negazione determinata – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 10 Apr 2025 22:05:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La dialectica interrupta del Censis, la verità dell’irrazionalismo e l’immaginario https://www.carmillaonline.com/2021/12/29/la-dialectica-interrupta-del-censis-la-verita-dellirrazionalismo-e-limmaginario/ Tue, 28 Dec 2021 23:10:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69750 di Fabio Ciabatti

“La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali”. Questa affermazione contenuta nell’ultimo rapporto del Censis sembra catapultarci direttamente nella dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. E non è tutto. “L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale”, denuncia l’istituto di ricerca,  utilizzando un’argomentazione dal vago profumo di materialismo storico per spiegare questo sinistro fenomeno: il rifiuto di scienza, medicina, innovazioni tecnologiche, che in passato hanno costruito il nostro benessere, “dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei [...]]]> di Fabio Ciabatti

“La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali”. Questa affermazione contenuta nell’ultimo rapporto del Censis sembra catapultarci direttamente nella dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno. E non è tutto. “L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale”, denuncia l’istituto di ricerca,  utilizzando un’argomentazione dal vago profumo di materialismo storico per spiegare questo sinistro fenomeno: il rifiuto di scienza, medicina, innovazioni tecnologiche, che in passato hanno costruito il nostro benessere, “dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale”.1
Gli estimatori della scuola di Francoforte non devono però eccitarsi troppo. Se quella del Censis è dialettica è senz’altro una dialectica interrupta perché, semplificando al massimo, l’antitesi tra razionale e irrazionale non prospetta alcun tipo di sintesi, di superamento dei due termini della contraddizione. L’irrazionalismo viene evocato solo come momento fallace per confermare la bontà del suo opposto, la razionalità dominante. Che le cose stiano effettivamente così lo possiamo intuire quando leggiamo che a fare da contraltare all’onda di irrazionalità c’è “una maggioranza ragionevole e saggia”. Un’ulteriore conferma viene dal fatto che l’irrazionalismo si esprimerebbe nell’opposizione alle politiche governative: “Le proposte razionali che indicano la strada per migliorare la situazione vengono delegittimate a priori per i loro supposti intendimenti, con l’accusa di favorire interessi segreti e inconfessabili. Il 29,7% degli italiani non crede che il razionalissimo Pnrr cambierà il Paese, perché è condizionato da lobby che volgeranno tutto a proprio beneficio o perché la Pubblica Amministrazione non starà al passo, malgrado gli annunci, secondo il 44,3%”. Ma da quando constatare l’ovvio è diventato sintomo di irrazionalità? Forse da quando bisogna offrire in pasto all’opinione pubblica il mostro no vax quale capro espiatorio di tutti i nostri problemi? Queste cose ed altre contenute nel rapporto (p. es. mettere nello stesso calderone dell’irrazionalismo credere nel terrapiattismo e nello strapotere delle multinazionali) meriterebbero solo una sonora pernacchia se non fosse per il fatto che il Censis finisce per mettere in evidenza un tema molto importante: il significato dell’irrazionalismo nella nostra società.

Varrà allora la pena rivolgerci al già citato Adorno che questo tema lo ha trattato con la dovuta serietà, avvalendoci di un testo da poco pubblicato per la prima volta in italiano, Introduzione alla dialettica.2 Tratto dalle sue lezioni del 1958, questo libro (come gli altri che raccolgono i suoi corsi universitari) ha il dono di una maggiore chiarezza rispetto ai testi concepiti dallo stesso filosofo per la pubblicazione. Partiamo dall’assunto adorniano che l’irrazionalismo ha “il suo momento di verità”. Esso, infatti, è il tentativo continuo di far risaltare nel pensiero ciò che nel processo progressivo dell’illuminismo va perduto rispetto all’esperienza del reale; ciò che è condannato dalla ragione dominatrice come debole, impotente, indegno di essere conservato nelle forme del pensiero. Le filosofie irrazionalistiche, in breve, cercano di parlare “a nome di ciò che è stato sacrificato dalla storia”,3 delle vittime del razionalismo. Il processo di razionalizzazione ha comportato, infatti, un progressivo irrigidimento del mondo in una oggettività estraniata rispetto agli uomini.
Adorno non è certo un nostalgico. Egli pensa che le filosofie irrazionalistiche siano in genere restauratrici o reazionarie. Ritiene però necessario comprendere il non contemporaneo e l’arretrato non come perturbazione del progresso ma come frutto del progresso stesso. Quest’ultimo, infatti, porta con sé lo spossessamento di gruppi che, per origine e per ideologia, appartengono alla società borghese e che, improvvisamente, perdono la base materiale della loro riproduzione e per questo cercano la salvezza nel passato. È questa una delle espressioni caratteristiche dell’irrazionalità della nostra società che indebolisce le motivazioni stesse dell’agire economico trascurando il soddisfacimento dei bisogni umani in nome della legge del profitto. Se il capitale dispiegasse completamente la sua razionalità, dunque, la società borghese stessa cesserebbe di essere tale. Da ciò nasce la necessità di “tenere in vita  istituzioni irrazionali della più diversa specie”,4 sebbene esse rappresentino degli anacronismi rispetto a quella stessa razionalità.
Se il cammino dell’illuminismo è disseminato di vittime e di ingiustizie, questo non ci giustifica nel ricadere al di sotto di questo illuminismo creando delle “riserve naturali di irrazionalità”.5 Le cicatrici che esso lascia dietro di sé “sono sempre anche quei momenti in cui l’illuminismo stesso si rivela un illuminismo ancora parziale, non abbastanza illuminato; e solo perseguendo coerentemente il suo principio sarà forse possibile guarire queste ferite”.6 Secondo Adorno, dunque, ci si trova di fronte a “un’antinomia che deve essere presa molto sul serio: da un lato il pensiero si esaurisce nella ripetizione cieca di ciò che è ed è noto in ogni caso, cioè nel conformismo, e dall’altro lato il pensiero, sottraendosi al controllo, rischia di diventare effettivamente incontrollabile e di sfociare in un sistema delirante”.7

