Neil Simon – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estetiche fondamentali / 10: Tex Willer, Pecos Bill. https://www.carmillaonline.com/2023/11/12/esperienze-estetiche-fondamentali-10-tex-willer-pecos-bill/ Sun, 12 Nov 2023 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79435 di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione [...]]]> di Diego Gabutti

Prima della pandemia ci finivamo ogni anno, di solito in primavera, quando New York (come si dice) è in fiore, ma una volta anche in piena estate, dall’inizio di luglio a metà agosto, quando New York è rovente (come nel Prigioniero della seconda strada, 1975, regia di Melvin Frank, il film con Jack Lemmon e Anne Bancroft tratto, come alcuni dei migliori film su New York, da una commedia di Neil Simon). Solo che quella era un’estate fresca, persino un po’ fredda, tanto che un pomeriggio, uscendo dalla stazione della metro nella 42th strada, di ritorno da Coney Island, mi comprai delle calze pesanti e un maglione nell’H&M di Times Square.

Affittavamo un appartamento nella 98th. Era una casa d’arenaria all’angolo con Riverside Drive, un isolato da Broadway e a pochi passi dalle panchine dell’Hudson River Park, una lunga striscia d’alberi, stradine e aiuole che s’allunga, costeggiando il fiume, per tutto il West Side. Al mattino, in pochi minuti, dopo una breve sosta per un cappuccino medium allo Starbuck della 96th, eravamo a Central Park, e anche lì, nell’ombra degli alberi, le panchine non si contavano. Giù al Village ci piaceva sedere a Washington Square, vicino all’Arco di Trionfo e alla statua di Peppino Garibaldi. Era lì, dicevo io, che Jane Fonda e Robert Redford avevano girato la scena del marito sbronzo e senza scarpe di A piedi nudi nel parco, Gene Saks, 1967, un altro grande film tratto da Neil Simon. Mia moglie annuiva, meno impressionata di me. Ma insomma ti sedevi e leggevi, ed era un bel leggere, e un bel sedersi.

Ormai si viaggiava leggeri.
Non c’era più bisogno, come nella preistoria di Airbnb e dei voli low cost, in epoche già allora più remote della guerra fredda e dei Duran Duran, d’imbarcare sull’aereo una valigia di libri, meglio se massicci e di volume contenuto, come i Meridiani Mondadori, oppure i cofanetti Adelphi, collana «La Nave di Argo». Adesso libri (e fumetti) stavano tutti nel cloud: un iperspazio spropositato, dove li avevamo ammassati a migliaia, e da dove potevamo richiamarli in qualsiasi momento con tablet e smartphone, strumenti così tecnologicamente avanzati da non essere stati «anticipati» o previsti in alcun modo né dal Capitano Kirk dell’astronave Enterprise né dal Capitano Nemo del Nautilus. A un bibliomane, come a un fumettomane, sempre che esista (e non dovrebbe, è orribile) una simile parola, sembrava di vivere nella Paris au XXe siècle di Jules Verne, o tra Le meraviglie del Duemila d’Emilio Salgari.

Quell’anno, senza entrare in particolari che potrebbero incriminarmi, avevo caricato sul cloud l’intera collezione di Tex (il fumetto Bonelli, più di 600 volumetti, ciascuno di 120 o 130 pagine) e i 65 magnifici albi di Pecos Bill prima serie, usciti nei primi anni cinquanta, ristampati nei primi sessanta e poi più niente, svaniti. Sceneggiato da Guido Martina, disegnato da signori illustratori come Raffaele Paparella, Dino Battaglia e Gino d’Antonio, di Pecos Bill avevo trovato su eBay, tempo prima, anche gli albi «cartacei» che avevo comprato ma non conservato molto tempo fa («cartaceo» è un aggettivo, fateci caso, che prima degli eBook capitava raramente d’usare, e quando lo si utilizzava era per lo più in senso figurato, per biasimare la burocrazia, e adesso a significare editoria passatista). Dal cloud, in ogni modo, avevo copiato sull’iPad Pecos Bill e tutto quanto Tex prima di lasciare l’Italia con un volo per il Kennedy via Istanbul. Mi ripromettevo di leggerli tutti prima di tornare a casa, quarantacinque giorni più tardi.

Era una promessa avventata perché non ero in vacanza. Stavo lì, spaparanzato, Starbuck, il Central Park, l’Apple Store della Quinta Strada, Neil Simon, Coney Island, ma mi toccava lavorare. Avevo da scrivere corsivi e recensioni, dunque c’erano libri da leggere e giornali da sfogliare, e-mail da scambiare, ogni tanto una telefonata. E poi c’era Manhattan da esplorare, benché dopo tutte quelle primavere tiepide (più un’estate gelida) passate nella 98th, mia moglie e io la conoscessimo a memoria, in ogni pertugio, dal molo dei traghetti per Long Island su su fino al Bronx, ma vai a stancarti di bighellonare. C’era tuttavia anche questa gran montagna di fumetti da scalare. Sparatorie, risse, cavalcate; le carovane dei pionieri, i Ranger del Texas. Kit Carson, Mefisto, Davy Crockett, Calamity Jane. «Corna di satanasso!» esclamava Tex Willer. Gli faceva eco Kit Carson: «Sangue di mille bisonti!» «Big Tex!» esclamava Davy Crockett nelle storie di Pecos Bill. C’era un bel po’ di roba da leggere. Ma erano soltanto fumetti, dopotutto: più le figure che i testi. Quanti ne avevo letti nella mia vita? Una marea, un subisso. Non sembrava, a occhio, un’impresa impossibile. E dunque «grimpon, grimpon, grimpon, grimpon», come cantava Maurice Chevalier, arrancando in groppa a un asino su per le Ande peruviane, nei Figli del Capitano Grant, un film di Robert Stevenson, hit disneyano del 1963.

