del Nuevo León legato al Pri), l’hanno fatto in modo evidentemente fraudolento, sostenuti dal tribunale elettorale in modo irregolare. Marichuy ha raccolto decine di migliaia di firme vere e soprattutto ha portato le tematiche care a poveri, indigeni, comunità rurali in resistenza in giro per il paese, collocandole nell’agenda nazionale e suscitando non pochi consensi ed entusiasmi. In questo senso la campagna dal basso che ha condotto con scarse risorse è stata coraggiosa ed efficace, visti anche i vari incidenti e attentati che ha subito, un vero esempio di candidatura indipendente. Quest’iniziativa non cercava il potere, ma ha comunque riportato l’Ezln e il Consiglio nazionale indigeno al centro della scena e nella tessitura di nuove reti fuori dal Chiapas. Dopo le escuelitas e l’ideale passaggio generazionale, annunciato da Marcos dopo l’assassinio paramilitare del maestro Galeano e la marcia dei quarantamila, gli incontri di questi ultimi anni nei caracoles e San Cristóbal, anche con scienziati e femministe per un altro mondo possibile, e la campagna di Marichuy hanno rappresentato un nuovo impulso costruttivo e dialogante, al di là dell’arena politica tradizionale dei partiti e oltre i confini del Chiapas e del Messico.

Cosa pensi succederà con la nuova amministrazione di Amlo?

Con la vittoria schiacciante di Andrés Manuel López Obrador, candidato di parte delle sinistre messicane alle presidenziali del 1° luglio 2018, ci saranno sicuramente dei cambiamenti anche se la profondità della tanto sbandierata “IV trasformazione del Messico” sarà tutta da vedere. Obrador e il suo partito, Morena (Movimiento de regeneración nacional), non rappresentano forze anticapitaliste, ma promettono una certa discontinuità per lo meno con il neoliberalismo. Le maggioranze nel parlamento e le correnti non sono sempre stabili e Morena si è alleato con un partitino della destra evangelica e conservatrice (Partido encuentro social) che potrebbe influire sugli alleati e bloccare alcune riforme specialmente nell’ambito sociale. Sul fronte dei diritti c’è poco da sperare nei primi anni, anche se si potrebbero indire dei referendum. Non è la via migliore, certo, però anche in molti altri paesi aborto e matrimonio tra persone dello stesso sesso, o la legalizzazione delle droghe, sono passati grazie al voto diretto popolare.

Almeno nel campo economico, nella lotta alle disuguaglianze e nei modi per affrontare la guerra e la crisi umanitaria e dei diritti umani, ci sono speranze e aspettative. Già dai primi giorni dopo il voto tante forze sociali e popolari si sono unite al dibattito sui grandi problemi nazionali, una situazione inedita dopo le elezioni in Messico dato che normalmente si viveva un periodo refrattario e quasi di addormentamento. Invece si è vissuto un momento di fervore, lettere pubbliche, proposte e dibattiti. Il programma del nuovo governo contiene proposte per contrastare vari aspetti del neoliberalismo, non il capitalismo tout court. E per farlo si propongono ricette economiche in gran parte keynesiane e, diremmo in Europa, socialdemocratiche che, sebbene abbiano molti limiti, rappresentano comunque un orizzonte migliore per un paese come il Messico che ha vissuto un neoliberalismo selvaggio e prolungato, disuguaglianze estreme e processi brutali di accumulazione per espropriazione. Sarà da vedere se il modello estrattivista, come successe nel Brasile di Lula, seguirà il suo corso senza limiti come succede oggi o se verrà profondamente ripensato, visto che causa centinaia di conflitti sociali, repressioni, paramilitarizzazione e violenze. La speranza è che si favoriscano nuovi canali di dialogo per l’emersione e la risoluzione concertata dei conflitti, tenendo da conto la diagnosi generale critica e riformista del sistema attuale. Il problema è che le politiche redistributive che sono state promesse, seppur senza incrementi delle tasse, prima o poi potrebbero generare una rivolta o un boicottaggio dell’élite, specialmente dei gruppi imprenditoriali e quelli corporativi legati ai partiti Pan e Pri, e la caduta prematura del presidente che, già lo ha annunciato, cercherà di introdurre l’istituto della revoca del mandato a metà sessennio. Un’operazione delicata in un Messico in cui i poteri forti si sono consolidati per oltre trent’anni e in soli tre o sei anni potranno essere scalfiti, non cancellati. Insomma, un governo solido, con una maggioranza parlamentare storica come quella ottenuta il 1° luglio da Amlo, non significa “potere” o “cambio strutturale”. Comunque percepisco un ottimismo inedito e la sensazione che si tratti di una fase storica. Non ho visto in campagna da parte delle sinistre grossa attenzione per lo zapatismo o per la questione indigena, anche se esistono voci sicuramente sensibili all’interno del partito Morena. Sarebbe già un passo avanti se un nuovo governo antineoliberale e progressista riuscisse a rimandare l’esercito nelle caserme, specialmente in Chiapas, nel Oaxaca e Guerrero, stati colpiti duramente dalla repressione sin dagli anni settanta. Andrebbe anche sospesa immediatamente la Iniziativa Mérida, il Piano Colombia alla messicana che ha significato l’aumento dell’ingerenza americana e della militarizzazione con il fine reale di implementare politiche a favore degli investimenti stranieri. Il 1° gennaio 1994 resta un emblema del passato e del presente allo stesso tempo, ma è anche un’utopia, una guida che ha saputo costruire immaginari e autonomie che vanno oltre i caracoles, i territori del Chiapas e le sue comunità autonome, per spingersi globalmente a creare immaginari e rinnovare repertori di lotta.

 

*Andrea Cegna agitatore sociale, giornalista e organizzatore di concerti, è redattore di Radio Onda d’Urto, collaboratore di Radio Popolare e “il manifesto”. Ha pubblicato 20zln. Vent’anni di zapatismo e liberazione ,  Strade strappate. Storia rappata dell’hip hop italianoElogio alle tag. Arte, writing, decoro e spazio pubblico e Por la vida y la libertad. Il Messico di Amlo tra resistenze e capitalismo.

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Ricerca di vita: Ayotzinapa 4 anni e i familiari dei desaparecidos in Messico https://www.carmillaonline.com/2018/09/26/ricerca-di-vita-ayotzinapa-4-anni-e-i-familiari-dei-desaparecidos-in-messico/ Tue, 25 Sep 2018 22:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48937 di Fabrizio Lorusso

Attualmente in Messico ci sono oltre 22.000 corpi non identificati nelle fosse comuni del servizio medico forense. La Commissione per i Diritti Umani ha registrato la presenza di 1.306 fosse clandestine con circa 4.000 corpi sepolti dentro. Sono oltre 37.000 i desaparecidos, la maggior parte dei quali sono vittime di sparizione forzata, cioè di un crimine commesso da funzionari pubblici direttamente o da altri criminali con la connivenza o l’acquiescenza di questi.  Il 2017 è stato l’anno più violento della storia recente, superando il 2011 con oltre 30.000 omicidi dolosi, e [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Attualmente in Messico ci sono oltre 22.000 corpi non identificati nelle fosse comuni del servizio medico forense. La Commissione per i Diritti Umani ha registrato la presenza di 1.306 fosse clandestine con circa 4.000 corpi sepolti dentro. Sono oltre 37.000 i desaparecidos, la maggior parte dei quali sono vittime di sparizione forzata, cioè di un crimine commesso da funzionari pubblici direttamente o da altri criminali con la connivenza o l’acquiescenza di questi.  Il 2017 è stato l’anno più violento della storia recente, superando il 2011 con oltre 30.000 omicidi dolosi, e il 2018 non promette bene dato che da gennaio ad agosto gli omicidi sono stati 21.857, il 20% in più rispetto all’anno prima. Viene ucciso in media da tre anni un giornalista ogni mese e sono almeno 360.000 i rifugiati interni, cioè decine di migliaia di famiglie che sono dovute fuggire in altri stati o emigrare all’estero. La cifra accumulata delle vittime di omicidio e femminicidio è di quasi 250.000 grazie a 12 anni di militarizzazione e paramilitarizzazione della sicurezza pubblica con il pretesto di una presunta guerra alla droga, che in realtà è funzionale alla protezione del capitale privato e finanziario e agli investimenti stranieri, durante le presidenze di Felipe Calderón (2006-2012) ed Enrique Peña Nieto (2012-2018). Questo bollettino di guerra non ha tolto la speranza a migliaia di persone che da anni, e in alcuni casi da decenni, lottano per la verità, la giustizia, la riparazione e la non ripetizione dei crimini e per sconfiggere corruzione e impunità.

Tra questi sicuramente ci sono i genitori dei 43 studenti della scuola rurale di Ayotzinapa che da 4 anni lottano incessantemente per riavere i loro figli e sapere cosa è successo veramente perché “Vivi li hanno portati via, e vivi li rivogliamo”, come recita il lemma che dagli anni ’70 accompagna la lotta dei familiari dei desaparecidos in America Latina. Ne ha scritto molto bene Luis Hernández sul quotidiano messicano La Jornada

In un Paese in cui i cadaveri senza nome sono trasportati su dei camion-frigorifero per mesi e mesi[i], e in cui ogni settimana appaiono nuove fosse clandestine, la dignità e la persistenza dei genitori dei 43 sono il seme di un altro Paese. La loro lotta indistruttibile per la verità e la giustizia è un punto critico della salute pubblica nazionale. A Enrique Peña e ai funzionari del suo governo coinvolti nel caso li perseguiterà per sempre il fantasma di Ayotzinapa. Il futuro governo avrà nella “notte di Iguala” una prova del fuoco definitiva. Dalla sua decisione di toccare gli interessi che frenano il chiarimento dei fatti, dalla sua volontà e capacità di risolvere questo crimine di lesa umanità dipenderà, e molto, il giudizio della storia. Più che di commissioni, è l’ora della verità.

Nella notte del 26-27 settembre del 2014, a Iguala, nel meridionale stato del Guerrero, i ragazzi furono vittime di un attacco orchestrato da differenti autorità, come la polizia locale, la federale, la ministeriale e la statale, con l’acquiescenza e la partecipazione indiretta, per quanto s’è potuto provare finora, dell’esercito messicano, cioè del 27esimo battaglione di stanza a Iguala. Le autorità hanno monitorato gli studenti già dal pomeriggio e tra le 9 e la 1 di notte, per oltre 4 ore, hanno condotto una vera e propria operazione di repressione e di caccia all’uomo, servendosi di corpi speciali paramilitari noti come bélicos e di gruppi del crimine organizzato per portare a termine la strage. 42 studenti sono tuttora desaparecidos e i resti calcinati di uno solo di loro, Alexander Mora, sono stati identificati.

6 persone, tra cui 3 studenti, sono state uccise quella notte e decine ferite. La reazione nazionale e internazionale è stata fortissima e, insieme a scandali di corruzione e alle numerose mattanze delle forze armate che sono vere e proprie esecuzioni extragiudiziali, ha segnato nettamente la presidenza di Peña. Ome se non bastasse la procura Generale della Repubblica e il governo hanno sostenuto una verità fallace, detta “storica” solo da loro, che è stata ottenuta con la minaccia e la tortura degli indiziati. Inoltre su 130 detenuti per il caso nessuno è imputato per sparizione forzata. Le indagini di esperti internazionali e dei giornalisti e attivisti messicani hanno portato alla distruzione della versione ufficiale, che sostiene che i 43 sono stati rapiti e bruciati da narcotrafficanti nella discarica di Cocula, nei pressi di Iguala, e hanno costruito una versione più realistica, anche se incompleta.

Restano aperte almeno quattro piste per le indagini, non esplorate e anzi occultate dalla procura: la caserma e il ruolo del 27esimo battaglione militare a Iguala, che potrebbe aver occultato i corpi dei ragazzi e forse cremati, vista la tradizione stragista dell’esercito nel Guerrero ed essendo l’unica struttura ad avere forni crematori; la pista dei cellulari di alcuni studenti che sono stati accesi e hanno ricevuto chiamate anche molte settimane dopo la sparizione forzata e che, secondo le geolocalizzazioni, si trovavano in strutture militari come il campo n. 1 a Città del Messico; la possibilità che 25 studenti siano stati portati a Huitzuco dalla polizia locale di quella città e non a Cocula nella notte del 26; il mistero del quinto autobus, nascosto dalle indagini ufficiali ma esistente e occupato dagli studenti la notte del 26, su cui ci sarebbe potuto essere un carico di eroina che potrebbe essere stato uno dei moventi iniziali dell’attacco di polizia e crimine organizzato contro i bus (che sono in totale dunque non quattro come dice la procura, ma cinque).

Viste le grandi irregolarità, le torture ai detenuti e la mala fede nella conduzione delle indagini, la versione costruita dal governo e la conduzione del caso viola il dovuto processo e i diritti umani ed è da rifare. Più o meno è questo il contenuto di una sentenza di un tribunale del Tamaulipas (il Terzo tribunale collegiale del 19esimo circuito) in cui viene seguita una parte del caso giudiziario. La sentenza, emessa il 30 maggio 2018 in risposta ai ricorsi presentati dai detenuti per il caso Iguala, è storica in quanto riconosce la gravità delle irregolarità commesse e chiede la costituzione di una Commissione di Indagine per la Verità e la Giustizia e la possibilità di un intervento internazionale, di uno scrutinio e di un accompagnamento di istituzioni come l’ONU, la Corte Interamericana dei Diritti Umani e il GIEI (gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti), che già aveva investigato e demolito la verità ufficiale tra il 2015 e il 2016. Si chiede quindi a gran voce il ritorno degli esperti e la commissione della verità.

Il prossimo presidente, eletto con una maggioranza inedita nella storia democratica del Messico, Andrés Manuel López Obrador, ha promesso la creazione della Commissione e la risoluzione del caso in un comizio proprio a Iguala in cui hanno partecipato sul palco i genitori dei 43. Sarà per il nuovo governo, che per la prima volta è sostenuto da una maggioranza di sinistra e ha promesso una lotta dura contro corruzione, disuguaglianze e privilegi, un banco di prova importantissimo. Ciononostante in questi ultimi mesi di governo, Peña ha fatto di tutto per invertire gli effetti della sentenza e fermare la Commissione sul caso: vari ministeri, tra cui la difesa, ovviamente, e la presidenza hanno interposto circa 200 ricorsi contro il tribunale del Tamaulipas.

Ma il 19 settembre un tribunale gerarchicamente superiore ha confermato la sentenza e ha quindi dato una svolta al caso e all’inizio di un processo di verità e giustizia per Ayotzinapa. Il futuro governo sta promuovendo in questi mesi una serie di incontri pubblici, stato per stato, per formulare proposte per la pacificazione e la riconciliazione nazionale, un esperimento difficile e anche controverso che però sta generando iniziative e discussioni sulla guerra interna, il ruolo dello Stato e dei poteri economici, sul narcotraffico, le vittime e la giustizia transizionale che da tempo il Messico meritava. Le aspettative sono forse troppo alte, ma almeno qualcosa si muove. Di certo la lotta dei collettivi di cercatori e di familiari dei desaparecidos, come quella dei genitori di Ayotzinapa e delle storiche organizzazioni degli anni della cosiddetta “Guerra sporca” degli anni ’70 e ’80, non si fermano e non si limitano alle belle parole. Le manifestazioni e le iniziative, chiaramente, non si fermano per questo motivo e questo 26 settembre 2018 di nuovo i movimenti sociali accompagneranno i genitori dei 43 studenti al grido di ¿Dónde están? e !Justicia¡ per cui si possono seguire e organizzare le azioni globali mediante l’hashtag #Ayotzinapa4años.