Torniamo per un attimo al rapporto del Censis per notare che l’antinomia che esso sottolinea non è presa veramente sul serio. L’irrazionalismo viene colto nel suo aspetto delirante mentre il suo opposto, la ripetizione cieca di ciò che è noto, non è minimamente messo in discussione: cos’è infatti il “razionalissimo” PNRR se non la reiterazione amplificata della solita ricetta neoliberista per il tramite di una momentanea sospensione di alcuni vincoli previsti dalla stessa ricetta? Si permette un maggiore indebitamento degli stati europei affinché questi possano proseguire nella direzione di sempre maggiori liberalizzazioni e privatizzazioni. L’ideologia dominante non sembra cogliere il paradosso: per lasciare più spazio al mercato c’è bisogno di maggiore intervento dello stato. Il tutto viene interpretato come una parentesi che una volta chiusa riporterà lo sviluppo economico sulla sua traiettoria naturale. In realtà non si può affatto escludere che ci si troverà alla fine su una traiettoria diversa dalla precedente che potrebbe prevedere una qualche forma di mutualizzazione europea dei debiti dei singoli stati, un allentamento non solo episodico dei vincoli dei bilanci pubblici, un interventismo statale più significativo di quello auspicato da lor signori ecc. Ma il pensiero dominante deve negare questa possibilità perché altrimenti dovrebbe ammettere che la razionalità del cosiddetto mercato è in sé stessa contraddittoria.
Di fronte agli esiti anestetizzanti della dialectica interrupta del Censis, bisogna ripartire dalla tragica serietà della dialettica adorniana. Occorre innanzitutto ripartire dall’“esperienza della lacerazione” che secondo Adorno sta alla base del pensiero dialettico. Lacerazione è un’espressione carica di pathos che riverbera sul piano della sofferenza individuale l’antagonismo e la contraddittorietà che contraddistinguono il reale. Una sofferenza che può sfociare nel delirio quando l’individuo si trova ad affrontare un mondo ostile e misterioso e “pretende di decifrare il senso occulto della realtà” (come denuncia il Censis) andando a caccia di cospirazioni e inganni sistematici e diffusi. Per quanto delirante, la forma mentis complottista ha un elemento in comune con il pensiero dialettico: la diffidenza nei confronti della realtà così come ci appare immediatamente. Con la differenza che la dialettica non fa ricorso sistematico a trame cospirative come principio esplicativo, ma ci porta a comprendere che è la realtà stessa a produrre il suo velo generando continuamente fenomeni che occultano e contraddicono ciò che essa è effettivamente.
Se il delirio denuncia una mancanza di presa sulla realtà, questo deficit non ha solo un carattere teorico. Non si tratta soltanto di una mancata comprensione del mondo, ma anche dell’incapacità di affrontarlo, di opporsi all’oppressione e all’ingiustizia di cui è intriso attraverso un’adeguata prassi individuale e collettiva. Non a caso il concetto di dialettica proposto dal filosofo francofortese “non è un puro concetto teorico, ma in esso il momento della prassi è determinante”.8 Non sarebbe infatti in alcun modo possibile pensare la natura dialettica dei rapporti materiali “senza il concetto della trasformazione del mondo con l’azione”.9 La verità, secondo la dialettica adorniana, ha “sempre la sua drastica relazione ad una prassi possibile” in considerazione del fatto che essa si manifesta sempre attraverso una “figura temporale”10 legata a una realtà storicamente determinata.
Insomma, se vogliamo affrontare fino in fondo il tema della montante ondata di irrazionalismo abbiamo bisogno di “evidenziare la discontinuità”.11 Mostrare una frattura nel reale per poi cercare immediatamente di recuperare la coerenza e la compattezza del nostro oggetto di conoscenza significa che ci poniamo il compito di pensare il reale come armonioso e positivo. Se prendiamo sul serio la critica del presente, invece, abbiamo bisogno di un pensiero  che “si modella su una condizione negativa del mondo e la chiama per nome”.12 Un pensiero che, non potendo trovare consolazione attraverso un’illusoria conciliazione, non può che essere alla costante ricerca di una connessione con una prassi possibile per trasformare il reale. 