Cominciai da Tex, saltando i primi 20-30 titoli, i soli che avessi letto quand’erano usciti per la prima volta (non si contano, da quel dì, le ristampe). Come a tutti, mi era capitato, naturalmente, di leggiucchiare un Tex ogni tanto, ma erano letture svogliate, un po’ altezzose, da lettore di Linus, di Jeff Hawke e dei Peanuts, di Pecos Bill, di Johnny Hazard. Adesso non saprei nemmeno dire perché Tex mi piacesse così poco. Vedevo, naturalmente, che era molto (ma molto) ben fatto, e per divertirmi mi divertiva, eppure lo prendevo sottogamba, era più forte di me. Aveva soprattutto il difetto, lo capisco adesso, di piacere a persone, soprattutto diffusori di volantini politici, per le quali non provavo rispetto, colpa loro, mica di Tex, ma ogni volta che me ne parlavano, io me la prendevo con Tex, così imparavano. È il lato peggiore del mio (e di qualunque) carattere: lo snobismo, già in sé censurabile, ma qui calcolato, uno snobismo di carambola, che colpisce Tizio tramite Caio e Sempronio, tok-tok-e-tok.

A differenza dei fan di Ingmar Bergman, per dire, o di Michelangelo Antonioni – che deprecavo proprio in quanto fan di film peggio che orripilanti: involontariamente comici – io non disapprovavo Tex fumetto e tanto meno i lettori di Tex presi all’ingrosso, ma questi ridicoli coglioni che leggevano Tex, le gazzette progressiste, quelle sportive, e pensavano invariabilmente col posteriore. Questi qua apprezzavano, di Tex e soci, o meglio «pard», prima di tutto il côté zuccherino, politically correct.

Ranger del Texas, dunque uomo delle istituzioni, Tex è anche capo navajo col nome di «Aquila della Notte», nonché fratello di sangue di Cochise. Amico e protettore degli indiani, con un figlio mezzosangue, Tex combatte esclusivamente buone battaglie contro agenti indiani corrotti, sceriffi gaglioffi, mercanti d’armi, bandidos spietati, feroci negrieri, generali felloni. Paternalista e condiscendente, sta sempre lì a umiliare l’indiano ribelle, e ogni volta è la stessa scena: lui che risparmia la vita al tanghero, questi che lo ricambia con un attacco alle spalle, lui che a questo punto in genere lo uccide, ma che talvolta lo grazia di nuovo. Tutti i pellerossa, ribelli o remissivi non importa, la comunità pellerossa tutta quanta lo dovrebbe detestare, e invece no, gli sono grati, come a un babbo severo ma giusto.

Era l’idea che questi babbani, futuri elettori leghisti o (peggio) pentastellari, avevano di se stessi: figli della luce – scarsamente dotati sotto il profilo umano, letture poche e sciagurate, un’enorme opinione di se stessi – contro i nemici del popolo. Di Tex, oltre al côté social-palloccoloso, quello che ammiravano di più e che scambiavano nella loro miseria intellettuale per «profondità», costoro apprezzavano anche il lato per così dire «squadristico» (sia detto senza offesa, ma dirlo bisogna): cioè la sua radicata abitudine di caricare di botte i villain.

Con Tex e i suoi pard poche balle. Non si scherza. Alla prima provocazione, uno sguardo storto, una parola di troppo, una minima protesta, ma anche senza provocazione, solo per ottenere delle informazioni o per soddisfazione personale, Tex malmena i villain di brutto, sberle da paura, giù dal tetto con un pestone, fuori dalla finestra con un cazzotto. Quando poi il malvagio è proprietario d’un saloon, o d’un emporio dove si traffica in winchester e whisky destinati a qualche banda isolata d’indiani buontemponi, allora emporio e saloon vanno invariabilmente a fuoco. D’appetito robusto, Tex e Carson, vuoi soli, vuoi in compagnia di Kit Willer e Tiger Jack, rispettivamente figlio di Tex e membro navajo della squadra, siedono in un ristorante, dove ordinano «bistecche alte due dite», «una montagna di patatine fritte», «una torta di mele» a testa e birra fresca senza avarizia, ma è raro che arrivino all’ammazzacaffè senza che qualche mascalzone si faccia sotto per sfidarli. Se la sfida è a chiacchiere, l’incauto se la cava con poco: un occhio nero, il naso pesto. Va peggio al villain che cerca d’estrarre la pistola perché Tex e pard, in questo caso, mettono mano ai «clarinetti» (o alle «spingarde», chiamatele un po’ come volete) e poi bang-bang, la vignetta si riempie di cadaveri. Sono oggetto di continue imboscate, due o tre per volumetto, e mai che ci caschino, bang-bang anche qui e ogni volta l’uno o l’altro della squadra commenta, reinforando il piffero: «C’è lavoro per i becchini». Gli altri annuiscono, impassibili.