La ricerca di vita per i familiari dei desaparecidos

Possiamo intendere la “ricerca di vita” come la risposta immediata alla domanda: “Che cosa stanno cercando i familiari delle persone scomparse?”. Le indagini, le esplorazioni sul campo e le ricerche instancabili, che realizzano i familiari in un’infinità di luoghi diversi in lungo e in largo nella difficile geografia nazionale con il fine di trovare in vita o anche morti i propri cari, si riassumono in un concetto emergente e potente, derivato del discorso stesso delle vittime e delle organizzazioni in lotta per i desaparecidos in Messico.

Tutto questo è quotidianità terribile per migliaia e migliaia di persone nel contesto della cosiddetta “guerra al narcotraffico”, un conflitto interno che non è altro che una strategia di militarizzazione dei territori e di controllo sociale simile a una guerra civile, combattuta tra diversi attori armati per ottenere rendite economiche e politiche, quote di potere e di traffici leciti e illeciti, protezioni e business di ogni tipo.

Mediante la onnipresente violenza fisica, simbolica e strutturale il corollario della guerra diventa il controllo biopolitico dei corpi, delle menti e dei gruppi sociali potenzialmente trasformatori, così come la repressione delle domande di giustizia sociale e di redistribuzione che provengono dai settori più marginali e vulnerabili che, guarda caso, sono anche quelli più colpiti dalla violenza imperante, militare, di polizia e paramilitare: sono i giovani, i poveri, le donne, le comunità rurali e indigene, i custodi delle risorse naturali, i giornalisti e gli attivisti. La società messicana è incastrata tra i fuochi della guerra, dell’impunità, della corruzione, delle disuguaglianze, del mercato inselvaggito, dell’individualismo consumista e ideologizzato e dell’accumulazione per espropriazione e spoliazione, rilanciata dal modello neoliberista globalizzato e dalle riforme strutturali degli ultimi anni.

Mi ha colpito ed emozionato molto leggere della búsqueda de vida (ricerca di vita) nell’introduzione del libro Memoria de un corazón ausente. Historias de vida (Memoria di un cuore assente. Storie di vita) (lo trovi qui in PDF LINK), scritta dal difensore dei diritti umani e cofondatore nel 2009 dell’organizzazione, oggi nazionale, FUNDEC (Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila), Jorge Verástegui González. Il volume, illustrato dall’artista e attivista Alfredo López Casanova e pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll Stiftung è una collezione di storie di donne che raccontano la vita dei loro cari scomparsi e, in questo modo, invertono le narrazioni che si focalizzano solo sui familiari “che restano” e che cercano i desaparecidos e ridanno vita e contenuto agli assenti e al loro vissuto prima della sparizione.

Come segnala la stessa introduzione, il libro “cerca di cambiare la narrativa, restituendo la storia di persone scomparse in base al concetto di ricerca di vita, il quale sorge analizzando che cosa c’è dietro alle azioni di ricerca di un desaparecido e comprendendo che la relazione intima tra chi sta cercando e la persona cercata è un vincolo profondo che va oltre la fisicità, la materialità e la corporalità per trasferirsi alla affettività, la soggettività e al vissuto. In un senso fisico, ma anche in uno soggettivo, ciò che si cerca è vita, visto che i nessi possono essere biologici, “di sangue”, e allo stesso tempo affettivi, come succede tra fratelli o tra madre e figlio, ma possono essere solo affettivi, come tra coniugi o amici, per cui “la connessione affettiva è quella che riveste di vita la ricerca di chi è desaparecido” ed è sintetizzato dalla metafora per cui l’assenza significa che “sparisce una parte del cuore”.

Esistono due possibilità di rincontro che sono la localizzazione in vita o senza vita della persona scomparsa e, anche se in quest’ultimo caso pare paradossale parlare di una “ricerca di vita”, in realtà succede che la vita è intesa come battito fisico di cuore e polmoni, ma anche soprattutto come affettività e soggettività singolare da recuperare. Addirittura i resti ossei di un proprio caro, estratti da una fossa clandestina, rappresentano una vita soggettivamente presente per chi la sta cercando ed eventualmente per chi la trova dopo aver percorso tante strade in senso fisico come in senso metaforico, dopo aver solcato sentieri della memoria in cui l’assente ha lasciato le sue orme. I cercatori e le cercatrici di fosse clandestine trovano tesori di inestimabile valore, non solo ossa, resti o semplici indizi.

La desaparición rompe il vincolo fisico ma soprattutto quello affettivo, provocando di conseguenza un impulso irrefrenabile al movimento, alla ricerca e anche all’azione collettiva, a qualunque costo e rischio, con il fine di ritrovare i vincoli e avviare un processo di chiusura del lutto che, fino a quel momento, era rimasto congelato o sospeso, aperto indefinitamente. In molti collettivi di familiari questo dolore si può socializzare e il lutto diventa condiviso e più sopportabile, spingendo all’azione e alla ricerca di vita.

“Los otros buscadores: buscando vida entre los muertos”(Gli altri cercatori: cercando vita tra i morti) è il nome emblemático del nuovo collettivo di Mario Vergara, cofondatore del collettivo de Los otros desaparecidos de Iguala nel 2014 che continua a lottare a cercare suo fratello Tomás, sequestrato nel 2012 a Huitzuco, stato del Guerrero.

Nel 2016 uscì un reportage di Juan Flores Mateos centrato sulla figura di Mario ma anche di altri uomini e donne che in Messico intraprendono la ricerca dei loro cari e denunciano la complicità o l’inerzia delle autorità. Il titolo del pezzo era, giustamente: “Encontrar a los muertos para darle vida a los vivos” (Trovare i morti per dare vita ai vivi).

Parlando dei dolori e le conseguenze fisiche e psicologiche della ricerca nel caso dei genitori dei 43 studenti di Ayotzinapa, Luis Hernández Navarro spiega:

La sofferenza non diminuisce con gli anni. Né la sua, né quella del resto dei genitori e fratelli degli studenti scomparsi. La sparizione forzata è uno dei delitti più atroci. Le famiglie soffrono in un primo momento per il terribile colpo rappresentato dall’assenza. Poi soffrono l’afflizione della ricerca e dell’incertezza. Non hanno modo di processare il lutto. Non hanno modo di dire addio.

La sofferenza, i sensi di colpa, i cattivi momenti hanno avuto effetti devastanti sulla salute dei familiari. Le patologie che già avevano sono peggiorate, mentre ne emergono di nuove. In 16 famiglie su 43 ci sono malattie molto gravi, in maggioranza legate al diabete, l’ipertensione e la cattiva alimentazione. Il febbraio scorso è morta Minerva Bella Guerrero, madre di Everardo Rodríguez bello, il quarto di sette figli. La zia Mine, come la chiamavano i suoi cari, era una donna allegra, che amava ballare, fino a che la tristezza causata dalla sparizione forzata di suo figlio non l’ha spenta. Nel letto di morte ha chiesto a sua figlia di trovare suo fratello e di abbracciarlo più forte che può.

Francisco Rodríguez, marito di Minerva, usa una maglietta con scritto: Muoverò montagne per stare con te. Neanche lui s’arrende. Ha promesso a sua moglie che avrebbe trovato sua figlio Everardo e non si fermerà finché non avrà adempiuto la sua promessa. Le famiglie degli altri ragazzi l’hanno salutata con un bollettino di guerra: è morta combattendo il cancro e l’impunità di un governo che non le ha mai dato risposta circa il destino di suo figlio. Riposi in pace.

La chiusura del lutto sospeso implica che, secondo Verástegui, “solamente con il rincontro delle due persone esiste la possibilità di andare avanti e transitare da uno stato di incertezza a un nuovo senso di vita”. Cercare resti della vita fisica, allora, significa fare un salto, una rotazione, nella comprensione normalizzata e comune sulla morte e recuperare una parte importante della vita di chi si sta cercando. Implica anche ritrovarsi nel “non-senso delle sparizioni forzate” e intraprendere un viaggio di ritorno allo stato precedente.

L’interiorizzazione della búsqueda de vida è un elemento di costruzione di nuove identità individuali e collettive, aspetto fondamentale nei movimenti sociali, a partire dalla reazione contro l’aggravio, l’ingiustizia e l’abuso, e soprattutto dinnanzi a quello stesso dolore, quel dolore comune, che provano tutti e tutte le vittime e che le unisce in communitas. Il lavoro di Memoria de un corazón ausente usa il metodo della storia orale per ridare voce e vita agli assenti mediante la narrazione di chi li sta cercando e, così facendo, ricostruisce scampoli di senso dentro l’incertezza limbica e dolorosa della desaparición.

Leggi su Carmilla l’archivio “Ayotzinapa” LINK

@FabrizioLorusso

[i] Il riferimento è alla notizia diffusa la settimana scorsa di un camion-frigorifero enorme pieno di cadaveri (157 corpi) che deambulava per il territorio dello stato di Jalisco per via della mancanza di spazio nelle strutture preposte alla conservazione e identificazione dei cadaveri. Il “camion della morte”, parcheggiato in una di zona periferica di Guadalajara, visto l’odore di putrefazione che emanava, ha suscitato le proteste degli abitanti ed è stato spostato. Questa pratica è proibita dal 2013 ma viene ancora realizzata i varie località. http://www.eluniversal.com.mx/estados/lo-que-sabemos-de-los-cuerpos-hallados-al-interior-de-un-trailer-en-jalisco

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Z come Zapatismo. Il colore della terra https://www.carmillaonline.com/2017/09/20/z-zapatismo-colore-della-terra/ Tue, 19 Sep 2017 22:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40638 di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

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di Fabrizio Lorusso

[Racconto estratto da Nuova Rivista Letteraria (Semestrale di Letteratura Sociale fondato da Stefano Tassinari) n. 15 (n. 5 Nuova Serie) del maggio 2017. Il numero della rivista ha 21 testi letterari, uno per ogni lettera dell’alfabeto, dedicati ai vari tentativi rivoluzionari e di trasformazione sociale della storia]

Sono il primo di tanti passi degli zapatisti a Città del Messico

e in tutti i luoghi del Messico. Speriamo che tutti voi camminiate insieme a noi.

Comandanta Ramona (1959-2006), EZLN, 1996

Città del Messico, 30 giugno 2018

A ventiquattr’ore dal voto di domenica primo luglio nel quartier generale del candidato AMLO, acronimo che distilla il suo lungo nome completo, Andrés Manuel López Obrador, si respira già aria di vittoria. Sarebbe la prima volta nella storia per un partito di sinistra a livello nazionale. Le bandiere del Movimento di Rigenerazione Nazionale o MoReNa, il partito creatura del leader, sventolano un po’ ovunque nella capitale messicana che, da sempre, è la roccaforte delle varie anime del centrosinistra.

Nei sorrisi compiaciuti dei militanti s’incarna l’allegria, la catarsi dopo quasi vent’anni di sconfitte elettorali e frustrazioni. Nelle pupille brillanti di alcuni stretti collaboratori del probabile futuro presidente, dato in testa da tutti i sondaggi e sostenuto dalle grosse catene televisive nazionali e persino da un discreto numero di magnati, progressisti dell’ultimo minuto, s’intravvedono, tra lacrime di gioia e di tensione, le prefigurazioni archetipiche di poltrone ministeriali e seggi parlamentari. C’è voglia di cambiamento.

Finalmente, come più volte ha ripetuto AMLO nei comizi della campagna elettorale, “la terza è quella buona”, per cui dopo essere stato sconfitto prima nel 2006 dal catto-conservatore Felipe Calderón e dai brogli elettorali del suo partito, Acción Nazional (PAN), e poi nel 2012 dal tele-candidato idiotizzato Enrique Peña Nieto, è arrivato il momento del riscatto.

Rifondare il Paese, sconfiggere la corruzione e invertire la rotta intrapresa nel 1982 con l’inizio delle selvagge riforme neoliberiste e lo smantellamento dello Stato: questo, in un tweet, il riassunto del programma, o meglio degli slogan, della sinistra che fa riferimento a MoReNa.

L’altra sinistra parlamentare, cioè una ex sinistra che secondo alcuni sondaggi diventerà anche ex parlamentare, visto che rischia di sparire dalla mappa elettorale, è quella del PRD, il Partido de la Revolución Democrática. Nel 1997 riuscì nell’impresa di espugnare Città del Messico, bastione del PRI (Partido Revolucionario Institucional), egemonico in tutto il Messico e nella capitale per 70 anni nel secolo XX, e da allora l’amministra. Andrés Manuel è stato sindaco della megalopoli dal 2000 al 2005 e poi è stato il candidato del PRD alle presidenziali per due botte consecutive, entrambe perse. Questa volta, però, le cose vanno diversamente, il leader fa da sé ed è certo di vincere.

 

 

Siamo riflessione e grida

Subcomandante Marcos, Città del Messico, 11 marzo 2001

Marzo 2001, Colore della Terra e Autonomia

“Comincia questa marcia oggi, che la luna è nuova, affinché la terra dia infine i frutti della giustizia per coloro che sono il colore della terra. Comincia la marcia della dignità indigena, la marcia del colore della terra”. Il comunicato, inviato dalle montagne del Sudest messicano il 24 febbraio, è firmato dal Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e annuncia una marcia in partenza dal meridionale stato del Chiapas. “Che il mondo sia finalmente il luogo di tutti e non la proprietà privata di chi possiede del denaro il colore e l’immondizia. Un mondo con il colore dell’umanità”, prosegue.

(foto: La Jornada-Heriberto Rodríguez)

L’EZLN arriva dal Sud per parlare alla gente nelle piazze e ai parlamentari che stanno discutendo la Ley Cocopa, inviata dal presidente alle Camere. La norma dovrebbe recepire in Costituzione gli Accordi di San Andrés del 1996, che danno personalità giuridica ai popoli indigeni, e aprire uno spiraglio per la risoluzione del conflitto cominciato nel 1994, quando gli zapatisti in armi occuparono cinque città, facendo risuonare globalmente il loro grido di degna rabbia e ribellione: “¡Ya Basta!”, adesso basta.

La povertà in terra azteca esplode ciclicamente e persiste. E anche le disuguaglianze aumentano, il Messico negli anni ’90 s’era “globalizzato” ma era stato assimilato al cinquantunesimo stato dell’Unione Americana. Il presidente neoliberista Carlos Salinas parlava invece di una Paese che stava entrando al “primo mondo”. “Vale la pena, compatrioti, per il bene della nostra grande nazione; è per il Messico”, aveva detto celebrando l’entrata in vigore, il 1 gennaio 1994, del NAFTA, trattato di libero commercio dell’America del Nord. Ma non tutti e tutte la pensavano come lui.

Nonostante la militarizzazione, le aggressioni paramilitari e la guerra di bassa intensità del governo, sette anni dopo l’insurrezione, gli zapatisti continuano a lottare. L’11 marzo 2001 la più grande piazza e cuore politico del Paese, lo zocalo, li riceve, stipata di gente come mai prima per accompagnare da vicino le loro richieste di riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni al governo Fox.

“Fratello, sorella indigena. Fratello, sorella non indigena. Qui siamo per dire che qui siamo. E quando diciamo ‘qui siamo’, anche il diverso nominiamo. Fratello, sorella che sei messicano e che non lo sei. Con te diciamo ‘siamo qui’ e con te siamo. Fratello, sorella indigena e non indigena. Uno specchio siamo”, le parole di Marcos hanno rotto il silenzio e il sole inclemente preannuncia l’eterna primavera dell’altopiano. “Non siamo quelli che, ingenui, aspettano che dall’alto arrivi la giustizia che cresce solo dal basso, la libertà che si conquista solo con tutti, la democrazia che viene combattuta sempre e a tutti i livelli. Non lo saremo”. Una folla attenta e silenziosa ascolta le parole dei ribelli.