La domanda da porsi a questo punto è se per trovare questa connessione e venire a capo della questione dell’irrazionalismo sia sufficiente perseguire coerentemente il progetto dell’illuminismo assecondando senza riserve il disincanto di cui esso è portatore. Cercheremo di dare una risposta prendendo spunto da un testo di Stefania Consigliere, Favole del reincanto,13 già recensito su Carmilla (qui). È senz’altro vero, sostiene l’autrice, che il disincanto illuministico ha spazzato via precedenti sistemi di dominio “che facevano presa, in modo malevolo, sull’immaginario, sui sogni e sulle paure degli umani”.14 Ma è altrettanto vero che il disincanto “è pharmakon: guarisce nella giusta dose, in dose eccessiva avvelena”.15 Un’overdose di disincanto comporta “la rescissione degli attaccamenti che collegano gli umani al mondo, il collasso dell’individuo su se stesso”.16 Una esito che, portato all’estremo, può bloccare ogni forma di prassi. La presenza di una qualche forma di legame che unisca gli esseri umani tra di loro e con il loro mondo, infatti, è la condizione minima affinché si possa realizzare un qualsiasi tipo di azione collettiva.
In realtà, prosegue l’autrice richiamando Marx, la modernità si presenta disincantata solo per lasciare il campo libero all’incanto proprio del mondo borghese: il fantasmagorico divenire mondo della merce. Con ciò il capitalismo diventa l’orizzonte unico della desiderabilità e ogni possibile mutamento viene catturato nel circuito del plusvalore. Se vogliamo cercare di evadere da questa prigione a cielo aperto, probabilmente non possiamo esimerci dall’andare oltre l’illuminismo avventurandoci nei territori pericolosi dell’immaginario. Ma di cosa parliamo quando ci riferiamo all’immaginario?

Se descriviamo ciascun mondo umano come un fascio di luce che illumina e tinge del proprio colore una regione particolare del reale, allora tra la zona in luce e quella buia non c’è una barriera, né una linea precisa di confine. Al di fuori del cono illuminato non c’è subito la tenebra più profonda, ma una fascia di penombra che progressivamente s’infittisce. Questa penombra è l’immaginario … È la zona dove si sviluppano i futuri, all’interfaccia fra ciò che già è e ciò che vorremmo far essere. Ed è la zona della discontinuità, dei resti, delle possibilità scartate, dei fantasmi e di tutto ciò che … è stato escluso o eliminato … E’ il luogo dove la storia lascia zavorre, dove s’incrociano e si scontrano le narrazioni collettive, i modi di dire, gli affetti … è il “mito-sogno” fatto di discontinuità e sopravvivenze che collega e informa di sé coloro che fanno parte di un collettivo, che ne permea i sogni, che si trasforma al mutare di quegli stessi soggetti e del loro mondo.17

Ma come, si dirà, i rivoluzionari si devono occupare dei bisogni materiali. Riti, sogni e viaggi nei territori dell’immaginario vanno lasciati ai fascisti. Di certo i fascisti ci sguazzano in questo mare spesso poco limpido, come testimonia anche la facilità con cui si sono appropriati dell’irrazionalismo no vax. Ciò nonostante abbandonare questo ambito è un grave errore perché  comporta “la smobilitazione di intelligenza e sensibilità dal terreno più cruciale per qualsiasi forma di cambiamento”.18

Da parte nostra aggiungiamo che rivolgendoci all’immaginario ci muoviamo lungo una traiettoria differente, ma non necessariamente contraddittoria, rispetto a quella indicata da Adorno. Attraverso il concetto di negazione determinata il filosofo francofortese può conservare all’interno del suo pensiero le tracce di una spinta utopica senza rinunciare a una critica immanente, cioè senza fare riferimento a criteri etici esterni e metastorici. Anche il portato utopico dell’immaginario è sempre frutto di un rapporto, per quanto problematico, con i parametri storicamente determinati che definiscono la conoscibilità e la praticabilità di uno specifico mondo. Non esiste un immaginario universale popolato di archetipi ancestrali custoditi nell’inconscio di ogni essere umano, perché ciascun mondo ha le sue particolari modalità per entrare in contatto con questa zona smarginata e incerta del reale. Potremmo dunque suggerire l’ipotesi che l’immaginario rappresenti una sorta di negazione debolmente determinata dell’esistente laddove la debolezza consiste nel fatto che esso non ci conduce verso un unico mondo possibile che scaturisce dalla spinta al superamento delle negatività del presente, ma ci prospetta una incerta molteplicità di mondi possibili potenzialmente in grado di superare le contraddizioni della nostra realtà attingendo a un multiforme repertorio di risorse mentali marginalizzate dalla razionalità dominante.
Chiamando in causa l’immaginario, dunque, scopriamo che frammenti di questi possibili mondi alternativi sono già presenti. Certamente esistono in una forma magmatica e, di conseguenza, possono essere utilizzati anche in senso regressivo. Il disincanto illuministico rimane dunque necessario per distinguere “ciarlatani e mestatori da chi cerca nell’immaginario una possibilità di fare mondo in circostanze incerte”,19 tenendo conto delle conquiste materiali e ideali della modernità. Rimane il fatto che senza avventurarci sul terreno scivoloso dell’immaginario corriamo il rischio di rimanere vittime del cupo pessimismo adorniano che non riesce a trovare agganci positivi per immaginare processi di autoapprendimento collettivi in grado di superare le macerie del presente. D’altra parte, inoltrandoci in questo territorio dai contorni sfuggenti è facile incrociare sul nostro cammino una schiera di funesti imbonitori. Un rischio che non può essere evitato. “Salvezza e dannazione si manifestano insieme quando il mondo vacilla”.20 


  1. Censis, 55º rapporto sulla situazione sociale del Paese 2021, Franco Angeli, 2021. La presentazione e i capitoli del Rapporto sono disponibili sul sito internet del Cenis

  2. Theodor W. Adorno, Introduzione alla dialettica, ETS, Pisa 2020. 

  3. Ivi, p. 47. 

  4. Ivi, p. 144. 

  5. Ivi, p. 183. 

  6. Ivi, pp. 183-184. 

  7. Ivi, p. 158. 

  8. Ivi, p. 90. 

  9. Ivi, p. 91. 

  10. Ivi, P. 41. 

  11. Ivi, p. 146. 

  12. Ivi, p. 77. 

  13. Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020. 