Lì a New York, intanto che andavo avanti a leggere, provai a contare i morti ammazzati da Tex e compagni. Be’, erano centinaia, anzi migliaia. Roba da Gruppo Wagner, da mettere i brividi anche al più selvaggio dei mucchi selvaggi. Ebbene, tutto questo carnevale di risse, pestaggi, agguati e accoppamenti (e senza un vero movente, salvo che i morti e i mazziati «se l’erano cercata») era esattamente quel che i lettori delle avventure di Tex a me noti avrebbero voluto fare ai «ricchi». Ai ricchi, agli eretici e, avanzando tempo, agl’infedeli (e se i ricchi sono pochi, eretici o infedeli siamo tutti, nessuno escluso, quindi regolatevi).

Be’, che dire? Pecos Bill non porta nemmeno la pistola, niente, e non uccide mai nessuno. Pecos Bill ha soltanto un lazo, un cavallo (Turbine, «figlio del vento») al quale manca soltanto la parola, un socio pellerossa (Penna Bianca) e delle brache sfrangiate (e un po’ ridicole) da cowboy.

Pecos Bill non spara e non impreca mai. Rotea il lazo nell’aria e lo fa ricadere con un sibilo dritto intorno al girovita dei suoi nemici. Bloccati a metà d’un gesto, questi cadono, nel caso peggiore, da cavallo o dalle rocce giù nel fiume, e non si fanno mai troppo male. Bill è biondo, con una striscia di capelli neri che va dalla fronte al coppino, e in una sequenza onirica che appare nel primo albo, ha dei sottili baffi neri, e i capelli gli ricadono sulle spalle. Sembra un hippie (sono i primi cinquanta) in grande anticipo sui tempi o un poeta tedesco in ritardo sullo Zeitgeist. Puntategli contro una pistola, e subito l’abbasserete, incapaci di sostenere il suo sguardo fermo e sincero. Bill ama Sue, bionda anche lei, e non meno santerellina. Ogni tanto, tra un’avventura e l’altra, siedono in silenzio sotto le stelle del Texas, mano nella mano, e ascoltano i coyote ululare in lontananza.

Bill aveva strani amici e nemici, dai nomi e costumi bizzari: Hidalgo Sanchez, Pablo Mexie il desperado e il suo socio Jo-La-Terreur, l’avventuriero Du Tisné, Snake il bandito, Veasy la Regina bianca degli Osages con un cappello di pelliccia sulle ventitré, Pedrito il pistolero e il perfido Rodriguez, il gaucho Vasquez Cinnibar, l’ispettore di polizia Teague Spade, Koe-Mae l’assassino cinese. C’erano Miguel Chico, un giovane vaccaro, e lo schiavista Mister Ho. C’era il capo dei «seminoli» Falco Reale. C’erano Manula la Matadora, Colorado John e il Sergente Barton. C’erano Malone Cordell il taciturno e cowboy e Lojs Rojo, con un gran sombrero e baffi à la Dalí. Era una festa, o meglio una Merenda del Cappellaio Matto, con ospiti e invitati indimenticabili, e quasi tutti messicani, salvo un paio di yankees e un argentino o due, come nei film trucidi di Sam Peckinpah, ma qui senza neppure un sospetto di estetica «druga»: Rossini, Beethoven e ultraviolenza. C’era, in ogni albo, un ritratto a figura intera di ciascuno di questi personaggi. Per vedere acquarelli altrettanto belli e fascinosi avremmo dovuto aspettare le prove grafiche di Milo Manara e Hugo Pratt.

Avevo un debole per Pecos Bill. Disegni perfetti, personaggi che nelle tavole si muovevano con la sinuosità di ballerini, dialoghi romantici, storie che sarebbero piaciute a un librettista verdiano. Ma via via che andavo avanti a leggere Tex Willer cominciavo a capire perché questo sganassatore e incendiario piacesse a tutti, mica soltanto ai pisquani di cui parlavo prima, ma proprio a tutti, praticamente senza eccezioni – e da più anni di quanti ne fossero trascorsi (un bel po’) da quand’ero nato io. Anzi, penso adesso, passati i bollori, che in fondo anche i pisquani avessero le loro ragioni per tifare Tex Willer, ragioni estetiche, diverse da quelle assurde e ridicole che io attribuivo loro. Leggere e apprezzare le avventure di Tex Willer, di Kit Carson, del giovane Kit Willer e di Tiger Jack, il pard navajo impennacchiato, era forse la loro sola virtù, ma era una virtù. Alcune storie di Tex si leggevano, bisogna dirlo, con fatica e scarso vantaggio, erano fiacche e meccaniche, non finivano mai, ma alcune erano bellissime. Dialoghi, scenografie, uso sapiente dei campi lunghi e dei primi piani da fare invidia a Hollywood. Comunque io, prima di New York, non le leggevo, e da allora, convertito alle risse e alle cataste di cadaveri, le leggo ogni mese. Continuo a detestare le storie magico-occultistiche, con Mefisto e gli altri diabolisti, ma quelle classicamente western sono sempre leggibili, e qualche volta perfette.