Avenida Universidad, la grande arteria viale che collega il centro della capitale alla città universitaria, sede dell’ateneo più grande d’America, è trafficata e in ebollizione. Gli zapatisti pernottano nelle islas, cioè le isole di prati e piazzali dell’Università Nazionale Autonoma che sono chiuse esternamente dagli edifici delle facoltà, dal palazzo del rettorato e dalla biblioteca centrale, imponente coi suoi dodici piani d’altezza e la facciata esterna decorata da un mosaico del muralista O’Gorman. Anche qui, un giorno dopo la manifestazione del zocalo, gli zapatisti raccolgono intorno a sé migliaia di sostenitori.

Uno studente francese, in Messico per uno scambio e per provare a fare una tesi, legge il comunicato della marcia su un volantino distribuito dai compagni dell’università. Ne copia alcuni estratti e li trasferisce a caratteri cubitali su un foglio di cartone. Lo fissa a un tavolo piazzato nel mezzo del cortile condominiale e comincia a distribuirne delle copie ai passanti. Appiccica anche un invito scritto su un rettangolo di stoffa ricavato da un lenzuolo: “Raccolta viveri in solidarietà con gli zapatisti: vestiti, riso e fagioli sono benvenuti”.

Gli indigeni in lotta hanno percorso il Paese, facendo più di seimila chilometri, e sono giunti a Città del Messico dopo tre settimane di viaggio. Hanno bisogno di cibo e indumenti.

Un’anziana signora s’avvicina al giovane studente, lo squadra e lo increpa: “Ci mancava solo gente da fuori che viene qui a immischiarsi nelle questioni politiche del Paese, ricorda che possiamo chiedere l’espulsione per quelli come voi, lo dice la Costituzione!”.

“Perché non si toglie il chip xenofobo dalla testa?”, risponde il giovane che, alterato ma non spaventato, non viene nemmeno capito e riceve in cambio una smorfia. Fino a pochi minuti prima era in compagnia di due compas messicani che, in qualche modo, coprivano la sua presenza, ma poi era rimasto solo in balia degli sguardi scocciati di alcuni condomini destrorsi e degli anatemi di una vecchia antizapatista.

Intanto gli zapatisti, mentre il parlamento litigava sul da farsi, erano tornati in Chiapas. Il 28 marzo una delegazione di ventitré comandanti torna nella capitale. Una donna prende la parola di fronte all’intero Paese, nel palazzo del potere legislativo: “Soffriamo tre volte perché siamo donne, siamo indigene e siamo povere”, incalza. “Veniamo qui per essere ascoltati e ad ascoltare e dialogare”, ribadisce. E’ la comandanta Esther. Marcos non entra, parlano gli altri. La sua assenza è strategica, intelligente. Lo spazio della poesia e dei comunicati viene occupato dalle ragioni della lotta e della marcia e il Sub solo spiega che “oggi la guerra è un po’ più lontana e la pace con giustizia e dignità un po’ più vicina”.

Un mese dopo i partiti che hanno la maggioranza dei due terzi in parlamento, con la quale è possibile modificare la Costituzione, sono il dinosauro PRI e il PAN, arrivato a vincere la presidenza con Vicente Fox l’anno prima, e votano una controriforma che tradisce la lettera e le intenzioni degli accordi. Un PRD diviso e schizofrenico vota contro alla Camera e a favore al Senato, ma la riforma passa comunque. Allora gli zapatisti chiudono con la politica dei palazzi, le loro Basi di Appoggio si stringono intorno alla Comandancia per concretizzare nei fatti, non più nelle leggi, l’autonomia e fondare le comunità dei caracoles.

Passano gli anni, nel 2006 il presidente Calderón lancia una suicida strategia di “guerra al narcotraffico” che lascia sul campo, in un decennio, 200mila morti e 31mila desaparecidos. Ma in Chiapas una nuova generazione zapatista è pronta. Il subcomandante Marcos decide di uscire di scena, dichiara la sua morte e si trasforma in Galeano nel maggio 2014, pochi giorni dopo il brutale assassinio, perpetrato da paramilitari, del maestro e compagno José Solís López, noto appunto come Galeano. “Pensiamo che sia necessario che uno dei nostri muoia affinché Galeano viva”, è la spiegazione che dà Marcos. Il subcomandante Moisés diventa il nuovo portavoce. Marcos annuncia la sua “destituzione” e, parlando delle origini della sua figura pubblica, scrive: “Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”. Adesso non c’è più, largo alle nuove generazioni.

 

 

Facciamo un appello a tutti e tutte a non sognare, ma a fare qualcosa di più semplice e definitivo: vi chiediamo di risvegliarvi.

Subcomandante Marcos, gennaio 1999

San Cristóbal de las Casas, Universidad de la Tierra, 14 ottobre 2016

“Che tremi nei suoi centri la Terra”, il comunicato viaggia intergalatticamente dalla selva lacandona del Chiapas allo spazio. “Ci dichiariamo in assemblea permanente e consulteremo in ognuna delle nostre geografie, territori e direzioni l’accordo di questo Quinto CNI, per nominare un consiglio indigeno di governo la cui parola sia incarnata da una donna indigena”. Il Congresso Nazionale Indigeno (CNI), spazio d’incontro e di organizzazione del movimento indigeno a livello nazionale fondato nel 1996 e alleato dell’EZLN, spiazza tutti con la proposta di una candidata donna e indigena per la presidenza. “Ratifichiamo che la nostra lotta non è per il potere, non lo cerchiamo, bensì che chiameremo i popoli originari e la società civile a organizzarsi per bloccare questa distruzione, rafforzarci nelle nostre resistenze e ribellioni, ovvero nella difesa della vita di ogni persona, ogni famiglia, collettivo, comunità o quartiere. Costruire la pace e la giustizia rifinendoci dal basso, da dove siamo ciò che siamo”.

“Ciao, ma hai sentito? Hai letto? Il CNI ci prova per combattere la spoliazione dei territori e delle comunità, la ‘questione indigena’ torna al centro”, il tono della voce è concitato. Lo studente, che intanto ha finito la tesi di laurea e frequenta un dottorato, ascolta e chiude gli occhi per concentrarsi. Fa appena in tempo a capire chi è l’amico dall’altra parte dell’apparecchio che viene subito incalzato: “Adesso c’è un’alternativa al sistema politico dominante!”. Dopo la rottura degli zapatisti col sistema politico e le istituzioni il francese, che è rimasto in Messico a vivere, non sa bene cosa pensare ed il suo pessimismo è quasi cosmico: “Sì, ok, ma a te come va? Ho visto un po’ le notizie, infatti, per la prima volta nella storia qua possono presentarsi candidati indipendenti fuori dei partiti, ma devono tirar su 800mila firme, ma poi con chi governano senza gente in parlamento?”. “Va beh, ma è comunque una cosa storica, mai vista, dai”, insiste l’amico al telefono. “Lo so, stiamo a vedere, c’è già chi pensa che vogliano fare un governo ombra o simili, non ho capito”, vagheggia lo studente. “Ne parliamo bene dopo, facciamo un’assemblea, qualcosa…”, conclude il chiamante. “Claro, claro, un abrazo a presto!”, si svincola lo studente. Stenta a credere alla notizia, è sorpreso, pure felice, ma confuso. La politica messicana fa perdere facilmente la bussola anche a chi la mastica da tanto.

Da subito sono feroci le reazioni dell’intellighenzia progressista e di partiti come il PRD e MoReNa che hanno paura di perdere voti a sinistra e già incitano “il popolo” al “voto utile” per bloccare le destre. D’altra parte c’è invece chi rivendica il diritto di chiunque a candidarsi, specialmente se si tratta di organizzazioni storicamente escluse. Il loro obiettivo è comandare obbedendo tramite un consiglio indigeno di governo e una presidente-portavoce scelta dalle basi. I giornali di regime accusano gli zapatisti e il CNI di essere dei provocatori e di non avere speranze. Il dibattito s’accende, ed è un primo importante risultato per i popoli originari organizzati.

Io lotto per ideali e cerco la trasformazione del Messico per via pacifica

Il voto è l’unica arma che ha il popolo per far sì che le cose cambino

Andrés Manuel López Obrador

Città del Messico, 2 luglio 2018

E’ notte, quasi la mezza. Piove a volontà. Il leader è solo. Rivede le schermate coi risultati. Ride, ha gli occhi lucidi e pensa al da farsi. Gli hanno detto di stare tranquillo, dopo l’infarto di cinque anni fa il suo cuore ha bisogno di meditazione. Sedici ore di lavoro, tre comizi al giorno, emozioni a raffica e una campagna elettorale permanente che dura da più di dieci anni stenderebbero chiunque. AMLO ha fatto quattro volte il tour completo di tutti i comuni del Messico, la sua esperienza sul territorio è preziosa e il suo team ha molti talenti, soprattutto nel campo della cultura e delle politiche sociali.

Il leader ha chiesto a tutti d’uscire dalla stanza. Ancora non ci crede. Convoca i suoi collaboratori a una reunión urgente per gestire al meglio le prime dichiarazioni alla stampa. Su 89 milioni di aventi diritto, ieri hanno votato i due terzi, è stata l’elezione più partecipata della storia. Ma Andrés Manuel non ha vinto. Nessun partito ha vinto.

L’istituto elettorale ha comunicato i dati del conteggio preliminare: AMLO ha preso il 25%, Margarita Zavala, moglie del guerrafondaio Calderón, il 17%, Osorio Chong, del PRI, il 13%, gli indipendenti l’1% e Mancera, del PRD, il 9%. La candidata dell’EZLN e del CNI ha sconfitto i contendenti e blinda la presidenza col 35% dei voti. Il consiglio di governo indigeno l’accompagna, s’insedierà il primo dicembre. Nessun pronostico, nessun indovino, l’aveva financo immaginato. In parlamento, solo MoReNa ha raggiunto una maggioranza che, sebbene risicata, può decidere se sostenere la presidenta o affogare il Paese nel caos.

La stampa viene fatta entrare. AMLO è stanco ma tranquillo. “Che intende fare?”, un reporter de La Jornada lo interroga. Il politico aveva promesso che si sarebbe ritirato a vita privata in caso di sconfitta. “Abbiamo vinto – spiega – ma abbiamo soprattutto perso, perché ero solo io il centro, il partito, ma adesso per MoReNa è giunta l’ora di comandare obbedendo e sostenere il cambiamento”.

Nel frattempo una folla spontanea, immensa e festante inonda Insurgentes e Reforma, le maestose avenidas che tagliano a croce la capitale messicana da nord a sud e da est a ovest. Il rituale è impressionante. Un eterno studente passeggia per il centro, non sembra nemmeno più uno straniero dopo tanti anni, con la sua barba incolta e la pelle bronzea nella perenne primavera messicana. Ha visto tanti colori della terra in questi anni, ha visto la polvere del Messico tingersi di sangue e la speranza ingrigirsi di pallottole e macabri conteggi di vittime. Ma oggi, come nel novantaquattro, sono colorate e ribelli le grida che s’inzuppano di pioggia nel giubilo. Vede aprirsi le nubi, si siede, scorge l’ombelico della luna e sa di non essere più solo mentre aspetta l’alba della verità e della giustizia.

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Zapatisti, Elezioni e CoScienze per l’Umanità https://www.carmillaonline.com/2017/01/05/zapatisti-elezioni-e-coscienze-per-lumanita/ Wed, 04 Jan 2017 23:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35832 di Perez Gallo

[Una necessaria alunni-telescopiocorrispondenza dal Chiapas, le foto sono di Gianpa L.]

Mentre da Ankara ad Aleppo, da Berlino ad Istambul, il 2016 si è chiuso con il sangue degli attentati e con i preludi di un possibile nuovo scontro planetario, nelle montagne del Sudest messicano le e gli zapatisti, che di quarta guerra mondiale parlano da almeno vent’anni, hanno puntato forte sull’organizzazione, affinché di fronte alla “tormenta” in arrivo quelle e quelli in basso e a sinistra possano non essere solo vittime di una carneficina, ma [...]]]> di Perez Gallo

[Una necessaria alunni-telescopiocorrispondenza dal Chiapas, le foto sono di Gianpa L.]

Mentre da Ankara ad Aleppo, da Berlino ad Istambul, il 2016 si è chiuso con il sangue degli attentati e con i preludi di un possibile nuovo scontro planetario, nelle montagne del Sudest messicano le e gli zapatisti, che di quarta guerra mondiale parlano da almeno vent’anni, hanno puntato forte sull’organizzazione, affinché di fronte alla “tormenta” in arrivo quelle e quelli in basso e a sinistra possano non essere solo vittime di una carneficina, ma artefici e protagonisti di un cambiamento possibile. Lo hanno fatto a modo loro: spiazzando. È così che nel giro di dieci giorni, dal 26 di dicembre del 2016 al 4 di gennaio del 2017, hanno messo in piedi, loro indigeni spesso associati in modo stereotipato ai saperi ancestrali, alle antiche credenze religiose e a civiltà ormai defunte, un incontro internazionale sulle scienze dure: fisica, astronomia, medicina, agro-ecologia, cibernetica, ingegneria energetica. Ospiti ben 82 scienziati provenienti dal Messico e altri 10 paesi.

L’evento ha avuto come titolo “L@s Zapatististas y las ConCiencias por la Humanidad”, che gioca sul binomio scienze-coscienze per mettere le scienze al servizio di un altro progetto di mondo, tanto distante dal capitalismo quanto vicino a quella che del capitalismo è la vittima maggiore: l’umanità. E ha avuto un’interruzione tra il 31 di dicembre e il 1 gennaio, giorni in cui ha avuto luogo l’incontro del Congreso Nacional Indigena, organizzazione che include comunità afferenti tutte le 62 nazioni indigene riconosciute in Messico. In discussione la ratifica della proposta fatta sempre in Chiapas lo scorso ottobre di una candidatura indipendente alla presidenza della repubblica per le elezioni del 2018.

Entrambi questi incontri, ConCiencias e congresso del CNI, hanno dato la misura di un momento di grande vivacità e cambiamento nel movimento zapatista, che da qualche anno, dopo un periodo di rafforzamento dell’autogoverno nelle comunità, nei municipi e nelle Giunte del Buon Governo, ha portato avanti alcune iniziative pubbliche eclatanti.

esercitazione-zapatistiQuesta fase è iniziata il 21 dicembre 2012, giorno della fine del mondo secondo il calendario maya, quando 40000 maya incappucciati hanno marciato silenziosamente in alcune città del Chiapas annunciando: “E’ il suono del vostro mondo che crolla, è quello del nostro che risorge”.

Successivamente, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, tre sessioni dell’Escuelita zapatista hanno aperto le porte delle comunità a 6000 alunne e alunni provenienti da tutto il mondo.

A maggio del 2014, dopo il vile assassinio del maestro zapatista Galeano nel caracol de La Realidad per mano di un gruppo di paramilitari, il subcomandante insurgente Marcos ha cessato di esistere, annunciando di non essere mai stato altro che un ologramma, una figura buona per i media occidentali che di fronte a una sollevazione indigena erano solo capaci di vedere la faccia di un bianco, e ha preso così il nome di subcomandante insurgente Galeano, lasciando la guida dell’EZLN nelle mani dell’altro subcomandante, Moises.

Alla fine dello stesso anno, dopo i tragici fatti di Iguala, gli zapatisti hanno invitato come ospiti d’onore al loro Festival de las Resistencias y Rebeldías contra el Capitalismo le madri e i padri dei 46 giovani “assenti” (3 uccisi e 43 desaparecidos) di Ayotzinapa.