  14. Ivi, p. 37. 

  15. Ivi, p. 140. 

  16. Ivi, p. 43. 

  17. Ivi, p. 131-132. 

  18. Ivi, p. 78. 

  19. Ivi, p. 143. 

  20. Ivi, p. 150. 

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Adorno e l’attualità del pensiero critico https://www.carmillaonline.com/2018/04/13/44736/ Fri, 13 Apr 2018 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44736 di Armando Lancellotti

Stefano Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, manifestolibri, Roma, 2017, pp. 176, € 22,00

Questo libro di Stefano Petrucciani(*), ordinario di filosofia politica presso la Sapienza di Roma, si presenta come una rilettura complessiva del lavoro di Theodor Wiesegrund Adorno, di cui considera tutte le grandi opere, toccando ciascuno dei nuclei fondamentali della riflessione del maestro francofortese, ma lo fa assumendo spesso come punto di osservazione privilegiato – seppur non esclusivo – i materiali dei corsi e gli scritti delle lezioni universitarie del filosofo.

Un excursus complessivo, organizzato [...]]]> di Armando Lancellotti

Stefano Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, manifestolibri, Roma, 2017, pp. 176, € 22,00

Questo libro di Stefano Petrucciani(*), ordinario di filosofia politica presso la Sapienza di Roma, si presenta come una rilettura complessiva del lavoro di Theodor Wiesegrund Adorno, di cui considera tutte le grandi opere, toccando ciascuno dei nuclei fondamentali della riflessione del maestro francofortese, ma lo fa assumendo spesso come punto di osservazione privilegiato – seppur non esclusivo – i materiali dei corsi e gli scritti delle lezioni universitarie del filosofo.

Un excursus complessivo, organizzato per tematiche, che da un lato tiene opportunamente conto dei settanta o cinquanta anni che ci separano da opere quali la Dialettica dell’Illuminismo o la Dialettica negativa e la Teoria estetica – distanza temporale, profondi cambiamenti economico-sociali e culturali nel frattempo intervenuti che contribuiscono ad evidenziare alcune inadeguatezze o rigidità della adorniana teoria critica della società – ma dall’altro permette di cogliere distintamente l’importanza intellettuale cruciale della cifra essenziale del pensiero francofortese, da cui – aggiungiamo – proprio oggi, forse più che mai in precedenza, sarebbe opportuno ripartire: la vigile attenzione critica, il meticoloso scavo analitico, l’infaticabile lavoro di analisi interpretativa, che urge risvegliare nell’epoca e nella società della nuova unidimensionalità della globalizzazione, economica, politica ed ideologica.

Petrucciani legge le lezioni sul concetto di filosofia che Adorno tiene a inizio anni Cinquanta, al momento del suo ritorno in Germania dopo l’esilio americano e dopo la conclusione della collaborazione con Horkheimer per la stesura della Dialettica dell’Illuminismo, considerandole l’inizio di un percorso più personale: la specificità che distingue Adorno da altri francofortesi consiste in un permanente e prevalente approccio filosofico alla teoria critica della società praticata dalla Scuola, per cui essa è essenzialmente un’azione teoretica, per quanto collegata alla complessità dei saperi sociali. A tale scopo – rileva l’autore – Adorno ritiene che si debba procedere al ripensamento e alla riformulazione del concetto di dialettica, cioè dello strumento finalizzato all’esecuzione dell’azione critica. Per questi motivi Horkheimer sembra imputare ad Adorno una sorta di vizio sistematico eccessivo – un vizio “metafisico”, per dir così – e sembra rivendicare per sé una maggiore propensione alla ricerca sociale grazie ad un più fitto confronto con le scienze sociali particolari.

Ma cosa intende Adorno con dialettica? Innanzi tutto, per il pensatore tedesco, la dialettica – come è noto – è da intendersi negativamente, essa è appunto una “dialettica negativa”. La dialettica adorniana rifiuta, scrive Petrucciani, il ricorso al Fondamento, da cui dedurre la serie delle verità o al Principio primo, a cui ricondurre la molteplice complessità delle cose. Insomma una dialettica non dogmaticamente (idealisticamente) intesa, ma vista come strumento critico, il cui modello viene da Adorno individuato in Socrate, che il pensatore francofortese collega al concetto di “negazione determinata” di Hegel.

Cosa significa, infatti, «negazione determinata»? Vuol dire che l’operazione critica, negativa della singola conoscenza cui la dialettica dà luogo non mette capo semplicemente a un risultato nullo, alla scepsi o alla mera negazione. Al contrario, la negazione di una determinata conoscenza, di una specifica posizione di pensiero, rende manifesto ciò che in essa non può venir mantenuto e dev’essere lasciato cadere, e proprio con ciò finisce per costituire una nuova, più avanzata posizione (p. 10)

La dialettica così intesa – che Adorno analizza dettagliatamente in quella Dialettica negativa che per Petrucciani è l’unica opera di Adorno completamente ed esclusivamente teoretica e che presenta numerose difficoltà interpretative – dovrebbe costituire quindi la soluzione della dicotomia tra un paralizzante “assolutismo” e uno sterile “relativismo” e si sposa con un concetto di verità concepita non come un qualcosa di dato una volta per tutte, ma come esito aporetico del processo critico, anzi intesa come coincidente col processo stesso.