Ancora non l’ho detto, me ne ricordo anzi solo adesso, ma una volta, moltissimi anni prima di New York, avevo intervistato Gianluigi Bonelli, lui in persona, il padre di Tex Willer. E per lui, se non per i suoi personaggi, sviluppai subito un’ammirazione sconfinata.

Fu verso la metà degli anni ottanta, ad Alassio, mi sembra, o a Diano Marina, dove Bonelli aveva ancorato il suo yacht, il Tex Willer. Duccio Tessari, un ottimo regista, autore di cult come Tony Arzenta e Arrivano i Titani, s’apprestava a girare il suo film peggiore, e forse il peggior spaghetti-western mai girato: Tex e il signore degli abissi, roba orrenda, che non sono mai riuscito a vedere per intero (né ho mai conosciuto nessuno che l’abbia visto o che abbia voglia di parlarne). Tutti gli attori erano fuori parte, a partire da Giuliano Gemma, un Tex Willer di frutta candita. Mai sceneggiatura di film fu più scombiccherata, né le location più inadeguate, o i costumi più tirati via. Chissà cos’era girato a Tessari (una volta parlai anche con lui: s’apprestava a girare un Mandrake con Alain Delon, suo grande amico, ma l’idea abortì subito, vai a capire). Quando parlai con Bonelli, a Bordighera o Spotorno che fosse, Tex e il signore degli abissi era in lavorazione da qualche parte, in Calabria o in Spagna. Era per via del film che lo intervistavo, ma quasi non ne parlammo, e parlammo poco, se ricordo bene, anche di Tex. Con Bonelli, persona cordiale, l’aria vissuta à la Jean Gabin, parlammo del più e del meno e della sua vita di romanziere, pugile fumettista. Era estate, o primavera, e mangiammo in un ristorante sul mare. C’era anche Giorgio, uno dei suoi figli, che quel giorno indossava una giacca di pelle con le frange, come Tex quando è a casa, nella riserva navajo, o come Bob Dylan nei suoi ultimi concerti. Mi aspettavo che ordinassero una bistecca alta due dita e una montagna di patatine fritte. E invece no. Mangiammo una frittura di pesce. E niente birra: vino rosso, se non ricordo male.

A New York, in ogni modo, leggevo Tex e Pecos Bill un po’ dappertutto. Devo confessare che non lessi tutti i 600 volumetti di Tex ma solo trecento-trecentocinquanta, roba così. Pecos Bill, invece, lo lessi da capo a fondo ben due volte, e con molta attenzione. Ne feci una scorpacciata, un giorno, a Herald Square, seduto in una panchina, davanti a Macy’s, dopo aver comprato qualcosa da mangiare in un vicino delicatessen: patate arrosto, uova sode, salmone rosolato, acqua gassata. C’erano tavolini sui quali posare i vassoi.

Avevo scoperto Herald Square, qualche anno prima, leggendo Nero Wolfe e il caso dei mirtilli di Rex Stout, dove Archie Goodwin scrive: «Il posto del mondo che prediligo si trova a soli sette minuti di cammino da dove vivo, nella casa di Nero Wolfe sulla 35ma Strada Ovest: Herald Square, dove nel giro di dieci minuti si può vedere la più gran varietà di persone che in qualunque altro punto del globo. Un giorno ho visto il capo della mafia di New York cedere il passo a una maestra dell’Iowa perché potesse entrare per prima nei più famosi grandi magazzini della città. Se mi chiedete come ho fatto a sapere chi erano, vi risponderò che avevano semplicemente l’aria uno d’essere il capo-mafia e l’altra un’insegnante dell’Iowa».

A Herald Square si stava da papi. Ci capitava spesso di leggere e mangiare lì. C’era anche un chiosco che preparava un ottimo espresso. E un bagno pubblico che era una benedizione per chi ha problemi di prostata. Alzavi gli occhi ed erano tutti lì, chi seduto a piluccare da un contenitore di plastica trasparente ragionando tra sé, chi in coda per la pipì. Aveva ragione Archie Goodwin: a Herald Square potevi incontrare chiunque. Barboni dall’espressione stralunata, giovani e sottili mangiatrici d’insalata scondita con l’aria di modelle, manager incravattati che addentavano un panino e intanto scrutavano negli abissi del MacBook, commesse di Macy’s in pausa pranzo, turisti estasiati, taxisti inquieti, cinesi imperscrutabili.