In seguito, prima sono stati chiamati a raccolta gli intellettuali vicini allo zapatismo per la presentazione dei volumi de “Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista”, poi, nell’agosto scorso, è stato organizzato il festival delle arti CompArte, e ora, infine, sono state invitate le scienze e gli scienziati.

galeanoMa a cosa è dovuto questo relativamente nuovo interesse degli zapatisti per le scienze dure? Il SupGaleano lo racconta così: “Alle comunità zapatiste arriva gente di tutti i tipi. La maggioranza viene a dirci quello che dobbiamo fare o no. Arriva gente, per esempio, che ci dice che è bello vivere in case con pavimento di terra e pareti di legno e fango; che è bello camminare scalzi; che tutto questo ci fa bene perché ci mette in contatto con la madre natura e riceviamo così, direttamente, gli effluvi benefici dell’armonia universale… La modernità è cattiva, dicono, e includono in essa le scarpe, il pavimento, le pareti e il tetto moderni e la scienza.”

La proposta portata avanti dagli zapatisti, dunque, è l’idea che la scienza sia solo un altro campo di lotta, un terreno su cui le e gli indigeni ribelli, senza dover abbandonare le pratiche tradizionali, la medicina naturale e gli usi e costumi, hanno diritto di costruire il proprio futuro. E che la scienza sia utile al loro cammino di autonomia. Perché la scienza – sono convinti – può venir incontro alle loro domande della vita quotidiana. Domande come: qual è la spiegazione scientifica, se le medicine chimiche curano una malattia, ma danneggiano altre parti dell’organismo? Secondo quale spiegazione scientifica animali come il gallo cantano o annunciano fenomeni o cambiamenti nella madre natura? Scientificamente gli OGM danneggiano la madre natura e gli esseri umani? E scientificamente la terra ha anticorpi come gli esseri umani? Può avere anticorpi contro il capitalismo?

zapatismo-tecnologiaIn questo originale festival delle scienze, dunque, le lezioni si sono susseguite tutti i giorni, dalle dieci del mattino alle otto di sera, di fronte a cento alunne e cento alunni zapatisti, oltre a svariate centinaia di ospiti messicani e stranieri solidali e aderenti alla Sexta Declaración de la Selva Lacandona. Mentre questi ultimi erano presenti solo in qualità di “ascoltatori”, e non erano quindi autorizzati a fare domande, le e gli alunni zapatisti sono stati i veri destinatari delle lezioni, e hanno ora il difficile compito di socializzare i saperi acquisiti, in primo luogo tra loro e poi, soprattutto, di ritorno alle loro comunità, con le decine di migliaia di uomini, donne, bambini e anziani zapatisti.

Alcune di queste lezioni sono state plenarie, altre più ristrette, alcune molto specifiche e tecniche mentre altre hanno cercato di affrontare le tematiche scientifiche dal punto di vista delle loro premesse o ricadute sociali. E così molti studiosi e professori, anche di università molto celebri messicane e straniere, si sono focalizzati sui dispositivi scientifici nella meritocrazia e nella valutazione accademica, altri hanno ripreso le teorie di Thomas Khun sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, altri ancora hanno provato a tematizzare la presunta neutralità della scienza rispetto ai dispositivi di controllo o di assoggettamento politico.

alunni-concienciasTra i due cicli del ConCiencias, la seconda parte del quinto congresso del CNI ha portato alla ribalta l’agenda politica nazionale dell’EZLN. Nella precedente sessione congressuale di ottobre, infatti, su proposta proprio dell’EZ, il CNI aveva fatto sua l’idea di candidare per le prossime elezioni presidenziali della primavera del 2018 una donna di lingua e sangue indigeni in qualità di portavoce di un Consiglio Indigeno di Governo, i cui membri sarebbero stati scelti tra tutte le nazioni indigene appartenenti al CNI e, secondo le loro consuetudini, sarebbero stati revocabili e sostituibili nel caso non rispettassero il mandato loro assegnato dalle comunità di riferimento. La proposta, che si avvarrebbe della possibilità, aperta per la prima volta proprio da queste elezioni, che alle presidenziali possa presentarsi un candidato indipendente, ossia svincolato da qualsiasi partito politico registrato, era stata approvata dai delegati presenti ad ottobre, ma per essere ratificata doveva passare il vaglio di tutte le comunità afferenti al CNI, in accordo con il principio del “comandare ubbidendo”.esercitazione-zapatisti-2 E così, nel caracol di Oventik, nel primo pomeriggio del primo gennaio 2017 è stato pubblicamente dichiarato da una delegata che tale decisione era stata definitivamente approvata da 43 nazioni del CNI, mentre le restanti 19 non hanno ancora avuto il tempo di discuterla. Già negli ultimi mesi vari comunicati usciti a firma di Moises e Galeano avevano spiegato i motivi della proposta: in tutto il paese i processi di spossessamento delle terre indigene, dell’acqua, delle foreste, il saccheggio delle loro risorse e la violenza dello Stato, dei cartelli della droga e del paramilitarismo hanno spinto molte comunità a una situazione di collasso e a un vero e proprio rischio per la loro sopravvivenza. Allo stesso tempo, la crisi, la militarizzazione del Paese, la proliferazione del nacotraffico e le riforme neoliberali hanno portato la gran maggioranza della società messicana, anche quella meticcia, a un’insicurezza cronica e a un impoverimento generalizzato. Di fronte a tutto questo, era diventato necessario contrattaccare, come lo era stato per gli zapatisti il prendere le armi l’1 gennaio 1994.

cni-2Così lo ha spiegato Moises nella seduta plenaria a Oventik, facendo proprio un parallelismo con quella giornata: “Ora le condizioni del popolo messicano nelle campagne e nelle città sono peggiori di 23 anni fa. La povertà, l’esasperazione, la morte, la distruzione, non sono solo per chi ha abitato originariamente queste terre. Ora la disgrazia raggiunge tutte e tutti. La crisi colpisce anche chi si credeva in salvo e pensava che l’incubo era solo per chi vive e muore in basso. I governi vanno e vengono, di diversi colori e bandiere, e l’unica cosa che fanno è peggiorare le cose. Con le loro politiche, l’unica cosa che fanno è che la miseria, la distruzione e la morte arrivino a più persone. Ora le nostre sorelle e fratelli delle organizzazioni, quartieri, nazioni, tribù e popoli originari, organizzati nel Congreso Nacional Indígena, hanno deciso di gridare il loro ya basta.”

Una mossa disperata, dunque, e che ammette esplicitamente di non farsi illusioni sulle possibilità di vittoria in un sistema antidemocratico come quello messicano, ma che avrà senz’altro il beneficio dell’effetto sorpresa, e che proverà a coinvolgere i diversi settori in lotta nella società messicana e a fare tesoro delle ondate di mobilitazione che si sono susseguite durante gli ultimi anni: dal movimento per la pace con giustizia e dignità contro la narcoguerra di Calderón al movimento #YoSoy132 contro il monopolio televisivo e le elezioni defraudate, dalla gigantesca indignazione scaturita dal massacro dei giovani di Ayotzinapa (rappresentanti dei padres di Ayotzinapa erano presenti anche questa volta come ospiti d’onore nel caracol di Oventik) agli scioperi e blocchi stradali messi in atto da molte comunità di Chiapas e Oaxaca l’estate scorsa contro la riforma educativa promossa da Peña Nieto e repressi col sangue dal governo.

cniUna mossa disperata, come disperata era stata l’insurrezione del 1994, avvenuta in un periodo storico che non poteva essere più sfavorevole, con il crollo dei socialismi reali e l’imposizione del pensiero unico neo-liberista. E forse per dimostrare come per gli zapatisti non c’è un unico modo di lottare e di difendersi, e che il cambio di strategia non è un cambio di natura del loro progetto politico, la giornata del primo di gennaio si è conclusa con un’esercitazione militare, che centinaia di insurgentas e insurgentes hanno svolto sotto gli occhi incuriositi dei migliaia di presenti.

Intanto, il progetto di distruzione portato avanti dallo stato messicano continua: mentre la riforma educativa è stata temporaneamente rimandata proprio grazie alla determinazioni dei maestri riuniti nella CNTE (Coordinadora Nacional Trabajadores Educación), proprio all’inizio dell’anno è entrata definitivamente in vigore la privatizzazione del sistema energetico, portando a un immediato aumento del 20 per cento del prezzo della benzina. E così in questi giorni si sono diffusi in tutto il paese blocchi stradali, occupazioni delle stazioni di servizio con esproprio di benzina data in regalo ai veicoli, e distruzione dei caselli autostradali. A dieci giorni dall’investitura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, la società messicana inizia questo 2017 in maniera combattiva. Mentre EZLN e CNI lanciano per fine maggio, in luogo ancora da stabilirsi, un’assemblea costituente, con il compito di formare il consiglio indigeno destinato al governo del Paese.

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Linee di fuga. La clown-poiesi come pratica di affrancamento dalle strutture dominanti capitaliste https://www.carmillaonline.com/2016/11/03/31591/ Wed, 02 Nov 2016 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31591 di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di [...]]]> di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di individuare nella figura del clown la possibilità di evadere dal “senso unico” su cui è costruita l’attuale società capitalista evitando però di scivolare nel “non senso”. Se diamo per assodato che il riconoscimento dell’arbitrarietà del senso è il primo passo da compiere, resta da capire come e da dove possono giungere all’individuo stimoli utili all’abbandono del senso unico. Il saggio indica nella clown-poiesi una tra le possibili vie d’uscita, linee di fuga, dall’antropo-poiesi capitalista neoliberale.

Nella prima parte del volume – Movimento I – l’autore si propone di analizzare l’antropo-poiesi capitalista neoliberale, i riti di trasformazione ed il concetto di liminalità, soffermandosi anche sulle modalità con cui il capitalismo ha appiattito il panorama culturale italiano ricorrendo, a tal proposito, a riflessioni di Antonio Gramsci, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini.
Entrando nel merito dell’antropo-poiesi, essa può essere indicata come costruzione degli esseri umani e deriva dall’idea che all’uomo non basti, per sopravvivere, il solo bagaglio biologico ma che a questo debba aggiungersene uno culturale. In altre parole, l’uomo, dopo una prima genesi biologica, si completerebbe attraverso una seconda genesi culturale. Studiosi come Johann Gottfried Herder, Clifford Geertz e Francesco Remotti condividono l’idea che «la cultura interviene per rendere possibile l’umanità stessa, in maniera tanto incisiva e determinante che spesso i modelli culturali appresi appaiono naturali. Invero sin dalla nascita un soggetto è assediato da informazioni culturali che passano attraverso il suo rapporto con coloro che si prendono cura di lui e che vanno a sedimentarsi nel suo corpo, plasmandolo. In queste relazioni vengono comunicate numerose istruzioni riguardanti il modo culturalmente più appropriato di stare al mondo, di gestire le relazioni sociali, di utilizzare il linguaggio, di camminare e di comportarsi» (p. 22).

Secondo Herder questa seconda nascita può essere concepita in due modi: o si intende la genesi come un processo che dura per l’intera vita dell’essere umano, o la si pensa come un passaggio non graduale (rituale d’iniziazione) che segna la nascita culturale. In entrambi i casi si possono rintracciare differenze di intensità sia nella percezione del senso delle possibilità (dal credere esista un solo modello di umanità alla consapevolezza che la propria forma di umanità è una tra le possibili) che nella consapevolezza antropo-poietica (dall’esserne totalmente inconsapevoli alla piena coscienza del processo e dell’arbitrarietà del modello proposto). «L’antropo-poiesi della società occidentale contemporanea possiede un minimo grado sia di consapevolezza, sia di senso delle possibilità ed è basata sul modello di umanità seriale inventato dalla civiltà capitalista neoliberale, erede di quel pensiero che si definisce moderno» (p. 23).

Secondo l’antropologo Remotti la modernità apre la strada ad un percorso che, proponendosi di raggiungere “uno stato di verità universale”, si impone sulle altre culture rivendicandosi come qualcosa di nuovo e diverso rispetto al passato. La modernità si impone dunque come rottura col passato, come nuovo inizio basato su principi del tutto nuovi. In questo senso, secondo Kristian Kumar (Le nuove teorie del mondo contemporaneo), «la conformazione caratteristica della modernità e l’acquisizione di consapevolezza del pensiero moderno sono rintracciabili nella rivoluzione francese, momento storico in cui fu annunciato ufficialmente “lo scopo dell’epoca moderna: la realizzazione della libertà sotto la guida della ragione” […] Il passo successivo, ovvero l’acquisizione di una sostanza materiale da parte della modernità, fu la rivoluzione industriale. Da questo momento storico in poi il pensiero moderno sposò le teorie economiche liberali: la contrapposizione tradizionale/moderno, divenne la contrapposizione tra “civiltà pre-industriale e civiltà industriale” e l’idea di progresso della scienza mutò in quella di progresso industriale e tecnologico» (pp. 24-25). Così facendo, sottolinea Marc Augé (La guerra dei sogni) [su Carmilla], il discorso della modernità ha finito con l’inserirsi nell’immaginario collettivo cancellando il passato ed imponendosi come “nuova civiltà globale”.

Studiosi come Fredric Jameson ritengono si possa parlare di continuità tra il pensiero moderno, caratterizzato dall’accoppiata capitalismo-liberalismo, ed il pensiero post-moderno, caratterizzato, secondo lo studioso, dalla nuova coppia capitalismo cognitivo-neoliberalismo. Jameson sostiene che «il post-modernismo è “la dominante culturale della logica del tardo capitalismo” in cui coesistono caratteristiche eterogenee, ma subordinate ad una società del simulacro che trasforma il passato in immagini televisive, avvalorando la logica tardo capitalista» (p. 26). Tale concezione del passato preclude l’idea stessa di futuro. «Jameson qualifica il postmodernismo come un fenomeno storico in cui si è creato uno “spazio postmoderno” che corrisponde alla terza fase di espansione del capitalismo nel mondo e in cui sovrastruttura e struttura, ovvero cultura ed economia, si sovrappongono affermando la stessa cosa» (p. 26). “Il mercato è nella natura dell’uomo” diviene un mantra ripetuto all’unisono. «Assunta come premessa l’esistenza di una natura umana universale in epoca moderna, il passo di descriverla come il mercato per i sostenitori del capitalismo è stato rapido e in discesa» (p. 27).

Il capitalismo, scaricando il passato, dunque negando il futuro, è riuscito a presentarsi come fatto compiuto, come un’utopia che fa del presente il suo baluardo, inoltre è riuscito ad identificare il marxismo come un’utopia irrealizzabile. Tali manovre ideologiche, secondo Jacques Derrida (Spettri di Marx) si sono dispiegate ricorrendo a tre dispositivi: la “cultura politica”, la “cultura massmediatica” e la “cultura scientifica o accademica”. Al fine di spiegare il funzionamento della prima “forza antropo-poietica”, la politica, Nivolo ricorre alle teorie illustrate da Michel Foucault nel suo Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), ove viene analizzato il passaggio dal liberalismo nel neoliberalismo nel corso del Ventesimo secolo.