In prima battuta, quindi, la dialettica negativa si pone come un invito all’umiltà: come la consapevolezza che il sapere non attinge mai pienamente l’oggetto, non lo possiede interamente; una consapevolezza semplicemente fallibilistica, potremmo dire, che è certamente incompatibile con le pretese di assolutezza dell’idealismo filosofico, ma che invece è perfettamente consonante con l’ethos problematico, dubbioso e fallibilista che pervade la scienza e la filosofia contemporanea (p. 16)

L’oggetto di conoscenza trascende sempre l’atto soggettivo di comprensione ad esso intenzionato. Il concetto è sempre concetto di qualcosa, quindi tende all’oggettivo, a quel mondo che pressa il pensiero, costringendolo a pensarlo e di cui i concetti stessi fanno comunque parte. Insomma, da Kant in poi, la conoscenza è sempre fondata da quelle forme ideali che definiscono ciò che è umanamente pensabile, ma la stessa struttura categoriale non è ipostatizzabile e pertanto è anche da considerarsi come il prodotto del mondo oggettivo che essa rende pensabile. Si produce una sorta di circolo tra a priori e a posteriori, tra soggetto e oggetto, tra idealismo e materialismo, di cui, per Adorno, la dialettica negativa si presenta come soluzione.

Per Adorno la reciprocità di soggetto e oggetto, sostiene Petrucciani, non è simmetrica, in quanto comporta il primato dell’oggetto, che, seppur posto come pensato dal soggetto, costituisce sempre un’alterità, irriducibile al soggetto, il quale invece è sin da subito anche oggetto. In altri termini, se il soggetto senza oggetto non è neppure pensabile (e neppure può non essere pensato se non come, al tempo stesso, oggetto), l’oggetto senza soggetto invece rimane concepibile. Insomma, fa notare Petrucciani, la posizione adorniana sembra ricalcare l’antidealistica difesa kantiana della cosa in sé, ovvero dell’indipendenza ontologica dell’oggetto dal soggetto, seppur insieme alla dipendenza gnoseologica del primo dal secondo. Si può concludere – sostiene l’autore – che Adorno con la propria teoria della dialettica negativa giunga a posizioni vicine a quelle dell’epistemologia post positivistica o dell’ermeneutica, caratterizzate dalla circolarità mente-realtà, uomo-mondo. Il soggetto non dispone mai di un punto di vista esterno al processo conoscitivo in cui le sue categorie costruiscono un mondo del quale esse medesime fanno parte e dai cui sono sorte.

Se le categorie di cui ci serviamo per pensare il mondo sono a loro volta mediate dal mondo che contribuiscono a pensare – mondo materiale, naturale, culturale, sociale e storico – allora occorre comprendere quale sia la società che media queste categorie. Nella Dialettica dell’Illuminismo Adorno sostiene che le categorie del nostro pensiero si sono costituite come mezzi sociali idonei all’esigenza umana del dominio della Natura, ma quest’ultimo è sempre stato reso possibile dal dominio di alcuni su altri e dal dominio dell’uomo su se stesso.

Negli apparati concettuali che sono concresciuti con il processo storico di autocostituzione della specie si sono depositate (in modo inestricabilmente connesso) le esigenze del dominio sulla natura e gli imperativi del dominio sociale e di una visone gerarchica del mondo e della società. Essi sono dunque tanto validi, in quanto hanno funzionato e hanno consentito la riproduzione della specie, quanto mediati e condizionati da un contesto di dominio. L’aspetto della validità e quello dell’ideologia, quindi, sono intrecciati e inseparabili (pp. 21-22)

Ma della natura mediata ed ideologica delle categorie spirituali e degli apparati concettuali idealismo e scientismo hanno tentato di tacere: «L’idealismo, che da questo punto di vista è per Adorno il bersaglio più facile e, per così dire, abituale ha il suo nucleo appunto nell’ipostasi delle categorie spirituali come qualcosa di primo, stabile, non mediato, sovrastorico, sovratemporale» (p. 22) e il fine sociale di tale ipostatizzazione è l’imposizione del primato dello spirito e del lavoro intellettuale sul lavoro materiale e così «riconducendo la realtà allo spirito o alla ragione la filosofia idealistica […] celebra in qualche modo l’ordine sociale dato». (p. 22)

Ma l’ipostatizzazione ideologica idealistica finisce per rovesciarsi dialetticamente, svelandosi come mistificazione, nel momento in cui, intendendo identificare e risolvere la realtà nella ragione, mostra l’impossibilità della pretesa che la muove e tradisce che la realtà non è razionale e che la ragione non è reale, perché realtà e società sono contraddizione.

Identificando ragione e realtà si afferma che così dovrebbe essere, anche se non è. L’ipostasi del logos separato dagli uomini reali tradisce l’arcano che la vita degli uomini reali non è ancora conforme a ragione, che universale e particolare non sono conciliati, ovvero, per dirla in altri termini, che la storia degli uomini è ancora una “seconda natura”, retta dalla regola del “mangiare ed essere mangiati”, e quindi non è affatto quella realtà spiritualizzata che l’idealismo pretende che sia. Attraverso la critica immanente dell’idealismo, dunque, si mostra la verità della realtà, che non è altro che la contraddizione che la dilacera. Questa “contraddizione” può essere a mio avviso espressa così: la società borghese moderna è costrutturata da una pretesa di razionalità e di libertà (i supremi concetti celebrati appunto dall’idealismo, nella forma più alta in quello kantiano e hegeliano), ovvero di superamento della cieca naturalità, che da essa non è né estirpabile, né soddisfatta (pp. 23-24)