Adesso ci potevi incontrare anche lettori di Tex e del Pecos Bill prima serie di Guido Martina, Dino Battaglia e Raffaele Paparella (nell’ingresso di casa, a proposito, ho una sua tavola incorniciata). Non ho mai conosciuto, neanche da bambino, un altro lettore di Pecos Bill, ma se c’è un posto al mondo, pensavo, in cui potrei incontrarne uno è Herald Square. Mi guardai intorno. Individuai un tale. Anche lui si guardava intorno. Sembrava nervoso. Non aveva l’aria d’un lettore di Pecos Bill. In compenso somigliava sputato a John Archibald Dortmunder, «l’archetipo del criminale manqué», come lo definì una volta Laura Grimaldi, direttrice negli anni d’oro del Giallo Mondadori, traduttrice di Donald D. Westlake.

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 55 https://www.carmillaonline.com/2013/11/07/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-55/ Thu, 07 Nov 2013 22:41:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10525 di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987 La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto [...]]]> di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987
La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto adesso, diciott’anni dopo la prima volta, è uno dei thriller più lenti della storia dei film lenti, con una partenza con retromarcia e freno a mano che mi ha fatto visualizzare i miei testicoli in un tino mentre Emmanuelle Seigner me li schiaccia allegramente. È tutto artificioso e il film decolla solo dopo un’oretta di lamentele mie e della compagna, quasi dovessimo digerire un montone crudo. Ma non si trova mai il ritmo giusto: quello che un tempo si poteva ritenere sapiente costruzione oggi risulta solo inutile inasprimento della pena. Un film invecchiato malissimo che si porta dietro come una zavorra tutta la paccottiglia degli anni Ottanta (le capigliature, la fotografia iperrealista, la musica finta e pure Grace Jones…). Harrison Ford è un bambascione poco a suo agio nel ruolo drammatico; la Seigner ha un faccione da adolescente e una sola espressione (che evidentemente ha convinto ben bene Polanski: i registi che fan recitare le fidanzate son sempre forieri di catastrofi interpretative). Plot dalla semplicità irritante, complicato da un sacco di fregnacce, altro che Hitchcock. Colonna sonora sintetica di Morricone e montaggio avaro e retrò. Grande delusione: Frantic mi ha sfranto le palle, altroché. (Dvd; 17/4/05)

BIP! Breve interludio paterno (in qualche maniera, un film)
Siccome questo è un cinediario – che un attore abbastanza noto di cui non voglio fare il nome ha definito “la più grande innovazione critica degli ultimi vent’anni” – non posso che burocraticamente informarvi che l’attesa è finita e lunedì 25 aprile, giorno della Liberazione, alle 3 e 07 è arrivata Sofia. E ho visto tutto: un piccolo Gollum antifascista che non piangeva. Barbara stava benissimo, io distrutto. E per aderire agli stereotipi di tante brutte pellicole ho ripreso a fumare.

ddv5502537 – Il liberatorio Soul to Soul di Denis Sanders, USA 1971
Non vedo film da un sacco di tempo, ma con buoni motivi, come potrete immaginare. Sofia è un bombardone da 3 chili e mezzo che frigna, mangia, caga e dorme. È tenera e calda e le si perdona tutto. Quando sentivo gli altri genitori dirmi che, con un neonato, diventava tutto impossibile (un cinema, un libro, un disco) pensavo che mancassero di buona volontà. E invece i poveretti qualche ragione l’avevano. Leggiucchio qui e là, ma film, ahimé, è durissima. Due ore di libertà e la disponibilità mentale per concedersi una proiezione sembrano traguardi irraggiungibili. In più la nuova casa è semivuota e non possediamo ancora un divano, elemento d’arredo deputato allo svacco più atroce e all’assunzione di qualunque tavanata televisiva, tipo un film da venerdì sera su Italia1. Urgono però le consegne dei pezzi per le mie gloriose collaborazioni editoriali, ergo mi scoppio felice un dvd musicale, questo Soul to Soul di cui segue arguta e stringata recensione per i tipi di Rodeo. “Un paese africano, il Ghana, fresco d’indipendenza e orgoglioso, e dei musicisti afroamericani alla ricerca delle proprie radici. Nasce così uno di quei concerti epocali, Soul to Soul, dove neanche i protagonisti si rendono conto dell’importanza dell’evento. Ce lo ricorda un fantastico Dvd, prezioso documento perché in diretta, non ricostruzione a posteriori. È tutto naif in maniera commovente, il film e il concerto di Accra, in riva all’oceano, e non si sente la consueta puzza di business o carità pelosa. L’incontro fra due culture (ormai) estranee e unite solo dal ritmo, produce momenti umani e musicali emozionanti e inattesi: Ike e Tina seducono, Wilson Pickett trascina, Santana travolge e il pianista soul jazz Les McCann conquista tutti jammando sul palco con un giovane stregone locale. L’Africa giovane e curiosa, i neri americani alla ricerca di un’identità, senza la spocchia del primo mondo: tutti uniti in una danza sfrenata per un film mai retorico, coloratissimo, da ballare. Nero è il velluto della notte, ed è bellissimo. Extra sfiziosi, parecchi commenti, bonus tracks e anche il cd con la colonna sonora. Cosa volete di più?”. Aggiungo che Ike e Tina erano due burini mica da ridere, però clamorosi, con le sensuali Ikettes di contorno. Lui freddo band leader, con un vibrato chitarristico da brivido, lei una panterona sensuale. Grandiosissimo Santana, ma lo so inconsciamente dal 1970, quando mio padre comprò Abraxas e le note vibranti di Black Magic Woman mi entrarono in zucca. Eccezionali le voci di Mavis Staples e di Les McCann e trascinante il groove di Pickett, con africani che zompano sul palco e inventano lo stage-diving almeno vent’anni prima dei biancuzzi punk. Film veramente emozionante. In modo distratto, ma non senza esserne colpevolmente intrigato, ho pure visto Signs a brandelli, in passaggio Rai. Costruito da Shyamalan con la consueta furbizia, merita una visione completa per una più seria trattazione, anche perché se l’avessi visto in condizioni normali, cioè senza un sonno boia e il cervello in pappa, l’avrei valutato una grossa cazzata. Perché è una grossa cazzata. Ma siccome dopo agosto smetto di imbrattare fogli elettronici con recensioni che nessuno legge, dubito che i posteri sapranno quali rivoluzionarie idee ho elaborato su extraterrestri, cerchi nel grano, credulità popolare e altro. Sappiate solo che il film mi ha divertito e che non siamo mai stati sulla Luna. Oh yeah. (Dvd; 19/5/05)