La seconda “forza antropo-poietica”, i mass media, rappresenta oggi la principale fonte di quel completamento culturale che si aggiunge al portato biologico dell’uomo e tale fonte, secondo Kumar, ha soprattutto mirato a consolidare e rafforzare il modello politico-economico esistente. Studiosi come Frank Webster e Kevin Robins indicano nella società dell’informazione una deriva del taylorismo: «una filosofia sociale che, nata all’interno delle fabbriche, si è successivamente diffusa per l’intero globo […] Gli autori di Tecnocoltura. Dalla società dell’informazione alla vita virtuale mettono in luce che “l’obiettivo [del taylorismo] era la direzione scientifica del bisogno, del desiderio e della fantasia, e la loro ricostruzione in forma di merci” e che codesto obiettivo è stato perseguito in buona parte mediante i mezzi di comunicazione di massa attraverso cui il taylorismo è riuscito a produrre dei soggetti-consumatori, nello stesso modo in cui nelle fabbriche si producevano auto o abiti […] Questa catena di montaggio mediatica è stata programmata e messa in pratica da “ingegneri del consumo” – pubblicitari, agenzie multinazionali, professionisti delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione, intermediari delle informazioni, giornalisti e così via. Questi ingegneri hanno regolato le operazioni commerciali e i comportamenti dei consumatori grazie ad uno “sfruttamento ‘razionale’ e ‘scientifico’ delle informazioni” da cui è sorta la politica dell’informazione che si è radicata a partire dagli anni Ottanta su scala globale» (p. 37).

clown2La “terza forza antropo-poietica”, come detto, è data dal sistema di istruzione statale e per affrontare il ruolo di tale agenzia formativa Nivolo ricorre ad Ivan Illich (Descolarizzare la società), autore che evidenzia come, a suo avviso, la scolarizzazione obbligatoria abbia legato gli ambienti più poveri della popolazione al potere statale, tanto che l’accesso al mondo del lavoro e la collocazione al suo interno, è regolata attraverso il livello di scolarizzazione conseguito. Illich sostiene che la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e che dispensa promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Dunque, attraverso la scolarizzazione «viene prodotta in serie una fanciullezza ben addestrata a fare tutto ciò che è in suo potere per aumentare le proprie competenze al fine di guadagnare un reddito maggiore, il quale […] permetterà di soddisfare i desideri indotti dal sistema, che non essendo autentici lasceranno un perenne senso di insoddisfazione. La religione-scuola, nella prospettiva di Illich, è depositaria del “mito della società” ed è la sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze presenti tra “i principi sociali e la realtà sociale del mondo contemporaneo”. La scuola, diventata la nuova chiesa universale d’occidente, oggi possiede un suo rito di iniziazione che consiste nell’introdurre il neofita alla corsa sacra del consumo progressivo: “è un rituale di propiziazione i cui sacerdoti accademici fanno da mediatori tra i fedeli e gli dèi del privilegio e del potere”. In questo rito, attraverso il sacrificio dei disertori, considerati i capri espiatori del sottosviluppo, vengono espiate le colpe del capitalismo e i partecipanti vengono modellati sulla rigida organizzazione del lavoro con l’obiettivo di “celebrare il mito di un paradiso terrestre di consumi illimitati, unica speranza per i dannati e i diseredati” […] La scuola è diventata un rito antropo-poietico istituzionalizzato e irrigidito che, a differenza di quanto avviene nei rituali antropo-poietici presenti in altre società, nel foggiare gli esseri umani non li invita a riflettere sul fatto che ciò che stanno realizzando non è nient’altro che uno tra i tanti modelli di umanità possibili» (pp. 43-46).

Una volta passate in rassegna le modalità di funzionamento delle principali “forze antropo-poietiche” che concorrono a plasmare i soggetti nella società occidentale contemporanea, Nivolo si sofferma su alcuni degli effetti provocati da tali forze. A tal proposito viene ripreso il pensiero di Marc Augé che sottolinea come nella società dei consumi i soggetti si trovino a dover scegliere tra un consumo passivo e conformista o un rifiuto radicale anche se, in quest’ultimo caso, secondo l’antropologo francese, manca una riflessione sui fini. «I mezzi di comunicazione di massa, sotto il falso obiettivo di informare il pubblico, in realtà lo inducono “a consumare passivamente le notizie del mondo”, diminuendone quindi la capacità critica e contribuendo a uniformare informazione, orientamenti e gusti delle persone» (p. 47)

Il saggio si sofferma anche sul disciplinamento del corpo ottentuto nella società capitalista da quel processo che Deleuze e Gauttarì definiscono di “viseità”, di produzione di viso. Per opporsi a ciò, sostiene Nivolo, non si devono riproporre le semiotiche primitive ma occorre «mettere in atto una prassi deterritorializzante e farsi un corpo senza organi, attivando una pratica anti-produttiva» (pp. 49-50). Vendo invece al rito, si ricorda come questo abbia come funzioni principali quelle di attribuire un senso alla realtà e di provocare una riflessione sulla comunità d’appartenenza. Riprendendo gli studi di Francesco Remotti e di Adam Seligman, Nivolo sostiene che nel rituale gli individui possono far propri i criteri ed i principi che definiscono un certo tipo di umanità grazie alla costruzione di “un mondo soggiuntivo” che consente agli individui di pensare alla realtà non nei termini in cui è ma in quelli in cui “potrebbe essere”. Dunque, il rito può essere definito «una dimensione spazio-temporale nella quale i partecipanti vengono indotti a soppesare criticamente il modello di umanità propostogli dal potere egemone e ad abbandonare, per tutta la sua durata, le strutture di pensiero fino a quel momento adottate. La critica viene indirizzata spesso al carattere fittizio di tali modelli affinché i novizi comprendano la natura arbitraria dei segni di cui la civiltà che stanno assimilando è composta» (p.51).

L’antropologo inglese Victor W. Turner ritiene che proprio questo spazio-tempo in cui il soggetto può investigare sulle alternative al sistema dominante, può portare all’elaborazione di una nuova configurazione sociale. Secondo Remotti «in alcune culture sono presenti ampie finestre di meditazione sull’arbitrarietà degli elementi culturali che permettono di compiere scelte, decisioni e tagli con maggior consapevolezza e, talvolta, di mettere in discussione codeste scelte e di aderirvi con maggior distacco. Una delle dimensioni principali del rito, accanto a quella di sancire pubblicamente le transizioni sociali, è quella di plasmare la soggettività degli esseri: nella maggior parte dei riti di iniziazione i soggetti vengono spinti a deporre il loro habitus e a vagliare criticamente la loro società. Questi atti meditativi sono indirizzati ad incentivare la formazione di uno spirito critico relativo alla società e all’ambiente e permettono ai soggetti di prendere coscienza della finzione che sta dietro ogni modello di umanità» (p. 52).

Antropologia dei clown si concentra poi su quella che Turner definisce la “fase liminale” del rito. Secondo l’antropologo inglese è in questa fase che i novizi hanno la maggiore possibilità di manipolare i fattori dell’esistenza: «lo spazio-tempo liminale può essere inteso come una dimensione in cui si potrebbe verificare la nascita di nuovi modelli culturali; esso rappresenta il “vivaio della creatività” di ogni civiltà poiché la sua attività principale consiste nella «scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile» (pp. 52-53).
Turner (Dal rito al teatro) sostiene che prima della rivoluzione industriale, in diverse culture, il termine “lavoro” veniva utilizzato anche per definire l’attività rituale pur mantenendo una certa distinzione tra lavoro sacro e lavoro profano. In entrambi i casi era presente una componente ludica poi negata dalla separazione tra tempo di lavoro e tempo ludico prodotta dall’avvento dell’industrializzazione. «Questa divisione è stata determinata dalla razionalizzazione del lavoro messa in atto dal capitalismo che lo ha distinto dal resto delle azioni umane, successivamente relegate nella sfera del tempo libero. […] La mercificazione dello svago ha causato delle serie ripercussioni sugli spazi ludici e rituali: quando i mondi soggiuntivi, un tempo creati direttamente dai lavoratori nei momenti di svago, iniziano ad essere ideati dal sistema stesso in una versione leziosa e posticcia – di cui Disneyland è uno tra i tanti esempi – l’adesione al sistema egemone sarà totale e scomparirà qualsiasi chance di cambiamento» (p. 61) A questo punto Nivolo, riprendendo in particolare le teorie di Donald Woods Winnicot (Gioco e realtà), propone di ampliare il nesso tra rito e gioco che si ha nell’ingresso in un mondo soggiuntivo, al fine di introdurre la figura del pagliaccio indagata in questo suo saggio.

Nella seconda parte del testo – Movimento II – l’autore ricostruisce dapprima la figura del clown nelle sue variabili diacroniche e diatopiche, poi colloca detta figura all’interno dello spazio liminale descritto nella prima parte del volume ed, infine, presenta un’ipotesi di clown-poiesi. La ricostruzione della storia del clown è in buona parte basata sugli studi dello storico Tristan Rémy (I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata) ampliando però tale analisi ai progenitori dei clown contemporanei non contemplati dallo studioso francese. Prima di ripercorrerla, seppur sommariamente, occorre segnalare le due tipologie di clown prese in considerazione: il “clown bianco” ed il “clown rosso”, (“l’augusto”). Se il clown bianco «è una figura che si lascia maggiormente agire dal sistema culturale egemone, incarnando le caratteristiche della struttura sociale: è serio, arrogante, repressivo ed autoritario, tanto da perdere, in certe circostanze, i tratti della comicità che lo caratterizzano […] il clown rosso impersona il contrario di tutte le caratteristiche del clown bianco» (p. 96). Paul Bouissac (Circo e cultura) sostiene che il clown bianco ha maniere che indicano l’agiatezza sociale e un linguaggio che evidenzia il potere ed il sapere, il clown rosso, l’augusto, mostra invece la sua mancanza di maniere e la sua incompetenza linguista.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nei circhi iniziano ad apparire i primi clown che propongono al pubblico numeri acrobatici eseguiti in maniera maldestra. A partire da metà Ottocento, dapprima in Inghilterra, poi in Francia, compaiono i clown bianchi che miscelano le caratteristiche del pierrot francese, del “clown scespiriano” inglese, del “grottesco” tedesco ed alcuni elementi della commedia dell’arte italiana. Verso la fine dell’Ottocento la comicità del clown bianco inizia ad entrare in crisi; «la pantomima acrobatica prese il posto delle performance clownesche poiché più consona alle intransigenze politiche: essa era infatti unicamente appoggiata ai “funambolismi del corpo” ed era “caratterizzata dal triplo sigillo della forza, dell’agilità e dell’esattezza” a cui si univano la fantasia, l’artificio e l’inganno […] Dopo questo intervallo di transizione comico-acrobatico in cui il clown bianco perse parte delle sue doti umoristiche, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, fece la sua prima apparizione la figura dell’augusto, detto anche clown rosso» (pp. 83-84). Ben presto i clown bianchi iniziarono a dotarsi di un augusto che facesse loro da spalla ma, col tempo, la figura dell’augusto, grazie anche alla sua maggiore versatilità, si emancipa dal clown bianco ed intraprende una carriera solista fino ad abbandonare il circo per dirigersi verso il teatro ed il cinema. «La comicità del clown bianco era una sorta di parodia della nobiltà settecentesca, che, con il lento scomparire di quest’ultima, si affievolì fino a lasciare il posto a dispotismo e arroganza borghesi. Il clown rosso, invece, nacque come parodia della nuova borghesia nascente e si trovò a fare i conti con il potere repressivo del clown bianco da cui riuscì a liberarsi creandosi solide vie di fuga dal tendone» (p. 100).

«Charlie Chaplin, Buster Keaton, W.C Fields, Roscoe Arbuckle, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy furono tra i primi a intercettare questo nuovo tipo di clown al circo e ad esportarlo con i dovuti arrangiamenti nel mondo nascente del cinema» (p. 92). E proprio il cinema, oltre a sganciare la comicità dal “fallimento acrobatico”, secondo lo studioso Matthias Christen, dà alla luce anche la figura del “dark clown”, personaggio che si è sviluppato nel genere horror e che fa leva su paure comuni per spaventare il pubblico. «La ricerca di una tale reazione emotiva ha cancellato dai clown le loro caratteristiche picaresche, lasciando emergere tutta la violenza del secolo che li ha portati alla luce» (p. 93).

Tornando all’augusto, Nivolo sottolinea come questo essere marginalizzato all’interno del circo, possa «essere paragonato ad uno schizofrenico, egli rappresenta quella parte del limite esterno del capitalismo che riesce a mediare il fuori e il suo limite interno in costante spostamento. Il clown, occupando una posizione liminale, vive in stretto contatto con il disordine extraculturale e ciò gli consente, indossato il naso rosso, di far riemergere la schizofrenia del fuori laddove viene rinchiusa nei manicomi, il caos laddove regna l’ordine culturale. In questo modo l’augusto svolge una funzione terapeutica nei confronti dell’audience della società capitalista, simile a quella di clown rituali, tricksters, fools e sciamani» (p. 105).

clown1Il divenire-clown presuppone innanzitutto l’infrazione della gabbia mentale che si è sedimentata nella mente dell’individuo, così da rendere possibile la riconquista dei movimenti del corpo e la loro decostruzione al fine di dar vita ad una nuova fisionomia da mettere in relazione col mondo esterno. Nel saggio si segnala come lo stesso clown Leo Bassi abbia sottolineato l’importanza del corpo e come, in molti paesi europei, esso sia identificato come simbolo di resistenza al potere industriale. «Nel circo gli artisti potevano e possono usare il loro fisico a proprio piacimento, diversamente da quanto accade nelle fabbriche, dove il corpo degli operai è limitato ad una serie di movimenti ripetitivi e funzionali alla produzione. La libertà di utilizzo del corpo da parte dei clown in contrapposizione alla taylorizzazione di quest’ultimo messa in atto dalla società industriale appare con estrema chiarezza nel film Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin» (p. 143). Dunque, sostiene Nivolo, «la clown-poiesi risulta potenzialmente in grado di far approdare al corpo senza organi: a ben vedere trovare il proprio pagliaccio equivale, almeno in parte, a liberare il desiderio dalla macchina sociale […] Il clown […] è in grado di spogliarsi dell’armatura comportamentale, della pelle dell’abitudine, dubitando delle proprie regole d’azione più radicate tanto da riappropriarsi del corpo, contrastando in questa maniera i dispositivi del biopotere […] Il corpo del pagliaccio è predisposto al rovesciamento di ogni scontata logica di reazione agli eventi ed esprime il primo segno dell’anti-strutturalità del suo discorso» (pp. 143-144). Le azioni del pagliaccio possono ingenerare nel pubblico una semiosi in grado di attribuire nuovi significati alla realtà.

Nella terza parte del libro – Movimento III -, dopo una riflessione di carattere metodologico relativa al procedimento di ricerca utilizzato per la realizzazione della cartografia, lo studioso porta il lettore alla Scuola Teatro Dimitri di Verscio in Ticino e mette a confronto le diverse forme di clown-poiesi esaminate nel libro.
Il saggio di Nivolo si conclude – Finale – con alcune riflessioni sull’antropologia del clown volte a fornire un’interpretazione della figura del pagliaccio in grado di sviluppare una lettura critica dell’antropologia stessa. Lungo l’intero libro l’autore ha mostrato come anche all’interno del percorso antropo-poietico capitalista neoliberale, con la sua pretesa di unicità, siano presenti modalità di “costruzione degli esseri umani” capaci di costituire linee di fuga dal sistema egemonico.
Nei suoi studi l’antropologo Remotti ha mostrato come esistano culture contraddistinte dal dubbio circa le modalità con cui si debba plasmare l’essere umano, dunque, a partire da ciò, Nivolo ha inteso individuare alcuni spiragli da cui fare “penetrare la luce del dubbio” anche nell’attuale società contemporanea occidentale così da individuare una linea di fuga dalla gabbia capitalista. A tal proposito il saggio ha evidenziato come «mediante un passaggio per un mondo anti-strutturale e soggiuntivo, caratteristico della fase liminale di molti rituali di trasformazione, si può assimilare il senso delle possibilità e stimolare una serie di meditazioni in grado di scuotere le certezze sistemiche» (p. 214). Nonostante il capitalismo tenda ad inglobare tali spazi sovversivi proponendosi come realizzazione di un’utopia ed imponendo agli individui di non immaginare altro mondo all’infuori di questo, «rimangono in vita alcune importanti brecce sulla liminalità, alternative ai riti, come il gioco e l’arte» (p. 214). Tra le varie forme possibili Nivolo ha scelto la figura del clown al fine di mostrare come questa abbia “il senso della possibilità” e cerchi di restituirlo al pubblico con una messa in scena di “un mondo alla rovescia” «in cui vigono l’arbitrarietà delle norme culturali e una “logica irrazionale” molto simile a quella surrealistica» p. 214).