Il pensiero di Adorno è dialettico sia in senso hegeliano, poiché come Hegel ritiene che la realtà sia mediazione e divenire e che ogni determinazione particolare sia comprensibile solo se inserita nell’intero delle sue mediazioni e relazioni, sia in senso antihegeliano, poiché la «dialettica è negativa, quindi, perché ha la consapevolezza che anche l’intero che essa sviluppa negando l’autosussistenza delle determinazioni particolari è ancora il non vero: è ancora segnato dalla contraddizione». (p. 25)
Insomma il mondo è costitutivamente contraddizione irrisolta, non è sintesi conciliata di essere e pensiero. Ed è tra queste contraddizioni che si deve muovere una razionalità critica, intenzionata ad insinuarsi tra quelle crepe della realtà dietro le quali si possa ritrovare un senso alternativo a quello preformante e dominante della razionalità tecnica occidentale.

Infatti, un pensiero consapevole ed avvertito del fatto che le proprie categorie preformanti il mondo sono dal mondo stesso e dalla società mediate, dovrebbe aspirare ad un approccio alla realtà precategoriale, pre/aconcettuale, che lo conduca alle cose stesse, «vorrebbe andare direttamente all’oggetto senza incasellarlo in categorie prestrutturate a fini pratici di dominio e di schematizzazione della realtà, ma vede al tempo stesso la paradossalità di questa esigenza, perché è solo grazie a quelle strutture categoriali che l’oggetto si costituisce come pensabile» (p. 26). La filosofia vorrebbe dire l’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile, con il concetto risalire a ciò che lo precede.

Una filosofia critica, quale è quella ipotizzata da Adorno, sostiene Petrucciani, non cerca di ricondurre il particolare ad un universale preformante, socialmente precostituito, come fanno ordinariamente le scienze, ma cerca di pensare il mondo come instabilità contraddittoria e di esprimerlo attraverso la ricchezza polisemica del linguaggio, che non è un mero sistema di segni concettuali. E seppur ciò non significhi che la filosofia riesca a risolvere il paradosso dell’acquisizione concettuale dell’aconcettuale, quanto meno comporta che essa riesca a mantenere desta l’aspirazione ad andare dietro ogni conoscenza di per sé già data. «La dialettica negativa è un processo di negazione determinata». (p. 30)

Alla potenza critica della dialettica negativa spetta il compito di cogliere le “crepe” della realtà e ciò che si apre dietro di esse come spiraglio possibile di un’alternativa ai rapporti sociali vigenti e alle conseguenti forme di pensiero che a prima vista appaiono come granitiche.
Insomma, se nell’epoca del dopo Auschwitz – come molto lucidamente spiega Adorno – non è più possibile pensare ad una realtà che si rispecchi nella ragione, non è però neppure auspicabile l’abbandono nichilistico all’impossibilità di una qualsiasi speranza di senso.

Anche il residuo significato metafisico che si può ancora attribuire alla filosofia è da intendersi, per Adorno, non affermativamente e positivamente, ma negativamente. Una metafisica per sottrazione, potremmo dire, che conserva la domanda sul senso ultimo delle cose per rispondere ad essa con la presa di coscienza della impossibilità di una soluzione positiva, cioè capace di collocare la storia all’interno di un orizzonte metafisico di senso. È la stessa domanda di senso della teodicea classica ad essersi trasformata, nell’età storica dello sterminio e della bomba atomica, in un oltraggio per il pensiero. Osserva infatti Adorno in un corso universitario del 1965:

Dopo Auschwitz è impossibile sollecitare la positività di un senso dell’essere. È divenuto impossibile quel carattere affermativo della metafisica che essa ha avuto per la prima volta nella dottrina aristotelica e già in quella platonica. L’affermazione di un’esistenza o di un essere, concepito come in sé dotato di senso e ordinato al principio divino, sarebbe, come tutti i principi del vero, del bello e del buono che i filosofi hanno concepito, soltanto un puro scherno rispetto alle vittime e all’immensità del loro supplizio. (p. 46)

Come a dire che se l’abbondanza e la positività di senso proprie della metafisica da Platone ad Hegel non sono più proponibili, rimangono comunque poste come possibili la domanda e di conseguenza la risposta, anche nell’ipotesi in cui quest’ultima debba riconoscersi a conti fatti come espressa dalla propria negazione. Ed è tra le pieghe di una realtà prosciugata delle ideologie mitopoietiche metafisiche, in seguito al lavoro di negazione determinata della dialettica negativa, che Adorno intravede il luogo in cui collocare la possibilità della «ricerca di una conoscenza che vada oltre il pensiero identificante; l’arte come figura di questa conoscenza». (p. 20)

«Porre il senso come positivamente già dato è blasfemia o idolatria; ma alla posizione della morte come assoluto si oppone non solo la modestia di un pensiero che non riconosce più assoluti, ma una sorta di forza di resistenza quasi “logica”, che inopinatamente apre un varco anche alla speranza più audace» (p. 54), fosse anche solo nella modalità limitata della finita ragione kantiana, che per concepirsi come tale non può non pensare l’infinito, intendendolo come termine di tensione, come idea limite, che «è tanto poco positivamente posta quanto poco può essere positivamente sbarrata». (p. 53)

Un adeguato spazio è riservato, nella parte centrale del libro, alla critica sociale adorniana: si tratta degli argomenti certamente più noti del pensiero del filosofo e della Scuola di Francoforte in genere ed anche di quelli che nel corso del tempo che dalla loro elaborazione ci separa sono stati più spesso criticati per rigidità dell’approccio e monodirezionalità delle analisi; limiti che però non cancellano la profondità critica dello sguardo francofortese in generale e la lucidità analitica delle più belle pagine delle opere maggiori di Adorno in particolare.