ddv5503538 – Red, White and Blues del solito incompetente, USA 2003
Sulla carta, il Dvd merita e non me lo faccio sfuggire: l’evoluzione del blues britannico, attraverso interviste ai protagonisti. Dimenticata in America, la musica popolare nera venne adottata da una schiera di giovanotti britannici che la fecero diventare l’idioma musicale delle masse mondiali e la riportarono a casa, regalando qualche anno di gloria agli anziani bluesmen originali. Non mi spaventa che il regista sia quel deficiente di Mike Figgis, già responsabile dell’immondo Via da Las Vegas, ma sbaglio, perché una grande storia e l’opportunità di farsela raccontare da chi l’ha scritta, vengono buttate nel cesso con puntuale incapacità. Non c’è un’organizzazione di racconto coerente, ci si perde in inessenziali e puntigliose spigolature e si dimentica la trama generale. Come per il Wenders di The Soul of a Man, anche questo capitolo di The Blues, il progetto voluto e prodotto da Scorsese, è insoddisfacente per manifesta ignoranza dell’autore. Ne viene fuori un documentario che di televisivo ha la banalità, lo scarso approfondimento e la cattiva (ed eterogenea) qualità delle riprese ed è un delitto, perché buttare via le testimonianze di Eric Clapton, John Mayall, Steve Winwood, Peter Green e tanti altri è proprio da stronzi, stronzi grossi e grassi. Ci sono lampi isolati, dovuti alla genialità di chi risponde, ma perlopiù le domande sono sbagliate, oziose, che non centrano il cuore delle questioni, mancando di prospettiva storica. Ancora una volta del blues non viene trasmesso il calore, il dolore, l’intensità erotica, il divertimento, l’ironia. Niente. In mezzo a tanto spreco, la ripresa di diverse session con Tom Jones (eh!?), Lulu (EH!?) e Van Morrison (mah) che producono esecuzioni un po’ ingessate, sicuramente meno interessanti delle esecuzioni di prima generazione (nere) e di seconda (bianche e britanniche). Unica consolazione musicale l’accompagnamento della terrificante chitarra del sessantenne Jeff Beck, un giovinotto che dimostra quanto il blues possa avere un futuro se solo si decide di rimescolare le carte. Non bastasse il contenuto del film, i sottotitoli italiani sono obbligatori (hard subtitles, mi dicono, bella stupidaggine) e densi di strafalcioni che denunciano la totale incapacità dei curatori. Buona parte degli extra, inoltre, (con quell’impunito di Figgis protagonista) sono in 16/9 NON anamorfizzati, per cui Jeff Beck e tutto il cast sembrano usciti da un quadro di Munch. Una bella porcata di Dvd, insomma. Ma Scorsese avrà mai visto Mississippi Blues di Tavernier? Umile, faticoso e intensissimo, realizzato viaggiando nel sud degli States, mica rimanendo col culo posato. Bah! Ma succedono anche cose peggiori: il 22 maggio, con questi occhi, ho visto Mal batterista e cantante di Smoke On the Water nel “Meglio di Buona Domenica”. Con lui anche Dino e altre due cariatidi di cui non so e non voglio sapere il nome. (Dvd; 25/5/05)