È a partire da tali premesse che lo studioso ha poi indagato il processo del divenire clown mostrando come questo si incentri «sul dubbio che scaturisce dal fallimento: si deve fallire qualcosa per far ridere» (p. 214). Il fiasco dei pagliacci è potenzialmente in grado di stimolare nel pubblico una riflessione sulla vulnerabilità. La clown-poiesi appare tanto incentivo al fallimento quanto prassi di riappropriazione del corpo. «Il pagliaccio, in questa prospettiva, può essere descritto come colui che, passando per “la vita marginalizzata dell’escluso”, persegue una linea di fuga che lo porta a raggiungere IL piano di consistenza, il fuori di ogni pensiero, regno delle possibilità impossibili. Lì, sul piano di immanenza del desiderio, sul corpo senza organi, il clown mette in atto quella che Deleuze, riprendendo il pensiero di Michel Foucault, definisce “la lotta per una soggettività moderna”, rivendicando il diritto alla differenza, alla metamorfosi e alla variazione […] In questo modo il clown resiste “alle due forme attuali di assoggettamento, l’una che consiste nell’individuarci in base alle esigenze del potere, l’altra che consiste nel fissare ogni individuo a una identità saputa e conosciuta, determinata una volta per tutte” […] Esiste dunque un divenire pagliaccio che consiste nel tracciare delle linee di fuga tali da raggiungere il fuori del pensiero, luogo da cui poter attingere nuove forme, nuovi colori, nuovi significati al fine di ricreare il dentro. Le linee di fuga possono essere intese come “il bordo estremo di un dispositivo”, come linee che segnano “il passaggio da un dispositivo all’altro, preparando così le linee di frattura” […] ovvero come linee che transitano per uno spazio liminale […] In questa prospettiva la clown-poiesi può essere vista come una deterritorializzazione che intraprende una linea di fuga dal territorio del pensiero capitalista neoliberale» (pp. 217-218)

Sia gli esiti dell’uscita dai costumi di cui parla Remotti (“uscire dal solco”, liberarsi dalla parete delle significazioni dominanti e dal buco nero dell’Io) che quelli deleuziani derivati dalla creazione di linee di fuga, risultano potenzialmente rivoluzionari nei confronti dell’ordine costituito. Queste due prospettive, secondo Nivolo, hanno in comune la questione del “nomadismo” e per approfondire il concetto di nomadismo nel clown, il saggio riprende gli studi di Paul Bouissac (Semiotics at the Circus) che ricordano come la nascita del circo abbia a che fare con esigenze di sopravvivenza delle minoranze etniche escluse dai commerci urbani e, nonostante il processo di “istituzionalizzazione” a cui è sottoposto il circo, esistono ancora famiglie circensi nomadi che, grazie a ciò, sono in grado di accumulare un sapere antropologico sulle diverse culture con cui vengono di volta in volta a contatto. La questione del nomadismo consente così di mettere a confronto le due principali prospettive teoretiche utilizzate in questo saggio per analizzare la figura del clown al fine di proporre un’antropologia rizomatica. Attraverso Remotti il clown è stato descritto «come colui che esce dai propri confini culturali ed attinge al senso delle possibilità lì presente proponendosi, di conseguenza, come mediatore tra ordine e disordine, tra dentro e fuori» ed attraverso Deleuze e Guattari, il pagliaccio è stato definito come «un soggetto in grado di crearsi una linea di fuga che gli consente di mantenersi in un costante stato di deterritorializzazione» (p. 222). Si sono così avvicinate «l’antropologia trasversale elaborata da Remotti con i suoi concetti reticolari e le somiglianze di famiglia e la schizoanalisi ideata da Deleuze e Guattari, caratterizzata dal concetto di rizoma» (p. 222). È attraverso questo confronto che Nivolo giunge a proporre la sua idea di antropologia rizomatica.


Linee di fuga: serie completa

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Messico Invisibile: Orme della Memoria per i Desaparecidos https://www.carmillaonline.com/2016/07/05/messico-invisibile-orme-della-memoria-per-i-desaparecidos/ Mon, 04 Jul 2016 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31713 di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di [...]]]> di Fabrizio Lorusso

orme della memoria huellas messico italia[A questo link invito a seguire il progetto Orme della Memoria e il cammino della mostra, che sarà in Italia da aprile 2017 (Firenze 18-23 aprile, Roma 19-30 aprile, Verona 1-15 maggio, Venezia 16-30 maggio, Torino 1-12 giugno, Padova 15-30 giugno), dedicata agli oltre 30mila desparecidos in Messico. A fine post e come giusta conclusione segnalo il trailer dell’ottimo documentario Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Il testo seguente è estratto dal libro di Fabrizio Lorusso, Messico Invisibile: Voci e Pensieri dall’Ombelico della Luna**, prologo di Alessandra Riccio, Ed. Arcoiris, 2016, € 15, pp. 356]

Mezza primavera 2016. Il laboratorio di Alfredo López Casanova, attivista e scultore messicano, è un piccolo museo con opere e narrazioni che catturano il visitatore. Siamo nel cuore antico di Città del Messico, dove il frastuono delle strade trafficate trova pace e, smorzato negli androni e nei patii interni delle case di ringhiera, diventa silenzio. Qui la memoria può lasciare le sue tracce. Il progetto Orme della Memoria è nato in questo spazio nei suoi aspetti materiali, ma spiritualmente è sorto ed è cresciuto per le strade, nelle dimore, nei cortei e nelle famiglie che sono testimoni delle sparizioni forzate in Messico.

DSC_0726 mejor (Small)La maggior parte dei casi di desaparición è legata a qualche tipo di omissione, azione o complicità commessa dalle autorità. Secondo i dati ufficiali sono più di 27.000 le persone scomparse nel Paese e oltre 150.000 i morti attribuibili al conflitto interno dell’ultimo decennio. Solo nel governo di Peña Nieto, tra il dicembre 2012 e il marzo 2016, si contano più di 60.000 omicidi. Si tratta di un fenomeno di violenza esplosivo e complesso che comprende ed eccede la cosiddetta “guerra alle droghe” o “narcoguerra”, dichiarata dall’allora presidente Felipe Calderón nel 2006. In realtà la strage dei morti ammazzati, dei femminicidi e dei desaparecidos, siano essi messicani, centro o sudamericani, rispecchia molteplici tensioni sociali, disuguaglianze e problematiche irrisolvibili nel breve periodo, anche perché frutto di un modello economico e sociale escludente e traumatico. Un modello di stato minimo, anzi infimo, e nettamente business oriented, che nel contesto messicano e latinoamericano crea il terreno ideale per il proliferare delle “imprese criminali” regionali e globali.

Le scarpe di chi cerca i propri cari desaparecidos possono trasformarsi in messaggeri di speranza e di denunce. Per questo Alfredo, che concepisce l’incisione e l’arte come mezzi per il cambiamento sociale, s’è dedicato a incidere sulle suole delle loro scarpe i nomi, i ricordi e le date di chi è scomparso e a stampare su carta le loro orme. Il progetto, concepito per diventare collettivo e itinerante, comincia a girare il Messico e, si spera, il mondo nel mese di maggio 2016. Settanta paia di scarpe riempiono il Museo della Memoria Indomita nel centro della capitale messicano e si preparano per un lungo viaggio.

Com’è nato il progetto “Orme della Memoria”?

Dal contatto con le famiglie dei desaparecidos. Da alcuni anni seguo alcune famiglie, ancora prima che nascesse il Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia, nel 2011. Proprio nel mezzo di questa sterile, fottuta e non pianificata guerra iniziata da Felipe Calderón, che forse era vincolato a un gruppo per sconfiggerne un altro.

DSC_0823 (2) nivel (Small)Il 10 maggio 2010 ho partecipato al corteo annuale del 10 maggio, Festa o Giorno della Mamma, che è un corteo nazionale molto importante in cui convergono a Città del Messico i familiari dei desaparecidos di tutto il Paese. Faceva un caldo tremendo, stavamo camminando e mi sono messo a pensare a come risuonavano i passi delle persone. Si sentivano slogan e canzoni, alternati ai silenzi. Ed era quando i passi si sentivano di più. C’erano gruppi organizzati e gente sola, tutti con dei desaparecidos da rivendicare. Ho pensato allora a tutte queste scarpe che fuggono e che registrano tutto il contenuto di chi le porta, denuncia e non si stanca di cercare i propri cari. Ho iniziato a osservare la parte posteriore delle loro scarpe che è sempre molto consumata e ho visto che le scarpe erano elementi dell’identità delle persone e della loro regione di provenienza: da Tijuana a Guerrero, da Oaxaca a Monterrey, l’unica cosa che hanno in comune è il dramma della sparizione forzata.

Cosa hai fatto dopo?

Dovevo parlarne con qualcuno di fiducia e mi sono rivolto a Lety Hidalgo affinché mi prestasse delle scarpe vecchie che non usava. Lei è di Monterrey e cerca suo figlio Roy. Mi ha dato le scarpe, ora le apprezzo molto, con affetto. Quindi ho elaborato io un testo perché conosco il caso. L’idea era di mettere su una scarpa i dati della persona, per esempio: “Io mi chiamo Lety Hidalgo e cerco mio figlio”. Sull’altra dice: “Roy è stato fatto sparire l’11 gennaio 2011”. Nello specifico è stato tecnicamente difficile incidere sul materiale di queste scarpe, quindi alla fine ho deciso di aggiungere linoleum e la scritta è venuta in rilievo e così l’ho stampata su un foglio.

Dopo mi sono arrivate le scarpe di Luz Helena Montalvo, del Coahuila. Al loro interno c’era una lettera indirizzata al suo figlio scomparso. Era la chiave. Ho preso una parte del testo, oltre ai dati di base, e l’ho incisa, poi ho chiesto a Luz Helena il permesso di caricare la stampa sulla pagina Facebook del progetto e da lì i contatti si sono moltiplicati. Hanno iniziato a scrivere perfino dal Cile, dall’Argentina, dall’Uruguay.

E dopo questa fase sperimentale?

A metà del 2014 mi sono arrivate altre scarpe su cui potevo incidere più facilmente, anche senza aggiungere linoleum. Facebook è servito a diffondere il progetto e la rete di relazioni s’è allargata anche grazie a gruppi organizzati come FUNDEC, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Coahuila, FUNDENL, Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Nuevo León, e altre. Non era ancora scoppiato il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa. Molti di questi gruppi sono stati legati al Movimento per la Pace di Javier Sicilia e grazie a questo siamo entrati in contatto. Mi sono accorto che per vari motivi ciascun familiare aveva messo via un paio di scarpe a cui era affezionato. Tere Vera è una di loro, cerca sua sorella Minerva che è scomparsa a Matías Romero, Oaxaca, il 29 aprile 2006, cioè molto prima della dichiarazione della cosiddetta “guerra al narcotraffico”. Lei camminava da sola, non c’era nessun movimento a cui unirsi.

DSC_0761 (2) (Small)Quindi non c’erano organizzazioni fino a poco tempo fa?

L’unico precedente che io ricordo di persone organizzate per la ricerca dei desaparecidos è Eureka, intorno alla figura di Rosario Ibarra de Piedra e quindi agli anni ‘70, e i gruppi del Guerrero, legati a quel periodo storico e alla figura di Tita Radilla, figlia di Rosendo Radilla Pacheco, vittima di sequestro politico per cui il Messico è stato condannato internazionalmente.

Ma c’è molta gente che ha casi in famiglia e non è vincolata a nessun gruppo, non sa cosa fare e allora parte da sola nella ricerche. Tere con queste scarpe che ho qui e che ha consumato, cucito e ricucito fino a non poterne più, ha camminato per tutto lo stato di Veracruz e Oaxaca da sola, fermandosi a dormire in casa di sconosciuti, nelle chiese o dovunque potesse per cercare sua sorella. Lei mi disse: “Guarda, avevo queste scarpe, non so perché dal 2006, te le do perché questo progetto ha molto a che vedere con esse”. E così potrei raccontarti altri casi. Qui ci sono quelle di Araceli Rodríguez che dice: “Guarda, ti consegno i miei stivali da carovana”, cioè quelli che hanno marciato nella carovana di Javier Sicilia nel Nord del Messico nel 2011. Anche María Rueda mi ha dato le sue scarpe della carovana, le chiamano così.

A che epoche si riferiscono le storie?

Il progetto non è limitato ad alcune date, ma ha camminato da solo e in questo camino ti trovi con persone con casi d’ogni epoca, anche degli anni ’70. Alejandra Cartagena è figlia di Leticia Galarza Campos, scomparsa a Città del Messico nel 1978. Era il periodo delle sparizioni forzate ai danni dei militanti del movimento guerrigliero Liga Comunista 23 de Septiembre.

Ci sono le scarpe di Celia. Suo marito è scomparso nel 1974 e io sapevo il suo nome: Jacob. Ma non sapevo un altro dettaglio finché lei non m’ha inviato uno scritto per inciderlo sulle suole in cui dice che lui era un maestro diplomato alla scuola normale di Ayotzinapa: “Mi chiamo Celia Piedra Hernández, cerco mio marito, Jacob Nájera Hernández, vittima di sparizione forzata a San Jerónimo de Juárez, Guerrero, dal 2 settembre 1974, maestro diplomato alla Normale di Ayotzinapa, con queste scarpe non smetterò di cercarti, ti amiamo con il cuore che è il motore della nostra ricerca”.

Chi scrive il testo per le suole?

Quando, all’inizio del progetto, mi arriva il testo di Luz Helena dentro una scarpa, capisco che lì c’è già tutto: l’oggetto o la scarpa e il contenuto da registrare che loro mi mandano e non elaboro io. Preferisco così, anche se è molto doloroso per loro scriverlo. Dunque questa è la prima lettera, dell’8 maggio 2014: “Sono Luz Helena Montalvo, madre dell’architetto Daniel Roberto Dávila Montalvo, scomparso il 23 giugno 2009 a Torreón, Coahuila, all’età di 27 anni. Daniel è padre di una bimba e un bimbo che lo aspettano con ansia, quando l’han portato via si sono portati via la vita, per noi non c’è nessun progetto di vita, non c’è allegria, per me che sono sua madre c’è solo il camminare, il cercare, cercarlo nella speranza di trovarlo e riportarlo a casa. Dany, continuo a cercarti, manchi ai tuoi genitori e fratelli, a tua moglie, ai tuoi figli, ai nonni, agli zii, ai cognati e ai cugini, ti rivogliamo con noi e ci manchi molto. Tua madre”.

C’è un tema centrale nelle lettere che ricevi?

Ci sono sempre tutti i dati delle persone, ma ho pensato che le lettere dovesse contenere anche qualcosa sul tema della ricerca e dell’incontro. Cosa ti dicono le parole ricerca e incontro? Questo chiedo loro e mi scrivono qualcosa. Ognuno si libera e mette quello che vuole, cose semplici o elaborate e intime.

“Io mi chiamoYolanda Oropeza, cerco il mio figlioletto Roberto Oropeza Villa che è scomparso a Piedras Negras, Coahuila, il 21 marzo 2009. Camminare per me è un respiro di speranza per poterlo trovare un giorno”. E’ un testo semplice e diretto, ma ce ne sono altri più complessi perché col tempo le famiglie costruiscono narrazioni diverse.

“Melchor Flores Landa, cerco mio figlio, Juan Melchor Flores Hernández, vittima di sparizione forzata. I fatti sono avvenuti a Monterrey il 25 febbraio 2009. Melchor, detto Cow-boy Galattico”, questa è la parte essenziale, ma poi continua emotivamente: “Figlio mio, ti cerco da 7 anni e non mi sono ancora stancato, continuerò a cercarti finché Dio me lo permetterà e le mi forze e il mio corpo resistano, ovunque tu sia ti mando tutto il mio amore di padre, ti amo e ho bisogno di te”.