Secondo Petrucciani, la critica sociale muove da un assunto – potremmo dire – hegeliano, secondo il quale fenomeni, processi, istituzioni e dinamiche sociali altro non sono se non azioni soggettive, cioè poste in essere da individui e perseguenti uno scopo, ma al tempo stesso esse vanno oggettivandosi e assumendo natura e vita indipendenti ed autonome dal soggetto stesso, al punto da porsi/imporsi all’uomo come qualcosa di “naturale”, una “seconda natura”, «qualcosa di cieco e incomprensibile, eteronomo e potenzialmente distruttivo». (p. 58)

Il rendersi autonomo dei processi e delle istituzioni sociali rispetto agli individui che li fanno vivere con le loro azioni non è un dato: al contrario, è il problema che la teoria sociale deve innanzitutto porsi. (pp. 58-59)

L’autonomizzarsi ed il riprodursi dei processi sociali sono dovuti al meccanismo che li sottende, quello dello scambio del lavoro e delle merci, uno scambio che nella storia «si è sempre dato a partire da dotazioni ineguali, e che su questa base […] riproduce e accresce il privilegio di chi possiede capitali o mezzi di produzione rispetto a chi ne è privo». (pp. 59-60) È un meccanismo di dominio quello su cui si struttura la società ed è «in quanto costituisce una struttura di dominio che la società si presenta come una «seconda natura», retta da leggi che dominano sugli uomini anziché essere da loro dominate». (p. 60)

Si intravede il pericolo di un eccesso di teoria della eterodirezione sociale nel discorso di Adorno che sembrerebbe non tener conto, dice Petrucciani, di quanto invece Habermas ha colto e cioè che «i soggetti di scambio (ineguale) sono anche i cittadini politicamente sovrani che dispongono del potere – almeno teorico – di revocare la logica dello scambio e di sostituirla, per esempio, con una logica di piano». (p. 60)

Ma ciò che può costituire un limite delle analisi adorniane, al tempo stesso ne rappresenta non solo il nucleo centrale, ma anche, se opportunamente inteso, proprio ciò che della teoria critica di Adorno è doveroso conservare e valorizzare, come spiega Petrucciani in una pagina centrale del libro, che vale la pena riportare per esteso.

A me pare che quando Adorno sottolinea il carattere di fato estraneo e minaccioso che la dinamica sociale assume di fronte agli individui non sta postulando, come pensabile alternativa, un mondo perfettamente trasparente e senza attriti, ma sta in realtà ponendo l’accento sul fatto che quella che ha dominato fino ad oggi è una modalità della relazione sociale che dev’essere chiamata con il suo nome, e che non può essere eternizzata come un destino ineluttabile: quella che abbiamo fin qui conosciuto è una modalità della relazione sociale basata sull’antagonismo e non sulla solidarietà, sulla competizione per il profitto e per il potere e non sulla responsabilità comune per la vita di ciascuno. Il destino degli individui nella società borghese, questa in fin dei conti è la tesi di Adorno, somiglia troppo a quello dei naufraghi esemplari (Robinson e Ulisse) in cui non per caso la ratio borghese celebra i suoi archetipi: «Abbandonati al caso dalle onde, isolati senza possibilità di aiuto, il loro stesso isolamento li obbliga a perseguire senza riguardi il proprio interesse atomistico». [M. Horkheimer – Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad.it. Einaudi, Torino 1997, p. 68] È vero che l’antagonismo, la competizione, la concorrenza sono stati, come Adorno riconosce con Kant, la potente molla di ogni progresso: è vero che la società si è sviluppata non nonostante l’antagonismo, ma proprio grazie ad esso. Ma è altrettanto vero che, proprio in quanto è così costituita, essa continua a fallire quegli obiettivi ai quali pure il progresso avrebbe dovuto metter capo. Se c’è ancora un’umanità che soffre la fame, Adorno lo ripete infinite volte, allora c’è qualcosa che non va nel progresso conquistato ogni volta mediante dominio e antagonismo. C’è qualcosa che non va, un peccato originale, nella forma dominante di socializzazione. (pp. 61-62)

E la ragione di fondo di questo fallimento consiste – come anche Horkheimer, insieme ad Adorno in Dialettica dell’Illuminismo o personalmente in Eclissi della ragione, sostiene – nell’affermazione di un certo modello di razionalità occidentale: la ragione soggettiva, tecnica, strumentale, che si manifesta ed esplicita come strumento di dominio dell’uomo sulla natura e dell’uomo sull’uomo (su di sé e sugli altri).

Ma proprio perché l’essere non è un dover essere e la storia non è destino, ciò che è ed è stato può/dovrebbe non essere nel futuro: un’alternativa rimane sempre possibile e praticabile nel pensiero di Adorno. In sostanza, secondo Petrucciani, le analisi del filosofo tedesco, anche quelle sull’industria culturale e sulle sue potenzialità crescenti e quasi non arginabili di eterodirezione condizionante, sono meno monolitiche e monodirezionali di quanto le letture più semplicistiche lascino intendere e ritornare ad esse per coglierne gli aspetti ancora attualizzabili può risultare esercizio fertile e proficuo.