ddv5504539 – L’Odissea di Franco Rossi e di noi italiani, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Ulisse manca da casina da vent’anni e Penelope è insidiata dai Proci, una torma di sibaritici fannulloni che pretende il trono di Itaca, nonché il fringe benefit della regina chiavabile. Telemaco non ci sta e va a cercare il padre che nel frattempo approda nella terra dei Feaci dove lo accoglie la futura signora Starr, Barbara Bach nella parte di Nausicaa. Ulisse le racconta dei sette anni prigioniero di Calipso, ninfa niente male che se lo deve essere succhiato come un’ostrica. Infine l’ha lasciato libero e dopo 17 giorni di mare aperto eccolo arrivare alla corte di Alcinoo. Ogni sera Ulisse si accende come un televisore e racconta le sue vicissitudini, tra le quali: la cortese visita al monocolo Polifemo (diretta da Mario Bava), il canto per niente melodioso delle sirene, l’episodio acido della visita a Eolo (conciato come un personaggio di Star Trek), la cattività in mano alla maga Circe, la discesa nell’Ade per ascoltare Tiresia (episodio francamente mortale). Alla fine Ulisse ottiene un passaggio a Itaca e lì si compie la vendetta, tremenda vendetta. Beh, che l’Odissea fosse un buon testo, non ci piove. La regia complessiva è perfetta, sobria e poetica nella sua semplicità, lavorando molto per allusioni, senza grandi effettacci. Lo sceneggiato inizia lentamente, poi prende più ritmo ed è bellissimo, con un passo composto che non conosciamo più, abituati a stacchi di montaggio continui e a narrazioni compresse ed ellittiche. Difeso da Atena e odiato da Poseidone cui ha ciecato il figlio ciclope, Ulisse rappresenta l’irriducibile ansia dell’uomo di conoscere, scoprire, imparare, sfidando il volere degli dèi. L’eroe ha la faccia da Cutugno di Bekim Fehmiu di cui, da bambino, mi colpiva che fosse apolide. Penelope ha il volto severo di Irene Papas mentre gli altri sono illustri sconosciuti, ma dai volti incisivi, tant’è che li ricordavo quasi trent’anni dopo. Musiche talvolta psichedeliche, più spesso minacciose, ed efficaci scenografie barbariche: credo che una visione dell’Odissea con additivi chimici potrebbe regalare intense sensazioni, altro che canna e Teletubbies. La nostra visione, tra pappe, sonni interrotti e altro, s’è spalmata in un arco di tempo imbarazzante, proseguendo fino a luglio. Nel frattempo abbiamo visto anche altre cose, come l’italico film horror del referendum sull’aberrante Legge 40, quando tre quarti del popolo italiano ha preferito occuparsi d’altro. Le votazioni si sono strategicamente tenute il week end in cui finivano le scuole con i bravi papà e mammà – improvvisamente cattolici – che friggevano dall’ansia di scappare dalle città. Per lenire l’incazzatura, abbiamo anche visto pezzi sparsi dell’immortale Fantozzi contro tutti (la sempre clamorosa scena della coppa Cobram, con il rag. Ugo che prende “la bomba”); Straziami ma di baci saziami con Tognazzi sordomuto; il lercio e notevole telefilm The Shield, che sembra un Ellroy girato Dogma-style e infine Dillo con parole mie, un incredibile film di Luchetti, senza trama, con attori inconsistenti e poco simpatici e situazioni e battute da far tremare i polsi. Chissà perché. (Vhs originale; giugno e luglio 2005)

ddv5505541 – La strana coppia di Gene Saks, USA 1968 e l’inutile Live8
Serve un’abulica domenica di luglio per rivedere un film così, la cui prima volta si perde nella notte dei tempi: 1983 (credo), con zia Luisa. Mi era piaciuto tantissimo e oggi metto alla prova la memoria. Tratto da un’opera teatrale di Neil Simon, la regia s’impegna poco a rendere originale la messa in scena e tantissime volte c’è la fastidiosa impressione della quarta parete, quella invisibile che divide palco da spettatori. Ciò detto, il testo alterna momenti clamorosi ad altri più mosci, ma le interpretazioni eccezionali fanno brillare anche i dialoghi meno incisivi. Oscar (Matthau) è un divorziato impenitente, disordinato, infantile, cinico e casinista. Condivide con altri amici la passione per il poker, ma una sera all’appello manca Felix (Lemmon), il preciso, rigoroso, maniacale, ordinatissimo Felix. Praticamente il cagacazzo universale. Dopo dodici anni s’è lasciato con la moglie ed è una tragedia. È talmente in stato confusionario che non riesce neppure a suicidarsi ed emergono tutte le sue nevrosi e allergie, la borsite, la sinusite, gli spasmi nervosi al collo, tic assortiti e pure il colpo della strega. Com’è ovvio finisce a casa del diametralmente opposto Oscar. I due caratteri cozzeranno mettendo a repentaglio l’amicizia, ma in un finale agrodolce ci sarà un’inaspettata ricomposizione del conflitto. La partenza è strepitosa, sorretta anche dai caratteristi di contorno. Un diluvio di battute e situazioni che, man mano, va scemando: quando la strana coppia convive suona tutto già un po’ anticipato e si ride di meno. La vicenda diventa statica e si arriva al finale un po’ stracchi. Succede anche nelle migliori commedie, ma non importa. Avevo voglia di farmi due risate e La strana coppia ha assolto il compito, complice anche Sofia dormiente per l’esatta durata del film. Ieri biblica diretta tivù su RaiTre, divisa tra i palchi di Londra, Roma e delle altre città coinvolte in Live8, l’evento organizzato da Bob Geldof vent’anni dopo Live Aid. Una veejay esornativa continuava a chiamare il concerto LaivOtto “perché siamo in Italia”. Seee, buonanotte: semmai VivOtto, babbea. Poi, posto che i destinatari della beneficenza sembravano i cantanti che ingombravano il palco di Roma (di fronte a un pubblico immoto) l’impressione è che il concerto capitolino sia stato un pianto, con pochissimi artisti capaci d’inventarsi qualcosa d’originale. Che nel finale fossero assieme Zero, la Pausini e Baglioni la dice lunga (con Zero che invocava “non dimenticateci!”: e come sarebbe possibile? Avrò gli incubi per qualche lustro). A Londra ho visto degli Who potenti e dei Pink Floyd magari non in forma eccelsa (la voce di Waters era dylaniata) ma comunque emozionanti. Hanno detto che risuoneranno assieme per la pace tra Israele e Palestina. Probabile come un ritorno sulle scene di Lucio Battisti. A Toronto, poi, hanno suonato anche i Deep Purple ma nessuno s’è degnato di farmeli vedere. In compenso ho ascoltato tanti giovanotti inglesi e americani osannati dai media come nuovi rocker: dei finti ribelli vestiti per benino che mi hanno fatto sinceramente cagare a spruzzo. Il concerto doveva muovere le coscienze e ricordare ai signori della guerra riuniti al G8 che c’è un mondo intero a guardarli: eh, paura. (Diretta RaiUno; 3/7/05)