Qual è la tua relazione con le persone che ti spediscono le loro lettere e le scarpe?

E’ molto importante per me, è un simbolo di fiducia, significa che il progetto vale la pena e che loro condividono qualcosa che fa molto male. Il progetto sta diventando collettivo e bisogna essere più rispettosi e attenti. Ho incontrato personalmente quasi tutti i proprietari delle scarpe e, quando non è stato possibile, me li hanno lasciati da qualche parte, ma cerco sempre di vederli e parlarci prima o poi. Quando ci troviamo mi parlano del loro caso e spesso scrivono il messaggio subito dopo. Meglio avere una relazione personale. Per esempio c’è una lettera con foto che viene dalla frontiera nord, da Mexicali. Un’amica me l’ha consegnata e non li ho conosciuti direttamente: “Pierre Meza López, scomparso il 14 agosto 2006 a Mexicali. Seguirò sempre le tue orme fino a trovarti, fino alla fine del mondo, mi manchi molto, ho molto bisogno di te, ti amerò sempre, tua mamma Imelda”. Quello che resta inciso alla fine sono i dati essenziali e poi una parte più personale, emotiva, che si prende dalla lettera o che quasi sempre riguarda la ricerca e l’incontro, anche se non sempre gli suggerisco io queste parole. Ma queste finiscono per apparire, in un modo o nell’altro, e la speranza di trovarli è costante.

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DSC_0815 (2) nivel (Small)Priscila ha un fratello, Juan Chávez, scomparso l’8 settembre 1978: “Sono Priscila Chávez e cerco mio fratello. Sopportando e pellegrinando, stanca di tanto camminare per un fratello che tanto amo, continuerà sempre a lottare fino a trovarlo insieme agli oltre 500 desaparecidos”. Lei sta citando la cifra che si conosceva ai tempi della guerra sucia [guerra sporca dello Stato e dei militari contro i movimenti di protesta, guerriglieri e sociali in generale]. Ci sono varie persone che scrivono e dicono che stanno cercando tutti gli altri, non solo i loro cari. A volte, parlando delle scarpe, ho chiesto ai genitori se qualcosa era cambiato in loro a partire dalla scomparsa di loro figlio. Vari dicono di sì, perché hanno camminato tantissimo nei cortei, nelle procure, nei ministeri, nelle fosse e nelle ricerche. E hanno cambiato il loro modo di vestire, per cui portano scarpe più comode, con le suole resistenti e flessibili, per andare avanti a camminare.

Com’è nato il nome “Orme della Memoria”?

E’ stato facile perché qui ci sono memorie, scarpe, incisioni, prove di fatti, passi e orme, e allora così siamo arrivati al titolo.

In che lingue è tradotta la página Facebook?

All’inizio facevo una foto e riproducevo il testo, coi dati e le frasi die familiari, delle scarpe su una pagina Facebook in spagnolo più o meno una volta alla settimana. Strada facendo ho conosciuto una studentessa inglese che faceva la tesi su questo tema e s’è offerta di tradurre in inglese la pagina. Altri amici qui in Messico hanno fatto lo stesso per l’italiano. Poi sono nate le pagine in tedesco e in giapponese, data una forte relazione che mantengo con i collettivi “Bordamos por la Paz” (Tessiamo per la Pace). Loro hanno un collettivo in Giappone. Stesso discorso per la versione francese, c’è un’amica che collabora dal Québec. L’idea è che ci sia un impatto fuori dal Messico.

Per ora le orme sono verdi, ma in futuro di che altri colori le farete?

Nel progetto Bordamos por la Paz abbiamo cominciato a tessere in rosso per raffigurare tutti gli omicidi che ci sono nel Paese. Poi, sul tema dei desaparecidos, i familiari hanno preferito il verde che simboleggia la speranza di ritrovarli vivi. Il verde s’è consolidato e molti gruppi l’hanno adottato. Comunque ci saranno due altri colori. Il nero nasce perché arrivano scarpe relative a casi particolari, come questo: “Io sono María Helena, mamma di José Saúl Ugalde Vega, desaparecido il 14 settembre 2015 a Queretaro. Con queste scarpe sono andata fuori a cercarti tutti i giorni, sono stati giorni disperati, senza dormire e mangiare, sperando di trovarti. Il 4 dicembre 2015 hanno trovato i tuoi resti, ti amo figlio e non ti dimenticheremo mai”. Come segnale di lutto dobbiamo inciderli in nero. Può essere perché sono stati ritrovati i resti della persona o i membri della famiglia che i occupavano delle ricerche sono morti. Alcuni a volte muoiono cercando, s’ammalano, perché quando avviene la sparizione davvero solo loro sanno quanto forte è il dolore, l’ansia e la disperazione. Questo causa malattie. Useremo anche il rosso perché molti di quelli che seguono le ricerche sono stati assassinati, come nel caso di Nepo, Nepomuceno Moreno. Lui aveva detto in faccia all’ex presidente Calderón, una settimana prima che lo ammazzassero, che aveva ricevuto minacce perché cercava suo figlio. A Calderón non fregò nulla e Nepo fu assassinato. Qui ho 5 o 6 casi di familiari che sono finiti così per aver continuato le ricerche.

Ci sono altri casi che puoi condividere?

Ho conosciuto Lucía Vaca, moglie di Alfonso Moreno, al corteo nazionale del maggio 2014. Avevamo amici in comune. Alfonso mi ha parlato del caso di loro figlio, Alejandro, e mi ha dato un paio di scarpe per il progetto, le prime da uomo. Il secondo paio è stato quello di don Margarito, che mi ha dato i suoi sandali. Sono stato ad Ayotzinapa, ci siamo conosciuti perché eravamo seduti vicini sull’autobus e mi ha detto di avere le scarpe che ha usato quando, insieme agli altri genitori dei 43 studenti scomparsi, è andato a cercarli fuori dalla città di Iguala. E fu quella volta che rinvennero molti altri corpi e fosse clandestine, per cui nacque il movimento degli Altri Desaparecidos de Iguala (Los Otros Desaparecidos de Iguala). Molti di loro, nella maggior parte dei casi, posseggono solo le scarpe che portano. Il mese dopo ci siamo visti in manifestazione a Città del Messico e abbiamo fatto uno scambio di scarpe: gli ho dato dei sandali nuovi in cambio dei suoi vecchi. Ora hanno questo testo stampato: “Io Margarito Ramírez cerco mio figlio che si chiama Carlos Iván Ramírez Villareal, studente della normale di Ayotzinapa. Lo hanno fatto sparire i poliziotti, insieme a 42 dei suoi compagni, a Iguala, il 26 settembre 2014”.

Allora qui c’è tutto il Paese, raccolto nelle scarpe delle famiglie che sono alla ricerca dei loro cari, perché ho paia che vengono da Tijuana e dal Guerrero, da Oaxaca e dal Chiapas. E’ sintomatico che ne arrivino di più dai luoghi in cui il conflitto è più presente, ci sono tantissime scarpe del Tamaulipas, di Tijuana o di Veracruz e del Guerrero. E’ un termometro del conflitto.

Ne arrivano dall’estero?

Al riguardo è successo qualcosa d’imprevisto. Così come ne sono arrivate del periodo della guerra sporca in Messico, ne hanno mandate alcune dall’Argentina. Ne ho un paio di un bambino, Camilo, figlio di Paula Mónaco, che ha 5 anni e ha cominciato a chiedere insistentemente dove erano i suoi nonni. Paula le ha cominciato a spiegare. Sai, là le famiglie non nascondono le cose e cercano un modo di spiegare. Lei ha detto al bambino che li stavano ancora cercando. I genitori di Paula sono spariti durante la dittatura. Le scarpe dicono: “Mi chiamo Camilo Tovar Mónaco, cerco i miei nonni, Esther Felipe y Luis Carlos Mónaco, sono scomparsi a Villa María, Córdoba, Argentina, l’11 gennaio 1978. Io chiedo a mia mamma, Paula, quando troveremo i suoi genitori. Lei dice che non lo sa, ma che continueremo a cercarli. Quando torneranno, correrò ad abbracciarli perché sono i miei nonni”.

Poi mi sono arrivate due paia dal Guatemala e due dall’Honduras. Le reti sociali aiutano molto. E’ venuta una compagna dell’associazione Hijos México e ha portato delle scarpe del periodo della guerra degli anni ’80 in Guatemala. Ho fatto un intercambio anche con una mamma durante la Carovana delle Madri Centroamericane che è passata dal Messico recentemente e altre mi sono arrivate da Ana Enamorado, una signora dell’Honduras che è rimasta in Messico per cercare suo figlio, desaparecido nello stato del Jalisco. Forse ne manderanno altre da El Salvador e dalla Colombia. Si chiude una fase e la prima esposizione è per il 9 maggio al Museo de la Memoria Indómita di Città del Messico.

Come proseguirà il progetto?

In futuro dovrà essere aperto e collettivo, non importa chi farà le incisioni e il resto. Ora è finita la fase sperimentale e tecnica. Da solo non potrei continuare. Per adesso è già collettivo nella misura in cui esistono 5 pagine-specchio tradotte in varie lingue e varie persone che ci si dedicano. Poi alcuni compagni in Messico si sono fatti coinvolgere in vari modi ed è così, necessariamente, che potremo procedere a creare maggiore visibilità sulla sparizione forzata in Messico.

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In che senso?

Stiamo sperimentando il ritorno di uno stato di terrore, di uno Stato repressore e di una strategia mediatica, specialmente delle TV, che influisce sull’elezione di un presidente e instaura una visione idilliaca del Paese. La paura è stata impiantata nella società e fa sì che la maggior parte della gente entri in una fase di negazione, cioè che neghi quello che succede qui e, quando poi gli succede qualcosa, solo allora arriva la botta. E dunque s’impedisce che, in una situazione così drammatiche come questa, con oltre 30.000 desaparecidos e 150.000 morti, la gente si mobiliti e protesti. Se sono trentamila i desaparecidos, dovresti avere là fuori per le strade a manifestare, fisse, a dir poco 30 o 60mila persone, una o due per ogni famiglia con vittime. E invece non è così, non ci si mobilita. I gruppi di familiari fanno quello che possono, cercano almeno di unirsi a livello nazionale per avere più forza, soprattutto per quanto concerne l’iniziativa di Legge sulla Sparizione Forzata che si discute in parlamento. Un paese come questo non ha una legislazione adeguata su questa materia ed è un’altra tragedia…

DSC_0829 (Small)Infatti, si susseguono le condanne internazionali contro il Messico per il disprezzo imperante dei diritti umani. Si fanno addirittura in leggi come quella appena approvata nel Estado de México, detta Ley Atenco o Ley Eruviel (dal nome del governatore Eruviel Ávila), che ampliano molto le facoltà della polizia, anche senza previa consultazione del potere politico, nell’uso della “forza letale” contro i manifestanti. Oppure c’è il caso dell’approvazione del regolamento dell’articolo 29 della Costituzione che dà al presidente più possibilità di decretare lo “stato d’eccezione” e la sospensione delle garanzie individuali, anche in presenza di presunte emergenze economico-sociali.

Ciò conferma che si va all’indietro, verso uno Stato più autoritario. E stiamo parlando di un Paese con un narco-governo, dobbiamo dirlo chiaramente. Una gran quantità di desaparecidos, come successe nel caso emblematico dei 43 di Ayotzinapa ma anche in tanti altri in Messico, sono presi e consegnati ai narcotrafficanti da diversi corpi della polizia, includendo i federali e i militari. Lì c’è una situazione per cui non sai dove comincia la relazione di complicità tra narcos e governo. Stiamo vedendo un deterioramento tale da poter parlare di un narco-governo.

Perché vengono fatti sparire?

E’ molto assurdo. Molti casi sono assurdi. Tere Vera cerca sua sorella che era andata a tagliarsi i capelli e non è più tornata. Non chiedono soldi né riscatti alla famiglia. Al figlio di Lety l’hanno costretto a uscire di casa a mezzanotte, poco prima d’andare a dormire. Arriva la polizia, o personaggi vestiti da poliziotti, di nero, lo prendono per portarlo in questura e perché, dicono, hanno bisogno d’informazioni, ma poi non si sa niente di lui, sparito. Il marito di Ixchel nello stato del Coahuila. Vanno a prenderselo all’alba, gli dicono che vogliono precisazioni su un caso qualunque e non fa più ritorno a casa. Con i ragazzi di Ayotzinapa abbiamo visto un altro caso di coinvolgimento diretto delle autorità.

Ci sono tante ipotesi. Nel caso del figlio di Alfonso Moreno, per esempio, lui è un tecnico delle telecomunicazioni. Ci sono casi di ingegneri e altri professionisti che sono rapiti e quindi si crede che i narcos li sta usando per e comunicazioni, la costruzioni di tunnel e altre questioni tecniche. Ma in altri casi pare non ci sia logica, è l’assurdo.

I casi degli anni ’70 ricadevano nella logica del nemico politico che bisognava annichilire. Questi esistono anche oggi. Per esempio il “Tio”, Teodulfo Torres Soriano, un attivista che nel giorno dell’insediamento del presidente Peña Nieto si trova affianco a Juan Francisco Kuykendall. E’ il primo dicembre 2012. Il Tío filma, nei pressi del palazzo del Parlamento, come un proiettile di gomma viene sparato dalla polizia e rompe la scatola cranica di Kuykendall. Questo di vede, si vede il proiettile sparato, soprattutto se si congela il fotogramma. E’ quindi una documento di prima mano della repressione e della responsabilità della polizia federale nell’accaduto. Il ferito fu portato in ospedale e rimase in coma per un anno. Il Tío è un testimone oculare e viene fatto sparire. E’ una desaparición politica simile a quelle di 40 anni fa, perché Teodulfo aveva in mano un’informazione precisa e chiara di un abuso indiscutibile della polizia. La PGR, la procura o Procuraduría General de la República, ha chiesto il video al Tío e gli ha dato 5 giorni per consegnarlo. Ma in questi pochi giorni ecco che Teodulfo sparisce. Per fortuna è riuscito a dare il video ad altre persone o oggi possiamo vederlo su internet. L’evidenza mostra che sono stati apparati dello Stato a farlo sparire, non si vede nessun’altra spiegazione. E’ il primo desaparecido politico del governo di Enrique Peña Nieto. L’80% dei desaparecidos non aveva nessuna affiliazione politica, non sono militante di nessuna organizzazione. Sono professionisti o lavoratori senza appartenenze specifiche, come Alejandro Moreno, il figlio di Alfonso. Ma capiamo anche che spariscono perché c’è una strategia di spopolamento forzato di molte regioni in cui ci sono acqua, risorse naturali o minerarie. Questa è un’altra ipotesi, ma in fin dei conti pare evidente perché è vero che si registrano spopolamenti e spoliazioni come in una guerra di sterminio.

Puoi spiegarlo meglio?

DSC_0754 nivel (Small)Ci sono persone che a partire dal loro caso individuale hanno compreso che si tratta di un problema strutturale e, quando affrontano il tema, cominciano a parlare alla prima persona plurale, come un collettivo, e non più in prima persona. Ed è proprio per segnalare che tutte le vittime del Paese sono di ognuno di noi. Se noi sovrapponiamo la mappa geografica del Paese con le regioni dove ci sono più desaparecidos, vedremo che stiamo assistendo alla fase più acuto di saccheggio d’argento dall’epoca coloniale e, quando non sono le risorse naturali, sono i centri di resistenza come Atenco, il Chiapas o Oaxaca a catalizzare l’attenzione. Cioè, dove ci sono zone in resistenza sociale, questa deve essere debilitata, e dove ci sono risorse naturali, per esempio lo shale gas, bisogna spopolare, sfollare. Quindi, come si fa? Instaurando uno stato del terrore con la sparizione forzata, cioè una strategia perversa, peggiore dell’assassinio o della prigione.