Lo stesso discorso può valere per le riflessioni estetiche del maestro francofortese, poiché anche queste per un verso presentano aspetti di eccessiva rigidità dovuti soprattutto alla posizione di critico (ed artista) militante assunta da Adorno, ma, se sfrondate di questi limiti e di altri retaggi di teorie estetiche del passato, possono nuovamente parlarci dell’arte da prospettive che si ritiene non debbano troppo sbrigativamente essere trascurate.

La militanza critica ed artistica di Adorno si incontra con la sua visione estetica complessiva e con la teoria critica della società, di cui l’arte diviene elemento fondamentale, sia in qualità di forma di conoscenza in grado di andare oltre il pensiero ideologico e le sue dinamiche di dominio, sia in qualità di oggetto dissonante, di entità altra, estranea che si introduce nella realtà e «sospende la vigenza della prassi produttiva che rigenera continuamente il mondo così com’è, e dà luogo alla formazione di un universo separato che si contrappone a quello semplicemente dato». (p. 126)

Nel mondo desertificato e prosciugato di senso del “dopo Auschwitz” e nella condizione tragica della contemporanea società dominata dall’industria culturale, Adorno è perentorio nel pensare l’arte come alterità, riproponendo, almeno per certi versi, un’idea “romantica” dell’arte, come strumento di una conoscenza più vera, come via verso una realtà più autentica e infine come salvezza e riscatto. Forzando un po’ i termini del paragone e in aggiunta alle considerazioni e alle analisi avanzate da Petrucciani, osserviamo che nella lettura dell’arte come mezzo per risalire alle “cose stesse”, prima e oltre l’apparato preformante della ragione strumentale; nell’idea dell’opera come «monade, nel significato che questo concetto ha assunto nel pensiero di Leibniz [e cioè] da un lato un universo chiuso, “senza porte e finestre” […] dall’altro lato […] uno specchio dell’intero universo» (pp. 127-128); nel pensare a quella estetica come ad un’esperienza che sospende la riproduzione materiale ed ideologica del mondo quale è per porlo quale potrebbe essere sembra risuonare l’eco romantica dell’arte come conoscenza che trascende la scienza; dell’opera come rappresentazione sintetica del mondo e dell’artista come occhio universale; dell’esperienza estetica come esperimento di senso e salvezza.

L’attività di critico militante porta poi Adorno a condividere il radicalismo delle poetiche delle avanguardie primo novecentesche e ad assumere un atteggiamento critico intransigente contro forme d’arte più accomodanti, e quindi sterili o verso le ingenue «teorie contenutistiche, realistiche e dell’impegno (engagement) […]: “L’arte non conosce la realtà perché la riproduce fotograficamente o ‘prospetticamente’, bensì perché, in virtù della sua costituzione autonoma, enuncia ciò che viene celato dalla configurazione empirica della realtà” [Th. W. Adorno, Note per la letteratura, trad. it. Einaudi, Torino, 1979, vol. 1, p. 251]». (p. 128)

L’arte non è denuncia della realtà perché la rappresenta mimeticamente, ma in quanto è e deve essere essa stessa oggetto dissonante, che si innesta nelle crepe del reale, nelle faglie e nelle ferite del mondo per incrinare e distorcere la prospettiva di osservazione, così mettendo a fuoco ed evidenziando le storture della società contemporanea. Un lavoro da compiersi essenzialmente sul piano delle forme e delle tecniche artistiche, più che su quello dei contenuti e quindi con il radicalismo dell’arte d’avanguardia.

L’opera letteraria è adeguata al crinale storico, è un sismografo attendibile solo se, attraverso le sue modalità espressive, registra il terremoto che ha travolto la presunta sostanzialità dell’individuo borghese nell’età delle masse e dell’industria culturale, della tecnica scatenata e dei totalitarismi e, da ultimo, nell’età di Auschwitz e di Hiroshima. (p. 128)

Petrucciani rileva come l’estetica adorniana rischi di condurre, quasi per una propria necessità interna, ad un dilemma che potremmo anche considerare come una declinazione del paradigma hegeliano della cosiddetta “morte dell’arte”: l’epoca del “dopo Auschwitz” è un’età del “dopo arte”? Se «La musica rinuncia alla ricomposizione della dissonanza, il romanzo liquida la superiorità del narratore e l’individualità soggettiva a tutto tondo, la poesia rompe con le pretese di immediata comprensibilità» (p. 129), allora è ancora possibile poetare, fare arte o questa deve essere soppiantata dalla critica sociale?

In realtà l’arte resiste e persiste per il pensatore francofortese e in una modalità che, nonostante i possibili limiti della sua radicale teoria estetica, ci sembra possa essere riattualizzata e questo perché Adorno concepisce un’idea “forte” dell’arte, a cui assegna natura, ruolo e funzione altrettanto “forti”, decisivi ed essenziali, come il compito di aprire itinerari alternativi a quelli già battuti, di conservare vigile lo sguardo critico sulla società, di essere alterità, ossia strenua alternativa al pensiero identificante, alla logica omologante, alla riproduzione del già dato e ad un’arte che, se ridotta a mera ricerca del piacere della fruizione, diverrebbe consustanziale al sistema dominante.

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(*) Il confronto con il pensiero dei grandi francofortesi – da Adorno ed Horkheimer fino ad Habermas – è un interesse costante del lavoro di Petrucciani, già a partire dalle prime pubblicazioni degli anni ’80 fino ad oggi, così come la riflessione sul marxismo e la sua storia, argomenti affrontati in numerose monografie, in collaborazioni e in curatele.

 

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