ddv5506543 – Bastardi Compagni di scuola di Carlo Verdone, Italia 1988
Vent’anni dopo la maturità, una festa che riunisce tutti i compagni di classe di un liceo romano. C’è chi è invecchiato male tanto da essere irriconoscibile, c’è chi ha fatto i soldi (onestamente o meno) e chi si arrangia con mille mestieri, c’è chi lavora e chi fa il politicante. E poi c’è il Patata, il povero Verdone prof di liceo privato, ossessionato da moglie buzzicona e volgarissima e innamorato di una sua studentessa ingenua. Fin troppo. E poi un finto paralitico, una madre sola, una psicanalista stufa di psicanalisi. Due storie mi sembrano più deboli (quella della Giorgi e Natoli e quella del breve incontro dei due che si amano da sempre), ma l’impianto generale e le singole caratterizzazioni sono riusciti. Soprattutto c’è una sana cattiveria. I Compagni di scuola sono carogne, falliti, egoisti e invidiosi e ne viene fuori il film di Verdone meno piacione: amaro, feroce, senza calamenti di braghe o strizzamenti d’occhio al pubblico. Aiutato in sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, si compone un ritratto generazionale quasi livoroso in cui si fanno i conti con i merdosi anni Ottanta, senza il qualunquismo con sospensione di giudizio (che è implicita adesione) dei Vanzina. Buona commedia, dài. Intanto, dopo aver scatenato una guerra mondiale per il petrolio George W. Bush ha la faccia da culo di presentarsi al G8 dicendo che adesso bisogna tornare a investire sulle risorse energetiche alternative: il nucleare! Come al solito siamo antiamericani noi, eh, non coglione lui. (Diretta RaiDue; 5/7/05)

ddv5507545 – L’affilato Blade II di Guillermo Del Toro, USA 2002
Inchiodato dall’evidenza dei programmi televisivi sui quotidiani e dalla precisa richiesta di Barbara, non mi resta che sciropparmi questo horror immaginifico in cui Wesley Snipes interpreta con marmorea convinzione un mezzo vampiro che sa riconoscere i quasi suoi simili e coltiva l’hobby d’incenerirli. Lo chiamano “il diurno”, come un volgare albergo a ore, perché non soffre la luce solare. Al limite Blade ha una sete bestia di sangue, ma sa controllarsi. O quasi. Si parte salvando Kris Kristofferson, l’uomo che ha scritto Me & Bobby McGee, prigioniero dei succhiasangue e forse vampirizzato lui stesso. Blade dovrebbe ucciderlo ma ci pensa un po’, se no il film dura 15 minuti, e infatti il vecchio Kris sta benone. E allora quale avventura aspetta il tagliente supereroe? I vampiri gli chiedono di aiutarli contro altri vampiri, ma andati a male e ben peggio di loro. Ma sotto c’è qualche intrigo e il capo dei ciucciaplasma, tal Damaskino, non la conta giusta. Tra lame d’argento, trecce d’aglio e ferali raggi di sole, andrà a finire con un intrigo degno del rapporto edipico tra la Morte Nera e Luke Skywalker, per intenderci. Sembra un videogioco, ma con qualche bella svisata ironica. Non conosco il fumetto, ma il film è godibile, decisamente superiore al primo episodio. Passando ad argomenti frivoli: non aprite quel La Porta! Grazie a Blob scopro che Gabriele è vivo e lotta con noi. Non sono più aduso al palinsesto notturno e avevo perso da molto tempo le tracce del nostro eroe fulminato. Blob me lo fa vedere in forma clamorosa, con giacchetta di pelle nera manco fosse Bono, che sproloquia di Platone, Aristotele, Ibn Arabi, Averroé e Avicenna. Un grande. Ma adesso a fare i bagagli, ché tra due giorni portiamo Sofia nel posto più bello del mondo, Champoluc. (Diretta su Italia1; 28/7/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 55)

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