Che esempi hai trovato al riguardo?

Ne ho uno del gruppo de Los Otros Desaparecidos de Iguala. “Mi chiamo Mario Vergara, cerco mio fratello Tomás, è stato sequestrato e fatto scomparire a Huitzuco, in Guerrero, il 5 luglio 2012. Ho imparato a cercare in fosse clandestine, ma chiedo a Dio di non farmi incontrare mio fratello in un orribile buco, cammino anche per ritrovarlo vivo”. E di un familiare di un ragazzo di Ayotzinapa. “Sono Margarita Zacarías, mamma di Miguel Ángel Mendoza Zacarías, studente della normale di Ayotzinapa, in Guerrero, è scomparso il 26 settembre a Iguala, insieme a 42 dei suoi compagni. Figlio mio, voglio dirti che ho camminato tanto cercandoti e non ce l’ho fatta, ma voglio che tu sappia che non riposerò fino ad ottenerlo, anche se dovesse costarmi la vita”.

Di una madre honduregna che sta qui in Messico: “Sono Priscila Rodríguez Cartagena, vengo dall’Honduras camminando fino al Messico, cercando mia figlia, e seguirò le orme fino a trovarla. Yesenia Marlén Gaitán è sparita il 10 febbraio a Nuevo Laredo, in Tamaulipas, quando si dirigeva verso gli Stati Uniti”.

Una è del gruppo Hijos México. E’ stato difficile incidere, la scarpa è arrivata tutta rotta. E’ del periodo della guerra sporca, lei non ha conosciuto suo padre, perché è scomparso quando sua mamma era incinta: “Sono figlia di Rafael Ramírez Duarte, desaparecido politico dal giugno del 1977. Seguire le tue orme è voler toccare i tuoi piedi coi miei, come il gioco della tana dei conigli tiepida che c’hanno rubato, papà, Tania”.

Ci sono bambini che ti inviano le loro scarpe?

Sì. Una frase di un bimbo riflette tenerezza e semplicità e dice molto di una regione, per esempio il Michoacán, che sta al centro della narcoguerra. “Sono Leonel Orozco García, ho 8 anni. Mio papà Moisés Orozco è stato catturato-fatto sparire il 22 maggio 2012 ad Apatzingán, in Michoacán. Cerco mio papà per trovarlo perché è mio papà, e gli vogliamo tanto bene”.

Un altro bambino è figlio di uno studente di Ayotzinapa. “Io mi chiamo José Ángel Abraham de la Cruz, ho 9 anni e sto cercando mio papà, Adán Abraham, studente della normale di Ayotzinapa, desaparecido il 26 settembre 2014 a Iguala, in Guerrero. Per questo mi trovo ora qui a Città del Messico, esigendo la presentazione con vita di mio papà e dei suoi 42 compagni”. Miguelito non aveva altro che queste scarpe e, siccome è cresciuto e non ha niente di niente, le scarpe ormai gli andavano strette. Ho chiesto permesso a suo fratello e a sua zia, lo abbiamo portato a comprare delle scarpe nuove. Tanto ai genitori dei 43 come agli altri desaparecidos che non hanno niente di più di quello che portano addosso io chiedo le scarpe per fare uno scambio e gli consegno un paio nuovo.

Quante scarpe hai inciso fino ad ora?

Abbiamo circa 70 paia di scarpe, ma ne stanno arrivando altre. Saranno esposte qui a Città del Messico per un po’ e poi si sposteranno secondo un percorso logico, verso nord, ma anche dove la gente e i gruppi organizzati vorranno. Potrebbero arrivare all’estero, negli USA e in altri posti, perché l’idea è di denunciare la situazione. Mi sono arrivate le scarpe di un familiare di quello che è noto come il primo desaparecido del Paese nel 1969, che era legato alla guerriglia di Genaro Vázquez. Da lì si arriva fino ad oggi con un paio di scarpe che è del 2015. Se mi inviano una scarpa di una moglie che cerca un marito o un figlio che magari è un militare, non lo scarto. Non escludo nulla, perché l’idea è mostrare l’intero paese, per cui le ragioni delle sparizioni sono molteplici in tanti luoghi diversi.

Allora abbiamo incluso il figlio di Araceli Rodríguez, che è della Polizia Federale, o il papà di Nadim Reyes, Edmundo, che è rivendicato come militante desaparecido dall’EPR (Ejército Popular Revolucionario, gruppo guerrigliero dello stato di Guerrero). C’è di tutto, è il Paese: scompaiono militanti politici e contadini, studenti e perfino soldati o poliziotti, e non mi hanno ancora mandato il caso di un giornalista, ma ce ne sono. E’ una gran tragedia. Sono donne sole, figli orfani e tutta una strategia di Stato che rappresenta un filo conduttore. Per esempio nel caso di Araceli Rodríguez c’è una denuncia e un’ipotesi chiara secondo cui i capi della polizia federale hanno mandato suo figlio, Luis Ángel León Rodríguez, con altri cinque e un autista a occupare una cittadina. Che è successo lì? E’ il novembre 2009. Li mandano a un paesino in un giorno di riposo, non lavorativo, in un’automobile non di servizio, che è stata chiesta a terzi e non è della polizia, senza armi né uniformi. E così gli danno l’ordine di occupare il paesino. Poi tutti spariscono. Quello che sta succedendo è un disastro, una guerra non detta. Se paragoni cosi come l’Afghanistan o l’Iraq o altri ancora vedrai che qui ci sono bilanci peggiori, in un Paese che teoricamente non è in guerra.

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Userai anche altri oggetti?

Per Orme della Memoria non ho voluto le scarpe dei desaparecidos perché già è stato fatto molto con gli oggetti dei desaparecidos e mi interessa la parte vitale, la parte di chi cerca, di chi più ha indagato e di chi sta lavorando in questo periodo alla Legge sulle sparizioni forzate. Chi farà uscire questo paese dal disastro sono i familiari perché vogliono cercare i loro figli e stanno scoprendo le ragioni del deterioramento, quindi vogliono denunciare e cambiare il Paese. Lo spirito collettivo del progetto può potenziarlo affinché non si centri su una persona sola e prosegua indefinitamente.


** Cos’è Messico Invisibile?

Il libro riunisce reportage, interviste e saggi sul Messico attuale che è diventato il centro dei traffici degli stupefacenti consumati negli Stati Uniti e in Europa: marijuana, cocaina, eroina, metanfetamine. In 10 anni la “guerra alle droghe” ha fatto oltre 150mila morti, 30mila desaparecidos e migliaia di femminicidi nel Paese. La crisi dei diritti umani colpisce specialmente giornalisti e attivisti che lavorano sotto minaccia del crimine organizzato, spesso indistinguibile dalle autorità. Messico invisibile spiega l’evoluzione dei narco-cartelli, le vicende del boss Joaquín “El Chapo” Guzmán e il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa, sequestrati da poliziotti e narcos a Iguala la notte del 26 settembre 2014 e, ad oggi, ancora desaparecidos. L’autore dà spazio a storie silenziate, invisibili, come quelle delle donne della prima casa di riposo al mondo per ex prostitute o di chi s’organizza per cercare i propri cari desaparecidos, e critica le narrazioni tossiche sui “cervelli in fuga” e sul neoliberalismo, il sistema culturale ed economico che fa da cornice alla conflitto messicano. Nuovi studi sul culto popolare della Santa Muerte, sugli italiani all’estero e sui legami tra l’amianto e il “filantrocapitalismo” in America Latina completano il testo. Alla fine di ogni capitolo sono raccolte le voci, con interviste a Don Ciotti, fondatore di Libera, Alfredo López Casanova, ideatore di Orme della Memoria per i desaparecidos, agli scrittori Alberto Prunetti, Pino Cacucci e Roberto Saviano, al difensore dei diritti umani Francisco Cerezo, al pittore partigiano Luciano Valentinotti e a Xitlali Miranda, coordinatrice delle ricerche degli Altri Desaparecidos di Iguala. Segnalo presentazione del libro il 7 luglio alle 19:30 presso l’ex OPG occupato Je so’ pazzo a Napoli.


Di seguito il trailer del documentario (presto disponibile per varie proiezioni in Italia) Cielito rebelde: Voci del Messico resistente di Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri. Seguitene i passi! FaceBook Link 

Un viaggio nel Messico che resiste al neoliberismo. Voci da una terra in cui Non ci si rassegna, dove immaginare un mondo che include altri mondi non è un semplice slogan ma una reale e costante pratica quotidiana. Abbiamo iniziato a pensare in collettivo, a immaginare un progetto. La forma che abbiamo scelto è quella del film documentario. Una serie di interviste che possano rendere diversi sguardi sul Messico e sulle lotte che lo animano. Negli stati che abbiamo attraversato siamo entrati in contatto con diversi attivisti e militanti di organizzazioni radicali e anticapitaliste, cercando di cogliere il comune sentire che vive intorno al “discorso rivoluzionario” nel Messico di oggi. Parlando di capitalismo e resistenze, di collettività e autonomia, abbiamo imparato che, nonostante tutto, pensare un futuro rivoluzionario e agire in un presente tanto complesso può essere una pratica quotidiana. Abbiamo visto come si possa parlare di tutto ciò con una semplicità disarmante. La stessa semplicità con la quale da ormai più di vent’anni dei contadini, in Chiapas, tengono testa agli attacchi del governo, costruiscono il proprio mondo sottraendolo al capitalismo e ci regalano ogni giorno un motivo di speranza.

Un film di: Claudio Carbone, Antonio Gori, Massimiliano Lanza, Leonardo Balestri.
Fotografia di: Claudio Carbone
Disegni di: Mario Berillo
Montaggio di: Leonardo Botta
Musiche di: Moover
con la collaborazione di Kairos elementikairos.org
Pagina Facebook: facebook.com/Cielito-Rebelde-Voci-del-Messico-resistente-493029287533380/timeline
Sito: cielitorebelde.org
Trailer: vimeo.com/151901240

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NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga https://www.carmillaonline.com/2015/06/03/narcoguerra-cronache-dal-messico-dei-cartelli-della-droga/ Tue, 02 Jun 2015 22:46:51 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23057 di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può [...]]]> di Pino Cacucci

Copertina NarcoGuerra Fronte (Small)[Prologo del libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra. cronache del Messico dei cartelli della droga, Odoya, Bologna, 2015, pp. 416, € 20 (€ 15 Sito Web Odoya)]

Secondo un vecchio detto che i messicani amano ripetere, “como México no hay dos”. Per molti versi è vero, che il Messico è unico e irripetibile. Ma la realtà odierna dimostra purtroppo che il paese è anche schizofrenicamente sdoppiato: esistono due Messico. Perché qualsiasi viaggiatore, viandante o lieto turista affascinato dalla sua incommensurabile bellezza, può tranquillamente attraversarne migliaia di chilometri senza mai percepire un clima di violenza sanguinaria. Eppure… esiste anche l’altro Messico, quello che Fabrizio Lorusso sviscera nei suoi reportage, nei suoi approfondimenti giornalistici, nei racconti di vita quotidiana. E lo fa con esemplare giornalismo narrativo, che attualmente è l’unica fonte di informazione attendibile, non essendo schiava di una gabbia ristretta di “battute” né di censure, o meglio di autocensure, perché tutti, quando scriviamo per una certa testata, abbiamo in mente che questa ha un preciso proprietario e quindi certi limiti ce li mettiamo da soli, prima ancora che vengano imposti. Ovviamente, il giornalismo narrativo non può che trovare spazio in un libro, che poi faticherà non poco a trovare uno spazio nell’editoria. Oppure – come è il caso di alcuni di questi scritti – lo spazio se lo prendono su internet, l’universo che ci illude di essere liberi di esprimere qualsiasi opinione: peccato che, siamo sinceri, finiamo per leggerci l’un l’altro, cioè tra quanti una certa sensibilità già ce l’hanno, senza scalfire la cosiddetta “informazione di massa”, che altro non è se non disinformazione massificata.

Esiste, dunque, anche l’altro Messico, dei corpi appesi ai cavalcavia, delle teste mozzate e infilate sui pali, dell’orrore che ormai viene acriticamente ascritto ai “narcos” quando nessuno capisce più se siano effettivamente i ben armati e ben entrenados Zetas (in maggioranza ex militari di reparti speciali e mercenari centro e sudamericani con master in centri di addestramento di Usa e Israele), o se si tratti di squadroni della morte, milizie di latifondisti, regolamenti di conti d’ogni sorta, ed eliminazione spiccia di oppositori sociali.

E questa è anche la mia schizofrenia, perché…

Il Messico è dove torno ogni anno per qualche mese e dove vorrei concludere i miei giorni, e se, dopo averci vissuto per anni tanto tempo fa, continuo questo incessante andirivieni, forse è per un inconfessabile timore dell’abitudine: ovunque vivi per troppo tempo, finisci per vederne solo i difetti e non più i pregi. Io vado e vengo perché, come un vampiro, continuo a succhiarne gli aspetti migliori. Troppo comodo, lo so. Ma è così. Amo talmente il Messico, da impedirmi di trasformarlo in una consuetudine, in una routine quotidiana che ne assopirebbe le emozioni: è un po’ come con le droghe, l’assuefazione ti priva di rinnovare la sensazione inebriante della prima volta. Meglio rinnovare la crisi di astinenza – chiamiamola struggente nostalgia – che assuefarsi, svilendo quel miscuglio di energie rinnovate e sensazioni ineguagliabili che mi dà ogni volta che ci torno. Se non tornassi ma rimanessi per “sempre”, temo che l’abitudine spegnerebbe tutto.

Odoya Bandiera messicana coca proiettiliE chiarisco: la semplificazione di “pregi e difetti” è improponibile, proprio perché semplifica l’immane complessità della situazione. Difetti: non si può relegare a questo vocabolo l’orrore dei morti ammazzati. Pregi: quei milioni di messicani che in ogni istante ti dimostrano quanto siano diversi dall’orrore, con la loro sensibilità, creatività, ribellione, resistenza… dignità. La cronaca, purtroppo, privilegia gli orribili e trascura i dignitosi.

Leggendo i coraggiosi scritti di Fabrizio Lorusso (coraggiosi per il semplice e spietato fatto che lui, lì, ci vive e si espone alle eventuali conseguenze) riconosco me stesso come ero trent’anni fa: lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi… E in fin dei conti, oggi, mi appare come un’illusione, il tentativo di informare gli altri sulla realtà, perché la sensazione è che tutti (be’, quasi tutti) se ne freghino, della realtà. Quindi, è un’utopia. Ma cosa saremmo, senza illusioni e utopie?

Nada más que amibas. Saremmo parassiti intestinali, tanto per restare sul campo messicano. Miserabili parassiti assuefatti a una realtà ingiusta e insopportabile. È per questo, che abbiamo bisogno di illusioni e utopie. Persino dell’illusione che, scrivendo, informando, potremmo rendere meno feroce e nefasto questo mondo in cui viviamo. Che è anche l’unico che abbiamo.

Petizione del collettivo Paris-Ayotzinapa: “NO alla presenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto alle celebrazioni del 14 luglio 2015” – LINK Firma

Prossime presentazioni a Milano: 13 giugno Libreria Les mots e 16 giugno Macao

Leggi l’introduzione del libro: QUI – Risvolto/Riassunto del libro+Bio: QUI 

Pagina NarcoGuerra: QUI – Scarica PDF Indice + Intro + Prologo del libro: QUI

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